Somatisation de la précariété
Roberta Cavicchioli et Andrea Pietrantoni (sous la direction de)
M@gm@ vol.9 n.2 Mai-Août 2011
DECONTESTUALIZZAZIONE DEL SINTOMO E BIOGRAFIA: IL MALESSERE DELL'HOMO NARRATIVUS - NARRARSI NELLA PRECARIETÀ
Gloria Bardi
globa@vodafone.it
Docente di Lettere e Storia, Liceo Classico G. Chiabrera di Savona; Collaboratrice della Cattedra di Filosofia Morale, Università degli Studi di Genova.
Partendo da alcune considerazioni antropologiche, che si riferiscono all'uomo come "narrativus" o "narrans" che dir si voglia, identificherei come condizione di benessere psicofisico il bisogno di vivere narrativamente, il bisogno cioè di biografia. Procederei poi a identificare come la medicina sia oggi spesso messa sotto accusa perché ha smarrito questa dimensione nell'eccesso di tecnologia e specializzazione. così si è creata un'estraneità tra medicina e salute in senso ampio. Procederei poi a rilevare come la posizione dell'uomo oggi venga resa frammentaria anche a livello lavorativo, impedendo il consolidarsi di biografie lineari- la precarietà sul lavoro costituirebbe come ulteriore attacco all'homo narrativus. In conclusione evidenzierei come recupero di salute "antropologica" implichi un modificarsi e della medicina e del lavoro.
Nel presente contributo intendo solo fornire alcuni spunti di riflessione, ben lontani dall'essere soddisfacenti nei confronti dell'argomento trattato. Credo che valga comunque la pena cimentarsi e muovere interrogativi, anche a rischio di qualche scorciatoia dal punto di vista dell'informazione e del dettaglio analitico.
L'espressione “somatizzazione della precarietà” va innanzitutto
analizzata. Essa contiene due elementi in relazione. Gli elementi sono
il corpo e la precarietà. Per "precarietà"
non si intende un carattere generale dell'esistenza umana mortale, ma,
così io lo leggo e così mi confermano le note della curatrice, un dato
storico-sociale ben definito, ovvero, in particolare, la precarietà lavorativa
che caratterizza la presente stagione della storia e, almeno a vista e
nel comune sentire, quella futura.
Quindi, esiste un terzo elemento, implicito ma incisivo, su cui molte
riflessioni di antropologia filosofica si sono nel tempo concentrate:
il lavoro. A rischio di "tirar troppo la corda", aggiungo
che c'è anche un altro protagonista che fa da sfondo significante alla
scena, ovvero il concetto di salute, con cui la "somatizzazione"
deve fare i conti.
Il tratto propositivo riguarda poi la relazione tra i quattro elementi: chi contribuisce a questa messa a fuoco dovrà considerare le conseguenze che la situazione di precarietà lavorativa ha sul corpo, e per farlo dovrà passare per una riflessione sull'importanza del lavoro nella salute umana.
Questo tenterò di chiarire nella prima parte del presente lavoro, mentre nella seconda cercherò di estendere la riflessione al contesto e considerare la precarietà, sempre come dato storico-sociale e culturale ma in senso più ampio. Nella parte conclusiva esemplificherò in concreto la somatizzazione in due tipi di patologie: le crisi di panico e l'anoressia.
Ora, credo sia superfluo soffermarmi sul fatto che il corpo, in quanto
umano, comprende sia l'aspetto più genericamente biologico
che quello definibile "teleologico", per cui il corpo
è portatore di significati e progettualità che vanno oltre la semplice
biologia, in un'unità psico-somatica ormai culturalmente
acquisita.
Ricorderò soltanto la definizione che di salute ha dato nel 1948 l'Organizzazione
Mondiale della Sanità: "stato di completo benessere fisico, psichico,
sociale e non semplice assenza di malattia". La definizione contiene anche
il senso unitario di quei tre fattori, che tenderanno quindi a corrispondersi.
Un significato non anatomico ma olistico del corpo, come discende dalla
citata definizione letta a partire dal "fisico", sta alla base della medicina
narrativa, di cui ho avuto in passato occasione di occuparmi,
dal punto di vista filosofico e bioetico.
