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  • Internati militari italiani
    Maria Immacolata Macioti (a cura di)

    M@gm@ vol.16 n.1 Gennaio-Aprile 2018





    I PRIGIONIERI MILITARI ITALIANI NEGLI STATI UNITI D’AMERICA: UNA “BUONA” PRIGIONIA?

    Potito Genova

    potito.genova@yahoo.com
    Laurea in Sociologia Università di Urbino (1986), Laurea in Scienze Strategiche Università di Torino (1998) a seguito della frequenza dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola di Applicazione di Torino (1974-1978) dell’Esercito. Diversi incarichi di comando, l’impiego come Ufficiale di Stato Maggiore, Consigliere militare per gli armamenti dell’ambasciatore italiano alla NATO e all’Unione Europea a Bruxelles, Capo Ufficio Generale del Segretario Generale della Difesa, Rappresentante militare italiano presso il Comando Centrale degli Stati Uniti di Tampa (Florida). Attualmente, Generale di Divisione in riserva, è Consigliere Nazionale della ANRP, sulle tracce del padre Internato Militare (IMI).


    Il campo di prigionia di Hereford (USA)

    Se la storia è la ricerca sui fatti del passato e il tentativo di una narrazione continua e sistematica degli stessi fatti, in quanto considerati importanti per la specie umana, sembra non ci si possa interessare di un singolo  individuo che, ignaro, è da essa trascinato.

     

    Allo stesso modo, le grandi decisioni politico-militari che determinano la storia non possono tenere conto solo di alcune persone, che spesso non si sentono protagoniste di essa. La storia è di tutti, non di alcuni, i quali spesso la vivono da contemporanei degli eventi ma non la influenzano, partecipano da comparse, quasi da ignari spettatori; alcuni che guardano gli eventi e non possono intervenire perché le decisioni le prendono altri; vorrebbero farla ma non ci riescono, si sentono prigionieri di un apparato burocratico, di regole nazionali e internazionali che spesso non capiscono e che sono comunque volte alla sola cosiddetta “nobile” ragion di stato. Vi sono alcuni che partecipano però emotivamente, si arrabbiano, si infervorano, si esaltano e, subito dopo, rimangono delusi da azioni che fanno altri, pochi, con i nuovi mezzi di comunicazione o social network, mezzi che purtroppo non appartengono ancora a tutti o che essi non riescono a impiegare adeguatamente, non riescono loro malgrado a penetrare in essi e si ritrovano solitari e passivi osservatori. Diventano così strumento di altri, la loro scelta non è determinante e serve solo a fare numero. Poi gli altri, pochi, manipolano.

     

    Un po’ tutti noi, nonostante gli affanni quotidiani, la voglia di emergere, di andare oltre questo muro di gomma che ci imprigiona, ci troviamo ad accettare ciò che non abbiamo scelto; anzi, se avessimo potuto, avremmo scelto proprio il contrario.

     

    Le decisioni politiche degli Stati, prese in nome della democrazia, rendono legittime contraddizioni e paradossi etico-morali; le cosiddette potenze industriali si allineano secondo un naturale rapporto di forza che deriva dalla loro singola storia, dal loro potere economico-finanziario, cambiando la nostra quotidianità, accrescendo le nostre paure e, soprattutto, il senso di insicurezza. Il più forte impone, “democraticamente”, la propria volontà.

     

    Incredibilmente, queste riflessioni sulle nostre quotidiane inquietudini sono emerse spontanee dalla lettura, prima distratta e poi sempre più attenta, di varie corrispondenze formali tra le autorità italiane e quelle statunitensi e, in particolare, tra il Ministero Affari Esteri e l’Ambasciata italiana a Washington nel periodo 1943-1945, sulla complessa questione dei prigionieri di guerra italiani  negli Stati Uniti.

