
Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012
RACCONTARE LA SICUREZZA SUL LAVORO … ATTRAVERSO LE STORIE DEGLI ALTRI!
Silvia Doria
sildoria@yahoo.it
Dottore di ricerca in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche al Dipartimento di Scienze Sociali (DiSS) della Sapienza Università di Roma. Collaboratrice didattica della cattedra Conoscenza, Apprendimento e Comunicazione dei processi Organizzativi (DiSS) . Principali interessi di ricerca: etnografia organizzativa; sicurezza sul lavoro; studi di genere; analisi delle politiche pubbliche.
1. Introduzione
Sicurezza sul lavoro e infortuni sono temi blindati nei discorsi ufficiali
dei politici, delle istituzioni preposte al controllo della normativa,
di imprenditori e dirigenti. Raccontano di operai sprezzanti del pericolo
e poco inclini a rispettare le norme. Entrare in cantiere [1],
però, è un’altra storia dove i “destinatari†dei discorsi dominanti diventano
soggetti/attori di storie che raccontano paradossi, ricatti e fatica nel
rincorrere un difficile equilibrio tra norme, diritti, pratiche di lavoro
e richieste contraddittorie che sorgono quotidianamente in cantiere.
Lo shadowing dei responsabili di cantiere [2]
mi ha permesso di incontrare gli operai di diverse ditte impegnate nella
costruzione di una nuova linea metropolitana a Roma. Alcuni di loro si
sono incuriositi verso la mia ricerca, cercando di capire cosa stessi
facendo in un contesto così duro e pericoloso [3].
Benché la delicatezza del tema della sicurezza sul lavoro abbia portato
ad un’osservazione “mediata†delle pratiche di lavoro degli operai – avendo
avuto accesso al campo/cantiere sempre “scortata†da un responsabile di
cantiere – la possibilità di svolgere delle interviste ha prodotto racconti
legati a episodi di infortuni accaduti ad attori diversi dai narratori
delle storie. La portata euristica di queste storie e il loro interesse
sociologico saranno approfonditi entro una dimensione narrativa (Czarniawska,
2000; Gherardi, 2000b, 2006; Poggio, 2004; Jedlowski, 2000) nel lavoro
che segue.
La “svolta narrativa†all’interno degli studi organizzativi si è avuta
negli anni Novanta quando la conoscenza narrativa ha acquisito legittimazione
come una delle diverse e possibili forme di conoscenza (Gherardi, 2000a).
Diversi autori hanno contribuito a tale svolta – Lyotard (1979), Bruner
(1986), MacIntyre (1988) – e hanno imposto l’attenzione sulla rilevanza
del sapere narrativo per gli studi sociali, ma anche per le cosiddette
scienze naturali. Barbara Czarniawska, per esempio, considera la narrazione
sia un “modo di conoscere†che un “modo di comunicare†(Czarniawska, 2000),
offrendo attraverso il suo Narrare le organizzazioni, uno strumento interpretativo
per produrre conoscenza narrativa e disporre di metafore complesse per
fenomeni complessi (Gherardi, 2000a).
La nozione di sapere narrativo ha avuto la capacità di metterci in guardia
“dai modi in cui sono costruite le storie†(Czarniawska, 2000: 9) della
nostra vita e della società più in generale. La narrazione, infatti, rende
una situazione comprensibile, in senso weberiano, per se stessi e per
gli altri; è “un tipo d’azione che costituisce gli attori, i campi e le
reti d’azione†(ibidem: 246); essa costituisce le relazioni mettendo in
contatto tra loro chi racconta e chi ascolta. È per questo motivo che
il sapere narrativo può offrire un’interessante chiave di lettura dei
rapporti tra “controllati†e “controllori†in uno studio sulle pratiche
della sicurezza, per comprendere i paradossi e le contraddizioni che si
generano in un luogo complesso come il cantiere edile.
Il paper si apre con una breve disamina sulle motivazioni e i contributi
che hanno portato l’affermazione del sapere narrativo all’interno degli
studi organizzativi ed il suo imporsi come forma di sapere accanto a quello
scientifico, in modo anche più diffuso. Occorre ricordare che le stesse
scienze naturali hanno una loro dimensione narrativa importante, basti
pensare alla costruzione dei discorsi attorno alla scienza (Lyotard, 1979;
Czarniawska, 2000).
Proseguendo, metterò in evidenza il legame tra la narrazione e la sicurezza
sul lavoro, attraverso due tipi diversi di storie sugli infortuni: quelle
raccontate da chi “controlla†il rispetto delle norme di sicurezza e chi,
da “controllatoâ€, le mette in pratica quotidianamente, spesso trasformandole
per tradurle finanche a tradirle (Gherardi, Lippi, 2002), secondo il lessico
della Actor Network Theory (Callon, 1986b; Latour 1987; Czarniawska, Joerges,
1995; Czarniawska, Hernes, 2005).
Le due tipologie di storie sono accomunate da una sorta di reticenza/indisposizione
iniziale a parlare di sicurezza [4],
soprattutto con l’estranea/ricercatrice, e se si accetta di farlo si ricorre
alle storie degli altri.
2. La narrazione nelle organizzazioni
L’importanza di occuparsi di narrazioni, racconti, storie, anche per la
sociologia, è ben evidenziato dal lavoro di Barbara Poggio (2004). L’autrice
offre tre importanti ragioni a sostegno di tale rilevanza: la prima è
che il narrare è una forma di “(inter)azione sociale†in quanto implica
sempre un interlocutore, sia esso reale o virtuale; continua considerando
l’atto del narrare un atto relazionale, la cui storia raccontata necessita
di un destinatario che l’ascolti; infine, ricordando come all’origine
di ogni narrazione sembra esserci il desiderio del narratore di veder
riconosciuta la propria esistenza dal destinatario (Jedlowski, 2000).
Dunque, una storia esiste grazie all’interazione tra gli esseri umani
che manifestano da sempre la loro volontà di “mettere in comuneâ€, di scambiare
le proprie storie e rendere ogni narrazione un “artefatto culturale†(Poggio,
2004).
La narrazione, dunque, ha finito con il rappresentare una delle principali
fonti di conoscenza organizzativa, portando l’attenzione dei ricercatori
sempre più verso numerose piccole narrazioni e interpretazioni presenti
all’interno di ogni contesto di lavoro. All’origine di tale “svolta narrativaâ€
vi è la convinzione che attraverso l’analisi delle diverse modalità di
narrare un’organizzazione sia possibile portare alla luce le letture soggettive
e le rappresentazioni che gli attori hanno delle organizzazioni in cui
operano. Attraverso di esse, inoltre, è possibile conoscere i modi in
cui essi producono una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà .
Sempre più le narrazioni sono riconosciute oltre che come artefatti organizzativi,
anche come strumenti e processi di organizzazione, ovvero “storie che
organizzano†(Czarniawska, Gagliardi, 2003, in Poggio, 2004: 91).
Diverse sono le funzioni delle narrazioni all’interno delle diverse organizzazioni:
esse possono essere considerate sia forme importanti di espressione della
cultura organizzativa che potenti veicoli per la socializzazione (Louis,
1980; Trice, Beyer, 1993), ma anche manifestazioni di un sistema condiviso
di norme e valori (Gabriel, 1988; Cortese, 1999, in Poggio, 2004).
Le storie sulla sicurezza sul lavoro raccolte riflettono le conoscenze
e le pratiche messe in atto all’interno di un ben più ampio sistema culturale
al quale i membri del gruppo che si scambiano tali storie appartiene,
ovvero una cultura di classe operaia maschile affermativa (Collinson,
1992; Gherardi, 2006), spesso sprezzante del pericolo (Doria, 2011a).
