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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017





    IL DIBATTITO SUI FATTORI CURATIVI NELLE RELAZIONI DI AIUTO

    Paolo Migone

    migone@unipr.it
    Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (www.psicoterapia-escienzeumane.it), si è formato in psichiatria e psicoanalisi prima in Italia e poi negli Stati Uniti, al New York Medical College, dove ha lavorato quattro anni. Tra le altre cose, è coordinatore del Rapaport-Klein Study Group (Austen Riggs Center, Stockbridge, Massachusetts), Research Associate dell’American Psychoanalytic Association, è nell’editorial board di Psychological Issues, ha fondato la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR) e il gruppo italiano della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI). È autore di varie pubblicazioni tra cui il libro Terapia psicoanalitica (FrancoAngeli, 1995; nuova edizione 2010).


    La congiunzione degli opposti 3 (Particolare) - Nicoletta Freti

    Da millenni l’uomo cerca di individuare agenti terapeutici e, nel corso della storia della medicina, li ha mano a mano perfezionati selezionando i più efficaci. Il salasso, il digiuno, la dieta idrica, il clistere, ecc., sono tutti esempi di rimedi eroici dei primordi della medicina che venivano usati in un modo che oggi considereremmo indiscriminato: il salasso ad esempio era utile ai policitemici e agli ipertesi, ma poteva essere fatale agli anemici. Oggi ci vantiamo di avere terapie ben più mirate, ma in futuro, alla luce di nuove scoperte, forse anche molte di esse verranno scartate e considerate inutili o dannose.

    La digitale, un potente medicamento conosciuto da millenni e tutt’ora in uso, costituisce un esempio interessante. Questa pianta veniva usata per gli scopi più disparati dagli egizi, dai romani, dagli africani, ecc., come emetico, diuretico, antiepilettico, per le ulcere della pelle, come veleno messo sulla punta delle frecce, e così via. A volte, senza saperlo, se ne sfruttavano gli effetti diretti, e a volte, aumentandone la dose, quelli collaterali o tossici. Solo tre secoli fa finalmente si scoprì che la digitale era efficace soprattutto come diuretico, in questo modo avvicinandosi al suo vero meccanismo d’azione, senza però conoscere che questo effetto era mediato dall’azione sul cuore. Fu necessario arrivare alla fine del Settecento per scoprire che il bersaglio della digitale era il cuore, permettendo così di usarla come diuretico solo in quei casi in cui la limitata diuresi era dovuta a uno scompenso cardiaco e non, ad esempio, a una malattia renale.

    Proviamo ora a fare un’analogia tra la storia di certi agenti terapeutici della medicina e della psicoterapia o di altre relazioni di aiuto. Può non essere una provocazione affermare che la psicoterapia è come il salasso, o anche come la digitale. Ad esempio, quando Freud “scoprì” la psicoanalisi, essa, proprio come la digitale, alimentò varie aspettative, per cui fu usata indiscriminatamente per vari disturbi. Groddeck la usava per le emorragie retiniche, la sifilide, la gonorrea, le nefriti, il gozzo, ecc., e comunicava all’incuriosito Freud i risultati che si diceva sicuro di ottenere (Freud & Groddeck, 1917-34). Per restare nel campo della psichiatria, la psicoanalisi fu usata per quasi tutti i disturbi psichici, e c’è ancora chi oggi la usa per le psicosi più severe, o chi imperterrito continua ad utilizzare la “camera orgonica” inventata da Wilhelm Reich per i propri pazienti affetti dai disturbi più svariati (io stesso fui sorpreso nel constatare che in una cittadina del Nord Italia una buona fetta della popolazione era entrata, traendone “ottimi benefici”, nella camera orgonica di un noto psichiatra locale, lo stesso che era stato tra i primi a introdurre nella zona la moderna psicofarmacologia!). Col tempo comunque si è andata modificando la nostra concezione dei fattori curativi della psicoanalisi, e oggi molti danno meno importanza a fattori precedentemente considerati essenziali (come la “verità” di certe interpretazioni psicoanalitiche) per rivalutarne altri (interpretazioni di diverso contenuto, oppure fattori esperienziali legati alla relazione).

