Il convegno "Raccontare, Ascoltare, Comprendere: Metodologia e ambiti di applicazione delle narrazioni nelle scienze sociali", organizzato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Trento il 22-23 settembre 2011, realizzato con il patrocinio dell'Associazione Italiana di Sociologia e dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, ha proposto di stimolare un confronto tra studiose e studiosi delle scienze sociali che all'interno di diverse aree tematiche utilizzano le narrazioni come principale strumento di ricerca e di analisi, nell'intento di valorizzare la capacità euristica offerta dall'approccio narrativo e biografico nel leggere ed interpretare la società. Presentiamo all'interno di questo numero monografico, in collaborazione con la rivista internazionale di scienze umane e sociali "M@gm@", una selezione delle relazioni discusse al convegno che documentano la preziosa occasione, di scambio di riflessioni metodologiche e di esperienze di ricerca empirica, rappresentata da queste due intense giornate di lavori.
La sessione "Tempo & Memoria" ha visto confluire al suo interno differenti tematiche sia a livello di presentazione degli abstract sia a livello dei paper selezionati (tanto quelli discussi, quanto quelli distribuiti). La narrazione è comparsa nel discorso sia in quanto strumento della ricerca sociale, sia come oggetto della ricerca stessa. Gli ambiti di interesse proposti andavano dalla narrazione dello spazio alla trasmissione della memoria religiosa, dal ruolo dei media e quello degli oggetti nella costituzione delle memorie individuali e collettive, fino alla metodologia delle "storie di vita". I due paper che qui presentiamo, rivisti dalle autrici per questa pubblicazione, hanno per oggetto in particolare la memoria e la trasmissione di eventi traumatici.
Il contributo propone una riflessione sulla rappresentazione letteraria e artistica della Shoah e sul contributo di tale rappresentazione alla conoscenza ed alla memoria. Partendo dallo studio di diverse graphic novel contemporanee si affronta la questione della trasmissione della Shoah alle nuove generazioni e del ruolo che le narrazioni mediali hanno nella costruzione e rielaborazione collettiva del ricordo dei passati traumatici. A fronte di tale questione ci sono determinati problemi. Da un lato, si registra l'indebolirsi del senso storico degli individui, per effetto di processi contemporanei come la frammentazione dei percorsi biografici; la dislocazione spazio-temporale; la presentificazione dell'esperienza. Dall'altro lato, si evidenzia la difficoltà di trasmettere il passato, in particolare per la società italiana debolmente capace di compiere una riflessione autocritica su stessa e sulle ambiguità della propria storia nazionale. A tali problemi si lega la questione del rapporto tra costruzione della memoria e testimonianza, diretta o mediata. Negli ultimi anni, il venir meno dei testimoni della Shoah per ragioni anagrafiche apre per la memoria strade nuove e complesse, spostando l'asse di trasmissione del passato dal versante della memoria vissuta a quello della memoria culturale. Si tratta di quella che Marianne Hirsch ha definito post-memoria, uno spazio discorsivo in cui la possibilità di venire a conoscenza del passato dipende da un processo di rielaborazione di ogni vicenda a partire da racconti ed immagini mediati da testi. L'analisi di ciascuno di questi testi riguarda l'intero sistema di rappresentazione pubblica del passato, l'universo di immagini e narrazioni in cui la cultura memoriale prende forma e attraverso cui si realizza il processo di rielaborazione dei traumi collettivi.
Il paper si propone di presentare alcuni risultati di una ricerca empirica relativa al ruolo degli oggetti nel processo di elaborazione del trauma per le persone che hanno vissuto il terremoto in Abruzzo. In modo particolare obiettivo della ricerca era quello di comprendere in che modo la permanenza dell'oggetto - per parafrasare una delle fasi tipiche del processo evolutivo umano - abbia contribuito a mettere in atto strategie di coping per superare la tragica separazione dalle cose che contano, intrinsecamente legate alla propria biografia, alla storia di altre persone care e a quella della propria terra. Più specificamente si è cercato di indagare in che modo è cambiato il rapporto con gli oggetti dopo il tragico evento; le motivazioni implicite ed esplicite nella relazione costruita con alcune cose; il rapporto e il valore riconosciuto agli oggetti della memoria, alle cose simbolicamente ritenute rappresentative del terremoto.
Tra i diversi approcci che stanno contribuendo al rinnovamento della
sociologia del lavoro e delle organizzazioni in Italia - quali il
lavoro come attività situata, coreografia, performance, pratica
material-discorsiva, istituzione, ecc. - negli ultimi anni si è
fatta strada l'idea che le narrazioni e le rappresentazioni dei
soggetti rappresentino una delle principali fonti di conoscenza
dei contesti lavorativi e dei significati attribuiti al lavoro.
All'origine di questa "svolta narrativa" è la convinzione che attraverso
l'analisi delle diverse forme e modalità di narrare il lavoro -
e ancor più le organizzazioni in cui si lavora - sia possibile far
emergere le letture soggettive e le rappresentazioni individuali,
così come la costruzione di una conoscenza condivisa e intersoggettiva
della realtà. Le narrazioni rappresentano dunque sempre più spesso
sia un importante oggetto di studi per la sociologia del lavoro
e delle organizzazioni, sia un indispensabile strumento di analisi
della vita quotidiana nei luoghi di lavoro. Le narrazioni al lavoro
e il lavoro come narrazione sottolineano in particolare come lavorare
sia una attività che richiede competenze comunicative e come le
pratiche discorsive siano costitutive delle attività professionali
e delle identità occupazionali di coloro che narrano.
Le narrazioni possono essere per molte categorie di organizzazioni e professionisti uno specifico oggetto di lavoro, sulla quale poggiano transazioni che ha una importante rilevanza istituzionale. Questo è indubbiamente il caso degli assistenti sociali che operano nei servizi sociali comunali, che costruiscono la relazione con i propri utenti attraverso un'interazione che ha una spiccata consistenza narrativa. L'osservazione delle dinamiche relazionali tra assistenti sociali e utenti, attraverso l'analisi delle narrazioni che gli utenti sviluppano nel momento in cui richiedono un intervento socio-assistenziale, consente quindi di cogliere più articolatamente la valenza di un servizio istituzionale e la sua costruzione organizzativa. In quest'ottica, l'articolo approfondisce il tema dell'accesso ai servizi socio-assistenziali, proponendone una lettura che superi le tradizionali rappresentazioni fondate sull'analisi dei meccanismi di regolazione di matrice istituzionale e amministrativa. D'altra parte, questa fase di primo contatto tra cittadini e istituzioni è particolarmente densa di aspettative, rappresentazioni e prefigurazioni che, reciprocamente, danno forma all'eventuale sviluppo di una relazione d'aiuto; inoltre, è nell'analisi di quello che può essere definito uno "spazio narrativo condensato" che si può esaminare il senso e la valenza che gli utenti attribuiscono alle opportunità di assistenza sociale e alla loro regolamentazione.
Come i lavoratori della conoscenza rappresentano la loro stessa
condizione? Attraverso quali categorie del pensiero? La precarietà
del lavoro della conoscenza si presenta in maniera diversa dalla
precarietà del lavoro generico e indifferenziato? A questa domande
vuole rispondere la nostra ricerca empirica attraverso un'ampia
inchiesta sociale condotta mediante interviste biografiche narrative
realizzate in molteplici ambiti professionali del knowledge work.
Informatici, programmatori, sviluppatori, lavoratori delle telecomunicazioni
e della ricerca universitaria, web designers e web workers, artisti
digitali, formatori, ricercatori, designers industriali, giornalisti,
traduttori, fotografi, sono stati intervistati durante alcuni importanti
"eventi" dei nuovi media torinesi tra la fine del 2006 e l'inizio
del 2007: Virtuality, Linux Day, Artissima, Festival del Cinema.
La scelta è stata quella di privilegiare un percorso di ricerca
sul campo, basato sulla progressiva implementazione della definizione
dell' "oggetto" di studio che è a sua volta parte attiva nel processo
di ricerca attraverso il "metodo" della conricerca e della narrazione.
Non si è trattato propriamente di scegliere un metodo, né semplicemente
di riportare un pensiero sull'esperienza, ma di un modo di costituirla,
di darle forma e di interrogarla al contempo. Pensare e narrare
l'esperienza non è stato dunque, o non è solo, renderne conto, rifletterla
per analizzarla, bensì superarla. A partire da queste scelte "metodologiche"
e epistemologiche di fondo, si è svolta il nostra studio sul campo.
Il saggio approfondisce delle suggestioni emerse dalle interviste condotte con alcuni operai e alcune "figure della sicurezza" incontrate sul campo durante la ricerca etnografica sulle pratiche della sicurezza nei cantieri edili di un'organizzazione che, nella città di Roma, è responsabile della costruzione di una delle nuove linee metropolitane. L'argomento ed il materiale raccolto, benché non abbia trovato spazio di discussione all'interno della tesi se non in forma di citazione e non sia stato trattato in una "compiuta" raccolta di "storie" sulla sicurezza, ha manifestato tutta la sua carica euristica e di interesse sociologico da poter essere approfondito anche entro una dimensione narrativa della sicurezza sul lavoro. Dalla ricerca etnografica è emerso come si preferisca non parlare di sicurezza o di infortuni occorsi sul lavoro nella propria carriera professionale, confermando la natura pratica e tacita della sicurezza. Nell'essere sollecitati dal ricercatore a parlarne anche attraverso la richiesta di aneddoti legati alla propria esperienza lavorativa gli attori del campo hanno scelto raccontare le storie degli altri, quale dimensione narrativa che in qualche modo li mettesse al riparo dall'esibire una mancanza personale, un errore compiuto in prima persona. L'esperienza dell'incidente, infatti, è legata ad un tipo di cultura organizzativa in cui la sicurezza, o l'evento infortunistico, è riconosciuta come una questione individuale, non legata all'organizzazione e alle pratiche sociali prodotte e riprodotte al suo interno e, perciò, sanzionabili in quanto associate ad un non rispetto della normativa tout court.
