
Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012
QUANDO LE STORIE FUNZIONANO: SIMBOLIZZAZIONE DEL SÉ NELLE NARRAZIONI DI CONVERSIONE RELIGIOSA
Nicola Pannofino
nicolaluciano.pannofino@unito.it
Dottore di ricerca in Ricerca Sociale Comparata presso il dipartimento
di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Torino, è cultore della
materia in Linguaggio e comunicazione e insegna Metodi qualitativi all’Università
di Torino.
1. Conversione, racconto e organizzazione
Questo articolo intende analizzare il fenomeno della conversione inteso
come percorso biografico di adesione alla proposta di un gruppo religioso
compiuto per mezzo e con il concorso delle storie. Il carattere narrativo
della conversione religiosa è pervasivo. Innanzitutto, la conversione
è un’esperienza personale di cambiamento, una metanoia, marcata da un
episodio di rottura e innovazione nella vita di un soggetto rappresentato
dall’incontro con il sacro (Chagnon 1988), e dal quale si ingenera il
senso di una “rinascita”, ovvero della formazione di un nuovo sé distinto,
quando non contrapposto, al vecchio sé e alla identità che precede il
momento della conversione (James 1902). Due opposti paradigmi declinano
questo incontro spirituale, da un lato come evento subitaneo e puntuale,
alla stregua del modello cristiano classico della folgorazione mistica
di Paolo sulla via di Damasco (Kilbourne e Richardson 1989), dall’altro
come processo graduale, ovvero come passaggio biografico (Austin-Broos
2003) composto di tappe che si succedono nel tempo (Lofland e Stark 1965;
Downton 1980; Tippett 1992; Rambo e Farhadian 1999). Questi due approcci
profilano due corrispettivi e distinti attori sociali: nel primo caso
si ha un soggetto credente che passivamente recepisce e accoglie un accadimento
esterno, nel secondo caso il soggetto si mostra come seeker, attivamente
impegnato in una ricerca con la quale sceglie intenzionalmente l’opzione
spirituale cui aderire (Richardson 1985), tracciando così un itinerario
biografico, una carriera (Richardson 1980; Gooren 2007). Entrambi i modi
di intendere la conversione sono anche possibilità a disposizione dei
soggetti convertiti per rappresentare discorsivamente la propria storia.
Ciò che accomuna i due paradigmi, tuttavia, è l’attenzione posta verso
l’episodio centrale che produce il cambiamento: questo episodio costituisce
il turning point, l’evento che marca la discontinuità tra la fase biografica
precedente e successiva; questa è anche una costante che si ritrova invariabilmente
nelle storie di conversione, tipicamente strutturate secondo uno schema
prima-dopo (Hervieu-Léger 2003): la distinzione tra il “prima” e il “dopo”,
che ad un iniziale livello segnala una discontinuità sul piano temporale,
acquista rilievo nella misura in cui configura una vera e propria opposizione
assiologica tra i valori che orientano l’identità precedente e quelli
che orientano la nuova identità a seguito dell’atto di conversione (Pannofino
2008). L’incidenza e le ricadute del turning point sul percorso biografico
possono variare, peraltro, in gradi di maggiore o minore intensità, comportando
ora una radicale ora una debole ristrutturazione della percezione e definizione
di sé, e delle credenze fondamentali di un individuo (Gordon 1974; Pilarzyk
1978; Balch 1980; Travisano 1980).
Le trame delle storie di conversione pongono al centro il topos del cambiamento
personale: queste trame ricalcano le forme narrative messe in campo dal
gruppo religioso a cui il convertito appartiene; una storia personale
di conversione, per essere compresa, deve dunque essere ricondotta alla
cultura e alla prospettiva dell’organizzazione religiosa in cui il narratore
si colloca a titolo di membro convertito (Beckford 1978): è l’organizzazione
di riferimento, infatti, a fornire le risorse simboliche, le categorie
e gli schemi concettuali, e le trame legittime ai propri appartenenti
(Snow e Machalek 1983, 1984).
L’attenzione verso la produzione delle storie di conversione da parte
dei singoli individui porta così a prendere in considerazione il livello
propriamente organizzativo. Se per un verso le narrazioni di conversione
tematizzano la vicenda personale dell’individuo, per l’altro esse rispecchiano
l’orientamento ideologico del gruppo di appartenenza (Preston 1981): il
modo in cui il convertito resoconta e reinterpreta il proprio percorso
spirituale è il risultato congiunto del progressivo raggiungimento di
una convinzione cognitiva e del lavoro organizzativo del gruppo sui suoi
membri (Beckford 1978). Le modalità della conversione sono dunque da riferire
non solo alla biografia del singolo soggetto e alla sua disponibilità
ad aderire all’ideologia di un gruppo, ma anche alle forme di impegno
richieste dall’organizzazione stessa (Heirich 1977).
La centralità del tema del cambiamento, presente nelle storie personali
di conversione, discende dalla rilevanza che esso ricopre nella cultura
dei gruppi religiosi. Richiamando la nozione di Greil e Rudy (1984), i
gruppi religiosi possono essere visti come identity transformation organizations,
cioè come organizzazioni che promuovono una modificazione, una conversione,
della concezione di sé da parte dei loro membri: la conversione è quindi
non solo un prerequisito per l’accesso e l’appartenenza all’interno del
gruppo, ma anche l’obiettivo primario perseguito dalle organizzazioni
religiose. Secondo Pratt (2000) questo obiettivo si realizza attraverso
un processo di identificazione che ricorre alle due operazioni, complementari
e reiterate nel tempo, di sensebreaking e sensegiving. La prima, il sensebreaking,
producendo una rottura e una messa in crisi dell’identità personale, crea
le condizioni per la ricostruzione di una nuova immagine del sé, conforme
ai significati e ai modelli ideali forniti dall’organizzazione mediante
il sensegiving. L’identificazione con il gruppo comporta l’assunzione,
da parte dei singoli convertiti, dell’identità organizzativa di membro,
cui si associa un insieme delimitato e caratteristico di disposizioni
di carattere cognitivo, affettivo e pragmatico (Ashforth, Harrison e Corley
2008), ovvero un habitus (Bourdieu 1980) in cui le pratiche del gruppo
sono incorporate e generano un nuovo sé morale (Winchester 2008). In base
all’ipotesi da cui muove il presente lavoro, i percorsi di conversione
sono da porre in relazione all’attività narrativa delle e nelle organizzazioni:
è per mezzo delle storie, infatti, che le organizzazioni rendono possibile
sia l’identificazione dei membri con il gruppo sia la condivisione del
progetto di cambiamento e trasformazione del sé da questi promosso come
condizione per l’appartenenza.
Quanto detto fin qui costituisce il quadro teorico di riferimento per
l’analisi ravvicinata del ruolo delle narrazioni rispetto all’esperienza
di conversione all’interno di una specifica organizzazione religiosa,
la Chiesa mormone torinese.
2. Il caso empirico e il metodo
Il caso empirico oggetto di studio di questo articolo è costituito dalla
Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni [1],
presente nell’area metropolitana di Torino. I dati sono stati raccolti
nel corso di una ricerca etnografica condotta tra il 2007 e il 2009 avente
come obiettivi lo studio dei percorsi biografici di conversione e le strategie
di proselitismo, e si è avvalsa dell’impiego di tre tecniche qualitative:
l’osservazione partecipante, l’intervista discorsiva e l’analisi documentale.