Infine, un’altra motivazione che ci permette di ricorre alle narrazioni
entro un prospettiva sociologica è la possibilità di vedere la narrazione
come una costruzione sociale: “il racconto non è mai un mero rispecchiamento
della realtà , ma un processo interpretativo, una costruzione che mette
in relazione degli eventi assegnando un ordine e attribuendo significatoâ€
(Poggio, 2004: 31). Ed è proprio questa considerazione ad essere significativa
entro uno studio della sicurezza sul lavoro in alcuni cantieri edili della
Capitale. Tra gli operai e i responsabili di cantiere ai quali ho “fatto
da ombra†(Sachs, 1993; Sclavi, 2000; Bruni, 2003; Czarniawska, 2007),
ma anche tra le “figure della sicurezza†intervistate, infatti, la pratica
più diffusa era quella di raccontarsi storie di cantiere, proprio a sottolineare
quell’“urgenza narrativa†di cui parla Bruner (1986): raccontare il proprio
lavoro; come si è appreso il mestiere [5];
i cantieri in cui si è lavorato insieme, i retroscena di grandi opere
pubbliche e di “personaggi†[6] (imprenditori,
politici) noti alla cronaca. La presenza della ricercatrice sul campo
per un periodo di circa tre mesi ha permesso di renderla “più familiareâ€
al contesto-cantiere, dandole la possibilità di ascoltare le storie di
cantiere sugli altri operai. La non disponibilità a raccontare in prima
battuta storie di infortuni, dunque, ha lasciato il posto alla volontÃ
di rendere un’“estranea†partecipe e consapevole delle dinamiche che abitano
il cantiere, dei giochi di forza e di potere che si instaurano tra operai
e loro responsabili, scegliendola quale testimone e interprete di quello
che accade in cantiere e di cui non si sa abbastanza proprio per non volerne
parlare con chi ne è al di fuori.
Con Lyotard (1979) potremmo dire che attraverso i racconti si trasmettono
delle regole pragmatiche parte di un sapere sociale circa ciò che bisogna
saper dire, saper intendere e saper fare (Gherardi, Poggio, 2003) e questo
riguarda anche l’atto stesso del raccontare: la scelta di condividere
alcune storie con un’“estranea†è motivata dalla volontà di comunicare
qualcosa di diverso dal più conosciuto racconto sulle negligenze degli
operai e le non responsabilità dei loro superiori.
Gli attori hanno ribadito quanto si preferisca non parlare di sicurezza
o di infortuni occorsi sul lavoro nella propria carriera professionale,
confermando la natura pratica e tacita della sicurezza (Gherardi, Nicolini,
2001), testimoniando come le storie non siano le esperienze vissute, “ma
ciò che si racconta†(Milk, 1970: 557 in Poggio, 2004: 31). Nell’essere
sollecitati dal ricercatore a parlarne – anche attraverso la richiesta
di aneddoti legati alla propria esperienza lavorativa – gli attori del
campo hanno preferito raccontare le storie degli altri, mettendosi così
al riparo dall’esibire una mancanza personale, un errore compiuto in prima
persona. L’esperienza dell’incidente, infatti, è legata ad un tipo di
cultura organizzativa in cui la sicurezza, o l’evento infortunistico,
è riconosciuta come una questione individuale (Gherardi, 2006; Catino,
Albolino, 2008) non legata all’organizzazione e alle pratiche sociali
prodotte e riprodotte al suo interno e, perciò, sanzionabili come non
rispetto della normativa tout court.
3. Conoscere la sicurezza sul lavoro raccontando le storie degli
altri
Le interviste, accanto alle note di campo prodotte durante lo shadowing,
hanno contribuito a dar conto della “polifonia†di voci e dei diversi
“discorsi†sulla sicurezza in cantiere: normativo, tecnico, economico,
educativo (Nicolini, 2001; Gherardi, 2006). Le storie sono state raccolte
attraverso le “conversazioni informali†durante le quali gli attori del
campo interagivano con la ricercatrice; le conversazioni dal vivo tra
gli operai o tra loro e i responsabili di cantiere durante lo shadowing
di quest’ultimi nella loro quotidiana attività di controllo del cantiere
e degli operai stessi; le interviste “formaliâ€, semi-strutturate e narrative
(Poggio, 2004; Atkinson, 2002), ad attori privilegiati incontrati in cantiere
portatori di una visione della sicurezza tipica del gruppo professionale
d’appartenenza.
Le interviste sono state somministrate a due “gruppi†principali: da un
lato, alcune “figure della sicurezza†[7]
che svolgono attività di controllo (“interno†e/o “esterno†[8])
in cantiere; dall’altro, alcuni operai che, durante lo shadowing dei responsabili
di cantiere hanno interagito in modo molto presente con loro (a volte
cercando la complicità della stessa ricercatrice). Ciò ha permesso di
evidenziare le dinamiche di controllo e mediazione della sicurezza sul
lavoro, oltre che rilevare esperienze, opinioni e significati che caratterizzano
e condizionano le modalità di lavoro degli stessi operai.
La mia presenza “scortata†sul cantiere durante lo shadowing, però, ha
reso difficile instaurare un dialogo diretto con gli operai, o osservarne
le pratiche quotidiane senza la mediazione dei “controlloriâ€. Motivata
dalla necessità di non farmi male e da una più celata esigenza di tenere
d’occhio l’estranea (sottolineando ancora una volta complessità e delicatezza
del tema), l’essere accompagnata sul campo è stata mitigata dalla disponibilitÃ
ad intervistare alcuni operai, avendo un contatto diretto con loro, diverso
dall’interazione mediata dai responsabili di cantiere.
La scelta degli operai intervistati ha cercato di rappresentare delle
caratteristiche peculiari dell’attività di cantiere: un operaio “anziano
ed esperto†(come definito da tutti gli altri operai e anche dallo stesso
assistente di cantiere) in grado di raccontare i cambiamenti che, dal
punto di vista della sicurezza sul lavoro, hanno investito il lavoro del
carpentiere; un operaio “esperto†nel campo delle grandi costruzioni;
un “giovane†di nazionalità romena [9];
un operatore di mezzi meccanici [10],
ritenuto “molto bravo†nel suo campo; un operaio “tutto fareâ€.
Ottenere le interviste non è stata impresa facile, anche perchè il tema
della sicurezza sul lavoro è controverso, per una sorta di scaramanzia
che attraversa il cantiere e ne oltrepassa i confini fino ad arrivare
ai livelli organizzativi. Come testimonia l’intervista ad un RSPP: “di
sicurezza si preferisce non parlare!â€. Dalla presenza sul campo, però,
si evince come la narrazione e il racconto facciano parte della vita quotidiana
del cantiere. Si raccontano esperienze di vita e familiari; episodi accaduti
nel passato significativi per le azioni presenti; modalità di lavoro e
trucchi del mestiere; si confrontano i modi di lavoro di alcuni anni fa
e la diversa attenzione odierna per la sicurezza. Il ricercatore-etnografo
ha cercato di cogliere le parole e le storie dei lavoratori incontrati
sul campo con l’intento di ricostruire una storia/narrazione su episodi
di infortunio o situazioni di pericolo vissute dagli attori intervistati
(come spettatori, uditori o diretti interessati). Rispetto a quest’ultima
questione è emerso un paradosso: sebbene la dichiarazione iniziale di
alcuni intervistati sia stata di non voler parlare di sicurezza (anche
come forma di scaramanzia, § 3.1), una volta intrapresa la strada del
racconto, molti di loro hanno attinto alla memoria proprio per far meglio
comprendere il loro punto di vista attraverso casi di infortuni accaduti
agli altri, a conferma di quanto la sicurezza sia una “competenza†sociale,
pratica, tacita ed estetica (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997b; Gherardi,
Nicolini, 2001; Gherardi, 2006; Strati, 2000).
Raccontare le storie degli altri raccontate sugli altri permetterà di
confrontare le diverse tipologie di storie ed evidenziare i punti di vista
sulla sicurezza e sugli incidenti degli attori che raccontano. La preoccupazione
di quest’ultimi è stata quella di mettersi al riparo da eventuali giudizi
o critiche rispetto a situazioni di non rispetto delle norme (non uso
dei Dispositivi di protezione o lavoro in nero, per esempio) alla base
di molti degli episodi raccontati. Sono stralci di vita quotidiana – quelli
che si possono raccogliere attraverso i racconti di aneddoti o brevi esperienze
– che spesso sono dati per scontati da chi li racconta, ma lasciarli emergere,
portarli alla luce e raccontarli diviene rilevante, soprattutto entro
una chiave interpretativa che permette di cogliere una “tramaâ€, ovvero
una rete di connessioni fra gli eventi raccontati, i personaggi citati
e le azioni compiute (Jedlowski, 2004).