Il saggio poggia su di una ricerca etnografica condotta alla Centrale di Ascolto e nell'Area medico legale del Tribunale per i Diritti del Malato le cui attività hanno una forte dimensione narrativa dato che raccoglie le storie dei cittadini su presunti errori medici, fornendo un parere medico-legale sull'eventualità di avviare un'azione per ottenere il risarcimento del danno subito. Ogni narrazione è dialogica, si colloca all'interno di una relazione comunicativa che coinvolge chi narra e chi ascolta. Nel nostro caso è il consulente del Tribunale che adotta la postura professionale del destinatario, che da senso al racconto del cittadino deluso, arrabbiato e disperato. Ai suoi occhi, è un terapeuta, uno story taker che stimola e accoglie una storia segnata da un evento drammatico, ove il ruolo del nemico è attribuito al medico negligente e arrogante.
Alle narrazioni di malattia si accostano oggi discipline diverse: dall'antropologia medica, cui si deve l'iniziale esplorazione di questo campo; alla medicina, che mostra segnali di insofferenza verso il riduzionismo biologico e la presunta oggettività propugnata dal paradigma imperante dell'evidence based medicine; alle scienze sociali, e in particolare alla sociologia della salute che, pur nella eterogeneità di approcci che la caratterizzano, ha ormai consolidato il proprio interesse per le pratiche narrative, come modalità privilegiata per la comprensione dei vissuti soggettivi di malattia (illness).
Questo contributo si basa sulle storie di vita (più specificamente potremmo dire sulle storie di malattia e di cura) di 20 pazienti psichiatrici di Trieste, raccolte grazie a incontri ripetuti con ciascun testimone (persone con 'diagnosi severa' che avessero alle spalle almeno 10 anni di cura). L'intero lavoro di analisi è collocabile quindi all'interno del vasto mondo delle mental illness narratives, narrazioni finalizzate a cogliere il modo in cui i pazienti attribuiscono senso alla loro traiettoria biografica seguendo tipologie narrative ricorrenti, che danno vita - si potrebbe dire - ad un genere letterario particolare, connotato dal susseguirsi di 'svolte' tra loro connesse in modelli narrativi ora in chiave tragica ora eroica, cavalleresca o piuttosto satirica, come proposto in letteratura. Parallelamente all'analisi delle sequenze biografiche (strutturate appunto in: antefatto, soglia di entrata, andirivieni nelle crisi ecc.), il nostro studio si è concentrato su altri elementi ed in particolare sul significato attribuito alla cura psichiatrica (cosa cura? come agisce ciò che cura?) e sulla descrizione della comunicazione medico-paziente agli occhi di quest'ultimo. L'obbiettivo è infine quello di compiere un viaggio nell'immaginario di questi testimoni, orientato sui discorsi circa la medicalizzazione, l'idea di 'igenizzazione della mente', il conflitto e la sovrapposizione tra conoscenze esperte e non esperte, mediche e non, con l'interiorizzazione di costrutti egemoni come appunto quello della 'igiene mentale'.
Nel Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM-IV), i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono definiti come disturbi mentali correlati alla percezione dell'immagine corporea. Questa è la "voce della medicina", attraverso cui i clinici classificano i disturbi mentali in base a raggruppamenti di sintomi. Tuttavia negli ultimi dieci anni, le storie di vita con i disturbi alimentari sono emerse nel panorama mediale dando visibilità alla "voce della vita quotidiana" dei soggetti sofferenti. Da un lato le storie di ex-anoressiche ed ex-bulimiche sono state usate come soggetti di romanzi e auto-biografie a stampa; dall'altro la diffusione di Internet ha consentito la nascita sia di ambienti online di auto-aiuto finalizzati alla cura (pro-recovery), sia di siti "pro-ana" (contrazione di "pro-anoressia"). Questi ultimi sono spazi digitali quali forum o blog in cui emergono framework interpretativi della malattia contrari alla cura (anti-recovery). I racconti dell'esperienza di vita con i disturbi alimentari nella forma dei blog e delle auto-biografie sono strategie attraverso cui i soggetti malati attribuiscono un senso alla propria sofferenza; al contempo essi diventano fonti di dati per accedere alla voce della vita quotidiana delle anoressie-bulimie. In questo articolo affronto il tema delle storie di vita con i disturbi alimentari attraverso due passaggi, che sono parte di una stessa riflessione sul ruolo delle forme di rappresentazione narrativa nelle scienze sociali.
La migrazione, da oggetto di ricerca marginale nell'ambito delle
scienze umane e sociali, come rimarcava Abdelmalek Sayad, assurge
nell'epoca attuale ad oggetto di ricerca fondamentale per interrogarsi
sul legame sociale e sulla relazione con l'alterità dove l'altro,
portatore di una differenza oggettiva con il suo arrivo e la sua
permanenza, porta con sé storie sociali che vanno ri-conosciute,
ri-elaborate e approfondite, insieme alle strutture che ne caratterizzano
la persona: le strutture sociali, le tradizioni e le religioni,
le strutture politiche e mentali. L'erranza dei migranti, la transmigrazione
di persone e storie sociali tra mondi e culture, comporta dei cambiamenti
ed à al tempo stesso fecondazione reciproca di diversità che si
arricchiscono reciprocamente. L'erranza richiede tuttavia uno spazio
d'incontro tra sensibilità e patrimoni culturali differenti, in
parte negato da una società che ha paura dell'alterità, dove l'incontro
diventa narrazione di due o più alterità. Il tema e l'esperienza
della narrazione, divenuta elemento significativo della cultura
contemporanea e pratica sociale dove più persone mettono in comune
una storia, si costituisce come approccio fondamentale al rapporto
con culture diverse. Se la ricerca sociale non può pertanto trascurare
ed ignorare la storia sociale delle persone, non vi è osservazione
e comprensione delle relazioni umane che possa al tempo stesso sottovalutare
gli spazi attraverso i quali transitano e vivono le persone, considerando
il rapporto con noi stessi e l'altro nell'ambito del rapporto con
lo spazio di vita. Nei due contributi presentati in questa sezione
le narrazioni vengono infatti utilizzate come strumenti per aprire
un punto d'osservazione su alcuni aspetti del fenomeno migratorio
a partire dai vissuti individuali dei migranti. La raccolta delle
narrazioni - integrata con percorsi etnografici - fa emergere spunti
molto interessanti non solo sui percorsi di vita dei singoli migranti
o sulle categorie di significato da loro utilizzate per dare senso
all'esperienza migratoria, ma anche sulla migrazione in generale.
Viene inoltre problematizzato l'utilizzo delle narrazioni, interrogandosi
sul reale contributo conoscitivo di questa fonte e sulla sua capacità
di comunicare le caratteristiche del contesto in cui agisce l'intervistato
e le interazioni che in esso hanno luogo.
Analizzare i destini delle cosiddette seconde generazioni costituisce un punto centrale per comprendere le caratteristiche della società odierna, in primo luogo perché il grado di integrazione dei giovani figli della migrazione costituisce la cartina tornasole dei più ampi processi di inclusione messi in atto dalla società, e in secondo luogo per la centralità che le traiettorie di vita di questi giovani rivestono all'interno dei processi di socializzazione delle nuove generazioni nel loro complesso. In un'epoca caratterizzata da un eccezionale pluralismo culturale come quella in cui viviamo è evidente come i due ambienti tradizionalmente deputati ai processi di socializzazione, quali la famiglia e la scuola, vengano affiancati da molte altre istanze: basti pensare ai luoghi educativi extra-scolastici, alle associazioni di vario tipo, ai vecchi e nuovi media, ma anche al gruppo dei pari, agli adulti di riferimento e a tutta quella pluralità di legami, relazioni e appartenenze che nell'odierna società globale è possibile intrecciare. All'interno di un frame sociale così multiforme cosa avviene dunque nelle già complesse biografie dei giovani migranti? E quali sono le narrazioni che ne svelano il senso? Come vengono gestite le eventuali contraddizioni tra messaggi provenienti dai differenti ambienti culturali? E infine, quali elementi rendono peculiari le storie di vita, i progetti, le percezioni del Sé e i processi di socializzazione di questo gruppo sociale? Sono queste le principali questioni approfondite nella ricerca qui presentata: una ricerca condotta nel 2009 che ha individuato come campo d'indagine un Centro di Aggregazione Giovanile della città di Bergamo.
Via Anelli a Padova: una via che diventa un quartiere, un quartiere
che diventa una città nell'immaginario collettivo. Uno spazio lasciato
libero dalla distrazione del potere e delle discipline dello spazio
nel quale gli abitanti "producono territorio" capace di mettere
in crisi le forme consolidate di residenza e uso dello spazio pubblico.
Uno spazio "difforme" che verrà chiuso da un muro, dispositivo di
"controllo inverso" che esclude dalla visione e dalla comprensione
di quello che accade. La "zona di eccezione" costruita dai migranti
Mozambicani a Johannesburg: uno spazio distante dallo Stato dove
si vive come invisibili delimitato da muri che prendono forma nei
racconti dei migranti. Nella zona di eccezione vivono persone invisibili
perché ai margini del sistema sociale. Ma è questa stessa marginalità
che rende palese, giorno per giorno, lo scarto tra chi possiede
formali requisiti di cittadinanza e chi invece "si fa cittadino"
agendo sul territorio e trasformando lo spazio urbano. Se il rapporto
tra popolazione e territorio è di forte interazione, allora la città
diventa un luogo di mobilità, flusso e pratiche quotidiane dove
le pratiche dell'abitare sono in grado di costruire esse stesse
territori e popolazioni. Di fatto Via Anelli e la zona di eccezione
di Johannesburg costruiscono popolazioni che ogni giorno, con il
solo fatto di esistere, dimostrano la praticabilità di forme di
cittadinanza ibride, multi-appartenenza e che sovrabbondano i confini
dello Stato nazione.
L'incontro trentino ha dimostrato l'interesse crescente dei giovani
sociologi per lo sviluppo dei metodi narrativi e la capacità che
questi hanno di essere efficaci nell'analisi di svariati temi, dai
racconti di malattia alle narrazioni identitarie, dallo studio di
lavoro e organizzazioni a quello delle migrazioni, di genere e memoria.
