
Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012
RACCONTARE ATTRAVERSO IL VIDEO: RIFLESSIONI E POSSIBILI PERCORSI
Luisa Stagi
luisa.stagi@unige.it
Ricercatrice presso l’Università degli studi di Genova dove insegna Sociologia generale per il corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche. Co-direttrice di About Gender- Rivista Internazionale degli studi di genere- è stata fondatrice e fa parte del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova.
L’esperienza di Yo no me complico
Yo no me Complico è un film di ricerca prodotto nel 2010 dal laboratorio
di Sociologia Visuale dell’Università di Genova; si tratta di un lavoro
ambientato tra il Gay Pride di Genova, il Festival Gender Bender di Bologna,
passando dalla Bergamo più conservatrice alle strade della prostituzione
genovese. Il percorso di ricerca si è sviluppato intorno ai temi del corpo,
del genere e dell’identità sessuale; la traiettoria parte da questioni
come l’omofobia e la trans fobia, per arrivare a trattare di alcuni diritti
fondamentali che sempre più oggi sembrano minacciati e messi in discussione.
La costruzione di un lavoro visuale intorno a questi temi ha avuto come
fine primario la restituzione di uno spazio sociale ai protagonisti di
un mondo sommerso che, di fatto, non ha parola, se non nei territori e
nelle modalità spettacolarizzate dai discorsi mediatici [1].
I dubbi e le riflessioni dei ricercatori rispetto a questa finalità hanno
accompagnato tutto il percorso di ricerca e sono diventati parte integrante
del documentario. Il “retroscena” della ricerca viene infatti narrato,
mostrando i ricercatori intenti a discutere le note di campo, le scelte
metodologiche e i riferimenti concettuali.
Mano a mano che si sviluppava il processo di ricerca visuale, infatti,
si sono dovute affrontare questioni metodologiche che hanno messo in discussione
l’utilizzo degli abituali strumenti di ricerca.
Inizialmente, le interviste sono state pensate e impostate secondo il
metodo biografico, cercando cioè di mantenere le regole di base delle
interviste non direttive, sia per la costruzione della traccia, sia per
la gestione dell’intervista (l’utilizzo dei rilanci e delle consegne,
il “contenimento” della direttività, ecc.) (Cfr. Bichi, 2002). Immediatamente,
però, ci si è resi conto che il materiale prodotto con questa modalità,
quando poi doveva essere elaborato, era difficilmente gestibile e che,
anzi, operando con la forte direttività “connaturata” alla pratica del
montaggio, si correva il rischio di estromettere l’intervistato dalla
partecipazione alla costruzione delle informazioni (Cfr. Palumbo, 2001).
Inoltre, ci si è resi conto che le interviste video riprese necessitano
di una serie di accorgimenti tecnici per poter essere gestite meglio sia
a livello di analisi, sia in fase di montaggio (per esempio i ciak) e
che le necessità tecniche legate all’audio, alla luce o alle inquadrature
interferiscono sul setting dell’intervista producendo, inevitabilmente,
modifiche a livello di strutturazione e di direttività degli strumenti.
Un’altra valutazione, emersa dopo qualche intervista, è che il setting
visuale genera aspettative diverse negli intervistati rispetto, per esempio,
alla situazione di intervista registrata su supporto audio: se, paradossalmente,
è più facile per una persona parlare davanti ad una telecamera - perché
sa che cosa sta facendo e dove andrà a finire il suo racconto - dall’altra
parte, e per lo stesso ordine di motivi, aumenta l’aspettativa di partecipare
al processo di restituzione. E’ come se il fatto di “metterci la faccia”
(in questo caso letteralmente) comportasse una più decisa richiesta di
partecipazione da parte degli intervistati che, nel caso degli impianti
di ricerca tradizionali, possono al contrario utilizzare le garanzie di
anonimato per “mitigare” la responsabilità rispetto alle opinioni espresse
e le vicende narrate.