    Il problema dei fattori curativi non è certo semplice da affrontare, e per esso sono stati spesi fiumi di parole e scritti centinaia di libri. Non servirebbe molto che io provassi a dire la mia, magari con una serie di asserzioni non dimostrate che si aggiungerebbero alla lunga lista di quelle fatte da tanti altri. Ritengo invece più utile stimolare la riflessione iniziando col ripercorrere la storia del dibattito sui fattori curativi avvenuto in psicoanalisi, perché la psicoanalisi, dopo l’ipnosi, è stata la prima importante forma di psicoterapia che si è sviluppata nel mondo occidentale (cfr. Migone, 2004b) e, dopo di essa, a volte anche a partire da essa – per contrapporsi, o per migliorarla – sono state proposte molte teorie e tecniche psicoterapeutiche, ed è quanto mai importante prestare attenzione allo sviluppo storico dei concetti. Non solo, ma sono nate tante professioni di aiuto (cfr. Migone, 2008) che non fanno diretto riferimento alla psicoterapia in quanto tale (si pensi ai counselor, ai mediatori familiari, ai pedagogisti clinici, agli insegnanti di sostegno, agli infermieri, agli educatori professionali e così via), ciascuna con un proprio campo di intervento specifico, e che possono avere teorie di riferimento che si intrecciano con le teorie psicoterapeutiche, che come sappiamo sono anch’esse tante e diversificate. La breve storia del dibattito sui fattori curativi avvenuto in psicoanalisi vuole essere quindi solo un modo per riflettere sul problema dei fattori curativi in generale, anche in altre professioni di aiuto, perché questo dibattito può essere un prototipo di altri dibattiti avvenuti in modo a volte simile nella storia di altre professioni: potremo forse vedere che certi concetti, al di là della terminologia usata, sono simili, perché spesso i problemi che si sono dovuti affrontare nella relazione col cliente erano gli stessi (ad esempio come mantenere la relazione, come favorire l’alleanza col cliente, come incentivare la motivazione, e così via). Gli esseri umani che chiedono aiuto, infatti, al di là delle problematiche che presentano e delle diverse figure professionali a cui si rivolgono, sono gli stessi, e possono attivarsi gli stessi fattori motivazionali. Dopo questo breve excursus nella storia della psicoanalisi faremo alcune riflessioni più in generale appunto su alcuni aspetti della natura umana, e precisamente su quella che Blatt (2006a) ha chiamato “polarità fondamentale” della personalità, che è collegata con la tematica dei fattori curativi. Come vedremo, nell’essere umano esistono diverse sfaccettature, differenti modalità di funzionamento (che potremmo ad esempio definire, genericamente parlando, cognitive ed emotive), e uno dei compiti fondamentali – anche del lavoro nelle relazioni di aiuto – è quello di saper integrare armoniosamente questi diversi aspetti della personalità, e a volte anche di saperli flessibilmente dissociare per un ottimale adattamento nelle varie situazioni di vita.

    In questa mia esposizione farò soprattutto riferimento alla ricostruzione del dibattito sui fattori curativi in psicoanalisi fatta da Larry Friedman (1978), che peraltro costituisce – non va dimenticato – un punto di vista tra i tanti, e mi baserò anche su miei lavori precedenti (vedi ad esempio Migone, 1995, cap. 6).

    Schematicamente, possiamo dividere la storia della teoria psicoanalitica dei fattori curativi in due capitoli principali: le concezioni sviluppate da Freud stesso mentre fondava la psicoanalisi, e quelle delle successive generazioni di analisti. Questo ultimo capitolo, a sua volta, si può schematicamente dividere in tre tappe fondamentali: il dibattito allo storico congresso di Marienbad dell’International Psychoanalytic Association (IPA) del 1936, intitolato “La teoria dei risultati terapeutici in psicoanalisi”; quello al congresso di Edimburgo del 1961, 25 anni dopo, intitolato “I fattori curativi in psicoanalisi”; e i successivi sviluppi della psicoanalisi. Questi ultimi, molto variegati e resi ancor più difficili da analizzare per la loro vicinanza a noi, non verranno qui discussi in profondità, se non per accennare ad alcuni aspetti che fanno pensare che in buona parte – e spesso senza che vari autori ne abbiano piena consapevolezza – vengono sollevate tematiche come se fossero nuove, mentre sono state già considerate e discusse a fondo dalle generazioni precedenti.

    La concezione freudiana

    Rileggendo gli scritti di Freud, si possono evidenziare due fattori principali che hanno caratterizzato la teoria della cura in psicoanalisi: uno fa riferimento agli aspetti cognitivi, e può essere chiamato comprensione intellettuale o cognitiva, esplorazione, insight cognitivo, interpretazione, ecc., mentre l’altro fa riferimento agli aspetti emotivi, cioè alla relazione, al rapporto affettivo col terapeuta, ed è stato chiamato in vari modi tra cui transfert positivo, attaccamento, suggestione, ecc. La concezione di questi due fattori terapeutici, che verranno qui illustrati brevemente e che per comodità, seguendo Friedman (1978), chiamerò rispettivamente “comprensione” e “attaccamento”, ha dato una impronta decisiva al successivo dibattito sui fattori curativi (il termine “attaccamento” qui non va inteso nel senso della “teoria dell’attaccamento” di Bowlby). Vediamo brevemente in cosa consistono questi due principali fattori e l’importanza relativa che essi hanno avuto nella concezione freudiana (si può evidenziare anche un terzo fattore, chiamato “integrazione”, a cui Freud ha dato maggiore attenzione solo più tardi [per un approfondimento, vedi Friedman, 1978, pp. 527-530 ediz. orig.]; come un possibile esempio di ricerca empirica su questo fattore, si pensi alla integrazione tra i diversi codici cognitivi negli studi di Wilma Bucci, 1997).