Allontanandomi solo un secondo dal tema della precarietà lavorativa, dirò che è da più parti riconosciuta l'esigenza di superare la deriva specialistico-tecnologica in cui per anni si è invece inoltrata la medicina, spesso vedendosi perciò preferire le medicine alternative, sia nell'aspetto diagnostico che terapeutico, in quanto ha perso di vista proprio la dimensione olistica e relazionale del corpo, il riferimento biografico della malattia, la centralità dell'anamnesi, l'importanza della relazione medico-paziente in termini di contatto fisico e di narrazione. Lo stesso corpo, così concepito, tende a smaterializzarsi per tradursi in dati, lastre, tracciati, diagrammi ecc.
La medicina narrativa risponde a ciò richiamando l'importanza del concreto
e del biografico per quanto riguarda l'interpretazione e la salute del
corpo. Credo che, accanto alle varie e mai esclusive definizioni dell'uomo,
che lo hanno visto prima sapiens poi faber, ludens ecc. possa essere accreditabile
"homo narrans" o "homo narrativus", che dir si voglia.
Questo significa che la possibilità di narrazione costituisce un fondamento
dell'umanità, per cui dove non si dà possibilità di narrazione si disumanizza,
con pregiudizio della salute intesa come benessere. Un pregiudizio che,
da qualunque dei tre termini sia partito, si esprimerà in linguaggio fisico,
psichico e sociale.
Prima di trasportare il discorso sulla precarietà, voglio chiarire ancora
un dettaglio: la narrazione è organicamente legata al corpo e a quel tratto
costitutivo del corpo, specie del corpo vivente, che è il divenire.
Cosa si potrebbe mai raccontare dell'eterno presente immoto? Anche nel
pensiero creazionista, malgrado le disamine agostiniane, Dio accoglie
in sé il divenire; nel pensiero cristiano poi addirittura si incarna e
muore.
Il divenire narrabile è un divenire caratterizzato da continuità e non
da disgregazione. Come non è narrabile l'eterno presente, nemmeno lo è
il totalmente frammentario. Ora, si può dire che il bios diveniente è
già di per sé implicitamente narrante, essendo la vita storia
biologica, sia in senso onto che filogenetico. Il nostro corpo
si racconta a chi lo interroga anche senza le nostre parole.
Perché poi vi sia narrazione in senso consapevole occorrono un corpo e
una mente, comunque la si voglia intendere. Grazie a quella mente, il
significato del corpo, in quanto umano, non è solo biologico ma, come
dicevo sopra, teleologico, tale da farsi protagonista
di un progetto di vita significante e desiderabile in senso extrabiologico.
Anzi, in senso ultrabiologico. In assenza di un simile progetto, il corpo
è degradato a puro bios e quindi privato della sua umanità e della sua
complessità.
Ebbene, il lavoro rappresenta un anello di congiunzione
essenziale, perché il lavoro è un'attività complessa, atta a fornire una
soddisfazione altrettanto complessa. Il lavoro infatti riveste valore
strumentale ai fini della sopravvivenza perchè "chi non lavora
non mangia", ma anche essenziale per una vita costituita
di dignità, data dall'autonomia personale, cui l'indipendenza economica
è indispensabile, o data dalla possibilità di porsi responsabilmente verso
obiettivi considerati fondamentali, come costituire una famiglia e mantenere
i figli.
Il lavoro è inoltre evolutivo, o dovrebbe esserlo, ovvero migliorato con
l'esperienza, con l'individuazione di obiettivi in crescita, che ne fanno
fonte di orgoglio, stima e riconoscimento e al tempo stesso rendono il
lavoratore non facilmente sostituibile. Ma dell'importanza del lavoro
dal punto di vista antropologico ci sarebbe molto da dire, sulla scorta
di pagine memorabili come quelle in cui Marx ne fa lo
specifico dell'uomo, ove questi realizza quindi, quando non sia alienato,
la propria umanità. E infatti Marx considerava tale l'alienazione
del lavoro, oltre che rispetto all’oggetto e al soggetto, rispetto alla
specie.
E’ comunque evidente per tutti, Marx o non Marx, come il lavoro entri fortemente nella sostanza narrativa di un'esistenza, nel suo biografico socialmente contestualizzato. Il lavoro costituisce una sorta di cordone ombelicale che lega il singolo alla collettività, in posizione di reciproca dipendenza. L'insieme è sano se lo è la parte, ovvero se tale dipendenza è di fatto ed effettivamente reciproca e il lavoratore ha forza contrattuale e cognizione degli obiettivi, così che ne risulti appagata la natura teleologica.