In seguito a vari tentativi, si è dunque giunti a ripensare il processo
di costruzione e raccolta delle informazioni e all’idea di sperimentare
nuove modalità di gestione delle interviste. Si sono perciò creati percorsi
partecipativi in cui venivano coinvolti gli intervistati a partire dalla
fase di costruzione della traccia, condividendo inoltre diversi momenti
del montaggio. La maggiore partecipazione dell’intervistato nella costruzione
dell’intervista e nella scelta di come essere rappresentato ha compensato,
in qualche modo, il più alto grado di direttività e strutturazione che
un tale setting inevitabilmente produce.
Nella fase finale della ricerca, che ha riguardato persone transizionanti
FtM [2] si è arrivati a mettere a punto
un sistema ancora più articolato. Questa parte specifica del lavoro, infatti,
è riconducibile a un percorso di ricerca partecipata dove gli attori sono
coinvolti fin dalla fase di definizione dell’oggetto e della costruzione
dello strumento (Fetterman et al., 1996). Inizialmente, sono stati intervistati
diversi stakeholder appartenenti ad associazioni LGBT [3]
che hanno permesso di individuare i temi più rilevanti e che hanno fornito
alcuni suggerimenti sulle persone da coinvolgere. Quindi, sono stati organizzati
alcuni incontri collettivi con le persone FtM che ci sono state segnalate:
il primo incontro ha avuto una modalità di svolgimento assimilabile alla
tecnica del brainstorming (cfr. Bezzi e Baldini, 2006) ed ha portato a
definire la rilevanza degli argomenti da trattare; successivamente, è
stato realizzato un altro incontro più simile a un focus group valutativo
(Stagi, 2001), che ha portato il gruppo a scegliere - si potrebbe dire
“eleggere” - le persone da intervistare e la modalità di svolgimento dell’intervista
[4].
In seguito, sono avvenuti diversi incontri tra le tre persone che avrebbero
preso parte al documentario, sia in nostra presenza, sia privatamente;
durante questi momenti, sono stati discussi la forma, i modi e i contenuti
da rappresentare nel video, a partire dalla traccia emersa nei brainstorming.
Questo processo, che ha portato a distillare gli argomenti in una prospettiva
di grande riflessività orizzontale e a rappresentare i temi emersi nella
ricerca come attraverso una “lente di ingrandimento”, ha generato una
sorta di stratificazione di senso condiviso tra intervistati e ricercatori.
La videoregistrazione delle interviste è stata ancora preceduta da una
giornata di chiacchiere e di scambi e ciò ha favorito un clima di intimità
e di empatia che si è riverberato nella modalità espressiva dei racconti,
ma anche e soprattutto nella profondità dei contenuti. Uno dei temi considerato
tra i più importanti da trattare, era anche emotivamente difficilissimo
da esprimere ma, dopo tutto questo percorso di condivisione, è stato raccontato
con grande naturalezza e spontaneità.
Le interviste riportate nel documentario, ancorché intense, sono piuttosto
brevi, perché frutto di questo processo di distillazione dei contenuti
e di co-costruzione di significati; il nostro intervento è perciò stato
minimo nello scegliere cosa montare: si è così in qualche modo stemperato
il potere del ricercatore nel gestire le informazioni prodotte dai soggetti
delle ricerca attraverso la loro selezione, necessariamente arbitraria.
Anche l’artificio di aver montato come un dialogo “a tre” le interviste,
che in realtà sono state registrate singolarmente, è un elemento di fiction
che restituisce, nella rappresentazione, il frame nel quale sono state
realizzate e il percorso che ha portato a costruirle.
Documentario e film di ricerca
Alcune delle questioni sopra descritte sono senz’altro riconducibili a
temi centrali del dibattito metodologico, quali per esempio il rapporto
tra le categorie emic/etic (Nigris, 2003) o la pluralità ermeneutica (Palumbo,
2004, p. 30), anche se tali argomenti assumono declinazioni particolari
nel frame visuale.