Tuttavia, l'interesse della sociologia italiana va visto in un quadro
di sviluppo più ampio a livello europeo e americano dove, a partire
dagli anni '90, l'intervento di alcuni autori come Lyotard, Bruner
e Macintyre, ha sancito quella che alcuni autori hanno definito
svolta narrativa. La sociologia, infatti, tende sempre più a valorizzare
la narrazione come processo di conoscenza peculiare che è attivato
costantemente nella vita quotidiana; la "rivoluzione" risiede nel
fatto che la narrazione diventa oggetto della sociologia e la disciplina
stessa valorizza il suo uso sia come strumento di indagine scientifica,
sia come modo di conoscere che come modo di comunicare, rivendicando
la legittimità scientifica all'ascolto della parola diretta degli
individui coinvolti all'interno delle ricerche di stampo sociologico.
In questo articolo si affrontano alcune riflessioni emerse da un'esperienza di sociologia visuale. In particolare, si tratta la questione di come il media possa modificare la costruzione, la gestione e la restituzione delle informazioni raccolte con le interviste. Nella costruzione del discorso, il dibattito intorno alla sociologia visuale è utilizzato soltanto in modo funzionale a esplicitare che cosa sia un film di ricerca e come si differenzi dal documentario, per arrivare quindi ad argomentare quanto la finalità della restituzione possa giustificare artifici nella costruzione dell'informazione, o, per dirla in altre parole, quanta ricostruzione-fiction sia possibile operare nella misura della spendibilità del sapere sociologico. Un'altra questione rilevante, tangente a questi aspetti, che si tematizza a partire dalle suggestioni di Becker, è quanto le competenze tecniche del ricercatore possano essere determinanti nel governare il processo di costruzione delle informazioni nelle interviste videoregistrate. La tesi sottesa a questo lavoro è che un tale percorso possa aumentare il controllo da parte degli attori sul processo di costruzione delle informazioni, poiché prevede una partecipazione all'auto-rappresentazione e, anche, che tale processo possa produrre un'auto-esplorazione degli intervistati -ciò che Bourdieu ha chiamato "auto analisi provocata e accompagnata" - che può concorrere ad aumentare la contestuale adeguatezza e pertinenza delle informazioni. Il rapporto tra: analisi narrativa e rappresentazione delle identità, narrazione e contesto, intervistatore e intervistati e, conseguentemente, tra empatia e partecipazione, sono le questioni chiave attorno alle quali sono state sviluppate le argomentazioni.
Il contributo offre alcune riflessioni sul processo di analisi nell'approccio
narrativo con particolare attenzione alle scelte analitiche che
il ricercatore compie e alla opportunità di prendere visione del
lavoro di interpretazione. La letteratura metodologica ci ha ampiamente
informati della necessità di riflettere sulla complessità del processo
di raccolta del materiale narrativo (storie di vita, biografie,
interviste in profondità, diari, etc.) e della gestione dei contenuti
informativi. Da più parti si richiamano le difficoltà relative all'interazione
tra intervistato e intervistatore, alla elaborazione dei significati
e, dunque, all'interpretazione delle testimonianze. Si focalizza
l'attenzione sulla natura stipulativa del contesto d'intervista
e sulle questioni che si pongono sul piano della produzione di conoscenza:
la distanza tra la realtà vissuta, la realtà rappresentata attraverso
il racconto e la realtà ricostruita dallo stesso ricercatore. In
questa prospettiva il ricercatore assume un ruolo centrale non solo
nel momento in cui si concretizza la narrazione, ma anche e soprattutto
in fase di analisi. Ripercorrendo le questioni metodologiche che
hanno caratterizzato il dibattito sulla ricerca qualitativa e sulla
base di personali esperienze di ricerca, nel mio contributo pongo
l'attenzione sulle questioni relative al processo che il ricercatore
mette in atto nell'analisi del materiale narrativo, aprendo una
riflessione sulle strategie di analisi, ovvero sul modo di manipolare
i dati, di generare e applicare i concetti e di utilizzare le categorie
analitiche impiegate per l'organizzazione e l'archiviazione dei
materiali di ricerca.
Il tema dell'identità non sfugge a questa regola. Negli ultimi decenni la riflessione attorno all'identità ha conosciuto un forte sviluppo ed ha consentito lo snodarsi di un animato dibattito che, uscito dall'ambito specialistico della ricerca e dai congressi scientifici, ha coinvolto in modo prepotente media, politica e persino gli scambi quotidiani dei non addetti ai lavori. Probabilmente prima di costituire una questione importante per gli studiosi e quindi prima di interrogarla come categoria educativa, filosofica, psicologica, sociologica ed anche storica è sempre stato un aspetto fondamentale delle interazioni umane. A prescindere dalle speculazioni: la mia identità è il "chi sono" per chi mi sta di fronte e intorno a me, è il "chi sono" secondo me, e questi due aspetti stanno in profonda relazione e si influenzano reciprocamente. L'identità degli altri è un orizzonte e un limite per il mio modo di relazionarmi con loro e per costruire la mia percezione della mia identità personale e di quelle degli altri: questi scambi e queste costruzioni avvengono attraverso narrazioni esplicite e implicite. Con i contributi scelti da chi scrive, per rappresentare la sessione dedicata alla narrazione e all'identità, non ci si propone di fornire risposte ai tanti interrogativi che i soggetti, la società e la ricerca pongono a questo interessante binomio, ma si coltiva l'ambizione di generare nel lettore ulteriori domande per esplorare le identità ed il contributo delle narrazioni alla conoscenza, alla formazione, allo sviluppo ed al racconto delle stesse, sotto diversi punti di vista e al di là di frontiere disciplinari che si rivelano sempre più anguste per temi comprensivi come quello che qui affrontiamo.
L'obiettivo di questo articolo è l'analisi del ruolo ricoperto dalle
narrazioni nella formazione dell'identità all'interno dei percorsi
di conversione religiosa. Le storie rappresentano, sul piano metodologico,
lo strumento privilegiato per accedere all'esperienza della conversione
religiosa per mezzo di interviste che sollecitino il racconto biografico;
il racconto di conversione acquista inoltre una valenza sostantiva
in quanto è esso stesso parte integrante dell'esperienza di conversione.
Imparare a dare la propria testimonianza personale è una competenza
cruciale nel percorso religioso: se da un lato l'ideologia del gruppo
diventa la storia del soggetto e ne forma la memoria e l'autobiografia,
dall'altro le testimonianze pubbliche di fede consolidano l'impegno
mediante un rinnovamento esistenziale e confermano al gruppo la
validità dei propri metodi e della propria visione del mondo. La
storia di conversione è, del resto, il medium tra il neofita e i
membri del gruppo, essendo la modalità con cui i convertiti, resocontando
la loro esperienza ai potenziali nuovi membri, mostrano il cambiamento
e il miglioramento che la fede ha prodotto nella loro vita. La condivisione
e lo scambio di storie personali permette di attestare e dar prova
del cammino spirituale compiuto, e la partecipazione alle storie
fondamentali condivise collettivamente rinsalda i legami e genera
il senso di appartenenza del singolo alla comunità, condizione,
questa, che favorisce lo sviluppo di una morale condivisa (Poulton
2005). Al membro è infatti richiesta l'adesione all'ethos del gruppo,
vale a dire l'insieme delle credenze, delle attività, del linguaggio
e delle altre forme simboliche in cui l'organizzazione si riconosce,
costituendosi come "comunità morale" all'interno della quale i membri
hanno la tendenza a interpretare e assegnare significati analoghi
agli eventi del mondo, generando frame condivisi.
Ramona Bongelli - Ilaria Riccioni - Luciana Viggiano - Silvia Lo Bue - Andrzej Zuczkowski
Nel nostro Paese, come in molte altre democrazie occidentali, la
politica negli ultimi decenni ha iniziato ad occupare spazi di intrattenimento
televisivo cambiando il proprio volto e le proprie tecniche espressive.
L'esaltazione di sé e la rivelazione di informazioni strettamente
private e personali sono diventate un carattere dominante della
comunicazione politica, soppiantando in parte la narrazione di fatti
pubblici e l'impegno programmatico. In questo contributo presentiamo
l'analisi qualitativa di un corpus di 18 discorsi mediatici pronunciati
dall'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi tra il 2008 e
il 2011. Nello specifico, abbiamo focalizzato la nostra attenzione
sulle sequenze autonarrative, ossia sui frammenti discorsivi in
cui l'ex Premier parla di sé (self presentation) e della sua vita
privata (self disclosure), al fine di individuare i temi dominanti
e le strategie comunicative impiegati. I risultati dell'analisi
mostrano, sul piano della self-presentation, l'uso di una pluralità
di immagini, tutte positivamente connotate, temporalmente costanti
e riconducibili a qualità relazionali; sul piano della self-disclosure,
una predilezione per la narrazione di eventi positivamente caratterizzati
e di fatti volti a fornire prove della infondatezza delle accuse
a lui rivolte da una parte del mondo politico e giudiziario italiano.
Dal punto di vista delle strategie comunicative, si notano ripetuti
shift dallo stile assertivo a quello offensivo.
Gli studi di genere rappresentano un terreno particolarmente fecondo
per l’approccio narrativo nelle sue diverse articolazioni. L’interesse
nei confronti delle narrazioni è in realtà già un elemento centrale
e distintivo della letteratura femminista e dei women’s studies,
prima ancora che degli studi di genere, e all’interno di questi
filoni di studio sono in effetti emersi alcuni rilevanti spunti
per il dibattito sulla conoscenza narrativa. L’attenzione per le
narrazioni da parte di questo filone di studi nasce probabilmente
dalla critica che la letteratura femminista sviluppa nei confronti
del sapere razionale e di modelli epistemologici fondati sul paradigma
dell’oggettività, che tendono a cancellare la dimensione esperienzale.