Ed eccoci alla precarietà.
La narrazione. scrivevo sopra, avviene dove vi è un divenire che si distende
con fondamentale coerenza, continuità o, meglio, riconoscibilità del percorso.
Ora, come osserva Sennett nel suo "L'uomo flessibile",
dove il lavoro si presenta come discontinuo, frammentario, cangiante la
sostanza narrativa dell'esistenza umana non può che risultarne fortemente
pregiudicata, come pure l'evoluzione delle abilità cimentate. Siccome
poi non siamo isole, la nostra personale narrazione coinvolge contesti
co-narrativi espliciti, che interagiscono virtuosamente quando non avviliscono
e destituiscono di significanto e progettualità le storie dei singoli.
Per il mancato riconoscimento intersoggettivo del lavoro nel sistema capitalistico,
Marx parlava di alienazione rispetto al prossimo. Insomma,
chi ci da il lavoro, nel darcelo in un certo modo, ovvero sfruttandoci
e riducendo la nostra mente a corpo e il nostro corpo a macchina produttiva
(due livelli di riduzione, quindi), ci nega. Il corpo risulta cioè sganciato
dagli intendimenti del soggetto, distolto dall'identità psicofisica che
lo lega a una mente finalistica, e reso strumentale a intendimenti altrui.
La dimensione non è "ultrabiologica", ovvero tale da assumere il biologico in una storia personale più nobile, ma è anti-biologica, perché riduttiva: la vita del singolo regredisce a ingranaggio di un gigantesco meccanismo e come tale, lungi dall'acquisirla, perde dignità. E questo avviene tanto più dove il lavoro non solo è condizionato esecutivamente ma è dato e tolto da decisioni altrui, col risultato che la propria storia è alla mercé di storie altrui e, con essa, la salute intesa nel senso olistico della citazione dell'OMS.
Interessante considerare l'etimo del termine "precarietà", che deriva
da "precor", pregare per ottenere. A Roma si usavano
delle insegne lapidee sulle vie private che recavano la scritta: "Privatum
iter. Precarium itur", ovvero "Strada privata. Si passa su richiesta".
Il termine "precarietà" allude quindi a una dipendenza da altri in condizione
di concedere.
Ma il dato più tragico di questo quadro sta nella fatalità caratterizzante
le decisioni che riguardano chi lavora e che sono del tutto sganciate
dal merito. Non solo vengono sacrificate durata e continuità del rapporto
lavorativo ma ne viene resa indifferente la qualità.
Ciò significa che non esistono più strategie ragionevoli per garantirsi
il futuro, fondate su predizioni giuste e razionalmente giustficabili.
Ciascuno, svuotato di storia, risulta astrattamente "impiegabile", utilizzabile
in altri e spesso casuali contesti. Il termine "buono" con cui si esprime
questo camaleontismo indotto, è "flessibilità". Il problema
non riguarda però l' attitudine personale a differenziare il proprio percorso,
sviluppando diverse competenze, ma piuttosto il carattere casuale del
percorso, frammentario e senza trama.
Ciascuno è sottoposto ai contraccolpi del "sistema globalizzato" in rapido
divenire, la cui regia sfugge, tanto da presentarsi come "brutto poter
che ascoso a comun danno impera". L'interlocutore di chi lavora non
è oggi il padrone dell'azienda o il consiglio di amministrazione, dotati
di nome e volto, comunque riconoscibili e raggiungibili, ma un complesso
inestricabile, che non è dato cogliere conoscitivamente e che si insedia
sullo scranno che un tempo era delle parche, con la differenza che taglia
o tende fili anonimi.
Si tratta quindi di un sistema fondamentalmente irresponsabile.
A chi potremmo infatti chiedere risposta? Ognuno rilancia a qualcosa che
gli rende impossibile fare scelte diverse. Anche gli organismi di tutela,
associazioni sindacati ecc, dimostrano scarsa capacità di interlocuzione
e scarso bagaglio semantico per interpretare il nuovo.
Il sistema si autoalimenta in una concatenazione che, quando pure non
delocalizza, fa dipendere l'occupazione dai consumi e, fagocitando questi,
spinge il mondo verso l'entropia, che si presenta sotto forma di allarme
energetico o allarme rifiuti. In generale, non si intravede futuro
se non catastrofistico, o come disastro ecologico o come guerra di civiltà.