Attraverso l’analisi del materiale a disposizione intendo ricostruire
due storie principali: la storia raccontata da alcune “figure della sicurezzaâ€
– ovvero da coloro che sono chiamati a controllare, formare, informare
sulle norme di sicurezza all’interno di un cantiere (con tutto il portato
relativo alla loro visione professionale in merito alla sicurezza) – e
la storia raccontata dagli operai (relativa alla loro visione pratica
della sicurezza) che spesso si trovano a non rispettare le norme proprio
per lavorare in sicurezza o perché l’organizzazione del lavoro della ditta
per la quale lavorano non è stata in grado di assicurare condizioni di
lavoro più sicure, bensì più produttive. Dai brevi racconti, infatti,
si evidenziano le esigenze contraddittorie alle quali gli operai sono
spesso sottoposti durante la pratica di lavoro: lavorare bene e in fretta,
per esempio, cosa che richiede di derogare, spesso legittimati dai propri
responsabili, all’uso di guanti o altre misure di protezione (Doria, 2011).
L’esplicitazione di tali esigenze rende evidente la dimensione pratica,
tacita ed estetica della sicurezza (Strati, 2000), così come ho avuto
modo di osservarla in cantiere. È il corpo il principale attore (che racconta)
e protagonista (che ha vissuto l’esperienza raccontata) delle due storie
che intendo ricostruire. La dimensione pratica e corporea del mestiere
operaio, compresa la pratica della sicurezza, sono centrali per la comprensione
delle due tipologie di storie. Sono corpi che hanno vissuto in prima persona
esperienze pericolose, riportando danni o anche solo segni sul corpo che
racconta. Attraverso la dimensione corporea, tacita, sensibile ed estetica
della conoscenza (Polanyi, 1958; Strati, 2000; Yakhlef, 2010; Viteritti,
2011) hanno appreso il loro mestiere e a far fronte alle diverse situazioni
di pericolo alle quali tale mestiere li espone.
3.1 Le figure della sicurezza raccontano: l’operaio è troppo
sicuro di sé
Nel caso di uno dei Responsabili del Servizio Prevenzione e Protezione
dell’organizzazione che mi ha ospitato per la ricerca, a generare “una
rottura†(breakdown; Gherardi, 2006) nella esecuzione di un lavoro è la
dimensione del “sapere pratico ed esperto†(Gherardi, 2000b; Gherardi,
Nicolini; 2001; 2004; Bruni, Gherardi, 2007), che riposa su un tipo di
conoscenza tacita ed estetica (Polanyi, 1958; Strati 2000; 2010).
La domanda utilizzata per ricostruire che tipo di “visione†(Goodwin,
1994) avessero le diverse figure preposte al controllo della sicurezza
in cantiere intervistate è cosa, secondo la loro esperienza, può favorire
o limitare l’accadere di incidenti e/o infortuni sul lavoro. Il racconto
della maggior parte di loro ha individuato nella “troppa sicurezza†l’origine
di un incidente.
“… paradossalmente, sembrerà strano a dirsi, a volte gli infortuni avvengono
per la troppa esperienza! [ … ] gli infortuni, soprattutto quelli che
apparentemente sembrano i più banali, sono dettati dalla troppa sicurezza:
siccome sono anni che si fa quel tipo di attività , siccome è tanto tempo
… a volte questo induce il diretto interessato ad una poca attenzione
delle azioni svolte nel compiere la lavorazione. La forte abitudine, la
troppa dimestichezza nella manualità , nella gestualità , nel fare certe
lavorazioni induce, forse anche inconsciamente, ad un abbassamento dei
livelli di guardia dal punto di vista della sicurezza! E quindi, sembra
strano a dirsi, ma a volte è dettato dalla troppa esperienza nella lavorazione
... una sorta di lassismo, forse anche involontario, da parte dell’operaio...
succede anche a persone che hanno esperienza ventennale, l’incidente banale!â€
(Intervista ad un RSPP).
Quando l’operaio, secondo il Responsabile SPP, acquisisce troppa familiaritÃ
con il suo mestiere, è il momento in cui può andare in contro ad un infortunio.
L’abitudine, la dimestichezza nella manualità , parte del sapere pratico
dell’operaio, lo portano a non aver più paura di quello che fa, elemento
che invece denota il giovane alle prime armi più prudente e meno spavaldo.
Ma la stessa affermazione può essere letta come ripetitività del lavoro
o come richieste spesso ricorrenti di lavorare bene e in fretta (come
hanno invece sottolineato gli operai) non prestando troppa attenzione
a ciò che si fa e come lo si fa.
Il Responsabile prosegue cercando in qualche modo di mettere al riparo
la propria organizzazione su eventuali “responsabilità †circa il verificarsi
di incidenti nei propri cantieri; cantieri di cui, tra l’altro, sottolinea
l’esiguità di casi di infortunio e, soprattutto, di casi ad elevata gravità .
“A volte ...fortunatamente da quanto abbiamo potuto rilevare nei nostri
casi, nei dati infortunistici dei nostri cantieri, è capitato che magari
qualche disattenzione a livello generale, questo può capitare, nel senso
che nonostante magari avesse ricevuto un’adeguata formazione/informazione
anche specifica per certe attività , magari, sì, in piccola percentuale
succede che l’operaio s’infortuni proprio per distrazione. Fortunatamente,
invece, in piccolissime percentuali avviene l’infortunio per mancata informazione.
Perché, comunque, le procedure di cantiere, le attività di cantiere sono
abbastanza standardizzate e, al di là del processo tecnologico, dell’evoluzione
della tecnologia che introduce oggi delle attività che magari quindici
anni fa non erano assolutamente immaginabili .. però .. al di là di questo
l’operaio .. può succedere che a volte potrebbe non essere sufficientemente
informato sul tipo di attività , e quindi, fortunatamente, sfortunatamente,
in piccolissima percentuale l’infortunio avviene ... potrebbe capitare
per mancata conoscenza specificaâ€(Intervista ad un RSPP).
Quello che il Responsabile tiene a ribadire è come, ancora una volta e
nella maggior parte dei casi, la “colpa†dell’infortunio sia da attribuire
unicamente all’operaio che “per distrazione†o per “lassismo†può farsi
male, mentre non è legata all’organizzazione come “mancata informazioneâ€
circa le procedure di lavorazione e le norme da rispettare in materia
di sicurezza, perché l’organizzazione è fortemente impegnata nella realizzazione
di corsi di informazione/formazione. Ad emergere, però, è la natura formale
di tale attività . Spesso l’organizzazione è preoccupata di “avere le carte
a posto†piuttosto che valutare se tali corsi si traducano in conoscenze
utili affinché il lavoro quotidiano dell’operaio (o del dipendente) sia
più sicuro partendo, per esempio, proprio dall’organizzazione del lavoro
dei cantieri, come emergerà nella seconda tipologia di storie (§ 3.2).
Di contro, quando il Responsabile SPP si è trovato a definire cosa per
lui significhi “fare sicurezzaâ€, è emersa la natura narrativa della stessa,
di pratica intesa “come tipicità del linguaggio, modalità dell’azione
e valori guida†(Gherardi, Nicolini, 2001: 236), soprattutto alla luce
di una precedente affermazione in cui ha ribadito che “per scaramanziaâ€
si preferisce non parlare di sicurezza e di incidenti tra colleghi, lasciando
affiorare quel “sapere popolare†che si tramanda tra i lavoratori/tecnici
(non solo gli operai come si vedrà ) e che tiene lontane certe “storie
di guerra†(Orr, 1995) su argomenti poco amati:
“Fare sicurezza, secondo me, è proprio parlare di sicurezza, in cantiere,
lo si può fare tranquillamente, perché a livello operativo, oltre i problemi
tecnici e tecnologici, non costa nulla sensibilizzare la cosa anche dal
punto di vista della sicurezza .. è proprio un aspetto intrinseco delle
attività , che però non tutti, o forse adesso è un po’ diverso il discorso
non lo so, non tutti riescono a fare un distinguo, poi a sviscerarlo da
altre problematiche… perché affrontare il problema della sicurezza significa
che è successo qualche cosa. Però, per evitare di parlare di sicurezza
è perché tu la fai a monte anche in maniera ... tacita, silenziosa o che,
ma purtroppo per la sicurezza bisogna parlare, parlare e dare fiato e
coinvolgere un po’ tutti†(Intervista ad un RSPP).