Le metodologie femministe si sono infatti ben presto caratterizzate
per l’attenzione rivolta alla problematizzazione dei processi di
conoscenza e di conduzione della ricerca scientifica, di cui viene
messa in evidenza la dimensione di costruzione sociale e quindi
anche il carattere inevitabilmente gendered. La pretesa di separare
l’oggetto e il soggetto della ricerca è stata interpretata alla
luce di quello stesso ordine dicotomico, che distingue tra pubblico
e privato e tra maschile e femminile, e secondo il quale le esperienze
personali non sono scientifiche, in quanto associate all’ambito
del privato e quindi, storicamente, anche del femminile. Su tale
fondamento si sarebbe di fatto sostenuta l’egemonia della maschilità
nel dominio della scienza. Il ricorso alle narrazioni è stato in
tal senso inteso come un’opportunità per riconciliare queste diverse
dimensioni, stimolando il dinamismo della produzione di conoscenza
e generando nuove visioni alternative, capaci di superare vecchi
preconcetti e dicotomie.
Lo studio delle narrazioni di genere all'interno di questo tipo di organizzazione desta inoltre un particolare interesse anche in ragione della sottorappresentazione delle donne nella sfera della politica. Si tratta di un deficit democratico che coinvolge i sistemi politici moderni nel loro complesso, ma che interessa l'Italia con una particolare gravità ed evidenza. La questione della sottorappresentazione politica delle donne è stata sinora affrontata prevalentemente in termini tecnico-legali (politiche di pari opportunità ed azione positiva), o di teoria politica (la dicotomia pubblico-maschile e privato-femminile come fondamento del contratto sessuale della politica). Mancano invece contributi che guardino ai partiti come organizzazioni largamente responsabili dei processi di selezione e promozione delle carriere politiche, dunque come luoghi di quotidiana produzione di pratiche e culture di genere, più o meno egualitarie o, viceversa, discriminatorie. Sulla base di tale vuoto di ricerca e riflessione, il presente articolo si propone di mettere in luce le pratiche e le culture di genere che emergono dai racconti di uomini e donne all'interno di due organizzazioni partitiche, una di destra e una di sinistra, situate nel contesto territoriale della provincia di Trento. La ricerca è stata condotta attraverso lo strumento dell'intervista semi-strutturata, coinvolgendo quattro donne e quattro uomini, divisi per coppie di età (un uomo ed una donna giovani ed un uomo ed una donna da lungo presenti nel partito), accostabili per quanto concerne ruolo e posizione nelle organizzazioni partitiche considerate. L'attenzione analitica si è concentrata sulla costruzione del genere di uomini e donne intervistati/e, intesa sia come dimensione ed esperienza individuale (le storie di genere dei/lle singoli/e), sia come dimensione organizzativa più ampia (le storie di genere delle organizzazioni, narrate dalle diverse voci). Un'ulteriore dimensione analitica è rappresentata dall'intreccio tra la cultura politica più ampiamente intesa e la cultura di genere emersa dai racconti delle persone intervistate, nel tentativo di cogliere continuità e rotture, corrispondenze e conflitti tra i due piani.
La centralità del processo narrativo per la crescita identitaria
è stata ribadita da diversi teorici dello sviluppo. Negli anni la
ricerca psicologica e clinica hanno dedicato una crescente attenzione
all'analisi delle rappresentazioni mentali che gli adulti e i bambini
hanno delle loro relazioni interpersonali, attraverso l'applicazione
di strumenti standardizzati di tipo narrativo. Un numero considerevole
di questi studi sono basati sulla teoria dell'attaccamento. Le narrazioni
dei bambini di età prescolare, se analizzate con misure che rilevano
le rappresentazioni dell'attaccamento, consentono una migliore comprensione
del loro mondo interno, altrimenti difficile da comunicare mediante
altri canali espressivi. Così, a partire dal terzo anno di vita,
le rappresentazioni infantili rispetto alla qualità delle relazioni
interpersonali e rispetto a se stessi come soggetti sociali possono
essere esplorate utilizzando l'Attachment Story Completion Task.
Si tratta di una procedura composta da un compito di completamento
narrativo attraverso il gioco simbolico con i pupazzi, che viene
proposta individualmente al/la bambino/a in una situazione strutturata
di osservazione videoregistrata. L'esaminatore, attraverso la manipolazione
di una famiglia di pupazzi, introduce cinque tematiche attivanti
il sistema dell'attaccamento del/la bambino/a (il succo rovesciato,
la ferita al ginocchio, il mostro nella stanza, la partenza dei
genitori, la riunione) e gli/le chiede di concludere la storia attraverso
la messa in scena. La codifica di ciascuna storia si basa sulla
trascrizione integrale delle verbalizzazioni e dei comportamenti,
comprese note relative all'espressione emotiva (posture, tono della
voce, espressioni facciali e qualità della manipolazione dei pupazzi
e dei materiali) e consente di ottenere un'analisi qualitativa della
sicurezza di attaccamento e delle performance narrative. Diversi
Autori hanno rilevato significative differenze di genere nell'ASCT
ed è iniziato un dibattito in chiave cross-culturale. Il presente
contributo intende proporre un'analisi qualitativa delle narrazioni
(ASCT) di 107 bambini ambosessi (M=69; F=38), di età compresa tra
3,10 e 5,10 anni, frequentanti le scuole dell'infanzia del territorio
trentino. Discuteremo i risultati ottenuti in termini di sicurezza
di attaccamento, di modalità emotiva ed atteggiamenti evidenziati
nella co-costruzione delle storie, con un focus specifico rispetto
alle differenze di genere.
Possiamo molto schematicamente ricordare la rilevanza di almeno
due diverse declinazioni del rapporto narrativo tra generazioni,
l'una genealogico-familiare in cui le esperienze delle diverse generazioni
si intrecciano e si integrano, l'altra "individuale riflessiva"
in cui ciascuna generazione fa capo a se stessa e alle esperienze
non trasferibili che l'hanno segnata e da cui ha essa stessa appreso
qualcosa di sè. Il primo tipo di narrazione presuppone che occorra
studiare l'intreccio delle storie di cui sono portatrici le generazioni
familiari per ricostruire le mappe mentali e le condizioni soggettive
e oggettive che presiedono alla scelta dei diversi percorsi di vita
da parte dei componenti di ciascuna generazione. La seconda prospettiva
si ambienta in un diverso scenario che possiamo definire, con Lyotard
di "crisi delle grandi narrazioni", intendendo con questa espressione
non soltanto il crollo delle grandi ideologie ma la perdita stessa
della capacità, individuale e sociale, di generare senso. Paradossalmente
questa crisi, se ha da una parte sminuito il valore delle narrazioni,
dall'altro ha condotto a una rivalutazione dell'esperienza individuale
del narrare e del narrarsi. Le narrazioni diventano il mezzo attraverso
il quale "costruire un intreccio che permette al soggetto di raffigurarsi
lo svolgimento della vita nel tempo e dunque, in certa misura, di
padroneggiare quest'ultimo". Questo secondo tipo di narrazione non
ha una platea cui trasferire insegnamenti e anticipazioni di esperienze:
è anzi eminentemente "riflessiva", porta esperienze da elaborare
in termini di identità del presente, e altresì comporta, come nel
caso di anziani o adulti, revisioni autocritiche del passato.. La
narrazione in quanto orientata alla costituzione e alla stabilizzazione
dell'identità, modifica anche, retrospettivamente, la percezione
della capacità di affrontamento delle sfide incontrate nella propria
storia.
Il lavoro di cui si rende conto nel presente articolo è parte del progetto di ricerca "Second generations: migration processes and mechanisms of integration among foreigners and Italians (1950-2010)", finanziato dalla Regione Piemonte e a cui partecipa l'Associazione Gruppo Abele Onlus. Il Centro studi del Gruppo Abele, insieme al Piano Giovani (attività dell'Associazione che lavora in contesti educativi formali ed informali), partecipa alla ricerca focalizzando l'attenzione sulla migrazione d'origine straniera degli ultimi anni, in particolare sulle seconde generazioni. Interlocutori principali sono, infatti, i ragazzi immigrati e figli della migrazione intercettati attraverso le attività di educativa di strada proposte dagli educatori e mediatori culturali del Gruppo Abele in alcuni giardini pubblici della città di Torino. Il nostro obiettivo specifico è quello di provare a ricostruire i percorsi e i progetti di vita, le carriere scolastiche, lavorative, familiari e sociali dei ragazzi che hanno vissuto un'esperienza di migrazione (direttamente o della propria famiglia), prestando attenzione ai fattori che influenzano le traiettorie dei ragazzi e delle ragazze incontrati.
A partire da alcune esperienze etnografiche di ricerca con bambini
e bambine, questo intervento mira ad indagare in chiave metodologica
il tema dei ricordi d'infanzia del ricercatore coinvolto in ricerche
empiriche con bambini, analizzando riflessivamente il ruolo giocato
da pezzi della sua personale autobiografia nella comprensione dell'infanzia.
Se l'attenzione all'aspetto autobiografico è sicuramente cresciuta
in tutte le ricerche che adottano metodologie di analisi qualitative,
la questione si fa ancora più delicata nel caso di ricerche etnografiche
che riguardano i bambini. Non solo per le rappresentazioni sull'infanzia
diffuse sia nel senso comune sia in quello più tradizionale delle
scienze sociali - ancora non pienamente coinvolte, specialmente
in Italia, dal cambiamento di paradigma introdotto dall'approccio
della new childhood sociology - ma più specificamente perché, come
ben sottolinea Philo, anche il ricercatore è stato nel passato un
bambino. Ciò che interessa qui sottolineare è proprio il coinvolgimento
del ricercatore che non solo con le sue conoscenze ma con la sua
stessa esperienza di vita accede al mondo dei bambini. Il ricordo
della propria condizione durante l'infanzia può creare "frammenti
di connessione" tra il ricercatore e i bambini, facendo leva sul
senso di comunanza dell'aver vissuto quella fase ma senza per questo
affermarne una coincidenza e negare le differenze temporali e spaziali
esistenti tra le diverse infanzie. Può altresì generare l'effetto
opposto, di mitizzazione dell'infanzia del passato e di sradicamento
dell'esperienza specificadei bambini dai loro contesti di vita quotidiana.