Non è un caso se oggi si alimentano pratiche divinatorie,
magiche e orientamenti religiosi o pseudo tali, che possano rendere, in
qualche modo, attendibile l'imponderabile e interferire con le decisioni
che ci trascendono nel senso di una cieca trascendenza.
Con le ultime osservazioni, il discorso ha già messo piede in quella che
ho annunciato come "seconda parte", dedicata alla considerazione di come
la precarietà personale e lavorativa si leghi a un contesto stico e socio-culturale
che, con la globalizzazione e la tecnologia avanzata e onnipervasiva,
ha smarrito i propri contorni e i propri criteri di insieme, confondendo
altresì reale e virtuale, e ciò già sul piano economico con lo spostamento
dal produttivo al finanziario. Una complessità siffatta risulta non pensabile,
e quindi illogica, e non controllabile: si tratta di quella che Bauman
ha definito icasticamente "società dell'incertezza",
mentre ha definito "liquida" la vita che vi si svolge.
Nella società dell'incertezza, oltre al resto, liquidi sono i legami,
gli affetti, le relazioni umane di qualsivoglia tipo, liquide sono le
biografie e, come tali, non narrabili. Anche il citato paradigma della
flessibilità vi rientra.
Il corpo stesso si rende "liquido", in quanto esposto a una tecnologia
dell'alterazione, che se per alcuni versi è rassicurante, per
altri è inquietante e, comunque, tale da spostare dalla vita al laboratorio
la regia del nostro divenire. Da sempre medicina e chirurgia interferiscono
sacrosantamente con i decreti naturali, integrando o rimediando un divenire
problematico senza però sostanzialmente smentirlo. Oggi il corpo è limite
da superarsi non per risoluzione ma per alterazione ed è il suo stesso
divenire a essere in gioco.
Si parla di corpo post umano, di ingegneria genetica
ed altro, in breve di assorbimento del corpo nella spirale dell'industria
e del consumismo. Il lifting o, meglio, il ricorso compulsivo
alle pratiche di eterna giovinezza, e il senso di frustrazione di chi
non può ricorrervi, andrebbe forse considerato nella somatizzazione della
precarietà in senso lato, rispetto a un corpo sottratto al passare e illusoriamente
"fissato".
Anche la linea di trasmissione generazionale è alterata, infatti l'informatica
ha prodotto un'inversione delle dinamiche narrative, segnando una profonda
discontinuità dei saperi e relegando i vecchi in una sorta di demenza
generazionale, data dall'irrecuperabilità digitale. Le nuove generazioni
vengono definite "nativo digitali" e, per loro, il sapere
dei nonni è superfluo, lento, inutile, inattingibile. Quanto alle generazioni
di mezzo, digitali per bisogno ma non native, avvertono la maggiore adeguatezza
dei propri figli al mondo del tempo reale, che, se andiamo a vedere, è
di per sé un tempo scarsamente narrativo.
La vecchiaia, che rappresenta il capitolo avanzato della biografia, mai come oggi è rifiutata, sia con l'emarginazione degli anziani nelle così dette "residenze protette", sia con la già citata smentita chirurgica dell'avanzare del tempo.
A tale realtà socialmente, culturalmente, storicamente, verrebbe da dire
"metafisicamente" segnata dalla precarietà, corrispondono diverse patologie
e somatizzazioni del disagio, tra cui le dilaganti "crisi di panico"
e i disturbi dell'alimentazione, e in particolare l'anoressia.
A queste due vorrei riferirmi, perché riguardano soprattutto le fasce
giovanili, che nella precarietà sono nate e sono destinate a progettare
la propria vita.
Per le nuove generazioni bisogna considerare alcune aggravanti, come la diffusa non disponibilità di radici rassicuranti, con la crisi che investe le famiglie spesso separate, nei casi peggiori "in casa". La realtà, in genere iperconflittuale, dei separati in casa è comunque in genere una conseguenza della precarietà economica, che non consente al singolo di affrontare le spese di una nuova soluzione abitativa. Vi sono poi nuovi modelli di famiglie. allargate, monoparentali o monogenere, che, nel bene e nel male, ne complicano la definizione.
Non intendo essere critica verso il nuovo, ma cogliere descrittivamente l'effetto di disorientamento che può indurre, finché non culturalmente e socialmente assimilato.