Il Responsabile mette in rilievo un elemento frequentemente associato
al tema della sicurezza: l’accadere dell’evento infortunistico o mortale.
Ricorda come spesso si parli di sicurezza perché “è successo qualche cosaâ€,
ovvero siano gli eventi, spesso tragici come quello della ThyssenKrupp
di Torino del 2007, a rincorrersi, a diventare storie di incidenti sul
lavoro da raccontare o da utilizzare come esempio/monito di un certo tipo
di organizzazione (Gherardi, Nicolini, 2001) o, più spesso, di una categoria
di persone (gli operai) che non rispettano le norme o sono “sfortunatiâ€
[11]. E sono anche eventi che sollecitano
la politica a dare risposte, come è accaduto per l’emanazione del Testo
Unico sulla sicurezza (D.lg. 81/2008) [12].
Il racconto del responsabile SPP è mediato dalla sua appartenenza ad un’organizzazione
che punta a dare “un’immagine†di organizzazione attenta alla sicurezza,
che esercita con rigore un controllo “interno†e ha responsabilità in
materia di sicurezza sul lavoro, soprattutto intesa in senso normativo
(Nicolini, 2001), ovvero legata al rispetto delle norme e alla loro applicazione
da parte degli operai delle ditte che a loro sono legate da contratti
di appalto/subappalto pubblico.
Diverso, invece, è il racconto di un Tecnico della Prevenzione di una
delle Asl di Roma che ribadisce la non casualità , in base alla propria
esperienza professionale, dell’accadere degli infortuni, dovuti invece,
molto spesso, alla “troppa sicurezza†o “praticità †del lavoratore.
“L’infortunio, come mi diceva i primi anni un magistrato, non è mai accidentale!
In effetti se uno ci pensa .. anche in macchina .. c’è sempre una parte
di partecipazione da parte dell’infortunato, o dell’impresa, perché se
ti attieni a quello che dice la normativa antinfortunistica, difficilmente
.. poi è chiaro, l’imprevisto ci può essere, però c’è sempre la compartecipazione
del ... Perché l’infortunio avviene? In linea di massima avviene alla
persona molto esperta per praticità , per routine … perché io ho notato
che chi fa un certo tipo di lavoro a rischio … i primi tempi ha paura
di tutto: ha sempre i guanti, i diversi Dpi, mentre quello pratico… Per
esempio, quello che piega i tondini di ferro da trent’anni ormai li piega
senza neanche guardare più la mano, magari si leva il guanto perché è
più pratico, magari lo fa anche perché da parte del datore di lavoro gli
dice mi devi fare una certa produzione, tot .. e quindi è la compartecipazione
di una serie di fattori. Perché, in linea di massima, quello inesperto
… è un po’ come in tutte le cose, secondo me, se uno scia, difficilmente
un principiante si fa un danno gravissimo, però quello che scia bene si
arrischia: va sul costone, va in un punto più ripido†(Intervista al Tecnico
della Prevenzione – Asl Roma).
Lo stralcio proposto richiama diversi elementi utili per una riflessione
sull’importanza delle narrazioni all’interno degli studi organizzativi
in generale e sulla tematica della sicurezza in particolare.
Il primo elemento dal quale il Tecnico della Prevenzione dell’Asl parte
è, a sua volta, un racconto che un magistrato gli ha fatto all’inizio
della sua carriera e che ha rappresentato “un insegnamento†per il giovane
Tecnico: “l’infortunio non è mai accidentale!â€. Attraverso quel racconto,
di cui riporta una breve ma significativa frase, il Tecnico ha potuto
orientare la sua pratica di ricerca e ricostruzione degli eventi utile
a condurre le indagini sugli infortuni occorsi nei diversi luoghi di lavoro
in cui è intervenuto. Una forma di socializzazione ad un sistema di pratiche
di cui il Tecnico iniziava a far parte.
La narrazione, dunque, è in grado di far emergere da un lato le letture
soggettive, dall’altro le rappresentazioni che gli attori hanno delle
organizzazioni in cui operano e i modi attraverso cui producono una conoscenza
condivisa della realtà . È la conoscenza condivisa, che in questo caso
è trasversale almeno a due organizzazioni (Magistratura da un lato, Asl
dall’altro) o se non altro a due attori di due diverse organizzazioni
che operano a stretto contatto, ad essere trasmessa dal magistrato al
Tecnico della Prevenzione, il cui lavoro è di grande rilevanza per il
primo. Sono, quindi, “storie che organizzanoâ€.
Dal racconto emerge ancora una volta come per i “controllori†sia il sapere
esperto, riconosciuto come appartenente ad un’intera categoria di lavoratori
(gli operai) che devono essere controllati, ad avere come contropartita
la probabilità che si verifichi un incidente. La posizione di controllore
“esterno†in cui si trova il Tecnico della Prevenzione, però, gli permette
di aggiungere un tassello in più circa le motivazioni che portano il lavoratore,
in questo caso un operaio edile, a non rispettare le norme. Da un lato
c’è la dimensione della pratica (Gherardi, 2000; 2006) che porta un operaio
a non adoperare i Dpi, i guanti e le cuffie per esempio, perché questo
gli permette di “sentire il ferro†con le nude mani, o “sentire i rumoriâ€
distinguendo i “suoni pertinenti†(Thibaud, 1991; Lang Hing Ting, Pentimalli,
2009) dai rumori tout court [13]. Queste
due modalità di lavoro, a prima lettura non sicure perché non rispettose
delle norme, consentono invece all’operaio di lavorare in sicurezza, quale
pratica incorporata e perseguita con tutto il corpo, pratica non ri-conosciuta
dai “controlloriâ€, eccetto dai responsabili di cantiere che conoscono
meglio le modalità di lavoro del cantiere.
Dall’altro vi sono le contraddizioni a cui sono sottoposti gli operai:
“lavorare bene, ma in fretta†e questo porta gli stessi a “liberarsiâ€
di tutto ciò che può essere d’intralcio ad una esecuzione veloce del proprio
lavoro, il che significa molto spesso togliersi i guanti, o lavorare in
condizioni che non sono sicure per gli operai, come si vedrà poco più
avanti, cosa quest’ultima che i “controllori†etichettano come “frettaâ€,
“lassismo†o “troppa praticità â€, come si evince dai precedenti stralci.
Per concludere sulle storie delle figure della sicurezza, è utile riportare
una storia che il Tecnico della Prevenzione dell’Asl ha raccontato su
un caso d’infortunio. Egli si è spesso trovato in situazioni in cui l’operaio
ha perso la vita o ha riportato conseguenze soprattutto psicologiche dopo
l’incidente, ma la storia che segue racchiude due elementi interessanti.
Da un lato, la dimensione euristica e di insegnamento che ricorre: raccontare
l’accaduto per insegnare che occorre fare diversamente. È la capacitÃ
delle storie di “generare conoscenza†di cui parla Cortese (2002), e attorno
alla quale si è raccolto l’interesse degli scienziati sociali, ad emergere
con forza. Il potere delle storie, infatti, risiede nella capacità di
mettere in contatto gli individui e la realtà circostante, “consentendo
loro di conoscere, di farsi conoscere e di produrre effetti†(ibidem:
VIII). La narrazione, dunque, come “una modalità di conoscenza e una modalitÃ
di comunicazione†(Czarniawska, 2000: 24). Dall’altro, l’uso di metafore
per rendere più familiare e comprensibile quello di cui si sta parlando,
riducendo l’evento “inatteso†o “straordinario†alla più rassicurante
routine (Jedlowski, 2000). Narrando si interpretano gli accadimenti e
si dà loro un senso che appartiene a chi racconta, ma che è reso disponibile
a chi ascolta (dimensione relazionale del racconto).
