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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017





    L’OROLOGIO: LA SEMANTICA DEL TEMPO OSPEDALIERO

    Marina Foramitti

    m.foramitti@asst-cremona.it
    Nefrologa all’ASST di Cremona, dirige l’ambulatorio di Onco-Nefrologia. Membro del Comitato di Presidenza Nazionale del CIPRA nella carica di Tesoriere.


    Carte 2012 /14 (n° 13) - Nicoletta Freti

    Il mio lavoro: un medico ospedaliero che si occupa di pazienti affetti da malattie renali. Dico lavoro e non professione per predilezione verso l’etimologia latina, labor, del primo lemma, che spazia nei suoi significati dallo sforzo, declinato come fatica ma anche come zelo, alla prova, all’impresa, fino a toccare il travaglio e la malattia.

     

    Fra gli addetti al lavoro e fra i pazienti, io sono definita come una nefrologa. Ma quel che mi viene richiesto, non solo non si limita al nefrone (l’unità funzionale dei reni): non si esaurisce affatto con il logos, anche nella sua accezione socratica ed heideggeriana di ascolto. Ciò che mi viene richiesto, ha molto a che fare con Chronos -il tempo- e con le sue diverse percezioni, declinate nel campo soggettivo, piuttosto che istituzionale, oppure inter-relazionale.

     

    Il primo esempio di alcune di queste declinazioni del tempo, e di come possano confliggere fra loro, nasce subitaneamente dalla necessità di confrontarmi con la direttiva regionale che mi vuole imporre un limite di venti minuti per una prima visita nefrologica ambulatoriale, e quindici minuti per un controllo. Il tempo richiesto dalle regole delle istituzioni sanitarie, come cercherò di illustrare a breve, collide con altre necessità e aspettative temporali. Nel caso di una prima visita: in venti minuti, seduta dietro alla scrivania dell’ambulatorio dell’insufficienza renale cronica, devo guardare il paziente negli occhi, registrare la sua espressione, quanta paura esprime il suo corpo rigido, chiedergli come si chiama, dirgli come io mi chiamo, invitarlo a sedersi; sollecitare una descrizione dei suoi sintomi, ricostruire la sua storia clinica, indagando non solo le sue malattie ma anche il suo livello di istruzione, il suo milieu lavorativo, il suo ambiente familiare, il suo orientamento sessuale; devo frugare fra le sue abitudini perniciose, e scoprire quanto si sia danneggiato e fatto danneggiare nella sua vita, che può coprire un arco di novant’ anni. Cerco anche di capire se vuole essere curato, non dando per scontato che la sua presenza nell’ambulatorio corrisponda al desiderio di guarire. Mi interessa anche sapere quanti e quali farmaci assume e se alcuni gli hanno dato problemi.

     

    Dopo aver sfogliato i suoi giorni, gli chiedo di privarsi della barriera dei vestiti e di esporre il suo corpo al mio sguardo, al mio tocco; per effettuare un esame obiettivo generale ho bisogno di una sua collaborazione, quindi devo spiegargli come può aiutarmi cambiando posizione, rilassando alcuni muscoli, respirando in un certo modo, segnalandomi se sente fastidio o dolore quando esercito pressione sul suo addome o sugli arti. Per avere una media attendibile dei valori pressori eseguo tre misurazioni con lo sfigmomanometro, ottenendo un valore medio. Poi lo invito a rivestirsi e leggo le sue analisi. Formulo ipotesi, le condivido con lui, gli propongo un percorso diagnostico e terapeutico. Ascolto i suoi dubbi e le sue domande, gli prescrivo le ricette, gli fisso un altro appuntamento, stendo un resoconto della visita e glielo consegno; lo saluto e lo congedo. Spesso interagisco anche con uno o più familiari, e il tempo necessario si amplifica. Ogni paziente è un microcosmo, e non tutti sono collaboranti o dotati di organi percettivi e motori funzionanti; c’è il non udente, chi non cammina, chi fatica a parlare, chi diffida del medico, o molto più semplicemente lo teme per un processo di identificazione dello stesso con una possibile prognosi infausta. Tutte caratteristiche che per un medico non possono e non dovrebbero rappresentare fastidi o impedimenti, ma elementi appartenenti al quadro diagnostico; come tali, meritano un tempo adeguato per essere osservati e valutati.