Tralasciando tutto il dibattito intorno ai metodi visuali [5],
appare invece rilevante, per le sopracitate questioni, ragionare intorno
alla differenza tra documentario e film di ricerca. Sinteticamente e provocatoriamente,
si potrebbe affermare che la differenza tra un documentario e un film
di ricerca riguarda lo spostamento, su un ipotetico asse emic-etic, verso
l’estremo etic. Un documentario, soprattutto nella tradizione antropologica,
è costruito secondo una prospettiva di “realismo”, ovvero di restituzione
neutra e oggettiva del contesto etnografico oggetto della ricerca (Mason,
2005), tuttavia, gli stessi autori, che si sono occupati di discutere
metodologicamente di questi temi, concordano sul fatto che non bastano
le immagini a garantire realismo o ancor meno oggettività (cfr. su questo
dibattito Adelman 1998, Heider, 1976). Come afferma Mason, infatti, la
distorsione degli eventi o delle informazioni può essere operata anche
con la sola scelta delle immagini; semmai, appare più interessante ragionare
attorno alla questione della validità interna/esterna delle immagini:
perché un’immagine abbia validità esterna, i gradi di interpretazione
devono essere ridotti al minimo e deve essere perciò coerentemente (e
legittimamente) connessa alla validità interna (Mason, 2005). Secondo
Pink, che è tra gli autori che maggiormente si sono occupati di sistematizzare
le questioni metodologiche nell’ambito visuale, il punto essenziale non
è registrare un’immagine senza alcuna interferenza, ma riconoscere la
riflessività del ricercatore e la valenza del contesto che produce l’immagine
e, conseguentemente, conoscenza etnografica. Questo significa che la scelta
delle informazioni e delle immagini da mostrare deve avvenire in modo
esplicito, secondo una teoria di cui si deve dare conto e che il ricercatore
deve sistematicamente operativizzare per ogni selezione svolta. In generale,
per tutti questi autori, la differenza tra un documentario e un film etnografico
è la lente teorica attraverso la quale vengono restituite le informazioni
per mezzo delle immagini.
Mattioli (2007) opera un’ulteriore distinzione, egli distingue tra saggio
visuale e saggio sociologico visuale: il saggio visuale (dalla definizione
di visual essay di John Grady) sarebbe il documentario, strettamente scientifico,
destinato a circolare tra i membri della comunità scientifica e che rifugge
qualsiasi tipo di fiction, il saggio sociologico visuale (SSV), invece,
“costituisce una rivisitazione sociologica del cinema ibrido praticato
dagli antropologi, che fondono insieme fiction e dati di ricerca per creare
un prodotto espressamente cinematografico” (p. 86). Il saggio sociologico
visuale cioè utilizza la fiction per fini euristici e pone attenzione
all’estetica e alla comunicazione, perché vuole essere divulgato anche
ad un pubblico non esperto. Mattioli mette in guardia da questo tipo di
lavoro che definisce di divulgazione scientifica più che di prassi scientifica
e che, a suo avviso, rischia di scivolare verso il giornalismo o la comunicazione.
Posizioni come questa portano inevitabilmente a discutere della spendibilità
del sapere sociologico [6] e a interrogarsi
su temi che non sono specificatamente inerenti a problemi metodologici
della sociologia visuale, ma, più in generale, appartengono al dibattito
della ricerca sociale, anche se, probabilmente, sono stati affrontati
maggiormente nel contesto etnografico.
Bourdieu, che ha parlato della sociologia come sport da combattimento,
intendeva affrontare proprio questo tema; per il sociologo francese, la
sociologia dovrebbe rendersi comprensibile anche ai profani, senza per
questo franare verso il senso comune che, al contrario, va messo in discussione
e per certi versi combattuto. Per il sociologo francese, affinché le persone
comuni possano avvicinarsi alla sociologia, occorre che le ricerche siano
comprensibili e adatte, senza per questo perdere scientificità, occorre
semmai utilizzare modalità comunicative e categorie concettuali efficaci
per le persone che hanno più bisogno di appropriarsi di questo lavoro.
Perché la sociologia sia efficace, quindi, ci si dovrebbe porre in una
prospettiva di rigore scientifico, ma anche porsi il problema della comprensibilità.
La Misère du Monde è un esempio di questo intento, è un’opera che si legge
come un romanzo, che ha avuto molte rappresentazioni teatrali perché è
accattivante e poetica: la costruzione di questo lavoro - la scelta delle
storie, il modo in cui si susseguono- segue la doppia logica del rigore
scientifico e dell’attenzione estetica e narrativa.