    Per quanto riguarda la “comprensione”, Freud sottolineò più volte l’importanza dei fattori cognitivi, cioè della comprensione intellettuale, della spiegazione, dell’istruzione, dell’educazione, della argomentazione logica, ecc.: questi fattori faciliterebbero il superamento delle resistenze del paziente nel rendere conscio il materiale inconscio, nel comprendere e ricordare, invece che essere condannati a ripetere. In effetti, molti pensano che il fattore curativo per eccellenza della psicoanalisi sia l’interpretazione, intervento che maggiormente caratterizza la sua identità. È interessante però ricordare che nel 1910 Freud sottolineò che informare il paziente su quello che non sa è solo uno dei «preliminari necessari alla terapia» (p. 329), cioè che esso non va visto come la totalità del trattamento. Pochi anni dopo, in uno dei sei articoli sulla tecnica, Freud (1913) ribadì che l’istruzione e la comunicazione di materiale rimosso al paziente rappresentano solo una parte delle potenzialità curative della psicoanalisi.

    Questa prudenza di Freud nel considerare la comprensione come il fattore curativo fondamentale della psicoanalisi emerge ancora più chiara se osserviamo l’importanza che egli attribuisce all’altro fattore, quello relazionale. Mai infatti Freud minimizzò l’importanza dell’attaccamento o del legame affettivo tra paziente e terapeuta, non solo, ma spesso sottolineò come la comprensione possa avvenire solo all’interno di una relazione affettiva, cioè nella misura in cui l’atmosfera transferale la permette e costituisce “una nuova fonte di forza” al processo analitico (Freud, 1913). Nella Introduzione alla psicoanalisi disse addirittura in modo esplicito che è il transfert positivo, non l’insight intellettuale, «quello che fa pendere il piatto della bilancia» (Freud, 1915-17, pp. 581-596), dando quindi più importanza agli aspetti affettivi che a quelli cognitivi. In altre occasioni Freud parlò dell’importanza della relazione del paziente con l’analista “per indurlo ad adottare la nostra convinzione” sulla inopportunità delle difese da lui adottate nell’infanzia (1918), della figura del terapeuta non solo come maestro ma anche come modello per il paziente (1937), dell’utilizzo del transfert in senso educativo (1937), e così via.

    Si può quindi dire che sia un luogo comune non corretto sostenere che Freud privilegiasse la interpretazione a scapito della relazione affettiva, e che sia più corretto sostenere, con quello che può sembrare un gioco di parole, che questa concezione appartenga non tanto a Freud ma ai “freudiani” (si può dire che i freudiani nacquero circa 25 anni dopo, ufficialmente al congresso di Edimburgo del 1961, come reazione, come vedremo, a determinati sviluppi del movimento psicoterapeutico).

    Il congresso di Marienbad del 1936

    I contributi al congresso di Marienbad furono di Glover (1937), Fenichel, Strachey, Bergler, Nunberg e Bibring, e furono pubblicati sull’International Journal of Psychoanalysis nel 1937. Si può dire che qui l’influenza di Freud, che era ancora vivo, fu molto sentita: quasi prendendo spunto dal suggerimento di Freud secondo il quale in analisi il paziente viene persuaso ad adottare l’atteggiamento dell’analista, a Marienbad fu data particolare enfasi alla “introiezione” di funzioni dell’analista da parte del paziente nel transfert. Già erano usciti due anni prima due importanti lavori che avevano preparato il terreno per il congresso di Marienbad: uno era l’articolo di Sterba (1934) sulla identificazione del paziente nell’“Io osservante” dell’analista, che possiede un modo disinteressato di osservare la realtà ed è meno condizionato dal principio di piacere, e l’altro era il famoso lavoro di Strachey (1934) sulla “natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi” (tanto importante da essere ristampato 35 anni dopo, nel 1969, sempre sull’International Journal of Psychoanalysis). In questo lavoro Strachey, influenzato dal pensiero kleiniano, sottolinea l’importanza dell’identificazione nelle qualità affettive dell’analista e nella sua maggiore tolleranza al conflitto, parlando quindi di introiezione non dell’Io dell’analista (come aveva fatto Sterba), ma del suo Super-Io (si pensi ad esempio alla identificazione nel Super-Io dell’analista che è “meno rigido” di quello del paziente). Al congresso di Marienbad, Strachey – che era una figura molto autorevole, tra le altre cose fu il responsabile della traduzione delle opere di Freud in inglese – riprende questi temi, e sottolinea l’importanza della identificazione nella figura superegoica benevola dell’analista, che nel paziente viene differenziato dalle figure superegoiche arcaiche e poi introiettato; questo lavoro viene facilitato lavorando in modo privilegiato con ripetute interpretazioni di transfert.