Osservazione partecipante. L’osservazione partecipante
si è svolta in due distinti momenti, ricorrendo a due diverse forme di
partecipazione. Durante il primo periodo del lavoro sul campo, che ha
avuto luogo tra il 2007 e il 2008 nella Chiesa mormone di Collegno (in
provincia di Torino), ho svolto un’osservazione partecipante scoperta,
dichiarando fin da subito gli intenti della ricerca: in questo modo è
stato possibile condurre la campagna delle interviste discorsive con l’intento
di indagare le biografie di conversione; la seconda fase dell’osservazione
partecipante, realizzata nel 2009 nella Chiesa mormone a Torino, ha avuto
una forma coperta: questo cambiamento della forma partecipativa ha trovato
la sua possibilità nelle mutate condizioni della ricerca, sia temporali
sia spaziali, che mi hanno dato l’opportunità di stabilire nuovi contatti
con una parte della popolazione oggetto di studio differente da quella
con cui ero entrato in rapporto l’anno precedente. In questa seconda fase
del lavoro etnografico, le ragioni della copertura consistevano nel differente
oggetto di osservazione, costituito ora dalle modalità di evangelizzazione
e dalle strategie di proselitismo messe in atto dai missionari; l’osservazione
coperta ha permesso di ricoprire il ruolo di membro (Cardano 2003) e di
effettuare il normale percorso di avvicinamento seguito dai neofiti della
Chiesa.
Interviste discorsive. Sono state condotte 10
interviste discorsive semistrutturate, selezionando i nominativi degli
intervistati mediante un campionamento a valanga, a partire dalle iniziali
indicazioni fornite dalla coppia di missionari con cui sono entrato in
contatto nella fase di ingresso e, successivamente, dai primi due intervistati:
seppur in forme diverse, questi soggetti hanno svolto la funzione di informatori
qualificati in ragione degli incarichi istituzionali da loro ricoperti:
la loro rete di conoscenze personali ha facilitato l’individuazione di
nuovi soggetti da contattare per le interviste con un profilo adeguato
ai fini della ricerca, aspetto questo in genere delicato per l’avvio del
processo in questo tipo di campionamento (Biernacki e Waldorf 1981; Brace-Govan
2004). Le interviste si sono svolte durante la prima fase del lavoro sul
campo, in parallelo all’osservazione partecipante scoperta. Il criterio
principale di selezione è consistito nella cogenza della conversione:
in ragione di questo sono stati individuati membri che avessero ricevuto
il battesimo, come segno rituale e ufficiale della conversione e dell’appartenenza
alla Chiesa; inoltre sono stati considerati gli anni trascorsi dall’ingresso,
prediligendo quindi, tra i nominativi disponibili, quelli di soggetti
con una più lunga militanza nel gruppo. Le interviste seguono una traccia
volta alla ricostruzione del percorso biografico; questo percorso è suddiviso
in tre fasi principali, ovvero: la fase riferita all’incontro e all’ingresso
nella Chiesa (il turning point), la fase che precede (il prima) e quella
che segue (il dopo) il momento di ingresso e adesione. Le interviste sono
state registrate e successivamente trascritte integralmente.
Analisi documentale. I dati ottenuti con le
prime due tecniche sono stati integrati con la raccolta e analisi di documenti
naturali. In particolar modo si sono presi in considerazione i testi sacri
e le pubblicazioni (soprattutto volantini e materiale informativo) prodotti
o utilizzati dal gruppo nella comunicazione verso l’esterno.
3. Le storie ai confini dell’organizzazione
Le forme di impegno e le modalità di appartenenza sono oggetto della comunicazione
che l’organizzazione appronta non solo all’interno dei propri confini,
ma anche verso l’esterno attraverso il proselitismo. In quanto attività
strategica fondamentale (Pitchford et al. 2001), il proselitismo è attuato
dai gruppi religiosi con fini persuasivi per il reclutamento di nuovi
membri, mediante l’articolazione delle fasi di avvicinamento e contatto,
mantenimento del legame, e assimilazione del neofita al gruppo (Bibby
e Brinkerhoff 1974). Nella Chiesa mormone, l’incarico di predicare il
messaggio religioso è affidato ai missionari, detti “anziani”. A Torino
e in Italia i missionari sono prevalentemente di provenienza americana,
specialmente statunitense (a livello nazionale, operano attualmente circa
600 missionari). Il luogo in cui è più facile incontrare gli anziani missionari
è per strada. Girano in coppia, vestiti elegantemente in giacca e cravatta,
sono riconoscibili per un cartellino che portano sulla giacca recante
la dicitura “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni”, oltre
al proprio cognome preceduto dal titolo di “anziano”. La città di Torino
è amministrativamente suddivisa dalla Chiesa in tre zone, dette “rioni”,
ciascuna delle quali conta due missionari [2].
Prima di partire per svolgere la missione, gli anziani vengono addestrati
in centri di formazione specializzati (situati in Europa e in America),
chiamati Missionary Training Center, il cui programma di insegnamento
comprende corsi intensivi della lingua del paese nel quale sono chiamati
a operare, oltre allo studio e all’insegnamento dei testi sacri. Il carattere
metodico e sistematico delle forme di proselitismo adottate dalla Chiesa
mormone è chiaramente esemplificato dall’articolo How to Share the Gospel:
A Step-by-step Approach for You and Your Neighbors, comparso sulla rivista
mormone “Ensign” nel giugno 1974 a firma di Ernest Eberhard, presidente
della missione nell’Oregon, chiaro esempio della ricerca, da parte dei
missionari mormoni, di instaurare relazioni personali e dirette con i
potenziali nuovi membri (Stark e Bainbridge 1980). Si tratta di un insieme
di istruzioni e suggerimenti, che fungono da copioni rivolti ai missionari,
riguardo il modo di condurre l’attività di evangelizzazione. Il presupposto,
esplicitato all’inizio del testo, illustra con chiarezza l’anelito proselitistico
della Chiesa mormone, secondo la quale ogni membro è un missionario («every
member a missionary») e come tale è spinto a impegnarsi in prima persona
nella predicazione del messaggio e nel reclutamento di nuovi membri [3].
In termini operativi, si consiglia al fedele di instaurare relazioni non
soltanto con altri mormoni ma anche con persone che non sono membri della
Chiesa, a partire dai propri vicini di casa; stabilito il contatto con
i non-membri, sviluppare un rapporto fiduciario e amichevole, mostrandosi
persone altruiste e rispettabili e, possibilmente, passando del tempo
libero insieme; rivelare progressivamente di essere un mormone, fornendo
materiale da leggere sulla Chiesa; invitarlo alle “serate familiari” a
casa propria; successivamente, invitarlo agli incontri domenicali che
si tengono in Chiesa; riportare la propria testimonianza di fede; porre
le “domande d’oro” (golden questions), le cui principali sono: (a) «Se
tu sapessi che Dio ha restaurato la sua vera Chiesa di nuovo su questa
terra, saresti interessati a saperne di più?» (b) «Se Gesù ha fondato,
quand’era in vita, una sola Chiesa, perché attualmente ce ne sono così
tante?» (c) «Se tu sapessi che c’è un profeta vivente ora sulla terra,
non vorresti saperne qualcosa?» (d) «Hai mai sentito parlare del Libro
di Mormon?» e «Ti interessa sapere perché questo libro viene letto nella
Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni?». Insieme a queste
domande, si suggerisce inoltre di presentare alcune delle attività della
Chiesa che possono essere di interesse per il proselito (ad esempio: la
ricerca genealogica, i programmi rivolti ai giovani ecc.); se si riscontra
un interesse da parte del proselito, fissare un incontro di approfondimento
per parlare della Chiesa e della fede mormone.
Se da un lato l’esistenza dei Missionary Training Center consente di formare
i giovani membri che si recano in missione, dall’altra le istruzioni fornite
dal testo di Eberhard lasciano supporre che, al di là del ruolo formale
del missionario, ogni membro non può esimersi dall’impegno di evangelizzazione.