     

    Eventi di qualche tempo fa, ma con la stessa contraddizione e la stessa rabbia; un altro contesto storico, altra violenza psicologica ma la stessa sgradevole percezione: siamo parte di qualcosa, di situazioni  determinate da altri che non comprendiamo; vorremmo agire  ma non ci riusciamo. Altri lo fanno, ma è qualcosa di diverso che non ci piace perché quasi sempre si segue la logica del più forte; intanto ci disuniamo e perdiamo la fragile solidarietà che ci univa, vivendo emozioni diverse e, molte volte, opposte; proprio come fecero i militari italiani prigionieri in America.

     

    La storia si ripete ed è difficile intervenire, agire, constatare che spesso si può solo subire. Così prendono corpo definizioni storiche valide per l’umanità; che tuttavia,  se considerate dalla prospettiva di un singolo individuo o da una parte più o meno grande di essa, assumono aspetti non aderenti alla singola esperienza; anzi, esprimono a volte solo una logica cinica e burocratica  delle Istituzioni e dei vertici di esse.

     

    È il caso dei prigionieri militari italiani negli Stati Uniti d’America nell’ultimo conflitto mondiale che, secondo l’opinione comune degli storici, ebbero un trattamento migliore rispetto ai militari prigionieri degli altri alleati. Affermazione che è vera, se la consideriamo nel suo aspetto organizzativo logistico complessivo. Risulta invece falsa o parzialmente falsa se ci concentriamo sull’aspetto psicologico e morale delle singole esperienze  della diversa tipologia di prigionieri, in relazione al loro livello di collaborazione con l’offerta organizzativa americana. L’atteggiamento dei prigionieri italiani fu vario; la maggior parte scelse di collaborare, molti invece si rifiutarono di farlo; paradossalmente, le ragioni delle scelte opposte furono ispirate dagli stessi principi, di coerenza naturalmente a differenti valori, ovvero alla sola convenienza personale.

     

    Dalla lettura infatti di questi documenti tra le autorità italiane e i corrispondenti statunitensi emergono contraddizioni, atteggiamenti burocratici a fronte di esigenze umane, nonché scarso senso di responsabilità e, soprattutto, mancanza di coraggio da parte di chi aveva la responsabilità morale e materiale della situazione.

     

    Dalla lettera (allegata) dell’Alto Commissario per i prigionieri di guerra del 23 febbraio 1945, apprendiamo che il numero effettivo di prigionieri di guerra italiani internati negli Stati Uniti al 1° agosto 1944 erano 50.276, suddivisi tra vari campi, luoghi di cura e Unità di lavoro, secondo le esigenze organizzative e logistiche degli americani.

     

    In particolare, le Unità di lavoro (Italian Service Units), per i prigionieri collaborazionisti, dove erano garantite le migliori condizioni di vita, furono costituite nel mese di marzo del 1944 dal Governo statunitense all’insaputa e, soprattutto, senza il consenso del Governo italiano, come si evince dal telespresso del Ministero degli Affari Esteri all’Ambasciatore italiano a Washington (allegato), del  febbraio 1945.

     

    «È noto a codesta Ambasciata il punto di vista del Governo italiano in merito a tale questione, inspirata all’opportunità di non dare un riconoscimento a tale Organizzazione per l’impiego dei nostri prigionieri al di là dei termini previsti dalla Convenzione di Ginevra, fino a che non sia possibile ottenere dalle Autorità alleate quelle minime garanzie atte ad assicurare ai nostri militari una situazione, almeno di fatto, di lavoratori e di militari italiani liberi di un Paese cobelligerante. Né si può dimenticare infatti che il regolamento sull’organizzazione e sull’impiego dell’Italian Service Units è stato ivi stabilito all’insaputa del Governo italiano ed oltre a riconfermare per loro lo status di prigionieri, prevede l’impiego di essi in qualsiasi parte dl mondo in lavori in retrovie connessi con lo sforzo bellico degli Stati Uniti d’America».

     


    Prigionieri italiani negli Stati Uniti

    Dunque, di fronte a questa iniziativa, non prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1929, l’atteggiamento del Governo italiano fu di forte disagio e  in conseguenza si manifestò in modo ambiguo. I vertici politico-militari sapevano ma preferivano non esporsi ufficialmente, basta leggere la lettera (allegata) del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, Capo del governo, primo ministro di Stato del Regno d’Italia, del febbraio 1944, rivolta ai prigionieri militari italiani in America, nella quale sul tema si limita a dire: «Lo status dei prigionieri di guerra ed il programma del loro impiego conforme alla dignità del nostro Esercito, formano da tempo oggetto delle mie cure».