    In misura maggiore o minore, tutti gli altri analisti furono d’accordo con Strachey. Egli, parlando di identificazione nel Super-Io dell’analista, aveva suggerito l’importanza delle qualità affettive dell’introiezione (diversamente dal concetto di Sterba di identificazione nell’Io, più intellettualizzato e libero da emotività) e in un certo qual modo era andato nella direzione di collegare la comprensione all’attaccamento, cioè i fattori cognitivi e quelli emotivi che altrimenti rimanevano in campi separati. In altre parole, sembrava che il movimento psicoanalitico, almeno per le posizioni espresse in questo congresso, avesse compreso la enorme importanza della relazione affettiva, e non solo della interpretazione, come fattore terapeutico.

    Il congresso di Edimburgo del 1961

    Al congresso di Edimburgo, 25 anni dopo, curiosamente ci troviamo di fronte a un quadro completamente diverso, anzi a una inversione di tendenza. La grande importanza data nel congresso di Marienbad alla introiezione e alla identificazione con l’analista potrebbe indurci a pensare che la psicoanalisi finalmente aveva iniziato la strada per comprendere come la relazione permettesse la comprensione e come entrambe costituissero fattori curativi fondamentali per la terapia, ma non fu così. Nonostante il coraggioso invito di Gitelson (1962) a continuare nella direzione indicata da Strachey (1934, 1937) e a considerare la relazione come una esperienza ristrutturante e integrante in se stessa, quasi tutti gli altri oratori reagirono con freddezza. A parte Nacht (1962, 1963), che sottolineò l’importanza della “presenza” e della “umanità” dell’analista come fonte di identificazioni, tutti gli altri (Segal, Kuiper, Garma e Heimann, in prevalenza kleiniani), in prevalenza kleiniani, fecero riferimento all’interpretazione cognitiva, e in modo specifico alla sua correttezza, cioè al suo carattere di verità, come principale fattore curativo della psicoanalisi. Per la verità Gitelson aveva coraggiosamente introdotto il concetto di funzione “diatrofica” (un termine medico che significa “di nutrimento”, “di sostegno”) dell’analista per il paziente, ma aveva cercato di rassicurare l’uditorio affermando che essa era utile solo nella fase preliminare della terapia, prima di entrare nella psicoanalisi “vera e propria”, dove la tecnica doveva rimanere solo interpretativa; inoltre, si era premurato di dire che lui “non gratificava i pazienti più di quanto non facessero gli altri colleghi” (questo atteggiamento apologetico di Gitelson rende bene l’idea del clima che si respirava).

    Ma gli altri analisti presenti, con una curiosa marcia indietro rispetto al congresso di Marienbad di 25 anni prima, mostrarono non gradire di sentir parlare di fattori curativi che non fossero la comprensione trasmessa tramite l’interpretazione “vera”. Kuiper ad esempio sminuì ulteriormente la portata delle affermazioni di Gitelson sulla funzione diatrofica dell’analista dicendo, come in una sorta di concessione nei suoi confronti, che essa può essere utile eventualmente solo nei pazienti borderline, dove vi è un arresto alle fasi pre-edipiche dello sviluppo; l’argentino Garma si fece strenuo difensore della “verità” dell’interpretazione come fondamentale fattore curativo; anche Hanna Segal reiterò l’importanza dell’insight e della “ricerca della verità” come fattori curativi; persino Paula Heimann espresse il suo fermo disaccordo sulla opportunità di mantenere atteggiamenti diversi in una prima e in una seconda fase della terapia, opponendosi a Gitelson; e così via.

    Alcune riflessioni sul dibattito sui fattori curativi in psicoanalisi

    Cosa successe al congresso di Edimburgo che fece dimenticare le intuizioni sull’importanza della relazione affettiva raggiunte 25 anni prima non solo da Freud ma anche da Strachey e altri? La cosa appare ancor più sorprendente se si pensa che solo pochi mesi prima erano stati pubblicati due autorevoli lavori, l’articolo di Hans Loewald del 1960 sulla “azione terapeutica della psicoanalisi” e il libro di Leo Stone del 1961 sulla “situazione psicoanalitica”, in cui vennero espresse posizioni per niente lontane da quelle di Gitelson, anzi per certi aspetti ancor più avanzate (questi contributi di Loewald e Stone sono ritenuti così importanti che per esempio furono tradotti in italiano rispettivamente 33 e 25 anni dopo; per una valutazione complessiva dell’importante ruolo di Loewald nella teoria psicoanalitica, vedi Friedman, 2008).