In antropologia, la questione della poetica in etnografia è stata già
da tempo dibattuta; Clifford (1986/96) esorta ad abbandonare le pretese
di una scrittura oggettiva capace di raccontare l’essenza delle varie
alterità con le quali entra in contatto e ad avere consapevolezza di essere
produttori di fictiones, cioè di racconti condizionati dalla soggettività
dell’autore, dalla sua sensibilità, dal suo stile e anche dalla sua fantasia,
tematizzando l’etnografia come genere di scrittura. In Italia, questa
prospettiva è stata portata avanti da diversi autori, in particolare Matera
(2004), Colombo (1998) e, in posizione più estrema, da Dal Lago che da
sempre sottolinea le esigenze letterarie dello stile etnografico (Dal
Lago, De Biase, 2002; Dal Lago 1994).
Sembra opportuno a questo punto trasferire tali riflessioni sul lavoro
fatto con Yo no me complico, dove, sicuramente, l’attenzione alla dimensione
estetica e poetica ha assunto un certo significato.
In questo contesto appare interessante la riflessione di Sooryamoorthy
(2007) che introduce ancora un'altra definizione: quella di film di ricerca.
Secondo questo autore, i film di ricerca si caratterizzano per l’utilizzo
di tutte le potenzialità, che il media visivo offre per comunicare i risultati
di ricerca nel modo più emozionante e incisivo possibile. In questo percorso,
per Sooryamoorthy, muta il ruolo del ricercatore, perché la vera sfida
è quella di costruire un lavoro fruibile da un pubblico più ampio e perciò:
“allo scopo di coinvolgere gli spettatori ed evitare la monotonia, il
ricercatore dovrà assumere il ruolo di un regista creativo che governa
il flusso delle immagini”. Secondo questo autore un film di ricerca può
essere sviluppato su un argomento di ricerca o su una parte di un progetto
di ricerca in cui si è coinvolti e di cui, però, si ha una conoscenza
sostanziale. Spesso i film di ricerca sono la naturale conseguenza di
uno studio che trae attori e informazioni dalla ricerca stessa; le informazioni
raccolte nella ricerca sono perciò la base di tutto il lavoro: “le scene
sono elaborazioni del prezioso contenuto di ricerca dei filmati originali”,
integrate con immagini e suoni che possano catturare l'attenzione del
pubblico, senza tuttavia sovraccaricare lo spettatore o interromperne
la comprensione (ibidem). Il vantaggio della pellicola risiede anche nella
sua capacità di trasmettere un messaggio combinando più tracce insieme;
il linguaggio cinematografico, infatti, è composto da cinque tracce o
canali espressivi: le immagini, il suono registrato (conversazioni), i
rumori, la musica e la scrittura.
Per queste ragioni Yo no me complico credo si possa definire un film di
ricerca; senz’altro è un “testo dialogico e polifonico” (secondo la definizione
di Clifford) che sfugge ad un'unica chiave interpretativa e che, in modo
a volte impressionistico, cerca di restituire, le emozioni con tutti i
canali espressivi a disposizione, rappresentando in primo luogo il disagio,
ma anche la forza con cui i soggetti intervistati affrontano lo stigma
assegnato loro dalla società. Attraverso un lavoro sulle immagini e sulla
musica si è cercato di restituire l’atmosfera delle interviste, ma anche
le riflessioni che queste hanno prodotto; la musica, per esempio, che
in sottofondo accompagna tutto il film, varia da una situazione all’altra,
ma anche all’interno della stessa intervista a seconda dell’intensità
dei contenuti, diventando a volte quasi fastidiosa nel caso di passaggi
che esprimono disagio. Si tratta di musica elettronica costruita a computer
campionando anche suoni che sono stati raccolti durante la ricerca o che
facevano parte degli ambienti in cui si è lavorato [7].