     

    Alla richiesta poi del Generale Bryan, da parte del Governo statunitense, di far sapere ufficialmente ai prigionieri italiani che l’adesione alle Unità di lavoro non avrebbe comportato alcuna sanzione da parte italiana al momento del rientro in Patria e che dal punto di vista disciplinare non sarebbe stata considerata sfavorevolmente, nello stesso telespresso del febbraio 1945 il Ministero degli Esteri scrive all’Ambasciatore: «si prega V.E. di volere esaminare l’opportunità di aderire al desiderio espresso dal Generale Bryan, evitando tuttavia di determinare un riconoscimento ufficiale o definitivo della sistemazione delle “Service Units”, in vista delle trattative che codesta Ambasciata e chiamata a svolgere in merito alla questione stessa».

     

    Appare evidente che il Governo italiano, in considerazione del quadro politico in atto - siamo nel febbraio del 1945 -, non ha la forza politica di imporre la propria volontà. Ma ciò  non è sufficiente per giustificare la mancata assunzione di responsabilità e il rimandare le direttive sui prigionieri al buon senso dell’Ambasciatore. Infatti si legge ancora: «Si lascia a V.E. di giudicare il modo più opportuno per giungere al risultato desiderato dalle Autorità americane».

     

    Al Governo statunitense questa ambiguità non dispiaceva, potevano agire indisturbati con lo sfruttamento della mano d’opera dei prigionieri collaborazionisti delle Unità di lavoro, con un trattamento giudicato soddisfacente dal punto di vista logistico, anche se molti di essi vivevano una profonda depressione morale. Il Capo missione economico-finanziaria italiano a Washington scriveva, il 10 gennaio 1945 (allegato): «Lo stato d’animo dei prigionieri stessi invece accusa un evidente  disagio. I motivi sono quelli già da me esposti e possono farsi quasi tutti risalire alla perdurante mancanza di libertà e al senso di irrequietezza e di nervosismo che ne derivano. Di ciò soprattutto hanno sofferto i rapporti tra ufficiali e soldati che sono andati sensibilmente deteriorando».

     

    La lunga mancanza di libertà, la frustrazione di non poter aiutare i propri famigliari in Italia ridotti in miseria e in grande difficoltà e soprattutto il senso di abbandono, da parte della Stato, percepito dai prigionieri, aveva minato anche la solidarietà tra loro, pur accomunati dallo stesso destino, facendo emergere conflittualità  tra ufficiali e soldati, deteriorando ulteriormente la vita  delle Unità di lavoro. Certo è che la soddisfacente organizzazione logistica non teneva in nessun conto della situazione morale dei prigionieri; ciò che era importante per il Governo statunitense era imporre i propri interessi, il proprio modello organizzativo. Bisogna considerare anche che nel 1945 i prigionieri italiani appartenevano ormai da tempo ad una nazione cobelligerante e il loro status non era ancora stato definito. Su questo punto il Governo statunitense tergiversava: non conveniva assumere alcuna decisione, si aveva bisogno di questa mano d’opera almeno fino al ritorno dal fronte  dei soldati americani.

     

    Questa ambiguità politica era voluta anche dal Governo italiano e lo si evince chiaramente dalla lettera  del 27 marzo 1945 (allegata) con la quale l’Alto Commissario per i prigionieri di guerra chiede ancora, dopo più di un anno, al Ministero degli Affari Esteri, dandone comunicazione anche alle autorità militari, chiarimenti circa la posizione governativa sulle Unità di lavoro: «si legge essere opinione delle Autorità Centrali Americane che molti prigionieri di guerra italiani abbiano rifiutato di partecipare alle unità lavoro solamente perché temono che tale partecipazione possa essere considerata sfavorevolmente dal Governo  Italiano (in quanto non l’ha né concordato con le Autorità Americane, né autorizzata) e che essi possono pertanto essere passibili di punizioni al loro rientro in Italia».