“.. non sei mai sicuro né davanti ad una macchina né ad una attrezzatura
.. forse una volta, ho assistito ad una situazione particolare, una falegnameria
dove sono andato a far vigilanza e su una parete c’era una sega, incastrata
nella parete! Una sega a nastro! di quelle .. non (con le mani mi indica
quella di tipo industriale e non di piccole dimensioni). In poche parole,
questa sega era stata lasciata lì, non era successo niente, perché un
giorno un operaio, nel lavorare a questa macchina con lo sportello aperto
della protezione, insomma si è rotto il nastro, perché può succedere,
metti un pezzo di legno eh, questa sega è uscita dal binario, ha camminato
per tutto il locale ad altezza d’uomo e si è andata a conficcare nella
parete. Tu ora immagina una sega di 1 metro e 60 che cammina così, come
una lama, all’interno del locale, cioè è uscita di là , può succede no?!
È rimasta incastrata nel muro e il datore di lavoro ha detto “la lascio,
così poi si ricordano quello che è successo!†.. Quindi, voglio dire,
.. ma se vai ad analizzare … il dolo qual era stato? Lasciar il coperchio
aperto della lama e utilizzare un .. perché, ogni tipo di attrezzatura
può lavorare solo a certe sollecitazioni, se io penso di poter tagliare
un pezzo di marmo con una sega di plastica, insomma, qualcosa succede,
primo o poi si romperà questa plastica! Poi, quindi, lui l’aveva lasciata
a mo’ d’insegnamento, ma lo sai perché?, perché l’operaio non è andato
a spostarsi su un’altra macchina, stava lì, “vabbè, taglio con questa!â€.
Perché è così, capito, avviene così l’infortunio. Tu, che ne so … perché
a casa non lo facciamo?! Magari devi mettere un quadro, ma che prendi
la scaletta? Prendi la prima sedia che ti capita e metti questo quadro!
Magari se non hai neanche il martello, batti direttamente con le pinze,
però .. è vero che avviene questo, per praticità …†(Intervista al Tecnico
della Prevenzione – Asl Roma).
Le storie permettono di rappresentare ed analizzare diversi fattori invisibili
e latenti all’interno dell’organizzazione, come le dinamiche relazionali
e di potere, le emozioni, le contraddizioni e le ambivalenze di cui esse
rappresentano il lato visibile (Gabriel, 1995, 1998, in Poggio, 2004).
La storia raccolta ben rappresenta la capacità di generare conoscenza
attraverso gli esempi: essi offrono a chi li ascolta “istruzioni concrete
e strategie di azioni situate, che possono essere applicate alle nuove
situazioni per analogia (Suleiman, 1983; Witten, 1993)†(In Gherardi,
Poggio, 2003: 19). Anche la scelta di lasciar la sega elettrica “conficcata
nel muro†è riconducibile alla volontà del titolare della falegnameria
di render vivo e presente il ricordo di quanto accaduto ai suoi operai,
come un “copione†(Wilkins, 1995) che, anziché ripetersi o tramandarsi
oralmente, è impresso in un simbolo (uno strumento di lavoro reso tale)
ben visibile a tutti coloro che accettano di lavorare in quella falegnameria.
Il Tecnico, da parte sua, cerca di far capire alla stessa ricercatrice
quanto sta affermando, ricorrendo ad una situazione che può esserle più
familiare, come “appendere un quadro†utilizzando strumenti/attrezzature
diversi da quelli richiesti e che in quel momento sembrano più comodi
e veloci da usare. Dal punto di vista del Tecnico, infatti, usare correttamente
gli strumenti adeguati (progettati) per svolgere un dato tipo di attività ,
può garantire una maggior sicurezza per l’attore che ne fa uso sia nel
caso di un lavoro che per attività di bricolage domestico.
3.2 Storie operaie: a me non è mai successo nulla …ma agli
altri sì
Accanto alle storie raccontate dai “controlloriâ€, vi sono le storie degli
operai, ovvero dei “controllatiâ€, di coloro che sono chiamati a mettere
in pratica la sicurezza, ma che spesso si trovano a non rispettarne le
norme. Diverse sono le letture che si possono dare del non rispetto della
normativa. Dalla ricerca sul campo è emerso come alcune situazioni possano
essere ricondotte ad una pratica della spavalderia tout court, legata
al tipo di cultura professionale di cui molti operai anziani sono ancora
“portatori†o espressione, ma che oggi non sembra essere attraente per
i giovani che intraprendono il mestiere dell’operaio edile. Accanto ad
essa, vi sono altre due letture che affondano le radici da un lato nel
sapere pratico (Gherardi, 2000; Bruni, Gherardi, 2007), dall’altro nella
necessità di collaborare e coordinarsi (Heath, Luff, 1994) con i propri
colleghi di lavoro: è il caso del non uso delle cuffie per distinguere
i “suoni pertinenti†(Thibaud, 1991; Lan Hing Ting, Pentimalli, 2009)
dai “rumori†durante uno scavo con mezzo meccanico, cosa che permette
di interagire con il proprio collega e, quindi, lavorare in sicurezza
(Doria, 2011).
In questo contesto, però, risulta rilevante il fatto che gli operai non
amino parlare di incidenti (come i loro responsabili), spesso perché raccontare
di aver subito un infortunio è associato ad una concezione di “errore
individuale†(Gherardi, 2006; Catino, Albolino, 2008). Al contrario, si
raccontano “storie di guerra†(Orr, 1995) su incidenti accaduti per testimoniare
la propria forza fisica, o la propria capacità di resistere ed esibire
eventuali ferite come “trofeo di guerraâ€, ovvero come rivendicazione di
una maschilità costruita sul mito dell’uomo macho, appartenente ad un’immagine
di classe operaia maschile che esibisce se stessa come sprezzante del
pericolo e che non bada ai segni presenti qua e là sul proprio corpo (Connell,
1996; Gherardi, 2006). Molti “tagli, taglietti e sciocchezze di questo
tipo fanno parte del gioco†(ha affermato un operaio anziano considerandoli
rischi connessi al lavoro edile) e quasi non se ne riconosce il legame
con episodi di infortuni/incidenti accaduti a loro stessi, o che la “fortunaâ€
ha fatto sì che non avessero conseguenze e tenessero l’operaio lontano
da eventi simili.
Dalle interviste è emerso come la loro preoccupazione maggiore sia quella
che mai accada loro qualcosa di grave, affidandosi quasi sempre alla benevolenza
divina. Affidarsi alla scaramanzia permette di contenere la negativitÃ
del negativo evitandole di espandersi, come de Martino (2004) evidenzia
nel suo lavoro sulla magia. L’efficacia di quest’ultima, al pari della
ragione, non risiede nel contenuto, quanto “nel consenso che una comunitÃ
storica e determinata affida ad esse†(Galimberti, 2004: X).
La scarsa volontà di parlare di “sicurezzaâ€, benché sollecitati dalla
ricercatrice, inoltre, ha reso difficile raccogliere storie su episodi
legati alla sicurezza e/o a incidenti.
“Una volta, in un piccolo cantiere, eh sì, me ne ero dimenticato … Stavo
lavorando su una fondazione e allora avevamo un collettore (grosso tubo
di raccordo) a ridosso del quale c’era tanta terra che ha schiacciato
un operaio! È l’unico momento in cui sono rimasto un po’ … siamo riusciti
a salvarlo perché c’era gente … io ero ragazzo all’epoca e quindi non
avevamo l’esperienza di adesso. C’erano i vecchi che stavano lì con me,
che l’hanno tirato fuori, portato al pronto soccorso, insomma, niente,
altrimenti non mi è mai capitato … ah, e una volta, aspetta!! Una volta
stavamo lavorando in nero, non so se M. (nome del suo collega da me intervistato)
te l’ha raccontato …†(Intervista ad operaio/carpentiere).