Certamente, il lavoro sulla musica, così come quello sulle immagini, è
stato possibile grazie all’ausilio di persone con capacità tecniche specifiche,
che tuttavia avevano anche le competenze sociologiche necessarie per tradurre
le ipotesi che noi proponevamo. Questo aspetto apre ad una serie di riflessioni
sostanziali sulla possibilità di operare nella sociologia visuale. Se
è vero, come sostengono molti autori, che la rivoluzione digitale ha aperto
le porte alla sociologia visuale, perché ha reso possibile a chi opera
nella ricerca visuale di lavorare più autonomamente sulla raccolta e sulla
gestione del materiale, è tuttavia anche vero che una certa qualità tecnica
è ottenibile solo con l’ausilio di competenze specifiche. Senza il regista,
che ci ha accompagnato lungo tutto il lavoro, non avremmo potuto ottenere
quella poetica dell’immagine che invece si è cercato di perseguire, così
come, senza il collega esperto di musica elettronica, non avremmo potuto
avere una colonna sonora così suggestiva. I costi di queste competenze
non sono un aspetto irrilevante, tuttavia, è soprattutto la questione
dell’ibridazione tra linguaggi a poter rappresentare il vero problema.
Nel nostro caso, l’empatia si è costruita durante il percorso di lavoro,
ma la mediazione tra esigenze estetiche del regista e rigore scientifico
dei ricercatori è stato frutto di un lungo lavoro di mediazione e di scoperta
reciproca, che ha trovato non pochi punti di crisi soprattutto nella fase
del montaggio. In questo senso, le raccomandazioni di Becker a un ricercatore
che vuole utilizzare il media visuale, sull’esigenza di avere almeno delle
competenze tecniche di base, sembrano davvero opportune.
Aver invocato l’empatia tra i componenti del gruppo di ricerca può sembrare
forse azzardato, senz’altro impone di affrontare il tema in modo più specifico.
Usi ed abusi del concetto di empatia
Si è parlato direttamente di empatia come condizione per far dialogare
diverse specificità tecniche in un gruppo di ricerca, ma anche, indirettamente,
sostenendo di aver potuto tradurre stati d’animo ed emozioni degli intervistati
attraverso l’uso di particolari suoni e immagini.
Come sostiene Watson (2009), se il metodo narrativo spesso si può tradurre
in confini sfuocati tra metodologia di ricerca, oggetto di studio e forma
della restituzione dei risultati di ricerca, similmente, se l’empatia
viene “invocata” in diversi punti del processo di ricerca e per diversi
scopi, rischia di diventare un concetto “scivoloso” in termini metodologici.
Questa autrice, nel suo provocatorio articolo “The impossibile vanity:
uses and abuses of empathy in qualitavie inquiry”, ripercorre la letteratura
a favore e contro l’utilizzo di questo concetto; tra le posizioni negative
Van Loon la definisce appunto “vanità impossibile”, de Sardan ne parla
nei termini di “etno-ego-centrismo”, per una serie di autori, ripresi
da Keen, addirittura può diventare “amorale” dal momento in cui “è sensibilità
acquisita a spese delle sofferenze altrui” (cit. in Watson, 2009). Tuttavia,
dopo lo spiazzamento di queste posizioni, Watson ci porta a riflettere
sull’empatia come strumento di analisi: il presupposto da cui l’autrice
parte è che l’empatia tra ricercatore e partecipante si tradurrà come
minimo in informazioni più adeguate e una rappresentazione più autentica
dell’altro. Il punto interessante della sua riflessione arriva poi quando
unisce il termine “empatia” al concetto weberiano di “Verstehen”. L’adeguatezza,
di cui se è accennato sopra, ha cioè a che fare con il presupposto epistemologico
modernista di razionalità che sottende al concetto di Verstehen, e cioè
la convinzione che non vi è significato oggettivamente conoscibile dietro
l’agire e l’interagire sociale. In questo contesto, l’empatia come principio
epistemologico diventa uno strumento per ottenere una maggiore obiettività
scientifica: “siamo cioè in grado di realizzare qualcosa che non è mai
raggiungibile nelle scienze naturali, cioè la comprensione soggettiva
dell’azione” (ibidem) [8]. Tuttavia,
il concetto di adeguatezza porta a ricordare anche i tre postulati metodologici
di Schütz, ai quali, secondo questo autore, lo scienziato sociale dovrebbe
attenersi, allo scopo di innestare le sue concettualizzazioni ai costrutti
dell’attore sociale. Oltre alla coerenza logica, primo postulato, Schütz
tratta come seconda questione l’interpretazione soggettiva che, in accordo
con la sociologia weberiana, fa del senso che gli attori attribuiscono
al loro agire il centro dell’indagine sociologica, per poi arrivare -
appunto - a parlare dell’adeguatezza:
“ogni termine di un modello scientifico dell’azione umana deve essere
costruito in modo tale che un’azione umana messa in atto all’interno del
mondo della vita da un attore individuale, nel modo indicato dal costrutto
tipico dovrebbe essere comprensibile per l’attore stesso e per gli altri
attori sociali, nei termini dell’interpretazione di senso comune della
vita quotidiana. Il rispetto di questo postulato garantisce la coerenza
dei costrutti dello scienziato sociale con i costrutti dell’esperienza
di senso comune della realtà sociale” (Schütz, 1967, p.44).