In entrambi i casi, perciò, ciò che emerge è la sistematicità della tecnica
di reclutamento, la cui pianificazione metodica e razionale si estende
anche alle forme di proselitismo autoiniziato dai membri semplici (Rochford
1982). Ciò è compendiato da due asserzioni presenti nell’articolo in questione,
secondo cui ogni membro è responsabile del lavoro missionario («the responsibility
to do missionary work rests with every member of the Church») e tutte
le organizzazioni e programmi della Chiesa dovrebbero impegnarsi nel proselitismo
(«all organizations and programs of the Church should utilize their capacities
for proselyting»).
La principale modalità per il primo contatto da parte della Chiesa mormone
è dunque quella offerta dall’evangelizzazione che avviene in strada o
porta-a-porta. È questa un’attività il cui esito è incerto: come segnalatomi
dai missionari, sono poche le persone che si fermano in strada e ancora
meno quelle che poi si recano in Chiesa. Inoltre i missionari mormoni
lamentano di essere di norma scambiati per Testimoni di Geova, ciò che
pregiudicherebbe l’avvicinamento dei nuovi membri o renderebbe comunque
più complicata la presentazione della propria identità mormone. Il proselitismo
è compiuto sia in modo itinerante, spostandosi per le vie della città,
sia posizionandosi in punti di alta visibilità: a questo proposito i missionari,
ogni domenica pomeriggio, si fermano in via Garibaldi a Torino predicando
e regalando copie del Libro di Mormon o altro materiale informativo ai
passanti interessati. I temi su cui i missionari puntano maggiormente
sono gli stessi già indicati nelle golden questions del manuale di istruzioni
di Eberhard; in particolare, il punto qualificante riguarda l’autorità
profetica del fondatore Joseph Smith e la credenza nel “piano di salvezza”
preparato da Dio per l’umanità. Il piano salvifico resta un sicuro caposaldo
nell’insegnamento mormone, capace di fornire risposte rassicuranti sul
destino dell’uomo. L’anziano M*** mi ha più volte ribadito quanto coloro
che sono fermati in strada siano di solito colpiti dalla preparazione
dei missionari in merito a questa storia. In sostanza l’approccio dei
missionari nella fase del primo contatto è orientato con netta preferenza
al piano dottrinario e ideologico.
Dal punto di vista delle fasi della sequenza proselitistica, durante la
mia etnografia ho potuto notare che se il primo contatto ha un buon esito
e il soggetto contattato si mostra potenzialmente interessato a proseguire
in un secondo tempo il rapporto, i missionari avanzano, coerentemente
con le istruzioni discusse sopra, due tipi di proposta: l’invito ad approfondire
il messaggio dottrinale, con particolare riferimento al principale testo
sacro, il Libro di Mormon, attraverso un ciclo di (almeno) tre incontri
con gli stessi missionari; a questo si aggiunge l’invito a prendere parte
a un incontro domenicale durante il quale si riunisce l’intera comunità
dei fedeli. Il ciclo dei tre incontri tenuto dai missionari è il momento
riconducibile alla fase del collegamento (Bibby e Brinkerhoff 1974): è
qui infatti che gli anziani hanno modo sia di presentare in maniera più
approfondita l’ideologia del proprio gruppo sia di instaurare una relazione
più continuativa con il neofita; i missionari che hanno stabilito il primo
contatto e condotto il ciclo delle tre lezioni si fanno carico, qualora
il nuovo arrivato accettasse di partecipare agli incontri domenicali,
di introdurlo all’interno della comunità e rendere possibile la conoscenza
diretta degli altri membri.
I missionari con cui ho preso il primo contatto e con cui ho successivamente
avuto il ciclo di incontri hanno ricoperto, infatti, il ruolo di intermediari
tra me e la comunità, invitandomi alle riunioni della domenica [4]
e, una volta lì, mi hanno guidato tra gli spazi e le attività svolte all’interno
e all’esterno della chiesa [5]. Nel
corso del periodo di osservazione partecipante ho seguito due cicli di
incontri di presentazione e approfondimento, che si sono svolti, a cadenza
settimanale e della durata di circa un’ora ciascuno, in due sedi della
Chiesa, a Collegno e a Torino in via Vespucci. In entrambi i casi il tema
che ha fatto da filo conduttore degli incontri è stato l’esposizione del
“piano di salvezza”, cioè la narrazione della creazione dell’uomo e del
suo destino escatologico dopo la morte nel regno paradisiaco. Nel secondo
incontro, oltre al racconto del piano di salvezza i missionari mi hanno
proposto la visione di un video di circa 15 minuti, utilizzato come introduzione,
più che alla religione mormone in senso stretto, al valore della fede
nella vita. A questo riguardo, infatti, il video ruota attorno alla domanda
sullo scopo dell’esistenza e, pur senza illustrare la dottrina mormone,
predispone l’ascoltatore a interrogarsi in chiave religiosa e ad accettare
l’idea dell’esistenza di Dio. Va da sé che la credenza nell’esistenza
di Dio è un presupposto indispensabile per l’accettazione della fede mormone.
Un ulteriore canale di proselitismo è dato dai corsi gratuiti di inglese
che si svolgono nei locali della Chiesa tenuti dagli anziani missionari
madrelingua. Ho frequentato circa dieci lezioni durante la mia etnografia.
Le lezioni, in orario preserale (di solito dalle 19 alle 20), hanno cadenza
settimanale e prevedono due classi, una di grammatica e l’altra di conversazione.
La componente religiosa non è sempre e direttamente chiamata in causa,
restando piuttosto sullo sfondo; nondimeno il contesto in cui gli appuntamenti
hanno luogo e le preghiere recitate dai missionari (vestiti nel solito
modo, con giacca e cravatta e cartellino identificativo) a inizio e chiusura
delle lezioni sono uno spunto per gli studenti a porre domande sulla Chiesa.
In alcune serate i missionari hanno invece riservato momenti, in coda
alle lezioni, per parlare in modo esplicito della fede mormone. Quando
questo è successo, il tema centrale è stato nuovamente il racconto del
piano di salvezza. È importante sottolineare che il corso di inglese,
sebbene sia rivolto a chiunque, è frequentato prevalentemente da persone
che non fanno parte della Chiesa; questo rimarca come le lezioni di lingua
siano senz’altro un canale di contatto privilegiato con i potenziali nuovi
membri che, a differenza dell’evangelizzazione in strada, può svolgersi
all’interno dei locali della chiesa. Come del resto dichiarano gli stessi
anziani, il corso d'inglese serve al duplice scopo di offrire un servizio
e prendere contatto con nuove persone.
4. Le storie esemplari
Come osserva Linde (2001), all’interno delle organizzazioni circolano
due generi principali di storie, quelle paradigmatiche e quelle personali.
Se le prime consistono nelle narrazioni e nei discorsi ufficiali e istituzionali,
le seconde, al contrario, hanno come oggetto le vicende biografiche dei
singoli membri e possono avere un carattere confidenziale o privato. Le
storie paradigmatiche, in virtù della loro valenza normativa, offrono
modelli standard a cui le storie personali tendono a conformarsi. Sono
basate su trame tipiche e ricorrenti volte alla valorizzazione degli aspetti
distintivi che differenziano e rendono peculiare l’organizzazione rispetto
a tutte le altre organizzazioni che operano in un medesimo campo (Martin
et al. 1983): questa trama, spesso attinente al «mito di fondazione»,
racconta le origini dell’organizzazione e la biografia degli eroi, cioè
i membri storici di rilievo, presentandoli come modelli antropologici
ideali per gli altri membri, in quanto rappresentanti dei valori portanti
dell’organizzazione.