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro
Il convegno "Raccontare, Ascoltare, Comprendere: Metodologia e ambiti di applicazione delle narrazioni nelle scienze sociali", organizzato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Trento il 22-23 settembre 2011, realizzato con il patrocinio dell'Associazione Italiana di Sociologia e dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, ha proposto di stimolare un confronto tra studiose e studiosi delle scienze sociali che all'interno di diverse aree tematiche utilizzano le narrazioni come principale strumento di ricerca e di analisi, nell'intento di valorizzare la capacità euristica offerta dall'approccio narrativo e biografico nel leggere ed interpretare la società. Presentiamo all'interno di questo numero monografico, in collaborazione con la rivista internazionale di scienze umane e sociali "M@gm@", una selezione delle relazioni discusse al convegno che documentano la preziosa occasione, di scambio di riflessioni metodologiche e di esperienze di ricerca empirica, rappresentata da queste due intense giornate di lavori.
Paolo Jedlowski - Albertina Pretto
La sessione "Tempo & Memoria" ha visto confluire al suo interno differenti tematiche sia a livello di presentazione degli abstract sia a livello dei paper selezionati (tanto quelli discussi, quanto quelli distribuiti). La narrazione è comparsa nel discorso sia in quanto strumento della ricerca sociale, sia come oggetto della ricerca stessa. Gli ambiti di interesse proposti andavano dalla narrazione dello spazio alla trasmissione della memoria religiosa, dal ruolo dei media e quello degli oggetti nella costituzione delle memorie individuali e collettive, fino alla metodologia delle "storie di vita". I due paper che qui presentiamo, rivisti dalle autrici per questa pubblicazione, hanno per oggetto in particolare la memoria e la trasmissione di eventi traumatici.
Olimpia Affuso
Il contributo propone una riflessione sulla rappresentazione letteraria e artistica della Shoah e sul contributo di tale rappresentazione alla conoscenza ed alla memoria. Partendo dallo studio di diverse graphic novel contemporanee si affronta la questione della trasmissione della Shoah alle nuove generazioni e del ruolo che le narrazioni mediali hanno nella costruzione e rielaborazione collettiva del ricordo dei passati traumatici. A fronte di tale questione ci sono determinati problemi. Da un lato, si registra l'indebolirsi del senso storico degli individui, per effetto di processi contemporanei come la frammentazione dei percorsi biografici; la dislocazione spazio-temporale; la presentificazione dell'esperienza. Dall'altro lato, si evidenzia la difficoltà di trasmettere il passato, in particolare per la società italiana debolmente capace di compiere una riflessione autocritica su stessa e sulle ambiguità della propria storia nazionale. A tali problemi si lega la questione del rapporto tra costruzione della memoria e testimonianza, diretta o mediata. Negli ultimi anni, il venir meno dei testimoni della Shoah per ragioni anagrafiche apre per la memoria strade nuove e complesse, spostando l'asse di trasmissione del passato dal versante della memoria vissuta a quello della memoria culturale. Si tratta di quella che Marianne Hirsch ha definito post-memoria, uno spazio discorsivo in cui la possibilità di venire a conoscenza del passato dipende da un processo di rielaborazione di ogni vicenda a partire da racconti ed immagini mediati da testi. L'analisi di ciascuno di questi testi riguarda l'intero sistema di rappresentazione pubblica del passato, l'universo di immagini e narrazioni in cui la cultura memoriale prende forma e attraverso cui si realizza il processo di rielaborazione dei traumi collettivi.
Alessandra Micalizzi
Il paper si propone di presentare alcuni risultati di una ricerca empirica relativa al ruolo degli oggetti nel processo di elaborazione del trauma per le persone che hanno vissuto il terremoto in Abruzzo. In modo particolare obiettivo della ricerca era quello di comprendere in che modo la permanenza dell'oggetto - per parafrasare una delle fasi tipiche del processo evolutivo umano - abbia contribuito a mettere in atto strategie di coping per superare la tragica separazione dalle cose che contano, intrinsecamente legate alla propria biografia, alla storia di altre persone care e a quella della propria terra. Più specificamente si è cercato di indagare in che modo è cambiato il rapporto con gli oggetti dopo il tragico evento; le motivazioni implicite ed esplicite nella relazione costruita con alcune cose; il rapporto e il valore riconosciuto agli oggetti della memoria, alle cose simbolicamente ritenute rappresentative del terremoto.
Silvia Gherardi - Annalisa Murgia
Tra i diversi approcci che stanno contribuendo al rinnovamento della sociologia del lavoro e delle organizzazioni in Italia - quali il lavoro come attività situata, coreografia, performance, pratica material-discorsiva, istituzione, ecc. - negli ultimi anni si è fatta strada l'idea che le narrazioni e le rappresentazioni dei soggetti rappresentino una delle principali fonti di conoscenza dei contesti lavorativi e dei significati attribuiti al lavoro. All'origine di questa "svolta narrativa" è la convinzione che attraverso l'analisi delle diverse forme e modalità di narrare il lavoro - e ancor più le organizzazioni in cui si lavora - sia possibile far emergere le letture soggettive e le rappresentazioni individuali, così come la costruzione di una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà. Le narrazioni rappresentano dunque sempre più spesso sia un importante oggetto di studi per la sociologia del lavoro e delle organizzazioni, sia un indispensabile strumento di analisi della vita quotidiana nei luoghi di lavoro. Le narrazioni al lavoro e il lavoro come narrazione sottolineano in particolare come lavorare sia una attività che richiede competenze comunicative e come le pratiche discorsive siano costitutive delle attività professionali e delle identità occupazionali di coloro che narrano.
Paolo Rossi
Le narrazioni possono essere per molte categorie di organizzazioni e professionisti uno specifico oggetto di lavoro, sulla quale poggiano transazioni che ha una importante rilevanza istituzionale. Questo è indubbiamente il caso degli assistenti sociali che operano nei servizi sociali comunali, che costruiscono la relazione con i propri utenti attraverso un'interazione che ha una spiccata consistenza narrativa. L'osservazione delle dinamiche relazionali tra assistenti sociali e utenti, attraverso l'analisi delle narrazioni che gli utenti sviluppano nel momento in cui richiedono un intervento socio-assistenziale, consente quindi di cogliere più articolatamente la valenza di un servizio istituzionale e la sua costruzione organizzativa. In quest'ottica, l'articolo approfondisce il tema dell'accesso ai servizi socio-assistenziali, proponendone una lettura che superi le tradizionali rappresentazioni fondate sull'analisi dei meccanismi di regolazione di matrice istituzionale e amministrativa. D'altra parte, questa fase di primo contatto tra cittadini e istituzioni è particolarmente densa di aspettative, rappresentazioni e prefigurazioni che, reciprocamente, danno forma all'eventuale sviluppo di una relazione d'aiuto; inoltre, è nell'analisi di quello che può essere definito uno "spazio narrativo condensato" che si può esaminare il senso e la valenza che gli utenti attribuiscono alle opportunità di assistenza sociale e alla loro regolamentazione.
Emiliana Armano
Come i lavoratori della conoscenza rappresentano la loro stessa condizione? Attraverso quali categorie del pensiero? La precarietà del lavoro della conoscenza si presenta in maniera diversa dalla precarietà del lavoro generico e indifferenziato? A questa domande vuole rispondere la nostra ricerca empirica attraverso un'ampia inchiesta sociale condotta mediante interviste biografiche narrative realizzate in molteplici ambiti professionali del knowledge work. Informatici, programmatori, sviluppatori, lavoratori delle telecomunicazioni e della ricerca universitaria, web designers e web workers, artisti digitali, formatori, ricercatori, designers industriali, giornalisti, traduttori, fotografi, sono stati intervistati durante alcuni importanti "eventi" dei nuovi media torinesi tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007: Virtuality, Linux Day, Artissima, Festival del Cinema. La scelta è stata quella di privilegiare un percorso di ricerca sul campo, basato sulla progressiva implementazione della definizione dell' "oggetto" di studio che è a sua volta parte attiva nel processo di ricerca attraverso il "metodo" della conricerca e della narrazione. Non si è trattato propriamente di scegliere un metodo, né semplicemente di riportare un pensiero sull'esperienza, ma di un modo di costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Pensare e narrare l'esperienza non è stato dunque, o non è solo, renderne conto, rifletterla per analizzarla, bensì superarla. A partire da queste scelte "metodologiche" e epistemologiche di fondo, si è svolta il nostra studio sul campo.
Silvia Doria
Il saggio approfondisce delle suggestioni emerse dalle interviste condotte con alcuni operai e alcune "figure della sicurezza" incontrate sul campo durante la ricerca etnografica sulle pratiche della sicurezza nei cantieri edili di un'organizzazione che, nella città di Roma, è responsabile della costruzione di una delle nuove linee metropolitane. L'argomento ed il materiale raccolto, benché non abbia trovato spazio di discussione all'interno della tesi se non in forma di citazione e non sia stato trattato in una "compiuta" raccolta di "storie" sulla sicurezza, ha manifestato tutta la sua carica euristica e di interesse sociologico da poter essere approfondito anche entro una dimensione narrativa della sicurezza sul lavoro. Dalla ricerca etnografica è emerso come si preferisca non parlare di sicurezza o di infortuni occorsi sul lavoro nella propria carriera professionale, confermando la natura pratica e tacita della sicurezza. Nell'essere sollecitati dal ricercatore a parlarne anche attraverso la richiesta di aneddoti legati alla propria esperienza lavorativa gli attori del campo hanno scelto raccontare le storie degli altri, quale dimensione narrativa che in qualche modo li mettesse al riparo dall'esibire una mancanza personale, un errore compiuto in prima persona. L'esperienza dell'incidente, infatti, è legata ad un tipo di cultura organizzativa in cui la sicurezza, o l'evento infortunistico, è riconosciuta come una questione individuale, non legata all'organizzazione e alle pratiche sociali prodotte e riprodotte al suo interno e, perciò, sanzionabili in quanto associate ad un non rispetto della normativa tout court.