    Come osserva Friedman (1978, pp. 536-537 ediz. orig.), una possibile spiegazione di questo fatto è di ordine sociologico. Nel 1961 il panorama dello sviluppo delle psicoterapie era ben diverso da quello di 20-30 anni prima: la psicoanalisi non dominava più incontrastata il mercato della psicoterapia, e il suo monopolio era stato rotto dall’assedio di un vasto movimento di psicoterapie diverse, molte delle quali non solo efficaci, ma anche più economiche, più brevi, e quindi più appetibili (un pericolo era visto soprattutto nella diffusione della cosiddetta “psicoterapia psicoanalitica” o “terapia psicodinamica”, che era a minore frequenza settimanale e direttamente imparentata con la psicoanalisi vera e propria; cfr. Migone, 1991). Si erano diffuse inoltre varie altre professioni di aiuto, si pensi solo agli assistenti sociali che negli Stati Uniti rappresentano una corporazione piuttosto importante e molti dei quali sono psicoanalisti. Probabilmente vari esponenti della istituzione psicoanalitica si sentivano minacciati e avevano il bisogno di differenziare al massimo la specificità del metodo psicoanalitico, e naturalmente solo l’interpretazione si prestava a servire come “concetto forte” atto a questo scopo. Le componenti identificatorie e affettive, legate alla relazione col terapeuta, rischiavano di rientrare nei cosiddetti fattori “aspecifici” o “comuni” presenti in quasi tutte le professioni di aiuto (Frank, 1961), sminuendo l’originalità della psicoanalisi e minacciandone l’identità a livello di mercato.

    Inoltre, altri importanti sviluppi erano intervenuti a modificare profondamente la psicoanalisi: nel corso di pochi anni, a causa delle persecuzioni razziali in Europa e più in generale a causa della maggiore ricettività dell’America per il messaggio freudiano (Migone, 1981), la componente più influente della psicoanalisi si era trasferita dall’Europa agli Stati Uniti divenendo qui, come lo stesso Freud aveva previsto, qualcosa di diverso, e questa sua nuova immagine era stata poi esportata nel resto del mondo («Non sanno che portiamo loro la peste», disse Freud a Jung quando nel 1909, assieme a Ferenczi, sbarcarono in America dove Freud era stato invitato a tenere cinque conferenze alla Clark University di Worcester, nel Massachusetts; secondo la Roudinesco [2014] però questa profetica e ironica frase sarebbe apocrifa). Questa nuova psicoanalisi aveva un’impronta molto più medica, essendo entrata a pieno titolo nel mondo accademico come una delle scienze naturali (come è noto, negli Stati Uniti fino al 1989 solo i medici potevano praticare la psicoanalisi, avendo accesso esclusivo al training dell’American Psychoanalytic Association la quale manteneva il monopolio della formazione; per i dettagli sull’azione legale intentata dagli psicologi, che pose fine a questo monopolio, vedi Migone, 1987, 1995 cap. 15). Forse è stata anche la ricerca di questa psicoanalisi americana per il fattore terapeutico par excellence, individuato nell’interpretazione, quella che ha portato a una tendenziale abolizione di tutti gli altri fattori terapeutici, già valorizzati da Freud, quali appunto la relazione emotiva con l’analista. L’interpretazione infatti, come “concetto forte”, non solo serviva per differenziarsi dalle altre terapie, ma era anche più consona al modello medico: essa, in quanto fattore specifico, evocava l’immagine di un intervento concreto, “visibile”, che eliminasse la malattia (come una terapia antibiotica o qualcosa del genere). Non che la relazione avesse meno dignità da un punto di vista scientifico (anzi, ironicamente è proprio la psicoanalisi che si propone di sondare le profondità dei rapporti emotivi tra le persone), ma forse non era così facilmente scomponibile, o comunque il concetto di interpretazione sembrava una chiave che potesse aprire, in modo anche più facile, molte più porte.

    Viene in mente la polemica sulla traduzione inglese fatta da Strachey dell’opera di Freud sollevata da Bettelheim (1982), che conobbe Freud personalmente e che poi, emigrato negli Stati Uniti dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento, denunciò quella che a suo parere era una deviazione in senso eccessivamente medicalizzante dello spirito originario della disciplina fondata da Sigmund Freud, il quale voleva darle una impronta invece più umanistica (per fare solo un esempio, il termine tedesco Ich venne tradotto in inglese con ego, che è una parola latina e quindi astratta e lontana dall’esperienza, priva dell’impatto immediato del significato che aveva voluto dargli Freud). Nell’attraversare l’oceano, insomma, la psicoanalisi secondo Bettelheim avrebbe “perso l’anima”. Bettelheim, che non aveva un background di medicina ma di storia dell’arte, filosofia ed estetica, dopo che fu esaminato da Anna Freud per intraprendere il training psicoanalitico ricevette personalmente le congratulazioni di Sigmund Freud che gli disse che la psicoanalisi aveva bisogno proprio di persone come lui, dotate di una cultura non medica ma umanistica, in quanto più capaci di comprendere l’“anima dell’uomo”. Bettelheim fece anche spesso notare come molte analisi praticate negli Stati Uniti erano cosa ben diversa da quelle praticate ai tempi di Freud, che non era affatto rigido coi suoi pazienti, ma mostrava la massima empatia e attenzione alla relazione.