Da quanto emerso durante l’osservazione partecipante, il “piano di salvezza”
rappresenta la storia per eccellenza, paradigmatica, della fede mormone,
in cui si ritrovano alcuni tra i più importanti insegnamenti dottrinari
della Chiesa. La storia del piano di salvezza è suddivisa in tre parti:
nella prima si racconta l’origine celeste degli uomini, considerati figli
di genitori spirituali avuti prima di incarnarsi sulla terra; la seconda
concerne la vita terrena, quella in cui si ha la possibilità di accogliere
il messaggio salvifico; la terza, infine, tratta del destino dopo la morte
e della composizione dei regni ultraterreni [6].
Il racconto del piano di salvezza voluto da Dio, disegnando la cornice
interpretativa con cui leggere la realtà mondana ed extramondana, traccia
al contempo l’itinerario di redenzione per il fedele mormone. Questa storia
è narrata, come si è detto sopra, nel corso degli incontri introduttivi
che sono predisposti per il neofita. Essi prevedono la partecipazione
del nuovo membro e dei due anziani missionari che hanno stabilito il primo
contatto; dopo una preghiera di apertura, gli anziani interpellano il
neofita, incoraggiandolo a porre domande e a esprimere le proprie curiosità
in merito alla Chiesa; dopodiché si introduce il tema che, al secondo
e terzo incontro, consiste nel racconto vero e proprio del piano di salvezza,
facendo costantemente riferimento alla Bibbia e al Libro di Mormon, da
cui si leggono insieme alcuni passi da commentare e che offrono spunti
per comunicare al neofita gli elementi-chiave della dottrina.
Convertirsi alla fede mormone significa accettare la storia del piano
di salvezza. Questa, in effetti, costituisce lo sfondo sul quale si collocano
e dal quale attingono significato tutte le altre narrazioni sacre e ufficiali
della Chiesa. L’adesione a questa storia comporta, da un lato, che il
fedele sia disponibile a credere nella sua verità e, dall’altro, che si
riconosca come destinatario del piano salvifico di Dio. Queste due condizioni
sono basilari perché avvengano i processi di identificazione e di conversione.
Vediamo più nel dettaglio questo punto.
Linde (2000) ritiene che i membri di un gruppo facciano ricorso all’insieme
preesistente di storie organizzative al fine di costruire e comunicare
la propria storia personale; in tal modo riproducono la memoria collettiva
e inducono i nuovi membri a prendervi parte. Questo processo di assimilazione
alle narrazioni e alla memoria del gruppo avviene in tre fasi: (a) innanzitutto,
il soggetto assume la storia di qualche altro membro come rilevante e
centrale per la sua stessa storia; (b) in secondo luogo, la narrazione
della sua storia personale tende ad adeguarsi ai modelli offerti dalle
storie preesistenti; (c) infine, questa storia personale viene interpretata
come istanza di una norma generale. Per Linde, la composizione delle tre
fasi qui enunciate descrive come un gruppo sociale acquisisca i nuovi
membri e come i nuovi membri, dal canto loro, acquisiscano la nuova identità
organizzativa. Una storia personale può valere come istanza di una norma
a carattere generale, nella misura in cui essa svolga la funzione di exemplum.
Nella letteratura religiosa medievale, soprattutto risalente al XII e
XIII secolo, l’exemplum è la storia moraleggiante ed edificante usata
dai predicatori al fine di riportare un episodio degno di nota e quindi
da imitare o evitare; consiste in un racconto breve relativo a un episodio
in cui si illustra, in forma di narrazione, un insegnamento morale e dottrinale.
L’exemplum si caratterizza per la sua funzione retorica (Perelman e Olbrechts-Tyteca
1958); già Quintiliano nella Institutio Oratoria lo definisce una narrazione
addotta come dimostrazione. La sua struttura prevede infatti un nucleo
dottrinale, ovvero la tesi morale da dimostrare e sostenere, e il racconto
dell’evento oggetto della narrazione: l’intento persuasivo consiste nel
richiamare un episodio del passato riferendolo a una situazione attuale
a cui può essere adattato. In questo senso, l’esempio impiega la figura
retorica della similitudo, in quanto istituisce un paragone fra due distinte
situazioni sociali (Kemmler 1984)
L’exemplum costituisce un caso eloquente all’interno del genere delle
storie paradigmatiche. L’adozione dell’exemplum, come modello di riferimento
capace di orientare normativamente il percorso di conversione, richiede
una lettura in chiave figurata dell’aneddoto riportato nel racconto esemplare.
Nella terminologia di Propp (2000), i personaggi degli exempla corrispondono
alla nozione di “attanti”, cioè personaggi considerati in rapporto alla
funzione e ruolo che ricoprono nella trama di un racconto: in ragione
di ciò, questi personaggi equivalgono a tipi (o prototipi) che rappresentano
simbolicamente modi di essere e modi di agire valutabili sul piano morale
(von Moos 2005). Quindi, sebbene l’exemplum sia un racconto circostanziato
relativo a una specifica vicenda o episodio, ciascun membro dell’organizzazione
può far propria la storia esemplare, ricontestualizzandone lo schema soggiacente
in rapporto alle sue personali circostanze di vita. L’exemplum perciò
fornisce lo schema normativo generale (Wertsch 2004) valido per i singoli
membri. Nel racconto esemplare sono comunicati i simboli religiosi attorno
cui ruota la cultura dell’organizzazione; questi simboli si presentano
come “oggetti di valore” (Greimas 1984), ovvero come gli obiettivi verso
cui tende l’agire dei personaggi nella narrazione, coincidenti con gli
obiettivi dell’agire dei membri e su cui questi devono operare un investimento
valoriale. L’acquisizione dello schema normativo alla base delle storie
paradigmatiche, in altre parole, comporta una identificazione dei convertiti
con i personaggi-tipo che compaiono negli exempla, traducendo gli oggetti
di valore narrativi nei propri fini pratici. Questa operazione si attua
mediante un processo inferenziale induttivo. Al riguardo, Aristotele negli
Analitici Primi [69a 15] asserisce che l’esempio consente il passaggio
dal caso singolo al caso singolo, con la conclusione implicita che consiste
in una generalizzazione dal caso singolo al tutto. La generalizzazione
cui si perviene per induzione fa dell’exemplum un’istanza di una norma
generale, come indicato da Linde (2000).
Nell’ambito delle narrazioni della Chiesa mormone, le letture che sono
proposte ai neofiti durante il primo contatto e il ciclo delle lezioni
introduttive consentono ampie digressioni narrative basate, precisamente,
su exempla, il primo fra i quali è la biografia di Joseph Smith, fondatore
della Chiesa mormone, considerato profeta dai fedeli. La storia del fondatore
fornisce lo schema narrativo standard che si ritrova di consueto nelle
storie personali dei singoli membri. L’elemento forse più ricorrente è
quello che si riferisce a uno degli episodi decisivi nella vita religiosa
di Joseph Smith, contenuto in uno dei libri canonici, la Perla di gran
prezzo. Il futuro fondatore della religione mormone, turbato e disorientato
dal proliferare di correnti e gruppi cristiani eterogenei nell’America
del primo XIX secolo, decide di rivolgersi in preghiera a Dio per decidere
a quale chiesa potersi unire. L’episodio concerne il racconto della cosiddetta
“prima visione”, occorsa nella vita del profeta all’età di 14 anni. Come
riporta lo stesso Smith:
«Io mi dicevo spesso: che cosa devo fare? Quale di tutti questi gruppi
ha ragione? O hanno tutti torto? E se uno di essi ha ragione, qual è,
e come posso saperlo? Mentre ero travagliato dalle estreme difficoltà
causate dalle controversie di questi gruppi religiosi, stavo un giorno
leggendo l’epistola di Giacomo, primo capitolo, quinto versetto, che dice:
“Che se alcuno di voi manca di sapienza, la chiegga [sic] a Dio che dona
a tutti liberamente senza rinfacciare, e gli sarà donata. Giammai alcun
passo delle Scritture venne con più potenza nel cuore di un uomo di quanto
fece allora nel mio […] Alla fine giunsi alla determinazione di ‘chiedere
a Dio’, concludendo che se Egli dava la sapienza a coloro che mancavano
di sapienza, e avrebbe dato liberamente e senza rinfacciare, potevo tentare”».