     

    A dir come mi chiamo, come professionista, ci son volute meno di due righe. Descrivere, non certo in maniera esaustiva, un singolo aspetto del mio lavoro ne ha occupate più di venti. In questo primo esempio, il tempo istituzionale si scontra con il tempo tecnico del medico, sovrapposto al tempo relazionale, fattore irrinunciabile per una sufficiente qualità della relazione terapeutica. Quindi: come mi confronto con il tempo imposto dalla Regione Lombardia? Forse è pleonastico, dopo venti righe, dire che non ne tengo conto. Merito un plauso? Fuori dalla porta dell’ambulatorio ci sono altri otto pazienti, e l’ultimo viene visto dopo un’attesa che farebbe spazientire anche un mosaicista.

     

    Il diritto al tempo terapeutico del primo paziente dell’ambulatorio si scontra con quello dell’ultimo; e non è certo l’unico conflitto in atto; basta variare l’angolo prospettico in questa scena ambulatoriale, per notare come il diritto al tempo libero del medico si scontra con il diritto di poter fare eticamente il suo lavoro.

     

    Questi, gli orologi dell’ambulatorio dell’insufficienza renale cronica.

     

    Diverse sono le declinazioni del tempo che si srotolano dalla propria spirale quando interagisco con pazienti che affrontano la dialisi, quella metodica di depurazione del sangue che prevede di utilizzare un filtro artificiale che sostituisca, almeno in parte, le funzioni del perduto filtro renale.  Il tempo terapeutico dei pazienti emodializzati ha un frame particolare, in parte generato dall’elevata invasività della terapia dialitica, che per impegno in termini di frequenza e durata dei trattamenti dialitici irrompe, ad un certo punto della loro storia clinica, nella vita di queste persone, richiedendo una radicale riorganizzazione delle priorità e dei gradi di libertà del loro quotidiano.

     

    Quando interagisco con un paziente che viene in ospedale tre volte a settimana, per anni, per sottoporsi alla dialisi, la comunicazione terapeutica verte il più delle volte su quel che dovrebbe fare in termini di aderenza alle prescrizioni dietetiche, su quanta acqua beve, se assume sempre i farmaci prescritti, che sono un complemento fondamentale alla piccola parte di funzione renale che la dialisi sostituisce. Alcuni alimenti sono “proibiti”, contengono infatti molecole che la dialisi non riesce a eliminare in maniera efficace, e che in elevata concentrazione nel sangue possono causare conseguenze rischiose per la vita. Un eccessivo introito di liquidi fra una seduta e l’altra può portare a conseguenze nefaste, come l’insufficienza respiratoria, in quei pazienti – la maggioranza – che hanno perso la diuresi residua.

     

    La mia comunicazione terapeutica si focalizza perciò, come descritto, sull’impartire consigli che investono le aree psichiche dei bisogni fondamentali, acqua e cibo, degli stimoli endogeni primari, fame e sete, in una parola dei circuiti edonistici basilari. In questa comunicazione, non posso dimenticare quanto l’ospedalizzazione reiterata e cronica, che dura anni, possa incidere sulla percezione del tempo di questi pazienti. Esiste infatti una cesura fra il tempo – troppo, per quasi tutti loro – in cui si curano, in ospedale, e quello in cui non si curano, a casa, e in quest’ultimo quadrante le lancette della malattia sembrano fermarsi, e il tempo dilatarsi, fino a costituire uno scotoma nel panorama della loro consapevolezza della malattia.

     

    L’orologio si inceppa: non ricordarsi dell’importanza del tempo non istituzionalizzato di questi pazienti significa incentivare, in maniera frustrante e controproducente, un delirio di immortalità che nasconde la profonda angoscia della prigionia, del senso di  impotenza di fronte ad un sistema sanitario onnipresente.