La reticenza iniziale lascia il posto ad un racconto che attinge alla
memoria senza più resistervi, ricordando episodi rimossi – molto probabilmente
perché non condivisi frequentemente, visto che “è sempre meglio non pensarci,
non stare a rivangare quelle coseâ€, come afferma un operatore di mezzi
meccanici intervistato – ma che affiorano e diventano utili elementi per
il ricercatore. Intanto, si parla di storie degli altri, sono gli altri
operai ad aver subito un infortunio, lasciando chi parla spettatore di
un episodio che non si sarebbe stati in grado di gestire in quanto “ragazzoâ€
all’epoca dei fatti e privo dell’esperienza che lo caratterizza nel momento
del racconto. Inoltre, emerge la dimensione collettiva del lavoro, che
riposa sull’abilità di mantenere un orientamento comune alle attivitÃ
degli uni e degli altri e un’attenzione distribuita (Heath, Luff, 1994;
Joseph, 1994; Gobo e al., 2008; Pentimalli, 2008) che fa sì che siano
le pratiche comunicative socialmente organizzate a coordinare le altre
attività . È la presenza degli altri a far sì che il racconto abbia un
“lieto fine†che lega a sé il ricordo di un’altra storia da raccontare
che richiama quegli elementi invisibili di alcune organizzazioni o lavoratori:
lavorare in nero, ovvero al di fuori di regole contrattuali e di sicurezza
che caratterizza molte realtà di cantieri italiani.
“Stavamo lavorando in nero, erano le sei e mezza del mattino, un amico
si è tagliato la prima falange del pollice con la sega circolare e lì
per lì io sono rimasto … poi lo abbiamo portato all’ospedale con un mio
cugino, anche dicendo delle bugie, perché diciamo che non era … loro,
però, i dottori non è che gli inventi una cosa e ci credono. Perché oramai
anche loro, con l’esperienza che hanno, riconoscono il taglio di una motosega,
o di una sega circolare e questa è stata un’esperienza molto …in negativo,
perché ogni volta che vai alla sega, che sono cento volte al giorno! Purtroppo
devi stare attento. L’esperienza ci porta ad essere sicuri, però la sicurezza
non è mai troppa!†(Intervista ad operaio/carpentiere).
Sono diversi gli elementi che emergono anche in questa breve storia: aver
accettato di lavorare in nero; cercare di nascondere quanto accaduto dinanzi
ai medici che hanno soccorso l’infortunato; riconoscere che i medici sono
ormai a conoscenza di simili storie di negazione della realtà , cosa che
permette loro di intervenire prontamente. Infine, anche da questa storia
se ne trae un insegnamento per il presente: attraverso una storia sugli
altri, si rammenta a se stessi che occorre prestare la massima attenzione
nell’uso delle attrezzature da lavoro e a ritenere la routine del proprio
mestiere foriera di rischi. Anche per gli operai, infatti, l’essere “troppo
sicuri†o “incoscientiâ€, come afferma un assistente di cantiere, può portare
a sottovalutare le situazioni di pericolo e incorrere in incidenti.
“Ci sono situazioni in cui siamo saliti su delle casseformi (strutture
in legno che precedono la costruzione di ponti o viadotti) a braccia e
andavamo fino a 12 metri d’altezza senza ponte sotto, poi lo dovevi costruire
dopo, ma prima dovevi salire ed era necessario farlo perché stavamo facendo
delle pareti che servivano per una vasca dell’antincendio … quindi, c’erano
i pannelli assemblati, ma non c’era una cesta che tu stavi là sulla cesta
e lavoravi … quindi il fatto della sicurezza, loro dicono bene, loro!
Loro, chi ci comanda, però purtroppo non è così il lavoro!†(Intervista
ad operaio/carpentiere).
Quest’episodio introduce un nuovo contributo: raccontare il come si lavora
e che tipo di rapporto (anche di potere – “chi ci comandaâ€) spesso intercorre
tra gli operai e i propri responsabili. Le storie, infatti, “possono essere
utilizzate per ascoltare sia le voci dominanti, quelle che forniscono
le visioni ufficiali, sia le voci discordanti, le narrazioni delle coalizioni
oppresse o dominate, che propongono visioni alternative (Boje, 1995, 2001)â€
(in Poggio, 2004: 102).
Emergono le diverse visioni della sicurezza e delle modalità di svolgere
il lavoro che, sovente, è diverso da quello dei racconti, dei testi ufficiali
o dei progetti. In cantiere, le pratiche di lavoro e della sicurezza hanno
luogo in particolari condizioni che non sono “progettati/progettabiliâ€
sulla carta. Parafrasando Lucy Suchman (2000) ci possono essere piani
che “orientano l’azioneâ€, ma quelle del cantiere sono pratiche situate
(Conein, Jacopin, 1994; Suchman, 1987) che mettono l’operaio di fronte
a forti contraddizioni: rispettare le norme di sicurezza e lavorare in
fretta, oppure non rispettare alcune norme, ma lavorare in sicurezza ed
essere sanzionati; o essere sanzionati perché, rispettando le norme e
utilizzando i Dpi, si lavora più lentamente allungando i tempi di consegna
dei lavori.
Per meglio rendere il senso di queste contraddizioni, è utile leggere
un altro racconto affiorato alla mente dell’operaio e che, questa volta,
riguarda se stesso, dal momento che non si tratta di un episodio di infortunio,
bensì di modalità di lavoro non sicure per legge che nella quotidianitÃ
di un cantiere possono aver luogo a causa di una errata organizzazione
del lavoro.
“Ho lavorato sotto il tubo del mille (il numero indica la dimensione del
tubo) e non riuscivo nemmeno a passarci sotto: hanno fatto mettere prima
il tubo e poi hanno fatto fare la carpenteria, quindi, quando è venuta
la sicurezza, mi ha fatto uscire (da sotto il tubo). Io gli ho risposto
che tanto quando andavano via loro, io là dovevo ritornarci per forza!
Perché purtroppo il lavoro è quello! [14]
Era quello [Io gli chiedo di spiegarsi meglio e lui continua il suo racconto].
Niente, la dottoressa che era lì, che era la responsabile ha detto “se
ci ritorni, io ti mando in galera†e gli ho risposto “mi dica lei, come
devo fare io? Dopo non ci va nessuno, e tanto quando va via lei noi ci
andiamo, deve stare qua giorno e notte!†[ … ]. È finita che lei è andata
via, i responsabili della sicurezza sono andati via e noi siamo andati
di sotto a finire il lavoro! Quindi, sono lavori che partono da loro,
secondo me, perché? Perché ad un certo punto tu non puoi dare un lavoro
ad un’azienda e poi tu il lavoro non lo organizzi come si deve: fai lavorare
prima la gente che ti fa la struttura portante, il divisorio, c’erano
al massimo quaranta centimetri, non s’entrava e poi è inutile che vengono
e ti dicono “no! Là non ci puoi stare!†Allora mi dica lei come devo fare!
[ … ]. Non è che son tutte rose e fiori†(Intervista ad operaio/carpentiere).
La scelta di rendermi destinataria di tale racconto risiede nella volontÃ
dell’operaio di far vedere ad un “esterno/estraneo†come la realtà dei
cantieri non sia “tutta rosa e fioriâ€. Spesso le situazioni che portano
gli operai a non rispettare la normativa sono create dagli stessi responsabili
che devono garantire che gli operai rispettino le norme sulla sicurezza,
ma anche che gli stessi lavorino in sicurezza. L’aver invertito l’ordine
per la costruzione di una tubatura, come nell’esempio, ben evidenzia le
diverse logiche e i paradossi che governano un cantiere: la “fretta†di
far lavorare per prima una ditta al fine di accorciare i tempi di produzione
(e spesso risparmiare denaro), ha creato una notevole difficoltà negli
operai che hanno dovuto completare l’opera e costruire la “struttura portanteâ€
della tubatura a lavoro ultimato e in una situazione di evidente pericolo.