La condizione di crisi spirituale e la domanda che Joseph Smith rivolge
a Dio forniscono il paradigma del modus operandi del fedele mormone che
ciascun membro della Chiesa è invitato a seguire durante il percorso di
conversione. Questo aneddoto comunica, in forma narrativa, l’esortazione
contenuta nell’Introduzione del Libro di Mormon, consistente nel rivolgersi
in preghiera a Dio per ottenere una risposta circa la verità della dottrina:
«Invitiamo tutti gli uomini di ogni dove a leggere il Libro di Mormon,
a meditare in cuor loro il messaggio che esso contiene e poi chiedere
a Dio, Padre Eterno, nel nome di Cristo se il libro è vero».
Nella fase di avvicinamento alla Chiesa, i missionari incoraggiano il
neofita a porre questa stessa domanda allo scopo di consolidarsi nella
fede mormone. La disponibilità a credere nella veridicità del testo sacro
è quindi condizione preliminare per l’adesione alle storie organizzative,
oltre che condizione perché si realizzi la stessa conversione. La credenza
nell’autenticità del Libro di Mormon, e in definitiva dell’intera proposta
spirituale della Chiesa, si guadagna come risultato non di una convinzione
di natura meramente intellettuale e cognitiva, ma di un’esperienza mistica
diretta che discende dall’incontro del fedele con il divino in un atto
di preghiera. L’exemplum tratto dalla vita del fondatore spinge il fedele
verso l’esperienza spirituale che costituisce il necessario punto d’avvio
del percorso di conversione. La rilevanza di tale atto si riscontra di
regola nelle interviste in cui i convertiti, raccontando la loro esperienza,
si soffermano sull’evento centrale, il turning point, in cui viene presa
la decisione di aderire alla nuova religione. Ecco due casi tipici, quello
di una donna convertitasi in età adulta alla fede mormone e quello di
un giovane missionario americano della Chiesa:
«Leggevo qualcosa che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Quella
sensazioni di, quasi di sgomento ... Ho sentito il cuore battere fortissimo
… e avevo quest’immagine davanti e avevo una penna vicino e automaticamente
ho scritto una frase sopra a questa immagine e la frase me la ricordo
ancora. Avevo scritto : “Signore, tu sai che in questo momento ho paura”,
una sensazione quasi di, come dicevo prima, di sgomento no? Paura di abbandonare
quello che tra virgolette so per una cosa incerta, perché allora per me
era tutto incerto. Però lo pregavo in quel momento di, se era la cosa
giusta di darmi la perseveranza e di farmi capire che facevo bene eeh
ho pianto in quel momento, scrivendo queste frasi proprio ho detto: “Signore
so che, tu sai che in questo momento ho paura ma se è giusto fa che io
possa continuare, che non mi fermo alle prime difficoltà insomma. Era
una cosa che io brevemente avevo scritto così. E poi bon ho chiuso il
libro, ho chiuso gli occhi e ho ho sentito una grande pace dentro di me,
questa sensazione di paura piano, non di colpo, piano piano il cuore ha
ripreso a battermi in maniera normale ehm e mi sono calmata, mi sono calmata.
E da quel momento ho sentito che dovevo andare avanti, quindi ho desiderato
… continuare i colloqui e quando mi è stato chiesto quando, se ero pronta
per battezzarmi, questa domanda me l’avevano già fatta qualche tempo prima
e io gli avevo detto: “non lo so”, invece quando me l’hanno di nuovo fatta
ho detto: “sì, scegliamo la data”». [intervista a Gabriella]
«Noi portiamo il nostro messaggio, e che facciamo nostro meglio a rispondere
alle domande delle persone, poi noi chiediamo alle persone di chiedere
a Dio […] Aaa ehm ...Sì, credo di ehmmm... percheeè io posso leggere,
una bella storia e mettere da parteee eee che mie intenzioni sono di trovare
la verità, di mettere in pratica ciò che ho imparato, credo che no posso
sentire quella confermazione e poi come ho detto prima dobbiamo pregare
specificamente di sapere eee quella è la mia testimonianza che ho fatto
una promessa con quel libro dove dice possa io chiedere a Dio se queste
cose sono vere, con un intento reale, con cuore sincero e avendo fede
in Cristo che possiamo sapere eee...si, dobbiamo leggere e vivere e pregare».
[intervista all’anziano K.]
Questi due brani illustrano come gli intervistati adottino e riadattino
il modus operandi proposto dalla dottrina come modello normativo da seguire
nella propria esperienza di fede. Nel momento in cui il narratore cita
questi due episodi nella sua storia personale, incorpora lo schema narrativo
contenuto nell’exemplum della vita del profeta, sostituendosi a Joseph
Smith in quanto personaggio-attore e riproducendone l’operato in quanto
attante.
Un altro genere frequente di exempla è costituito dalle testimonianze
di fede. Queste sono racconti aneddotici con cui il convertito, esponendo
situazioni specifiche della sua vita quotidiana, mira a sottolineare il
suo modo di fare esperienza della fede: un episodio personale è valutato
per il suo significato morale sulla base della conformità/difformità rispetto
alla dottrina. Le testimonianze ricorrono in occasioni formali (ad esempio,
la riunione domenicale che vede riunita tutta la comunità mormone) oppure
in contesti colloquiali e, in genere, sono narrate dai membri per introdurre
i neofiti nel gruppo, favorendo l’instaurarsi di relazioni di reciprocità
fondate sulla condivisione e lo scambio di esperienze (Tedeschi 1989).
Sono spesso proprio questi exempla ad apparire decisivi nella scelta,
da parte del neofita, di abbracciare la nuova fede. Ciò mette in evidenza
il carattere retorico delle storie esemplari, finalizzate alla persuasione
dell’interlocutore. L’exemplum deriva la propria credibilità ed efficacia
argomentativa dall’auctoritas del personaggio di cui esso tratta, che
nel brano citato sopra è quella del profeta Joseph Smith. Nelle storie
del secondo tipo, la qualificazione morale è quella dello stesso parlante,
che narra una vicenda autobiografica o di cui è stato a diverso titolo
testimone. Dalla seguente intervista emerge l’importanza della testimonianza
esemplare di fede, in primo luogo come storia persuasiva capace di suscitare
l’interesse del neofita verso la dottrina:
«Hanno incominciato [i missionari] a parlarmi un pochettino della chiesa,
mi hanno invitata ad andare in chiesa, sono andata in chiesa e la prima
volta era una riunione cosiiì, informale, durante la settimana, una cosa
piuuù ricreativa eccetera, poi sonooo andata una domenica, era una prima
domenicaaa, no, non era una prima domenica del mese, comunque, mmmh c'era
la riunione sacramentale... Di pomeriggio, e c'era un ragazzo, appena
battezzato che parlava della sua conversione, cioè di cosa l'avesse portato
aaa, a convertirsi, e mi ha colpito, no? Il fatto che non ci fossero eee
delle persone preposte, cioè incaricate aaa, a parlare, cioè che ci fosse
questo eee come si può dire... libertà di espressione». [intervista a
Margherita]
L’intervistata, Margherita, è non solo “colpita” dai contenuti della storia
di conversione che ha modo di ascoltare, ma anche, e non secondariamente,
dalla stessa possibilità, concessa ai membri della Chiesa mormone, di
raccontare la propria storia personale di fede. Come precisa, peraltro,
il marito Bruno, anch’egli mormone, il racconto personale e la testimonianza
di fede sono una pratica fondamentale che ciascun membro sente come un
dovere ai fini dell’evangelizzazione:
«Tutte le occasioni sono buone, nel senso che quando incontriamo delle
persone che mostrano un interesse noi siamo pronti a parlare, a testimoniare,
eee personalmente tutti i nostri amici sanno della nostra appartenenza
alla chiesa, non ci siamo mai tirati indietro ne vergognati di dire ciò
che siamo, eee una volta mi capitato per assurdo di essere andato in una
caserma dei carabinieri dove avevo dei rapporti con il capitano dei carabinieri
e ho portato il mio Libro di Mormon e abbiamo fatto una bella chiacchierata
di circa un'ora riguardo alla mia chiesa, lui ha continuato la sua vita,
io ho fatto la mia, però gli ho dato la possibilità, anche a lui, di poter
scegliere». [intervista a Bruno]
A fronte della disposizione del membro a credere nella verità della storia
esemplare, essa agisce performativamente nella sua vita in quanto orienta
le esperienze del cambiamento spirituale personale. Per mezzo della condivisione
delle storie esemplari (exempla e testimonianze di fede), il neofita negozia
il proprio punto di vista personale con il punto di vista ufficiale della
Chiesa e, progressivamente, ne accoglie le narrazioni sacre, fra le quali,
come sì è detto, compare la storia fondamentale del piano di salvezza.