     

    Nella stessa lettera l’Alto Commissario, pur riconoscendo il sentimento di fedeltà ai doveri dello stato militare dei prigionieri non collaboratori, considera utile, per migliorare la collaborazione con gli americani, la loro partecipazione alle Unità di lavoro e quindi chiede alle autorità italiane di prendere una chiara posizione in merito: «…sembra che sarebbe opportuno far conoscere loro che il Governo Italiano, pur apprezzando il loro sentimento e pur tenendo fermo verso le Autorità Alleate le riserve relative alla illegale procedura da esse praticata e alla illegittimità stessa dello status che ancora impongono ai nostri soldati, giudicherebbero la loro partecipazione al lavoro per la cobelligeranza come fatto utile agli interessi del paese e, come tale, non solo doveroso, ma anche lodevole. In tal senso il Ministero della Guerra ha fatto formale assicurazione alle Autorità Militari Alleate fi dal gennaio 1945».

     

    Su tale questione c’è molta confusione e differente valutazione tra i vertici politico-militari italiani, poiché sulla copia della stessa lettera indirizzata al Capo di Stato Maggiore Generale è riportata una nota  scritta a mano dallo stesso Capo di Stato Maggiore o da un suo collaboratore che così si esprime: «In realtà, fin dall’ottobre 1943 i prigionieri di guerra sono stati dal Governo Italiano invitati a prestar servizio nelle unità di lavoro, per cooperare allo sforzo bellico alleato. Infatti ben 38.000 hanno capito. Altri forse son rimasti dubbiosi per ragioni varie».

     

    Da parte loro gli americani, nonostante le sollecitazioni dell’Ambasciatore italiano a Washington, rinviavano continuamente la decisione; infatti così scriveva sulla questione dello status dei prigionieri il nostro rappresentante diplomatico al Ministro degli Esteri, Alcide De Gasperi, nella lettera del 12 maggio 1945(allegata): «…ho di nuovo sollevato la questione dello “status” dei nostri prigionieri con il sottosegretario di Stato Philipe ( mio rapporto n. 1851/322 del 30 aprile u.s.), a cui ho illustrato i voti formulati dal Consiglio dei Ministri per una rapida e favorevole soluzione della questione stessa».

     

    Ancora, nella stessa lettera l’Ambasciatore continuava: «Dato che non mi è ancora pervenuta risposta alla nota di cui trattasi, ho nuovamente sollecitato il Capo dell’ufficio italiano allo State Department per una definizione del problema. A tutt’oggi, secondo quanto è stato dichiarato in tale ultima conversazione, non sarebbe stata presa alcuna decisione».

     

    Nella stessa missiva emerge ancora la posizione imbarazzante del Governo italiano sulla questione delle Unità di Lavoro, non riconosciute ufficialmente ma di fatto accettate, poiché l’Ambasciatore scrive: «Circa l’azione futura, a prescindere della questione dello status, ho preso nota sia del contenuto dei telegrammi di V.E. N° 71 e N° 2169, circa il desiderio del Governo italiano di continuare a cooperare allo sforzo bellico, sia di quanto comunicato con il telespresso ministeriale N° 19/04955/62 del 12 aprile, in merito all’opportunità di incoraggiare alla collaborazione quei prigionieri che finora no vi avessero aderito per motivi non politici».

     

    Insomma, l’ambiguità tra i due governi e, soprattutto, la mancanza di trasparenza e di coraggio delle autorità italiane sottoponeva molti prigionieri ad una continua frustrazione psicologica, ad una perdita di dignità individuale e nazionale,  facendo vacillare il mito della democrazia americana, che essi avevano sognato mentre ringraziavano il destino per essere stati catturati dai  paladini della libertà. E come spesso accade in situazioni senza alcun riferimento o guida morale e istituzionale, altri, al contrario, reagivano desiderando di rimanere negli Stati Uniti, in quanto paese ideale di lavoro e democrazia. Queste opposte reazioni dei prigionieri esprimevano in maniera diversa la stessa delusione verso la loro patria che avevano lasciato per servirla in armi e non riconoscevano più.