Diverse sono state le critiche mosse a questo postulato (cfr. Longo, 2005)
ma, in particolare in questa riflessione, sembra opportuno ricordare la
posizione di Giddens (1979) che considera incongruo l’obiettivo di tradurre
le argomentazioni scientifiche in una lingua comprensibile all’attore
sociale, poiché “ciò priverebbe la riflessione sociologica di un suo tratto
essenziale: la capacità di proporre spiegazioni contro intuitive dei fenomeni
sociali, le quali perché contro intuitive, difficilmente possono apparire
insieme legittime e plausibili all’attore sociale che in quei fenomeni
è prima persona coinvolto” (Longo, 2005, p.38) [9].
A questo punto, può essere interessante riprendere la questione, già accennata,
della mediazione tra le dimensioni etic ed emic (Nigris, 2003), oppure
riferirsi al problema di dare coerenza a quella che Palumbo (2006) ha
definito “quadrupla ermeneutica”. Non è un caso che Palumbo ne parli proprio
a proposito della situazione in cui il sociologo entra in contatto con
soggetti della ricerca che sono lontani dalla sua esperienza quotidiana.
All’inizio della nostra esperienza, la difficoltà maggiore è stata proprio
quella di farci accettare da questi mondi sociali, perché ci percepivano
come (cito testualmente dalle note di campo) “scienziati che ci vengono
a studiare come fossimo topi da laboratorio” [10].
Allora, al di là della questione della conquista della fiducia e delle
porte di accesso, quando ci siamo resi conto di questa distanza (che percepivano
più loro di noi, ma che abbiamo poi scoperto essere reale) abbiamo provato
onestamente - anche se provvisoriamente e spesso solo in modo contingente
- a “metterci nei loro panni” [11].
Questo ha significato molto semplicemente, per esempio, camminare a fianco
loro per strada, entrare insieme a loro in un locale affollato, andare
nei loro luoghi e alle loro feste; abbiamo così potuto intuire cosa si
prova a vivere con lo sguardo con il quale loro convivono costantemente,
uno sguardo sanzionatorio e stigmatizzante che non lascia tregua. I silenzi,
gli sguardi, i gesti che si producono con l’entrata in scena di una persona
trans, fanno parte di quel contesto della ricerca da cui non si può prescindere
per analizzare e comprendere i testi prodotti dai “nativi” della scena.
Come sostengono diversi autori (per es. Frost, 2009), comprendere il contesto
nel quale viene prodotta una narrazione consente di rintracciare i discorsi
rappresentati al suo interno e attivare la riflessività del ricercatore.
La conoscenza delle interazioni all’interno dell’intervista fornisce importanti
informazioni sulla narrazione e il suo significato; Georgakopoulou (2006)
distingue, a questo proposito, tra narrazioni-in-testo (i racconti nel
contesto dell’intervista) e narrazioni-in-contesto (chiacchiere e altre
informazioni collaterali al contesto dell’intervista), nell’intento di
sottolineare l’importanza del contesto nella produzione di informazioni:
“grandi e piccole storie sono entrambe importanti per comprendere la costruzione
sociale delle identità e richiedono strumenti diversi per la loro raccolta
e interpretazione” (ibidem).