Barbara Pentimalli
Il saggio poggia su di una ricerca etnografica condotta alla Centrale di Ascolto e nell'Area medico legale del Tribunale per i Diritti del Malato le cui attività hanno una forte dimensione narrativa dato che raccoglie le storie dei cittadini su presunti errori medici, fornendo un parere medico-legale sull'eventualità di avviare un'azione per ottenere il risarcimento del danno subito. Ogni narrazione è dialogica, si colloca all'interno di una relazione comunicativa che coinvolge chi narra e chi ascolta. Nel nostro caso è il consulente del Tribunale che adotta la postura professionale del destinatario, che da senso al racconto del cittadino deluso, arrabbiato e disperato. Ai suoi occhi, è un terapeuta, uno story taker che stimola e accoglie una storia segnata da un evento drammatico, ove il ruolo del nemico è attribuito al medico negligente e arrogante.
Micol Bronzini
Alle narrazioni di malattia si accostano oggi discipline diverse: dall'antropologia medica, cui si deve l'iniziale esplorazione di questo campo; alla medicina, che mostra segnali di insofferenza verso il riduzionismo biologico e la presunta oggettività propugnata dal paradigma imperante dell'evidence based medicine; alle scienze sociali, e in particolare alla sociologia della salute che, pur nella eterogeneità di approcci che la caratterizzano, ha ormai consolidato il proprio interesse per le pratiche narrative, come modalità privilegiata per la comprensione dei vissuti soggettivi di malattia (illness).
Vincenza Pellegrino
Questo contributo si basa sulle storie di vita (più specificamente potremmo dire sulle storie di malattia e di cura) di 20 pazienti psichiatrici di Trieste, raccolte grazie a incontri ripetuti con ciascun testimone (persone con 'diagnosi severa' che avessero alle spalle almeno 10 anni di cura). L'intero lavoro di analisi è collocabile quindi all'interno del vasto mondo delle mental illness narratives, narrazioni finalizzate a cogliere il modo in cui i pazienti attribuiscono senso alla loro traiettoria biografica seguendo tipologie narrative ricorrenti, che danno vita - si potrebbe dire - ad un genere letterario particolare, connotato dal susseguirsi di 'svolte' tra loro connesse in modelli narrativi ora in chiave tragica ora eroica, cavalleresca o piuttosto satirica, come proposto in letteratura. Parallelamente all'analisi delle sequenze biografiche (strutturate appunto in: antefatto, soglia di entrata, andirivieni nelle crisi ecc.), il nostro studio si è concentrato su altri elementi ed in particolare sul significato attribuito alla cura psichiatrica (cosa cura? come agisce ciò che cura?) e sulla descrizione della comunicazione medico-paziente agli occhi di quest'ultimo. L'obbiettivo è infine quello di compiere un viaggio nell'immaginario di questi testimoni, orientato sui discorsi circa la medicalizzazione, l'idea di 'igenizzazione della mente', il conflitto e la sovrapposizione tra conoscenze esperte e non esperte, mediche e non, con l'interiorizzazione di costrutti egemoni come appunto quello della 'igiene mentale'.
Agnese Vellar
Nel Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM-IV), i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono definiti come disturbi mentali correlati alla percezione dell'immagine corporea. Questa è la "voce della medicina", attraverso cui i clinici classificano i disturbi mentali in base a raggruppamenti di sintomi. Tuttavia negli ultimi dieci anni, le storie di vita con i disturbi alimentari sono emerse nel panorama mediale dando visibilità alla "voce della vita quotidiana" dei soggetti sofferenti. Da un lato le storie di ex-anoressiche ed ex-bulimiche sono state usate come soggetti di romanzi e auto-biografie a stampa; dall'altro la diffusione di Internet ha consentito la nascita sia di ambienti online di auto-aiuto finalizzati alla cura (pro-recovery), sia di siti "pro-ana" (contrazione di "pro-anoressia"). Questi ultimi sono spazi digitali quali forum o blog in cui emergono framework interpretativi della malattia contrari alla cura (anti-recovery). I racconti dell'esperienza di vita con i disturbi alimentari nella forma dei blog e delle auto-biografie sono strategie attraverso cui i soggetti malati attribuiscono un senso alla propria sofferenza; al contempo essi diventano fonti di dati per accedere alla voce della vita quotidiana delle anoressie-bulimie. In questo articolo affronto il tema delle storie di vita con i disturbi alimentari attraverso due passaggi, che sono parte di una stessa riflessione sul ruolo delle forme di rappresentazione narrativa nelle scienze sociali.
Serena Piovesan - Orazio Maria Valastro
La migrazione, da oggetto di ricerca marginale nell'ambito delle scienze umane e sociali, come rimarcava Abdelmalek Sayad, assurge nell'epoca attuale ad oggetto di ricerca fondamentale per interrogarsi sul legame sociale e sulla relazione con l'alterità dove l'altro, portatore di una differenza oggettiva con il suo arrivo e la sua permanenza, porta con sé storie sociali che vanno ri-conosciute, ri-elaborate e approfondite, insieme alle strutture che ne caratterizzano la persona: le strutture sociali, le tradizioni e le religioni, le strutture politiche e mentali. L'erranza dei migranti, la transmigrazione di persone e storie sociali tra mondi e culture, comporta dei cambiamenti ed à al tempo stesso fecondazione reciproca di diversità che si arricchiscono reciprocamente. L'erranza richiede tuttavia uno spazio d'incontro tra sensibilità e patrimoni culturali differenti, in parte negato da una società che ha paura dell'alterità, dove l'incontro diventa narrazione di due o più alterità. Il tema e l'esperienza della narrazione, divenuta elemento significativo della cultura contemporanea e pratica sociale dove più persone mettono in comune una storia, si costituisce come approccio fondamentale al rapporto con culture diverse. Se la ricerca sociale non può pertanto trascurare ed ignorare la storia sociale delle persone, non vi è osservazione e comprensione delle relazioni umane che possa al tempo stesso sottovalutare gli spazi attraverso i quali transitano e vivono le persone, considerando il rapporto con noi stessi e l'altro nell'ambito del rapporto con lo spazio di vita. Nei due contributi presentati in questa sezione le narrazioni vengono infatti utilizzate come strumenti per aprire un punto d'osservazione su alcuni aspetti del fenomeno migratorio a partire dai vissuti individuali dei migranti. La raccolta delle narrazioni - integrata con percorsi etnografici - fa emergere spunti molto interessanti non solo sui percorsi di vita dei singoli migranti o sulle categorie di significato da loro utilizzate per dare senso all'esperienza migratoria, ma anche sulla migrazione in generale. Viene inoltre problematizzato l'utilizzo delle narrazioni, interrogandosi sul reale contributo conoscitivo di questa fonte e sulla sua capacità di comunicare le caratteristiche del contesto in cui agisce l'intervistato e le interazioni che in esso hanno luogo.
Caterina Rizzo
Analizzare i destini delle cosiddette seconde generazioni costituisce un punto centrale per comprendere le caratteristiche della società odierna, in primo luogo perché il grado di integrazione dei giovani figli della migrazione costituisce la cartina tornasole dei più ampi processi di inclusione messi in atto dalla società, e in secondo luogo per la centralità che le traiettorie di vita di questi giovani rivestono all'interno dei processi di socializzazione delle nuove generazioni nel loro complesso. In un'epoca caratterizzata da un eccezionale pluralismo culturale come quella in cui viviamo è evidente come i due ambienti tradizionalmente deputati ai processi di socializzazione, quali la famiglia e la scuola, vengano affiancati da molte altre istanze: basti pensare ai luoghi educativi extra-scolastici, alle associazioni di vario tipo, ai vecchi e nuovi media, ma anche al gruppo dei pari, agli adulti di riferimento e a tutta quella pluralità di legami, relazioni e appartenenze che nell'odierna società globale è possibile intrecciare. All'interno di un frame sociale così multiforme cosa avviene dunque nelle già complesse biografie dei giovani migranti? E quali sono le narrazioni che ne svelano il senso? Come vengono gestite le eventuali contraddizioni tra messaggi provenienti dai differenti ambienti culturali? E infine, quali elementi rendono peculiari le storie di vita, i progetti, le percezioni del Sé e i processi di socializzazione di questo gruppo sociale? Sono queste le principali questioni approfondite nella ricerca qui presentata: una ricerca condotta nel 2009 che ha individuato come campo d'indagine un Centro di Aggregazione Giovanile della città di Bergamo.
Elena Ostanel
Via Anelli a Padova: una via che diventa un quartiere, un quartiere che diventa una città nell'immaginario collettivo. Uno spazio lasciato libero dalla distrazione del potere e delle discipline dello spazio nel quale gli abitanti "producono territorio" capace di mettere in crisi le forme consolidate di residenza e uso dello spazio pubblico. Uno spazio "difforme" che verrà chiuso da un muro, dispositivo di "controllo inverso" che esclude dalla visione e dalla comprensione di quello che accade. La "zona di eccezione" costruita dai migranti Mozambicani a Johannesburg: uno spazio distante dallo Stato dove si vive come invisibili delimitato da muri che prendono forma nei racconti dei migranti. Nella zona di eccezione vivono persone invisibili perché ai margini del sistema sociale. Ma è questa stessa marginalità che rende palese, giorno per giorno, lo scarto tra chi possiede formali requisiti di cittadinanza e chi invece "si fa cittadino" agendo sul territorio e trasformando lo spazio urbano. Se il rapporto tra popolazione e territorio è di forte interazione, allora la città diventa un luogo di mobilità, flusso e pratiche quotidiane dove le pratiche dell'abitare sono in grado di costruire esse stesse territori e popolazioni. Di fatto Via Anelli e la zona di eccezione di Johannesburg costruiscono popolazioni che ogni giorno, con il solo fatto di esistere, dimostrano la praticabilità di forme di cittadinanza ibride, multi-appartenenza e che sovrabbondano i confini dello Stato nazione.