     

    Certo la situazione politico-sociale italiana era drammatica. C’era appena stata una resa incondizionata agli Alleati. Vi era una guerra civile in corso. I prigionieri militari italiani, un milione e 200 mila, non potevano essere una priorità, soprattutto quelli trasferiti negli Stati Uniti che, più degli altri Alleati, garantivano una applicazione più favorevole delle norme internazionali. Ciononostante, una buona parte di essi passarono da una iniziale soddisfazione per essere stati trasferiti oltre oceano in un paese democratico per antonomasia, ad una progressiva delusione e successiva frustrazione psicologica derivante dalla sottile benevole prepotenza messa in atto dalle autorità statunitensi con scelte unilaterali e promesse non mantenute.

     

    Molti invece dei nostri prigionieri di guerra accolsero con interesse l’offerta di lavoro e parteciparono diligentemente e con abilità a tutte le attività in cui furono impiegati, trovando anche il modo di imparare o migliorare la propria capacità lavorativa, utilizzando nuove tecnologie e moderne metodologie lavorative. Addirittura alcuni di loro chiesero la cittadinanza per rimanere negli Stati Uniti, cittadinanza che fu loro rifiutata perché rimanevano prigionieri di guerra di un paese sconfitto.

     

    L’Italia subiva una ulteriore sconfitta da parte dei suoi stessi militari prigionieri in America. Dall’altra parte emerge chiaro il modello politico-militare americano fondato su valori democratici che vanno accettati, probabilmente discussi  con lunghi confronti che comunque portano sempre alla ragione del più forte.

     

    La lettura di queste lettere ingiallite dal tempo, apparentemente aride nel loro linguaggio burocratico, sono state invece luci nella memoria, illuminando azioni e scelte del passato dal quale si possono osservare le radici di una dipendenza politico-culturale dell’Italia verso gli Stati Uniti; che ancora oggi, con diversi sentimenti, viviamo.

     

    Come per i nostri prigionieri militari, gli italiani di oggi, estremizzando, sembrano dividersi tra chi condivide e sposa senza condizioni il modello culturale di una democrazia da “commercializzare” americana e chi, invece, lo subisce senza capacità di cambiare o, almeno, di partecipare. C’è però una novità. L’attuale leadership politica degli Stati Uniti ha esasperato, quasi degenerato il loro approccio tradizionale di imporre la buona regola americana, l’ostentato orientamento a ripiegarsi su se stesso porterà, probabilmente, ad un nuovo loro isolazionismo. Paradossalmente, ciò potrebbe giovare o favorire una maggiore consapevolezza delle nostre capacità nazionali, affrancandoci da una certa dipendenza, nata anche dai campi di prigionia americani.

     

    Tutto questo è emerso dalla memoria, riportando alla luce le vicissitudini dei prigionieri militari italiani con le loro aspettative realizzate e deluse, le loro contraddizioni e il loro sacrificio; sono stati elaborati i ricordi con l’intento di migliorare le nostre prospettive future.

     

    Bibliografia

     

    Stato Maggiore Esercito Archivio Storico

    Lettera 23 febbraio 1945, Posizione I3, Raccoglitore B-163;

    Telespresso n.01186 del febbraio 1945, Posizione N1-11, Raccoglitore B-2241;

    Lettera Badoglio del febbraio 1944, Posizione N1-11, Raccoglitore B-2241;

    Lettera 10 gennaio 1945, Posizione N1-11,Raccoglitore B-2256;

    Lettera 27 marzo 1945,Posizione N1-11, Raccoglitore A-2256;

    Lettera 12 maggio 1945, Posizione I3, Raccoglitore B-163.

     

    Per l’approfondimento dell’argomento sono stati letti i seguenti testi:

    Massimo Coltrinari e Enzo Orlanducci, I prigionieri Militari Italiani degli Stati Uniti nella seconda  guerra mondiale, Edizioni A.N.R.P., Roma 1996;

    Flavio Giovanni Conti, I prigionieri italiani negli Stati Uniti,  il Mulino, Bologna 2012.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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