Anche dai racconti raccolti durante lo shadowing dei responsabili di cantiere,
durante il quale ho avuto modo di parlare (sebbene fugacemente) con degli
operai, è emerso come il “ricatto†a cui sono sottoposti gli operai –
del tipo “o lavori a queste condizioni o vai da un’altra parte†oppure
“se il lavoro non lo faccio io, lo fa qualcun altro, allora preferisco
accettarlo perché ho famiglia†– abbia origine in condizioni che a monte
sono non rispettose dei diritti e dei doveri dei lavoratori, scaricando
spesso la colpa su quest’ultimi. Questa situazione richiama il lavoro
di Martin et al. (1995) sulla maggior diffusione di alcune storie in una
vasta gamma di organizzazioni pubbliche e private analizzate. Adottando
“la teoria del copione†di Schank e Abelson (1977) gli autori evidenziano
come ben sette tipi di storie organizzative si ripetano a causa dei dualismi
presenti in esse [15]: è la diffusa
tensione tra due attori (l’organizzazione e il dipendente) con esigenze
organizzative e valori individuali differenti a ripresentarsi, in forma
conflittuale, nei diversi contesti. In molte situazioni, inoltre, l’organizzazione
conserva “il diritto di minacciare la sicurezza dei propri dipendenti
quando è in gioco la sopravvivenza dell’organizzazione†(ibidem: 143)
e il “ricatto sulla sicurezza†ben esprime questo dualismo.
Le narrazioni, come quelle poco sopra riportate, possono essere usate
“come possibili “meccanismi di difesa†a disposizione degli individui
che nelle organizzazioni ricercano spazi in cui non solo difendersi dai
soprusi del potere, ma anche «sostenersi tra pari e prendersi la rivincita,
riscattandosi dalla propria posizione di inferiorità » (Cortese, 1999:
44)†(in Poggio, 2004: 104). Ed è quello che in parte cerca di fare l’operaio
attraverso il suo racconto. L’esporsi attraverso il racconto di un episodio
che lo ha riguardato in prima persona e l’interpretazione dei fatti che
egli stesso ha offerto alla ricercatrice, permettono di cogliere la diversitÃ
delle posizioni, dei punti di vista e delle pratiche che legano il lavorare
alla sicurezza all’interno dei cantieri edili. Le esperienze sono trasversali,
sono accadute in cantieri e in anni diversi dal tempo del racconto, ma
tutte hanno la volontà , ed esprimono la necessità , di mettere in evidenza
come il discorso dei capi non sia che uno dei modi possibili di raccontare
la sicurezza sul lavoro e non necessariamente, benché sia dominante, sia
la storia naturale “se la parola naturale è usata nel significato di «non
riflessiva, che viene facilmente alla menteȠ(Czarniawska, 2000: 40,
riprendendo Fisher, 1984). Entrambe, però, sono accomunate dalle esigenze
contraddittorie a cui i diversi attori devono far fronte durante lo svolgimento
quotidiano delle loro pratiche di lavoro.
Naturale, piuttosto, sembra il racconto di chi, sollecitato dal ricercatore,
ricorda tante storie che l’hanno visto protagonista, se non quando spettatore
molto informato, di episodi che racchiudono la pericolosità del proprio
mestiere, l’imprevedibilità e la durezza che vanno con-divisi con chi
fa parte della stessa comunità , ma non vanno raccontati a chi non è “membro
competente†della stessa, in senso etnometodologico.
Le narrazioni, dunque, sono in grado di trasmettere i valori condivisi
dai membri dell’organizzazione, di generare appartenenza e coinvolgimento,
inoltre, prescrivono il modo giusto di agire – in modo memorabile e persuasivo
– delineando le conseguenze per chi si adegua e per chi trasgredisce:
forniscono dunque delle informazioni cruciali per la partecipazione alla
vita organizzativa (Wilkins, 1995). Si apprende a non raccontare storie
di “mancata†sicurezza ad un estraneo o che in cantiere “non si lavora
se è venerdì 17â€, come il seguente stralcio tratto dal diario etnografico
illustra:
Mentre seguo l’assistente per i suoi soliti giri di controllo, incontriamo
il capocantiere che chiede a che profondità di scavo sono arrivati gli
operai della ditta che si occupa di costruire i diaframmi nel terreno
(che costituiranno le pareti della futura stazione della metropolitana)
e l’assistente risponde “un metro! Oggi si fermano solo a un metro: è
17, per giunta pure venerdì e non vanno oltre!â€. Io sono stupita da questa
affermazione e incalzo l’assistente chiedendogli quale sia la paura alla
base di tale “scaramanziaâ€. L’assistente risponde: “No, il lavoro non
è che può venire fatto male … che so, ma si può rompere la macchina, può
saltare un pezzo e farsi male loro … cose di questo tipo … porta sfortuna!â€,
continuo chiedendogli se la cosa crea loro problemi dal momento che sono
sempre preoccupati per il ritardo dei lavori. “No, no, ma è generale come
cosa, la sappiamo tutti, è del cantiere, sappiamo che è così nell’ambiente…â€,
sorride vedendomi incuriosita.
Frasi come “la sappiamo tutti†o “è del cantiere†esprimono una comunanza
che mette d’accordo gli operai con i responsabili di cantiere e plausibilmente
tutti “gli addetti ai lavoriâ€. Tollerare che in un dato giorno, per scaramanzia,
non si vada avanti con l’esecuzione dei lavori evidenzia quel consenso
di comunità di cui parla de Martino (2004) in grado di assorbire e gestire
le insicurezze/pericoli che il lavoro edile comporta. Quotidianamente,
infatti, i due gruppi professionali – responsabili da un lato e operai
dall’altro – si fronteggiano e confliggono proprio sulla questione temporale:
“meno tempo è meno denaro†da spendere per i primi; “più tempo è più denaroâ€
da guadagnare per i secondi. Ad accomunarli, infine, è una storia “scaramanticaâ€,
quella che si racconta e ci si tramanda nel cantiere da chissà quanto
tempo oramai.
4. Conclusioni
Adottando un approccio narrativo, ho ricostruito storie che raccontano
episodi di mancata sicurezza in un cantiere edile utili per comprendere
alcune dinamiche alla base del non rispetto della normativa (spesso troppo
in fretta etichettata come “è colpa degli operai!â€). Per fare ciò, però,
ho ascoltato in particolare le storie, o i frammenti di storie, degli
altri: chi ha raccontato le proprie esperienze ha scelto episodi accaduti
a persone diverse da se stessi, quasi a tutelarsi da eventuali considerazioni
o giudizi di valore che possono seguire tali storie. È una sorta di “gioco
di specchi†(Schütz, 1979) che tesse le relazioni prevalentemente tra
gli operai e i responsabili di cantiere. Gli operai, infatti, sanno che
i “controllori†chiedono loro di indossare le protezioni (Dpi) e rispettare
le norme, soprattutto dinanzi alle “figure della sicurezza†esterne. Ma
sanno anche che, gli stessi responsabili di cantiere, in particolare quando
sono in ritardo con i tempi di esecuzione, chiedono loro di lavorare più
in fretta e questo implicitamente significa liberarsi di tutto ciò che
impedisce un’esecuzione veloce, ma “fatta beneâ€, del proprio lavoro. Richiede
cioè di non usare protezioni come i guanti, per esempio, che frapponendosi
tra la sensibilità della mano e il materiale da lavorare come il ferro,
rallentano i tempi di produzione. I responsabili, a loro volta, sanno
che chiedere agli operai di lavorare “in fretta†li legittima a non utilizzare
i Dpi, cosa che li espone a un gioco di forza e di negoziazione quotidiana
sulle modalità di lavoro del cantiere, soprattutto in presenza di controlli
esterni.
Il presente paper, dunque, si è concentrato sul confronto tra due storie
di incidenti/infortuni accaduti agli altri: ha evidenziato come i racconti
sulla sicurezza (con tutta la sua portata semantica spesso legata, invece,
agli incidenti) siano difficili da condividere, da rendere espliciti perché
legati ad un substrato culturale in cui la sicurezza – e gli episodi di
incidenti sul lavoro – sono visti come qualcosa di cui è meglio non parlare.