    A questo proposito, può non essere casuale che solo a partire dagli anni 1980 sono incominciate a essere pubblicate varie testimonianze di ex-pazienti di Freud (tra le tante, vedi Albano, 1987), dove si raccontano i dettagli della sua tecnica terapeutica, e improvvisamente si scopre che era molto umano e rilassato coi propri pazienti e, se così si può dire, per niente “freudiano”. Queste cose si sapevano da sempre, ma solo da un certo punto in poi hanno riscosso un interesse generale. Inoltre, solo recentemente è stata allentata la censura su alcuni documenti freudiani prima tenuti segreti (cfr. Migone, 1984), i quali mostrano da vicino gli aspetti più autentici e umani del fondatore della psicoanalisi, al di là dell’immagine ufficiale che si voleva mantenere.

    La tradizione ortodossa della psicoanalisi nordamericana invece, alla ricerca della specificità del metodo psicoanalitico, ha cercato di eliminare le variabili dell’“impurità” del rapporto emotivo per vedere se l’esperimento funzionava ugualmente, operando quella che altrove ho chiamato una sorta di “personectomia” del terapeuta (Migone, 1994 p. 130, 2004a p. 151). Le componenti affettive della relazione sono sempre state guardate con diffidenza: si pensi alla critica di Eissler (1950) al concetto di “esperienza emozionale correttiva” di Alexander (1946), esponente di punta della scuola di Chicago (la quale peraltro era la continuazione ideale, come legata a filo rosso, della scuola ungherese rappresentata da Ferenczi, che per gli stessi motivi si era scontrato con Freud – anche Alexander, come pure Gedo e ancor prima Balint e altri che avevano sottolineato l’importanza della relazione come fattore terapeutico, erano ungheresi). E si pensi anche alle vicissitudini del movimento della “Psicologia del Sé” di Kohut (che tra l’altro ebbe Gitelson tra i suoi maestri), non a caso sorto anch’esso, una ventina di anni dopo, all’interno della scuola di Chicago, in cui viene data molta enfasi alla relazione e all’empatia (per un accenno a Kohut, vedi Migone, 1995 cap. 10, 2007). Secondo una interpretazione in chiave sociologica, si può ritenere che il successo della Psicologia del Sé, nata e diffusasi a macchia d’olio non a caso negli Stati Uniti e solo in seguito in Europa, sia una reazione ai danni iatrogeni della psicoanalisi classica di stampo nordamericano, dove per molti pazienti particolarmente vulnerabili la psicoanalisi “freudiana”, che privilegia l’interpretazione verbale a scapito dell’attenzione per la relazione, ha rappresentato una ferita narcisistica cronica. È noto ad esempio che molte analisi di Kohut erano seconde analisi dopo fallimenti terapeutici di analisi “classiche” (cfr. Migone, 1995, p. 15 ediz. del 2010).

    Questa problematica, se vogliamo, è stata ripresa a cavallo degli anni 1980 nel dibattito tra Kohut e Kernberg riguardo alla terapia dei disturbi gravi di personalità (Kohut, 1982 p. 397, 1984 p. 66; Kernberg, 1984, pp. 182-189; Migone, 1995, cap. 8) e al ruolo dell’empatia come fattore curativo tout court (Migone, 1995, cap. 10). Kernberg (comunicazione personale, 1982) sottolineava l’importanza dell’interpretazione cognitiva di determinati conflitti intrapsichici del paziente, e muoveva alla Psicologia del Sé di Kohut la pesante accusa di essere meramente una psicoterapia “di supporto”, quindi non psicoanalitica, per il fatto di limitarsi a fornire al paziente un’esperienza correttiva. Il dibattito tra Kohut e Kernberg pare proprio che abbia rimesso in atto il dibattito di Edimburgo, nel senso che il timore che Gitelson provocò nei partecipanti del congresso di Edimburgo sembra quello evocato in Kernberg da Kohut (vedi Friedman, 1978, pp. 545-548 ediz. orig.). Questo timore è che, una volta che il concetto di interpretazione (e soprattutto di interpretazione “vera”) viene relativizzato e abbassato al rango di concetto debole (ciò avvenne in particolar modo a sèguito della critica ermeneutica di Ricoeur [1965] e altri autori, ad esempio Schafer [1976, 1992] e Spence [1982] in Nord America), non rimangano altri pilastri fondanti il metodo psicoanalitico; non a caso da più parti si assiste al tentativo di utilizzare il “setting” o il “contenitore” come nuovi concetti forti del metodo (Galli, 1985, 1992), dimenticando che essi rivestivano un ruolo periferico nel pensiero freudiano. Il setting, come metafora del contenitore e della relazione con l’analista, ha dirette implicazioni con i concetti di attaccamento e di identificazione nelle funzioni sane del terapeuta (vedi anche l’importanza sempre data da Langs [1985, 1987, 1998] al “setting sicuro” come fattore terapeutico).