In questo modo, il convertito può ora, ritenendo per vera questa storia,
considerare sé stesso come effettivo destinatario del piano salvifico
voluto da Dio: divenendo in grado di identificarsi con la storia paradigmatica,
riterrà che l’azione divina lo coinvolga personalmente e direttamente.
In sintesi: il processo di identificazione organizzativa si sviluppa insieme
al processo di identificazione narrativa.
5. Simbolizzazione del sé e performance delle storie
L’appartenenza al gruppo sollecita la conversione personale mediante l’assunzione
dell’identità organizzativa: questa identità genera il senso di un nuovo
sé, di natura morale, che è narrativamente costruito per differenza e
opposizione rispetto al sé precedente, conformemente alla struttura dicotomica
dello schema prima-dopo delle storie di conversione. Questo schema relativo
alla ricostruzione biografica del convertito è, in effetti, il principale
marcatore della conversione (Staples e Mauss 1987). La ridefinizione identitaria,
quindi, è l’esito e ad un tempo la premessa della conversione: il nuovo
modo di concepire il proprio sé da parte dei convertiti trova espressione
nel racconto in cui si effettua una ricostruzione biografica volta a rimarcare,
insieme alla continuità, anche e soprattutto la discontinuità tra l’identità
passata e quella presente (De Sanctis 1927; Speelman 2006; Pannofino 2008).
Questa ricostruzione narrativa, il modo in cui il soggetto presenta e
rappresenta sé stesso, rispecchia l’orientamento ideologico del gruppo
cui il convertito appartiene (Preston 1981), portando a rileggere retrospettivamente
il percorso biografico alla luce della nuova prospettiva adottata con
la conversione (Berger e Luckmann 1969; Beckford 1978). Il sé che emerge
da questa rilettura, che alterna tratti di continuità a tratti di discontinuità,
è suscettibile di due principali tipi di rappresentazione identitaria,
corrispondenti a quelle che Frank (1993) ha rilevato a proposito delle
narrazioni di malattia, anch’esse incentrate sul topos del cambiamento
personale: un sé stabile (“what I always have been”) e un sé nuovo (“what
I might become”), ossia un sé ascritto che è oggetto della scoperta, da
parte del convertito, della propria autentica identità, e un sé acquisito,
oggetto della conquista di una nuova identità caratterizzata dal possesso
delle qualità e delle virtù morali richieste dalla fede religiosa di appartenenza.
Le narrazioni sacre e gli exempla della Chiesa mormone comunicano tanto
in forma esplicita quanto in forma implicita una precisa definizione del
sé e dell’identità del fedele. Da un lato, infatti, forniscono descrizioni
del sé autentico, istruendo sulla vera natura ontologica dell’uomo, dall’altro
forniscono prescrizioni normative sul sé morale: nel primo caso le narrazioni
organizzative indicano “chi si è”, nel secondo caso ingiungono al cambiamento
identitario dicendo “chi si deve diventare”, cioè consegnano un modello
ideale da perseguire come traguardo della trasformazione personale lungo
l’itinerario di conversione. Come dichiara una intervistata:
«Venendo qui, essendo spronata a riprendere tutte le Scritture, poi qui
ho scoperto che ci sono altre Scritture che il Signore ci ha lasciato
[…] e da queste io ho acquisito delle conoscenze che prima non avevo e
mi hanno dato proprio la… la sicurezza di essere quella che sono. Io adesso
so chi sono e so cosa sto a fare qui […] Ecco perché mi ponevo tutte quelle
domande sempre senza risposta. Lo sentivo dentro di me, ma adesso ne ho
la certezza che sono… sono qui per uno scopo e questo scopo è uno scopo
molto alto». [intervista a Gabriella]
In questo estratto si osserva il doppio registro retorico con cui l’intervistata
ricostruisce per un verso il senso di continuità tra il sé attuale e quello
passato nei termini di una ricerca spirituale cominciata ben prima della
conversione alla fede mormone, per l’altro la discontinuità data dal possedere
una consapevolezza identitaria nuova e profonda che discende dall’adesione
alla prospettiva culturale del gruppo di appartenenza.
La definizione del sé del convertito è la posta in gioco dei gruppi religiosi
che, come la Chiesa mormone, si qualificano come identity transformation
organizations, e quindi orientate alla conversione dei loro membri per
mezzo dell’identificazione narrativa. Questo processo di identificazione
è reso possibile dalla condivisione dei simboli organizzativi, che sono
veicolati dalle storie. Stromberg (1985) ha sottolineato come la conversione
religiosa implichi due processi complementari, consistenti nell’adesione
ai simboli fondamentali della cultura di un gruppo religioso e nell’incorporazione
di questi nell’esperienza soggettiva dei membri. Con l’adesione ai simboli,
il convertito ne accoglie il significato convenzionale, ovvero ciò che
quel dato simbolo significa per il gruppo. Questo si verifica, per esempio,
quando il fedele mormone accetta il Libro di Mormon come testo sacro di
riferimento, legittimandone la definizione ufficiale che ne dà la Chiesa,
secondo cui esso è “un altro testamento di Gesù Cristo” [7].
In modo complementare, però, la sincera conversione alla fede mormone
non può ridursi alla condivisione di questo dato formale; occorre, in
aggiunta, che il singolo fedele faccia esperienza personale dell’autenticità
del testo sacro. Appunto per questo, fin dalle fasi di ingresso nella
Chiesa, il neofita è motivato a rivolgersi in preghiera a Dio per sentire
in modo personale e profondo questa verità della dottrina: se questo accade,
allora il Libro di Mormon acquista un significato ulteriore rispetto a
quello convenzionale, e diventa parte costitutiva della biografia del
convertito (Stromberg 1993): il simbolo nel quale la comunità mormone
si riconosce non avrà più solamente un significato convenzionale ma anche
un significato soggettivo (ciò che il simbolo significa per il singolo
fedele) sulla base dell’esperienza che di esso fa il convertito nella
sua vita quotidiana. A sua volta, l’esperienza biografica viene reinterpretata
dal soggetto attraverso le categorie simboliche dell’ideologia del gruppo
di cui è membro. Si realizza così una simbolizzazione del sé: l’identità
del convertito si trasforma e si definisce in rapporto alle categorie
simboliche attraverso cui si riconosce come membro dell’organizzazione.
Questo duplice processo genera l’autotrasformazione personale del convertito
e motiva il suo impegno e senso di appartenenza nei confronti del gruppo
(Stromberg 1990, 1991).