Rita Bichi - Lara Maestripieri
L'incontro trentino ha dimostrato l'interesse crescente dei giovani sociologi per lo sviluppo dei metodi narrativi e la capacità che questi hanno di essere efficaci nell'analisi di svariati temi, dai racconti di malattia alle narrazioni identitarie, dallo studio di lavoro e organizzazioni a quello delle migrazioni, di genere e memoria. Tuttavia, l'interesse della sociologia italiana va visto in un quadro di sviluppo più ampio a livello europeo e americano dove, a partire dagli anni '90, l'intervento di alcuni autori come Lyotard, Bruner e Macintyre, ha sancito quella che alcuni autori hanno definito svolta narrativa. La sociologia, infatti, tende sempre più a valorizzare la narrazione come processo di conoscenza peculiare che è attivato costantemente nella vita quotidiana; la "rivoluzione" risiede nel fatto che la narrazione diventa oggetto della sociologia e la disciplina stessa valorizza il suo uso sia come strumento di indagine scientifica, sia come modo di conoscere che come modo di comunicare, rivendicando la legittimità scientifica all'ascolto della parola diretta degli individui coinvolti all'interno delle ricerche di stampo sociologico.
Luisa Stagi
In questo articolo si affrontano alcune riflessioni emerse da un'esperienza di sociologia visuale. In particolare, si tratta la questione di come il media possa modificare la costruzione, la gestione e la restituzione delle informazioni raccolte con le interviste. Nella costruzione del discorso, il dibattito intorno alla sociologia visuale è utilizzato soltanto in modo funzionale a esplicitare che cosa sia un film di ricerca e come si differenzi dal documentario, per arrivare quindi ad argomentare quanto la finalità della restituzione possa giustificare artifici nella costruzione dell'informazione, o, per dirla in altre parole, quanta ricostruzione-fiction sia possibile operare nella misura della spendibilità del sapere sociologico. Un'altra questione rilevante, tangente a questi aspetti, che si tematizza a partire dalle suggestioni di Becker, è quanto le competenze tecniche del ricercatore possano essere determinanti nel governare il processo di costruzione delle informazioni nelle interviste videoregistrate. La tesi sottesa a questo lavoro è che un tale percorso possa aumentare il controllo da parte degli attori sul processo di costruzione delle informazioni, poiché prevede una partecipazione all'auto-rappresentazione e, anche, che tale processo possa produrre un'auto-esplorazione degli intervistati -ciò che Bourdieu ha chiamato "auto analisi provocata e accompagnata" - che può concorrere ad aumentare la contestuale adeguatezza e pertinenza delle informazioni. Il rapporto tra: analisi narrativa e rappresentazione delle identità, narrazione e contesto, intervistatore e intervistati e, conseguentemente, tra empatia e partecipazione, sono le questioni chiave attorno alle quali sono state sviluppate le argomentazioni.
Lucia Coppola
Il contributo offre alcune riflessioni sul processo di analisi nell'approccio narrativo con particolare attenzione alle scelte analitiche che il ricercatore compie e alla opportunità di prendere visione del lavoro di interpretazione. La letteratura metodologica ci ha ampiamente informati della necessità di riflettere sulla complessità del processo di raccolta del materiale narrativo (storie di vita, biografie, interviste in profondità, diari, etc.) e della gestione dei contenuti informativi. Da più parti si richiamano le difficoltà relative all'interazione tra intervistato e intervistatore, alla elaborazione dei significati e, dunque, all'interpretazione delle testimonianze. Si focalizza l'attenzione sulla natura stipulativa del contesto d'intervista e sulle questioni che si pongono sul piano della produzione di conoscenza: la distanza tra la realtà vissuta, la realtà rappresentata attraverso il racconto e la realtà ricostruita dallo stesso ricercatore. In questa prospettiva il ricercatore assume un ruolo centrale non solo nel momento in cui si concretizza la narrazione, ma anche e soprattutto in fase di analisi. Ripercorrendo le questioni metodologiche che hanno caratterizzato il dibattito sulla ricerca qualitativa e sulla base di personali esperienze di ricerca, nel mio contributo pongo l'attenzione sulle questioni relative al processo che il ricercatore mette in atto nell'analisi del materiale narrativo, aprendo una riflessione sulle strategie di analisi, ovvero sul modo di manipolare i dati, di generare e applicare i concetti e di utilizzare le categorie analitiche impiegate per l'organizzazione e l'archiviazione dei materiali di ricerca.
Federico Batini - Giovanna Rech
Il tema dell'identità non sfugge a questa regola. Negli ultimi decenni la riflessione attorno all'identità ha conosciuto un forte sviluppo ed ha consentito lo snodarsi di un animato dibattito che, uscito dall'ambito specialistico della ricerca e dai congressi scientifici, ha coinvolto in modo prepotente media, politica e persino gli scambi quotidiani dei non addetti ai lavori. Probabilmente prima di costituire una questione importante per gli studiosi e quindi prima di interrogarla come categoria educativa, filosofica, psicologica, sociologica ed anche storica è sempre stato un aspetto fondamentale delle interazioni umane. A prescindere dalle speculazioni: la mia identità è il "chi sono" per chi mi sta di fronte e intorno a me, è il "chi sono" secondo me, e questi due aspetti stanno in profonda relazione e si influenzano reciprocamente. L'identità degli altri è un orizzonte e un limite per il mio modo di relazionarmi con loro e per costruire la mia percezione della mia identità personale e di quelle degli altri: questi scambi e queste costruzioni avvengono attraverso narrazioni esplicite e implicite. Con i contributi scelti da chi scrive, per rappresentare la sessione dedicata alla narrazione e all'identità, non ci si propone di fornire risposte ai tanti interrogativi che i soggetti, la società e la ricerca pongono a questo interessante binomio, ma si coltiva l'ambizione di generare nel lettore ulteriori domande per esplorare le identità ed il contributo delle narrazioni alla conoscenza, alla formazione, allo sviluppo ed al racconto delle stesse, sotto diversi punti di vista e al di là di frontiere disciplinari che si rivelano sempre più anguste per temi comprensivi come quello che qui affrontiamo.
Nicola Pannofino
L'obiettivo di questo articolo è l'analisi del ruolo ricoperto dalle narrazioni nella formazione dell'identità all'interno dei percorsi di conversione religiosa. Le storie rappresentano, sul piano metodologico, lo strumento privilegiato per accedere all'esperienza della conversione religiosa per mezzo di interviste che sollecitino il racconto biografico; il racconto di conversione acquista inoltre una valenza sostantiva in quanto è esso stesso parte integrante dell'esperienza di conversione. Imparare a dare la propria testimonianza personale è una competenza cruciale nel percorso religioso: se da un lato l'ideologia del gruppo diventa la storia del soggetto e ne forma la memoria e l'autobiografia, dall'altro le testimonianze pubbliche di fede consolidano l'impegno mediante un rinnovamento esistenziale e confermano al gruppo la validità dei propri metodi e della propria visione del mondo. La storia di conversione è, del resto, il medium tra il neofita e i membri del gruppo, essendo la modalità con cui i convertiti, resocontando la loro esperienza ai potenziali nuovi membri, mostrano il cambiamento e il miglioramento che la fede ha prodotto nella loro vita. La condivisione e lo scambio di storie personali permette di attestare e dar prova del cammino spirituale compiuto, e la partecipazione alle storie fondamentali condivise collettivamente rinsalda i legami e genera il senso di appartenenza del singolo alla comunità, condizione, questa, che favorisce lo sviluppo di una morale condivisa (Poulton 2005). Al membro è infatti richiesta l'adesione all'ethos del gruppo, vale a dire l'insieme delle credenze, delle attività, del linguaggio e delle altre forme simboliche in cui l'organizzazione si riconosce, costituendosi come "comunità morale" all'interno della quale i membri hanno la tendenza a interpretare e assegnare significati analoghi agli eventi del mondo, generando frame condivisi.
Ramona Bongelli - Ilaria Riccioni - Luciana Viggiano - Silvia Lo Bue - Andrzej Zuczkowski
Nel nostro Paese, come in molte altre democrazie occidentali, la politica negli ultimi decenni ha iniziato ad occupare spazi di intrattenimento televisivo cambiando il proprio volto e le proprie tecniche espressive. L'esaltazione di sé e la rivelazione di informazioni strettamente private e personali sono diventate un carattere dominante della comunicazione politica, soppiantando in parte la narrazione di fatti pubblici e l'impegno programmatico. In questo contributo presentiamo l'analisi qualitativa di un corpus di 18 discorsi mediatici pronunciati dall'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi tra il 2008 e il 2011. Nello specifico, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulle sequenze autonarrative, ossia sui frammenti discorsivi in cui l'ex Premier parla di sé (self presentation) e della sua vita privata (self disclosure), al fine di individuare i temi dominanti e le strategie comunicative impiegati. I risultati dell'analisi mostrano, sul piano della self-presentation, l'uso di una pluralità di immagini, tutte positivamente connotate, temporalmente costanti e riconducibili a qualità relazionali; sul piano della self-disclosure, una predilezione per la narrazione di eventi positivamente caratterizzati e di fatti volti a fornire prove della infondatezza delle accuse a lui rivolte da una parte del mondo politico e giudiziario italiano. Dal punto di vista delle strategie comunicative, si notano ripetuti shift dallo stile assertivo a quello offensivo.
Beatrice Gusmano - Barbara Poggio
Gli studi di genere rappresentano un terreno particolarmente fecondo per l’approccio narrativo nelle sue diverse articolazioni. L’interesse nei confronti delle narrazioni è in realtà già un elemento centrale e distintivo della letteratura femminista e dei women’s studies, prima ancora che degli studi di genere, e all’interno di questi filoni di studio sono in effetti emersi alcuni rilevanti spunti per il dibattito sulla conoscenza narrativa. L’attenzione per le narrazioni da parte di questo filone di studi nasce probabilmente dalla critica che la letteratura femminista sviluppa nei confronti del sapere razionale e di modelli epistemologici fondati sul paradigma dell’oggettività, che tendono a cancellare la dimensione esperienzale. Le metodologie femministe si sono infatti ben presto caratterizzate per l’attenzione rivolta alla problematizzazione dei processi di conoscenza e di conduzione della ricerca scientifica, di cui viene messa in evidenza la dimensione di costruzione sociale e quindi anche il carattere inevitabilmente gendered. La pretesa di separare l’oggetto e il soggetto della ricerca è stata interpretata alla luce di quello stesso ordine dicotomico, che distingue tra pubblico e privato e tra maschile e femminile, e secondo il quale le esperienze personali non sono scientifiche, in quanto associate all’ambito del privato e quindi, storicamente, anche del femminile. Su tale fondamento si sarebbe di fatto sostenuta l’egemonia della maschilità nel dominio della scienza. Il ricorso alle narrazioni è stato in tal senso inteso come un’opportunità per riconciliare queste diverse dimensioni, stimolando il dinamismo della produzione di conoscenza e generando nuove visioni alternative, capaci di superare vecchi preconcetti e dicotomie.