Max, una delle tre persone FtM intervistate, alla fine dell’intervista,
soddisfatto di quello che era riuscito a esprimere, ci ha detto (testuale
dalle note di campo): “Attraverso il vostro sguardo empatico siamo riusciti
a riverberare il nostro pensiero, ciò ci ha portato a parlare di cose
che avevamo dentro e che non ci eravamo mai detti: di solito tra di noi
parliamo di cose concrete come gli effetti degli ormoni o ci scambiamo
informazioni mediche o legali”. Credo che le sue parole sintetizzino bene
le questioni che si è cercato di affrontare: da un lato cioè Max ha riconosciuto
il processo di avvicinamento (empatico), dall’altro il nostro è comunque
uno sguardo “altro” a cui, tuttavia, riconosce il merito di aver modificato
la prospettiva auto-analitica anche per se stesso. L’analisi narrativa
si basa sul fatto che le persone attraverso la presentazione di se stessi
e delle loro esperienze ad altri diano senso alla loro vita (Frost, 2009),
ma un percorso partecipato, come quello descritto all’inizio, può favorire
anche quel processo di “auto analisi provocata e accompagnata” di cui
ha parlato Bourdieu perché:
“tentare di assumere il punto di vista dell’intervistato a partire dalla
sua posizione sociale per obbligarlo, durante l’intervista, a partire
dal suo stesso punto di vista, e quindi entrare nella sua “parte” […],
non significa [comunque] operare la “proiezione di sé in un altro” di
cui parlano i fenomenologi. Significa darsi una comprensione generica
e genetica di ciò che egli è, comprensione fondata sul controllo (teorico
o pratico) delle condizioni sociali di cui esso è il prodotto: controllo
delle condizioni di esistenza e dei meccanismi sociali i cui effetti si
dispiegano sull’insieme della categoria di cui fa parte […]. e controllo
dei condizionamenti inseparabilmente fisici e sociali associati alla sua
posizione ed alla sua traiettoria specifica nello spazio sociale […].
Tale comprensione non si limita ad uno stato d’animo vigilante. Essa si
esercita al modo allo stesso tempo intelligibile, rassicurante e coinvolgente,
in cui viene presentata e condotta l’intervista, affinché l’intervista
e la situazione stessa abbiano un senso per l’intervistato, anche e soprattutto
(nel contesto) della problematica proposta: la quale, come le probabili
risposte che essa suscita, si deduce da una rappresentazione verificata
delle condizioni nelle quali è posto l’intervistato e di quelle delle
quali egli è il prodotto” (Bourdieu, 1993, pp. 1400-1401) [12].
Note
1] www.laboratoriosociologiavisuale.it.
2] Female to Male, persone che
sono nate biologicamente donne e transizionano verso un’identità di genere
maschile.
3] Lesbian-Gay-Bisexual-Transgender.
In questo acronimo appare, a volte, anche la “I” di “Intersexual” e la
“Q” di Queer.
4] Sono state scelte tre persone
che si trovavano in momenti diversi del percorso di transizione.
5] Per tutte le questioni inerenti
la discussione intorno alla sociologia visuale ed un excursus storico
si rimanda a Pawels, 2010.
6] Su questo tema si ricordano
i numerosi contributi di Cipolla, in particolare il volume che ha curato
nel 2002.
7] Dal rumore dei bicchieri del
bar dove è stata svolta l’intervista, al suono della fotocopiatrice del
dipartimento, fino ad arrivare alla rielaborazione di musiche tipiche
dei paesi di origine degli intervistati.
8] Su questo punto, il dibattito
si è di recente ampliato con l’avvento degli studi delle neuroscienze
che hanno fornito un contributo interessante in merito alle posizioni
weberiane, introducendo nella discussione l’aspetto biologico dell’empatia
(cfr. Gallese et al., 2010).
9] Longo ricorda, a questo proposito,
anche la posizione di Bernsteins (1976), sottolineando che esistono meccanismi
complessi di difesa, resistenza e di autoinganno che possono rendere incomprensibile
per i soggetti descrizioni sociologicamente accurate della loro azione
(ibidem).
10] Queste difficoltà sono esposte
nel film da Emanuela Abbatecola in un monologo che riflette sulla possibilità
effettiva per un sociologo/una sociologa eterosessuale di essere accettato/a
nel mondo LGBT.
11] Se vuoi capirmi “cammina
per tre lune nei mie mocassini” si dice sia un proverbio degli indiani
d’America.
12] Trad. a cura di Sebastiano
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