Il collegamento simbolico tra panico e senso della precarietà è immediato
e va solo sottolineata la ricaduta somatica, che si presenta variamente
come senso di soffocamento o nausea e giramento di testa, vertigine o
altro ancora. Molti giovani ne sono affetti, specie nell 'adolescenza,
una classica stagione di instabilità che nell'instabilità oggi ricade,
e, in particolare, nel passaggio tra scuola superiore e università, quando
sono chiamati a dare definizione a un futuro indefinibile. Ne soffrono
comunque anche persone più adulte e già inserite nelle problematiche del
lavoro.
Quanto all'anoressia, se è vero che essa non è una novità, è anche vero che non è mai stata ricorrente come nella presente stagione, estendendosi sempre più, sia per genere che per età. Io non voglio sovrapporre la mia interpretazione a quella di medici o psichiatri ma solo tentarne una lettura simbolica. Non credo che l'anoressia sia da collegarsi solo al condizionamento di alcuni modelli proposti da media e moda ma credo che sottenda un sentire più complesso che ha a che fare col nostro argomento. In genere, chi soffre di tale disturbo ha una personalità interessante, riesce bene dal punto di vista scolastico e lavorativo, tanto da aver fatto pensare a un patologico proposito di perfezione. Il soggetto anoressico o predisposto a tale patologia è infatti tutt'altro che superficiale e disponibile ad assumere acriticamente modelli televisivi. Credo, anche sulla base di storie con cui sono venuta a contatto, che l'anoressia rappresenti una prova di potenza, un tentativo di liberazione dalle dipendenze, a iniziare da quella primaria: il cibo. Si punta anche qui a una sorta di smaterializzazione del corpo, che gli consenta di trascendere il bisogno e il limite. In un contesto di precarietà, dove si è sovraesposti alle dipendenze, astenersi dal cibo significa, implicitamente e in maniera patologica, non consegnare il proprio corpo al sistema, in un massimo di resistenza e, al tempo stesso, adattività. Essa si accompagna spesso a una nostalgia dell'infanzia, quando la vita era protetta e disponibile all'illusione, non perciò deve essere intesa come una sorta di volontà di morte ma piuttosto come un disperato attrezzarsi per la vita.
Al termine di questa breve e forse un po' caotica riflessione sulle conseguenze
della precarietà, vorrei fare però una precisazione per quanto riguarda
il lavoro, senza la quale il discorso celerebbe un sottoscala contraddittorio.
Se è infatti vero che la precarietà ne rende difficile il tradursi biografico,
è anche vero che altrettanto ha fatto in passato quella che potremmo definire
la "fissità" caratterizzante un lavoro, di cui un malinteso
egualitarismo e garantismo ha spesso impedito l'evoluzione. Purtroppo
e a dispetto di Marx, spesso si è difesa l'occupazione pura e semplice
contro il lavoro, ledendo ogni spinta al miglioramento, nell'indifferenza
e mortificazione di impegno e capacità. Il "fissismo" lavorativo è stato,
da parte opposta, altrettanto anti-narrativo e deresponsabilizzante quanto
lo è oggi la precarietà e, di conseguenza, disumanizzante e tale da produrre
somatizzazioni del disagio.
Infatti, il posto fisso garantito e non evolutivo, quindi spesso ripetitivo
e avvilente, finiva per produrre uno sviluppo unilaterale della personalità
umana, irrigidita in un'unica competenza. Se la "flessibilità" di cui
si parla oggi è un modo edulcorato per indicare la precarietà, va però
riconosciuto che il "fissismo" sclerotizzava il lavoratore e lo impigriva
in solchi spesso altrettanto anonimi e umanamente deprimenti, dove non
venivano mai rimisurate le competenze. Il caso degli insegnanti è emblematico.
Se la crisi di panico è il male di oggi, la depressione
e quello che veniva chiamato "esaurimento nervoso" non
risparmiavano di certo l'equilibrio psicofisico dei cipputi e dei travet
di ieri.
Forse la salute risiede aristotelicamente nell'equilibrio e l'equilibro
nell'esercizio della responsabilità e della mai rinnegabile "phronesis",
tanto più in un mondo che rischia il collasso per eccesso, dal punto di
vista della complessità. E tale significato di "salute" rappresenta la
sfida etica, storica, economica e politica, con cui deve cimentarsi l'immaginario
morale e sociale di noi, presumibili postcontemporanei.
newsletter subscription
www.analisiqualitativa.com