I simboli sono comunicati, diffusi e appresi nel modo più efficace all’interno
dei contesti organizzativi mediante le narrazioni: le storie paradigmatiche
mettono a disposizione l’insieme dei simboli convenzionalmente intesi,
mentre le storie personali, che i singoli membri producono - e sono chiamati
a produrre -, rendono conto dell’incorporazione dei simboli nelle biografie
individuali. Grazie alla competenza narrativa, richiesta dall’organizzazione
ai suoi membri, si rende possibile l’esperienza del cambiamento di sé.
Perché la conversione avvenga, occorre infatti disporre di una “buona
storia” personale, che costituisce per il membro l’attrezzatura per posizionarsi
all’interno della cultura religiosa dell’organizzazione e interagire con
gli altri membri in termini legittimati e condivisi. La proprietà di una
buona storia è la consapevolezza del fine (telos) da perseguire e dei
mezzi adatti per ottenere le virtù pertinenti al raggiungimento di quel
fine (MacIntyre 1984), correlando il sé attuale al sé ideale da realizzare
nel futuro nelle forme culturali tipiche dell’organizzazione, ciò che
si ottiene con la corrispondenza tra gli oggetti di valore dei personaggi
nelle storie e gli oggetti di valore dei membri. Senza la propria storia
personale non sarebbe infatti possibile render conto del modo e degli
effetti del cambiamento prodotto dalla fede nella vita quotidiana del
convertito. Nel caso della Chiesa mormone le buone storie appartengono
al genere esemplare delle testimonianze di fede, cioè le narrazioni pubbliche
con cui i convertiti raccontano il modo in cui la fede opera nella loro
vita quotidiana e produce il cambiamento personale. Come sostengono Rambo
e Farhadian (1999), imparare a dare la propria testimonianza personale
è una competenza cruciale nel percorso di conversione: se da un lato,
infatti, l’ideologia del gruppo diventa la storia del soggetto e ne forma
la memoria e l’autobiografia, dall’altro le testimonianze pubbliche di
fede consolidano l’impegno mediante un rinnovamento esistenziale e confermano
alla comunità dei fedeli la validità dei metodi e della visione del mondo
adottati. La testimonianza personale, attestando il cammino spirituale
compiuto, favorisce la partecipazione alle storie fondamentali condivise
collettivamente dal gruppo, rinsalda i legami e genera il senso di appartenenza
del singolo alla comunità (Shockley 2006), condizione, questa, che favorisce
lo sviluppo di un ethos comune (Poulton 2005). In queste storie, tuttavia,
solo eccezionalmente il cambiamento avviene senza difficoltà. Le testimonianze
sono buone storie proprio perché, in modo controintuitivo, il narratore
resoconta esperienze contrassegnate da ostacoli nel mantenimento o nella
comprensione della fede, e ciò consente di riflettere criticamente sul
senso del proprio agire e sulla lontananza dal modello ideale del membro
virtuoso: le testimonianze di fede, pertanto, ribadiscono la necessità
del cambiamento in direzione del perfezionamento morale. Il senso del
cambiamento discende dall’efficacia performativa delle storie: disporre
di una buona storia consente di rappresentare sé stessi come soggetti
impegnati in un percorso di trasformazione del sé. Più in generale, le
narrazioni di conversione aiutano a mantenere un controllo interpretativo
sulla propria vita, non solo in relazione al passato ma anche nella definizione
degli obiettivi relativi al futuro e dei desideri rispetto a ciò che si
può diventare (Maruna, Wilson e Curran 2006).
Il percorso di identificazione e conversione è, tuttavia, sempre potenzialmente
aperto: in tal caso, il conflitto che si genera tra il punto di vista
personale e quello ufficiale dell’organizzazione può portare alla disaffiliazione
del membro e alla fuoriuscita dal gruppo. Anche quando l’esito non è così
drammatico, occorre dire che l’esperienza di conversione è vissuta come
un itinerario di continuo autoperfezionamento che non può mai dirsi concluso,
marcato quindi non da uno solo, ma da una successione di turning point:
ad ogni crisi che metta in questione la propria fede, il convertito può
attingere al sistema simbolico del gruppo di appartenenza come risorsa
a disposizione per conferire senso allo stato critico (Stromberg 1990).
Osservazioni conclusive: l’uso delle storie nell’approccio etnografico
La narrazione, in quanto attività situata in specifici contesti che ne
sollecitano la produzione (Ewick e Silbey 1995), svolge una funzione comunicativa
imprescindibile, quella di veicolare il sapere, le credenze, le norme
e i simboli dell’organizzazione (Czarniawska 2000), ed è una delle pratiche
degli attori sociali che operano nelle organizzazioni (Kohler Riessman
1993); riveste inoltre una funzione sociale, perché fonda le interazioni
tra i membri (Deetz 1982); ed è ancora grazie alle storie che si avviano,
come mostrato nelle pagine precedenti, i processi di identificazione e
conversione. La conversione non solo richiede una storia all’inizio del
suo percorso, ma è continuamente alimentata dall’attività narrativa (Hovi
2004).
In sé stessa, la conversione non è direttamente accessibile per un osservatore
esterno (Snow e Machalek 1984): da qui la rilevanza metodologica delle
narrazioni biografiche come strumento per accedere all’esperienza soggettiva
del convertito (Yamane 2000). Oltre che strumento nelle mani del ricercatore,
la narrazione è parte integrante della stessa esperienza di conversione.
Il momento dell’intervista non costituisce infatti l’unica circostanza,
per il fedele, di riflettere sulla sua biografia. Come illustra il caso
delle testimonianze di fede e delle altre narrazioni organizzative, il
membro della Chiesa mormone è continuamente interpellato a dare forma
discorsiva alla propria esperienza, aderendo alle narrazioni ufficiali
e impiegandole riflessivamente come modelli, come script, per le storie
personali: si è membri in quanto narratori di storie (Boje 1991, 1995).
Il caso empirico che è stato presentato, la Chiesa mormone torinese, rappresenta
un contesto di studio interessante in ragione della rilevanza che nella
cultura di questo gruppo ricoprono le storie: la metodologia impiegata,
incrociando le tecniche dell’osservazione partecipante, dell’intervista
discorsiva e dell’analisi documentale, consente al ricercatore di accedere
a differenti dati e quindi, nei termini che qui sono pertinenti, a differenti
narrazioni: l’osservazione sul campo consegna storie orali prodotte nel
corso di cerimonie formali e di conversazioni; le interviste discorsive,
sollecitate dal ricercatore, consentono la costruzione di un racconto
autobiografico che almeno parzialmente si sovrappone alle storie personali
orali che i membri narrano nelle loro pratiche abituali, come nel caso
delle testimonianze di fede; infine, l’analisi dei documenti permette
la raccolta di testi in cui sono depositate le storie scritte e paradigmatiche
della Chiesa. La pluralità dei dati, cui si perviene con la pluralità
dei metodi (Spickard 2007), rende conto, sebbene selettivamente, dell’intreccio
delle diverse storie e dei diversi modi in cui esse sono narrate e messe
in circolazione all’interno e attraverso i confini organizzativi: la narrazione
come azione sociale richiede non solamente una disamina dei contenuti
informativi delle storie (ciò di cui le storie parlano) ma anche, e soprattutto,
un’attenzione ai contesti sociali di enunciazione delle storie, oggetto
questo di pertinenza di una “etnografia narrativa”: con questa etichetta
Gubrium e Holstein (2008) si riferiscono a quel particolare approccio
di ricerca sul campo volto allo studio delle narrazioni intese non tanto
come testi quanto, piuttosto, come pratiche, ovvero come atti di enunciazione
e di discorso situati all’interno di contesti comunicativi e sociali.