     

    Un tempo così diverso da quello dei pazienti che ho avuto modo di conoscere negli ultimi cinque anni da quando, sollecitata da una cara amica e collega, pioniera della Onco-Nefrologia, ho iniziato ad occuparmi di persone che non solo hanno problemi renali, ma anche tumorali. Il mio compito principale, all’ambulatorio Onco-Nefrologico, è garantire a questi pazienti le stesse possibilità di cura del tumore di chi ha reni normalmente funzionanti.

     

    Molti farmaci antitumorali infatti non vengono prescritti a pazienti affetti da insufficienza renale, per il rischio di tossicità secondarie alla mancata eliminazione dei composti attraverso l’emuntorio renale. I pazienti vengono esclusi dagli studi registrativi dei nuovi farmaci, perché l’autorizzazione al commercio di una nuova molecola antitumorale passa attraverso il vaglio dell’autorità nazionale competente, che in caso di elevata tossicità può porre limitazioni alla commerciabilità del prodotto, con ovvia perdita economica a carico delle case farmaceutiche. Gli studi registrativi richiedono in effetti cospicui investimenti economici e sono generalmente gravati da protocolli complessi, che richiedono un utilizzo non indifferente di risorse umane in termini di personale medico, infermieristico e bio-ingegneristico.  

     

    L’esperienza maturata in questo ambulatorio, il cui modello si sta pian piano diffondendo, dovrebbe consentire un cambio di passo in questa politica. La presenza dello specialista nefrologo permette inoltre ai colleghi oncologi e chirurghi di lavorare con più tranquillità, dal momento che hanno a disposizione un consulente che risolva, ove possibile, le complicanze renali intercorrenti, che potrebbero limitare l’efficacia delle terapie in atto o precludere un trattamento chirurgico al paziente.

     

    Parallelamente a questo ambulatorio, in effetti, si è sviluppata una cultura multidisciplinare che è sfociata nella creazione di un’équipe multispecialistica, che si ritrova settimanalmente.  Questi momenti condivisi sono fruttiferi e non solo dal punto di vista tecnico: tutti i medici coinvolti percepiscono quanto sia singolare il paziente oncologico, quanto sia facile lasciarsi sopraffare da un atteggiamento nichilista o, al contrario, caratterizzato da accanimento terapeutico. E il tempo a disposizione gioca un ruolo fondamentale in queste derive che investono medici, infermieri e pazienti.

     

    I colleghi oncologi si avvalgono di una psicoterapeuta che è a disposizione dei pazienti; purtroppo questa figura non partecipa all’équipe, e non è stata neppure avanzata l’idea di impiegare risorse –sempre che ci siano – per ottimizzare i percorsi multidisciplinari grazie ad una figura con competenze specifiche nella relazione d’aiuto, che sia lo psicoterapeuta, uno psicologo o un counselor. L’idea che questa figura professionale possa incidere sulla qualità e sulla quantità del tempo multidisciplinare è ancora, purtroppo, di là dal venire.

     

    Lavorare con pazienti affetti da tumore ha cambiato radicalmente la mia percezione del tempo, in ambito lavorativo e non: in genere non ne hanno molto, e in genere… lo sanno. Pochi, nella mia esperienza, sono quelli che non vogliono essere curati. L’angoscia del ticchettio di un orologio, loro la conoscono, e l’hanno fatta conoscere anche a me. Ma mi hanno anche mostrato quanto la qualità di un istante possa essere così potente, così lancinante, da imporsi su quelle lancette che corrono. Un istante, che sembra uguale ad un altro, in cui il medico non solo riconosce la loro malattia, la loro sofferenza, la loro paura e il loro bisogno, ma anche la loro forza, la loro dignità, la loro ironia, ciò che amano e che conferisce valore alla loro esistenza. Un istante in cui il medico mostra loro che le mani che corrono sulla tastiera, che percorrono la loro pelle, che disegnano schemi sul foglio, che stringono le loro, non rubano il loro tempo. Rubano orologi.

     

    Da Nephron a Chronos: un viaggio attraverso l’esperienza e la crescita umana, che fonda quella professionale.

     

    Sono una nefrologa? Se riesco a sincronizzare tutti questi orologi, mi rispondo di sì.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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