Tale preferenza a non parlare di sicurezza, però, ha anche reso difficoltosa
la realizzazione della ricerca sulla pratica della sicurezza nei cantieri
per la costruzione di una nuova linea metropolitana nella città di Roma
(Doria, 2011). Oltre ad una questione di genere affiorata a posteriori,
per cui il “cantiere non è un posto per donne†(Doria, 2011a), anche l’indisponibilitÃ
a raccontare storie che avessero ad oggetto la sicurezza sul lavoro ha
messo in discussione la possibilità di portare a termine la ricerca, dilatando
eccessivamente i tempi di accesso al campo. È stata quell’urgenza narrativa
di cui parla Bruner (1986), infine, a permettere di condurre la ricerca.
Una volta sul campo, infatti, gli attori che quotidianamente si occupano
di sicurezza, e che la mettono in pratica nello svolgimento del loro mestiere,
hanno condiviso con la ricercatrice le loro storie, “socializzandolaâ€
al linguaggio tecnico e “di cantiere†utilizzato proprio attraverso i
racconti quotidiani. Ciò ha permesso di analizzare le storie raccolte
in maniera più rispettosa del contesto a cui appartengono perché, come
afferma Wilkins (1995), “le storie, da sole, non sono sufficienti: ci
vuole anche l’esperienza†(277), richiedono cioè che ogni partecipante
acquisisca le conoscenze necessarie per distinguere gli ideali o le forme
di drammatizzazione di cui ogni storia può essere carica, cosa resa possibile
dallo shadowing dei responsabili di cantiere. La raccolta di storie raccontate
dagli operai nello svolgimento quotidiano del loro lavoro offrirebbe ulteriori
spunti di riflessione su una tematica sociologicamente rilevante come
la sicurezza sul lavoro che attrae su di sé tali e tanti significati da
renderla ancora più complessa.
Note
1] Il materiale a cui si farÃ
riferimento è stato raccolto dalle interviste con alcuni operai e “figure
della sicurezza†incontrate sul campo durante la ricerca etnografica svolta
– per circa tre mesi nella seconda metà del 2009 – per la tesi di dottorato
sulle pratiche della sicurezza, frutto dello shadowing di alcuni responsabili
di cantiere di un’organizzazione che, nella città di Roma, è a tutt’oggi
responsabile della costruzione di una delle nuove linee metropolitane
(Doria, 2011).
2] Lo shadowing mi ha permesso
di riconoscere e ricostruire due sistemi di pratica all’interno dei cantieri
osservati: quello del controllo e mediazione appartenente ai responsabili
di cantiere, da un lato; legato alla dimensione del sapere esperto e della
collaborazione/coordinamento degli operai, dall’altro.
3] Nella fase di negoziazione
dell’accesso al campo gli attori hanno mostrato una maggior attenzione
alla mia persona piuttosto che alla mia ricerca (Hammersley, Atkinson,
1995).
4] Con il termine “sicurezzaâ€
identificavano sia l’insieme delle norme da rispettare sul luogo di lavoro,
sia le situazioni che possono scaturire da una sua mancanza, ovvero incidenti,
infortuni o anche solo incorrere in situazioni pericolose e rischiose.
La parola sicurezza, infatti, era prevalentemente legata a situazioni
negative, piuttosto che denotare una situazione caratterizzata dall’assenza
di rischi e pericoli per gli operai. Ciò è in parte confermato dal RSPP
che in uno stralcio riportato nel testo (§ 3.1) ha affermato come, nel
parlare di sicurezza, non si riesca a “fare un distinguo, a sviscerarla
da altre problematicheâ€. La sicurezza come tematica è identificata come
un problema, benché debba rappresentare una condizione di assenza di problemi.
5] Ci sono anche racconti su come
altri non hanno appreso un mestiere o, nel presente, non hanno alcuna
intenzione di “imparare†(dalle parole di un operaio incontrato sul campo)
perché ritenuto un lavoro molto duro.
6] Come quelli che affollano i
cantieri delle grandi opere pubbliche in occasione delle inaugurazioni
o “allestite/finte†inaugurazioni. Un assistente di cantiere, infatti,
ha raccontato di un precedente cantiere in cui, benché i lavori non fossero
stati terminati, per dare all’opinione pubblica la notizia dell’avvenuta
conclusione (non reale), era stata allestita una parte del cantiere, con
tanto di ministro e stampa a presenziare l’evento. Il giorno dopo, però,
si continuò a lavorare come se nulla fosse accaduto, consegnando alla
memoria dei presenti un racconto sulla “messa in scena†(Goffman, 1969)
della sicurezza, situazione osservata anche durante la mia ricerca.
7] Un Tecnico della prevenzione
di un’Aziende sanitaria locale (Asl) della città di Roma; un collaboratore/consulente
dell’Alta Sorveglianza della società Committende dell’opera; uno degli
RSPP (Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione) dell’organizzazione
ospitante; il Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed
esecuzione.
8] Nella mia ricerca di dottorato,
infatti, ho evidenziato tre tipi di controllo e relative figure: quello
“interno†esercitato dagli attori appartenenti all’organizzazione che
ho studiato e che è responsabile in qualità di General Contractor della
sicurezza nei suoi cantieri (con un’articolazione delle figure al suo
interno); il controllo “esternoâ€, ovvero gli attori istituzionali previsti
per legge come l’Ispettorato del Lavoro, i Tecnici della Prevenzione delle
Asl o le FF.OO; infine il controllo “intermedio†svolto dal CTP, il quale
è sì attore istituzionale esterno all’organizzazione, ma ha con essa stipulato
un protocollo d’intesa sulla formazione degli operai e sui controlli dei
cantiere.
9] I dati dell’Istat, della Caritas
e di altre ricerche ricordano come dall’inizio del 2007, anno in cui la
Romania è entrata nell’Unione europea, la percentuale di romeni impiegati
in Italia (nel settore delle costruzioni, industria ed agricoltura per
lo più) sia cresciuta. È interessante anche notare come la percentuale
maggiore di lavoratori stranieri assicurati all’INAIL per Paese di nascita
nel 2008 è quella dei nati in Romania (22%), seguiti da Albania e Marocco
(rispettivamente 7,8% e 7%) (fonte INAIL).
10] Si ricorda a tal proposito
che i mezzi meccanici da cantiere sono spesso coinvolti negli incidenti
sul lavoro.
11] Nel caso della ThyssenKrupp,
dal momento che la magistratura ha già emesso una prima sentenza, è plausibile
pensare che essa farà o faccia già parte di un bagaglio di storie sulle
“colpe dei dirigentiâ€.
12] Anche il contributo dei
media nella costruzione di tali storie è rilevante: possono essere taciute,
portate in fondo alle pagine o evidenziate nei loro titoli d’apertura.
È il “colore politico†della testata ad orientare spesso il loro posizionamento
nel panorama mediatico. Nel caso ThyssenKrupp la gravità dell’evento fu
tale da imporsi all’opinione pubblica e spingere l’allora Presidente del
Consiglio Prodi ad affermare come in molti casi la responsabilità delle
morti sul lavoro sia anche delle imprese.
13] Sentire il suono di un mezzo
meccanico in movimento e spostarsi; o sentire che si è arrivati a toccare
un tubo del gas durante lo scavo con escavatore e potersi fermare senza
romperlo.
14] Anche dalle conversazioni
informali tenute durante lo shadowing dei responsabili di cantiere è emerso
come spesso gli operai siano sottoposti ad un vero e proprio ricatto:
lavorare, accettando anche situazioni di “non sicurezzaâ€, oppure non lavorare
affatto. È considerazione diffusa tra gli operai che avanzare richieste
di maggior sicurezza sul lavoro porti a perdere il lavoro, inimicandosi
il “padroneâ€, come nelle più classiche contrapposizioni di lotta di classe.
15] Altre due motivazioni sono:
fornire “schemi di attribuzione dei successi e degli insuccessi di una
organizzazione†(Martin et al., 1995: 149); assegnare all’istituzione
un carattere di unicità “permettendo ai dipendenti di identificarsi con
un’organizzazione benevola o di prendere le distanze da un’istituzione
meno desiderabile†(ibidem).
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