    E che dire, riguardo alla riscoperta dell’importanza della relazione come fattore curativo, delle ricerche di Fonagy et al. (2002) sul rispecchiamento empatico e la terapia dei disturbi di personalità? Gli studi di Fonagy sulla “funzione riflessiva” (in area cognitivista spesso chiamata anche “metacognizione”) hanno dimostrato che il fattore che veramente fa la differenza è la capacità della madre (o del terapeuta, se si tratta di una terapia) di saper riconoscere, rispecchiare, gli stati mentali della persona con cui interagisce. Solo in questo modo il paziente può a sua volta imparare a riconoscere i propri stati mentali, a “costruire la propria mente”, in un processo detto appunto di “mentalizzazione” (Bateman & Fonagy, 2004). Colpisce qui la somiglianza con le posizioni di Rogers, che aveva sottolineato il ruolo non solo dell’empatia, ma anche della congruenza, cioè della capacità del terapeuta di saper essere in contatto coi propri stati mentali (Migone, 2006a, 1995 cap. 8 pp. 159-161 ediz. del 2010). Il fatto che decenni fa Rogers avesse già capito che questo tipo di relazione è di vitale importanza non andrebbe sottovalutato, ed è ironico che i fattori che lui individuò furono chiamati “aspecifici” quando oggi molte ricerche dimostrano che invece sono estremamente importanti, tanto da sembrare, per così dire, “specifici”. Il fatto è che la componente umana e affettiva è difficilmente eliminabile da qualunque relazione psicoterapeutica, a meno che essa non venga snaturata. L’errore dunque potrebbe essere quello di concettualizzare (e anche mettere in pratica, cioè tradurre questa concettualizzazione nella clinica) una separazione netta tra attaccamento e comprensione; si pensi anche all’annoso dibattito sulla dicotomia conflitto/deficit, sulla cui logica si radicano molte divisioni tra scuole psicoanalitiche (ad esempio la psicoanalisi classica, come è noto, si fonda su una “psicologia del conflitto”, mentre altre scuole, come la Psicologia del Sé, la psicoanalisi interpersonale e relazionale, la psicologia umanistica etc. si basano su una “psicologia del deficit”, cioè non sull’idea freudiana che all’origine della psicopatologia vi sia un conflitto “interno”, tra diverse istanze psichiche, ma un conflitto “esterno”, tra un Sé capace di autorealizzarsi e un ambiente traumatico che interferisce nello sviluppo); a un più attento esame, però, la dicotomia conflitto/deficit – come dimostra bene Eagle (1984 cap. 11 trad. it., 1991) – è insostenibile sul piano clinico.

    A questo punto potremmo allora chiederci: cosa è dunque la psicoanalisi? Solamente interpretare i contenuti latenti, senza riguardo per la struttura psichica nella sua globalità e per il rapporto emotivo che il paziente in quel momento è in grado di avere col terapeuta? Vorrei citare a questo proposito un passaggio di Freud, molto esplicito al riguardo:

    «È un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l’ammalato soffrirebbe per una specie d’insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale “non sapere” per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo “non sapere” nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il “non sapere” e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l’ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell’inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame» (Freud, 1910, p. 329).

    La “polarità fondamentale” della personalità studiata da Sid Blatt

    I due principali fattori curativi di cui abbiamo parlato, a ben vedere, fanno riferimento anche a una polarità che riguarda due aspetti del nostro funzionamento psicologico, che abbiamo definito, per brevità, cognitivi ed emotivi. Infatti, il nostro cervello – che peraltro è diviso in due emisferi con funzioni diverse, contrariamente ad altri organi doppi del corpo umano che sono identici – è frutto dell’evoluzione, in cui spesso determinate formazioni si sono sovrapposte ad altre, più che sostituite, ed è questa una delle ragioni della conflittualità a volte presente in noi. A questo proposito, vorrei dedicare l’ultima parte di questo scritto a una breve presentazione della linea di ricerca di Sidney J. Blatt (1928-2014), uno psicoanalista molto noto negli Stati Uniti, che era impegnato sia nella ricerca empirica che nella clinica (Migone, 2015). Blatt ha indagato appunto questa “polarità fondamentale” dell’essere umano, che è connessa al problema dei fattori curativi, nel senso che diversi aspetti della personalità possono aver bisogno di essere “nutriti” da svariati “ingredienti” o interventi terapeutici, a seconda anche di quale aspetto è più problematico o più presente come tipologia di personalità. Prima di parlare delle sue ricerche (vedi ad esempio Blatt, 2006a, 2006b, 2008; Auerbach, Levy & Schaffer, 2005), accenno ad alcuni aspetti della sua vita perché, come spesso avviene, sono certe esperienze personali quelle che inconsapevolmente possono determinare i nostri interessi professionali.