Porre l’accento su questa dimensione solitamente trascurata, per usare
una espressione di Goffman (1964), consente di cogliere la dimensione
relazionale e il carattere dialogico della narrazione, che è sempre raccontata
da qualcuno verso un interlocutore e un uditorio, in determinate circostanze
spaziali e temporali, in vista di particolari obiettivi e con particolari
conseguenze. Il contesto comunicativo, proseguono Gubrium e Holstein,
informa di sé i contenuti e l’organizzazione interna dei resoconti narrativi,
così come i ruoli del parlante e dell’ascoltatore. Lo sguardo ravvicinato
all’interazione permesso dall’approccio etnografico (Cardano 2011), pone
il ricercatore in grado di accedere in prima persona al contesto sociolinguistico
in cui concretamente avviene la pratica narrativa e, per tale via, offre
l’occasione di cogliere l’irriducibile carattere polifonico e intertestuale
delle storie (Kristeva 1978), in cui consiste il continuo gioco di rimandi,
citazioni e presupposizioni implicite (Fairclough 2003) tra i dati che
il ricercatore può triangolare: interviste, documenti scritti e discorsi
orali.
Note
1] La Chiesa di Gesù Cristo dei
Santi degli Ultimi Giorni (nota anche come Chiesa mormone) è stata ufficialmente
fondata il 6 aprile 1830 da Joseph Smith (1805-1844) a Fayette (stato
di New York) negli Stati Uniti. Secondo la dottrina della Chiesa, Joseph
Smith, a partire dall’età di 14 anni, è protagonista di diverse visioni
mistiche grazie alle quali riceve rivelazioni da parte di Dio, di Gesù
Cristo e dell’angelo Moroni. Da quest’ultimo, in particolare, è incaricato
di dissotterrare e tradurre alcune tavole d’oro (sepolte sotto la collina
di Cumorah, nei dintorni di Manchester, nello stato di New York), contenenti
la storia di antiche popolazioni di origine ebraica giunte in America
e delle apparizioni, da loro ricevute, di Gesù Cristo il quale avrebbe
integrato gli insegnamenti presenti nella Bibbia. Il testo tradotto costituisce
il libro sacro della Chiesa, ovvero il Libro di Mormon. Joseph Smith è
considerato dai fedeli mormoni il profeta che ha restaurato la vera chiesa
di Gesù Cristo nell’epoca moderna.
2] La Chiesa incoraggia i giovani
membri maschi a intraprendere una missione, divenendo quindi anziani.
La figura dell’anziano, come vuole indicare l’appellativo che la designa,
è tenuta in grande considerazione all’interno della Chiesa in ragione
del ruolo chiave che gioca il suo impegno nell’evangelizzazione. I missionari
sono giovani, principalmente maschi, di età compresa tra i 19 e i 23 anni
(ma questo ruolo può essere anche ricoperto dalle donne a partire dai
21 anni) che interrompono il proprio percorso di studi o l’attività lavorativa
per dedicarsi a tempo pieno alla missione per un periodo che va dai 18
mesi ai due anni. Non essendo remunerati, affrontano la missione facendo
appello al sostegno economico della famiglia, che spesso è composta da
membri mormoni. La Chiesa locale si preoccupa di assegnare loro un appartamento
per l’intera durata della missione. Quando un giovane accetta di andare
in missione si rende disponibile a viaggiare in una qualsiasi nazione
gli venga assegnata come destinazione; di norma, nell’arco dei due anni,
gli anziani cambiamo quattro zone, spostandosi ogni sei mesi.
3] Il testo indica quali strategie
seguire per realizzare efficacemente questo obiettivo. Quattro sono i
principi generali cui fare riferimento, (1) pianificare ogni passo: sebbene
il contatto con un potenziale nuovo membro possa avvenire in qualunque
situazione, è opportuno che il missionario segua un piano prestabilito;
(2) lavorare con più di una persona o famiglia: è meglio prendere più
di un contatto alla volta, in considerazione del fatto che soltanto una
parte di coloro a cui ci si rivolge sono effettivamente interessati ad
avvicinarsi alla Chiesa; (3) stabilire scadenze per la realizzazione di
ciascun obiettivo; (4) se è stato stabilito un contatto, riferirlo a un
membro responsabile della Chiesa così da provvedere al proselito l’assegnazione
di un anziano che effettui l’insegnamento dottrinario.
4] L’attività interna principale
del gruppo è costituita dalle riunioni che si svolgono la domenica, nelle
diverse sedi, dalle 9.30 alle 12.30. Durante le prime
due ore, si svolge la “scuola domenicale”, finalizzata allo studio di
tematiche dottrinarie, in cui la comunità dei fedeli è suddivisa in classi
distinte per età e sesso; queste classi sono: la “primaria”, che comprende
i bambini dai 4 fino agli 11 anni (al di sotto dei 4 anni, i bambini vengono
affidati, durante le riunioni, al “nido”), i “giovani uomini” e le “giovani
donne”, cioè rispettivamente i ragazzi e le ragazze tra i 12 e 17 anni,
i “giovani adulti”, cioè i ragazzi non sposati fino ai 25 anni e la “società
di soccorso” che è il principale organo aggregativo riservato alle donne;
i programmi di studio per le diverse classi sono stabiliti da manuali,
redatti a livello di organizzazione centrale, che sono comuni e seguiti
da tutte le chiese locali. Alla terza ora, infine, le diverse classi si
riuniscono nel momento propriamente liturgico della mattina, ovvero la
riunione sacramentale, presieduta dal vescovo e dai suoi due consiglieri,
in cui è celebrato il sacramento (durante il quale sono distribuiti tra
i fedeli il pane e l’acqua benedetti) e si tengono le letture dai testi
sacri, le testimonianze di fede e i canti devozionali.
5] Tra le attività esterne della
Chiesa, la principale a cui ho preso parte è la “serata familiare”, che
si tiene ogni lunedì sera presso la casa di una famiglia mormone e che
vede riuniti, oltre i componenti della famiglia stessa, anche i missionari
che sono invitati a cenare; dopo la cena tutti i partecipanti si confrontano
su temi di contenuto religioso.
6] “Prima dell'inizio della vostra
vita sulla terra avete vissuto con il vostro Padre nei cieli come figli
di spirito. In quel luogo eravate felici, ma Dio sapeva che non avreste
potuto continuare a progredire se non vi foste allontanati da Lui per
un po’. Quindi Egli presentò il Suo piano: il piano di salvezza. Vi avrebbe
permesso di venire sulla Terra dove avreste ottenuto un corpo fisico e
avreste fatto esperienze che vi avrebbero aiutato a crescere e ad imparare.
Lo scopo del piano è di aiutarvi a diventare come Lui. Il Padre celeste
sapeva che, durante la vostra vita sulla terra, avreste commesso degli
errori, come tutti. Così, in quello stesso piano, Egli provvide a un Salvatore,
Gesù Cristo, che avrebbe reso possibile la remissione dei peccati, e che
avrebbe consentito a tutti coloro che avessero accettato il Suo sacrificio
di ritornare a vivere con il Padre celeste. Il fatto che adesso voi viviate
qui sulla terra significa che accettaste il piano del Padre nei cieli
e che siete venuti qui con il desiderio di fare tutto il possibile per
ricevere tutto ciò che Egli ha da offrire. La cosa meravigliosa di questo
piano è che, seguendo il Suo piano, non solo potete tornare a vivere con
Lui dopo la morte, ma potete anche trovare pace e felicità in questa vita”
(presentazione sintetica del piano di salvezza, tratta dal sito della
Chiesa: www.mormon.org).
7] Questo è, del resto, il sottotitolo
del Libro di Mormon.rato il sacramento (durante il quale sono distribuiti
tra i fedeli il pane e l’acqua benedetti) e si tengono le letture dai
testi sacri, le testimonianze di fede e i canti devozionali.
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