Elisa Bellè
Lo studio delle narrazioni di genere all'interno di questo tipo di organizzazione desta inoltre un particolare interesse anche in ragione della sottorappresentazione delle donne nella sfera della politica. Si tratta di un deficit democratico che coinvolge i sistemi politici moderni nel loro complesso, ma che interessa l'Italia con una particolare gravità ed evidenza. La questione della sottorappresentazione politica delle donne è stata sinora affrontata prevalentemente in termini tecnico-legali (politiche di pari opportunità ed azione positiva), o di teoria politica (la dicotomia pubblico-maschile e privato-femminile come fondamento del contratto sessuale della politica). Mancano invece contributi che guardino ai partiti come organizzazioni largamente responsabili dei processi di selezione e promozione delle carriere politiche, dunque come luoghi di quotidiana produzione di pratiche e culture di genere, più o meno egualitarie o, viceversa, discriminatorie. Sulla base di tale vuoto di ricerca e riflessione, il presente articolo si propone di mettere in luce le pratiche e le culture di genere che emergono dai racconti di uomini e donne all'interno di due organizzazioni partitiche, una di destra e una di sinistra, situate nel contesto territoriale della provincia di Trento. La ricerca è stata condotta attraverso lo strumento dell'intervista semi-strutturata, coinvolgendo quattro donne e quattro uomini, divisi per coppie di età (un uomo ed una donna giovani ed un uomo ed una donna da lungo presenti nel partito), accostabili per quanto concerne ruolo e posizione nelle organizzazioni partitiche considerate. L'attenzione analitica si è concentrata sulla costruzione del genere di uomini e donne intervistati/e, intesa sia come dimensione ed esperienza individuale (le storie di genere dei/lle singoli/e), sia come dimensione organizzativa più ampia (le storie di genere delle organizzazioni, narrate dalle diverse voci). Un'ulteriore dimensione analitica è rappresentata dall'intreccio tra la cultura politica più ampiamente intesa e la cultura di genere emersa dai racconti delle persone intervistate, nel tentativo di cogliere continuità e rotture, corrispondenze e conflitti tra i due piani.
Barbara Ongari - Francesca Tomasi
La centralità del processo narrativo per la crescita identitaria è stata ribadita da diversi teorici dello sviluppo. Negli anni la ricerca psicologica e clinica hanno dedicato una crescente attenzione all'analisi delle rappresentazioni mentali che gli adulti e i bambini hanno delle loro relazioni interpersonali, attraverso l'applicazione di strumenti standardizzati di tipo narrativo. Un numero considerevole di questi studi sono basati sulla teoria dell'attaccamento. Le narrazioni dei bambini di età prescolare, se analizzate con misure che rilevano le rappresentazioni dell'attaccamento, consentono una migliore comprensione del loro mondo interno, altrimenti difficile da comunicare mediante altri canali espressivi. Così, a partire dal terzo anno di vita, le rappresentazioni infantili rispetto alla qualità delle relazioni interpersonali e rispetto a se stessi come soggetti sociali possono essere esplorate utilizzando l'Attachment Story Completion Task. Si tratta di una procedura composta da un compito di completamento narrativo attraverso il gioco simbolico con i pupazzi, che viene proposta individualmente al/la bambino/a in una situazione strutturata di osservazione videoregistrata. L'esaminatore, attraverso la manipolazione di una famiglia di pupazzi, introduce cinque tematiche attivanti il sistema dell'attaccamento del/la bambino/a (il succo rovesciato, la ferita al ginocchio, il mostro nella stanza, la partenza dei genitori, la riunione) e gli/le chiede di concludere la storia attraverso la messa in scena. La codifica di ciascuna storia si basa sulla trascrizione integrale delle verbalizzazioni e dei comportamenti, comprese note relative all'espressione emotiva (posture, tono della voce, espressioni facciali e qualità della manipolazione dei pupazzi e dei materiali) e consente di ottenere un'analisi qualitativa della sicurezza di attaccamento e delle performance narrative. Diversi Autori hanno rilevato significative differenze di genere nell'ASCT ed è iniziato un dibattito in chiave cross-culturale. Il presente contributo intende proporre un'analisi qualitativa delle narrazioni (ASCT) di 107 bambini ambosessi (M=69; F=38), di età compresa tra 3,10 e 5,10 anni, frequentanti le scuole dell'infanzia del territorio trentino. Discuteremo i risultati ottenuti in termini di sicurezza di attaccamento, di modalità emotiva ed atteggiamenti evidenziati nella co-costruzione delle storie, con un focus specifico rispetto alle differenze di genere.
Giulia Maria Cavaletto - Manuela Olagnero
Possiamo molto schematicamente ricordare la rilevanza di almeno due diverse declinazioni del rapporto narrativo tra generazioni, l'una genealogico-familiare in cui le esperienze delle diverse generazioni si intrecciano e si integrano, l'altra "individuale riflessiva" in cui ciascuna generazione fa capo a se stessa e alle esperienze non trasferibili che l'hanno segnata e da cui ha essa stessa appreso qualcosa di sè. Il primo tipo di narrazione presuppone che occorra studiare l'intreccio delle storie di cui sono portatrici le generazioni familiari per ricostruire le mappe mentali e le condizioni soggettive e oggettive che presiedono alla scelta dei diversi percorsi di vita da parte dei componenti di ciascuna generazione. La seconda prospettiva si ambienta in un diverso scenario che possiamo definire, con Lyotard di "crisi delle grandi narrazioni", intendendo con questa espressione non soltanto il crollo delle grandi ideologie ma la perdita stessa della capacità, individuale e sociale, di generare senso. Paradossalmente questa crisi, se ha da una parte sminuito il valore delle narrazioni, dall'altro ha condotto a una rivalutazione dell'esperienza individuale del narrare e del narrarsi. Le narrazioni diventano il mezzo attraverso il quale "costruire un intreccio che permette al soggetto di raffigurarsi lo svolgimento della vita nel tempo e dunque, in certa misura, di padroneggiare quest'ultimo". Questo secondo tipo di narrazione non ha una platea cui trasferire insegnamenti e anticipazioni di esperienze: è anzi eminentemente "riflessiva", porta esperienze da elaborare in termini di identità del presente, e altresì comporta, come nel caso di anziani o adulti, revisioni autocritiche del passato.. La narrazione in quanto orientata alla costituzione e alla stabilizzazione dell'identità, modifica anche, retrospettivamente, la percezione della capacità di affrontamento delle sfide incontrate nella propria storia.
Silvia Randino - Francesca Rascazzo
Il lavoro di cui si rende conto nel presente articolo è parte del progetto di ricerca "Second generations: migration processes and mechanisms of integration among foreigners and Italians (1950-2010)", finanziato dalla Regione Piemonte e a cui partecipa l'Associazione Gruppo Abele Onlus. Il Centro studi del Gruppo Abele, insieme al Piano Giovani (attività dell'Associazione che lavora in contesti educativi formali ed informali), partecipa alla ricerca focalizzando l'attenzione sulla migrazione d'origine straniera degli ultimi anni, in particolare sulle seconde generazioni. Interlocutori principali sono, infatti, i ragazzi immigrati e figli della migrazione intercettati attraverso le attività di educativa di strada proposte dagli educatori e mediatori culturali del Gruppo Abele in alcuni giardini pubblici della città di Torino. Il nostro obiettivo specifico è quello di provare a ricostruire i percorsi e i progetti di vita, le carriere scolastiche, lavorative, familiari e sociali dei ragazzi che hanno vissuto un'esperienza di migrazione (direttamente o della propria famiglia), prestando attenzione ai fattori che influenzano le traiettorie dei ragazzi e delle ragazze incontrati.
Caterina Satta
A partire da alcune esperienze etnografiche di ricerca con bambini e bambine, questo intervento mira ad indagare in chiave metodologica il tema dei ricordi d'infanzia del ricercatore coinvolto in ricerche empiriche con bambini, analizzando riflessivamente il ruolo giocato da pezzi della sua personale autobiografia nella comprensione dell'infanzia. Se l'attenzione all'aspetto autobiografico è sicuramente cresciuta in tutte le ricerche che adottano metodologie di analisi qualitative, la questione si fa ancora più delicata nel caso di ricerche etnografiche che riguardano i bambini. Non solo per le rappresentazioni sull'infanzia diffuse sia nel senso comune sia in quello più tradizionale delle scienze sociali - ancora non pienamente coinvolte, specialmente in Italia, dal cambiamento di paradigma introdotto dall'approccio della new childhood sociology - ma più specificamente perché, come ben sottolinea Philo, anche il ricercatore è stato nel passato un bambino. Ciò che interessa qui sottolineare è proprio il coinvolgimento del ricercatore che non solo con le sue conoscenze ma con la sua stessa esperienza di vita accede al mondo dei bambini. Il ricordo della propria condizione durante l'infanzia può creare "frammenti di connessione" tra il ricercatore e i bambini, facendo leva sul senso di comunanza dell'aver vissuto quella fase ma senza per questo affermarne una coincidenza e negare le differenze temporali e spaziali esistenti tra le diverse infanzie. Può altresì generare l'effetto opposto, di mitizzazione dell'infanzia del passato e di sradicamento dell'esperienza specificadei bambini dai loro contesti di vita quotidiana.