    “Sid” Blatt (così veniva chiamato da amici e colleghi) fu inizialmente motivato a studiare la depressione a causa del rapporto con sua madre, una donna che soffriva di questo disturbo, e in seguito ad attirare il suo interesse furono i suoi due casi clinici che all’inizio degli anni Settanta seguiva sotto supervisione per presentarli all’esame per il diploma della scuola psicoanalitica. Entrambi questi casi erano pazienti donne alle quali fu assegnata la diagnosi di “depressione”, eppure erano profondamente diverse. Una di loro soffriva di sentimenti di abbandono, mentre l’altra non aveva mai questo tipo di ideazione, e quando era depressa tendeva a sentirsi molto in colpa. Blatt era colpito da questa diversità, e si chiedeva come mai una stessa diagnosi potesse caratterizzare quadri clinici così lontani tra loro, per i quali occorreva un’attenzione terapeutica che tenesse conto delle rispettive psicodinamiche.

    Sùbito gli venne in mente la terminologia già usata da Freud (1914, 1925) di personalità “anaclitica” e “introiettiva”, e pensò che queste donne potevano avere due diversi tipi di personalità: nella prima (“anaclitico” significa “di appoggio”) il paziente manifesta la depressione lamentando prevalentemente perdite affettive, abbandono, solitudine e trascuratezza, mentre nella seconda (in cui vi è una rigida introiezione di valori superegoici) mostra senso di colpa, fallimento personale e autocritica. Si può ricordare anche l’affermazione di Freud, spesso citata, che i due compiti principali dell’essere umano sono “amare e lavorare” – l’amore come bisogno di dipendenza dagli altri e il lavoro come autonomia e realizzazione individuale – oppure la distinzione tra “libido oggettuale” e “libido dell’Io” (Freud, 1914, 1925), cioè tra motivazioni all’attaccamento e motivazioni alla padronanza e alla definizione di sé. Freud (1929, pp. 612-619) elaborò ulteriormente questa polarità tra attaccamento e individuazione distinguendo un’ansia legata all’interiorizzazione del Super-Io, che può generare senso di colpa, e un’ansia che riguarda la paura di perdere l’amore e il contatto con gli altri; ipotizzò anche che la perdita dell’oggetto amato può generare un senso di impotenza collegato ad aspetti dello sviluppo femminile, mentre la perdita dell’approvazione del Super-Io (auto-disapprovazione e colpa) è più collegata allo sviluppo maschile (Freud, 1905, 1914, 1925).

    Ma Freud non è stato l’unico ad aver individuato questa polarità nell’essere umano, vi sono anche altri autori che l’hanno studiata, anche se a volte usando termini differenti. Vediamone alcuni.

    Jung (1921), come è noto, parlò dei “tipi psicologici” introversi ed estroversi, inaugurando innumerevoli ricerche sulla psicologia della personalità.

    Anche Loewald (1962) colse l’importanza di questa «dualità o polarità di individuazione e identità narcisistica primaria con l’ambiente (…) ritenuta un importante fenomeno di base dello sviluppo umano» (p. 503), «una polarità che Freud cercò di concettualizzare in vari modi ma che riconobbe e di cui sottolineò sempre l’importanza con la sua concezione duale delle pulsioni, della natura umana e della vita stessa» (pp. 490-491).

    Alcuni anni dopo, Bowlby (1969, 1988) studiò il sistema motivazionale dell’attaccamento e quello dell’esplorazione, due sistemi apparentemente opposti ma in realtà strettamente collegati: ad esempio il bambino (o l’adulto) può permettersi di esplorare l’ambiente, quindi di essere autonomo, solo se ha avuto un attaccamento sicuro, cioè se ha interiorizzato in modo coerente e stabile l’immagine della madre (è per questo motivo che si può dire che il bambino sicuro quando è lontano dalla madre non è mai solo, ma è sempre con lei avendola interiorizzata, mentre il bambino insicuro ha difficoltà a essere solo e tende ad avvinghiarsi alla madre appunto perché è solo esterna, non interna). Secondo questa concezione, la psicoterapia può rappresentare un “viaggio” o una esplorazione all’interno di se stessi, grazie all’attivazione dell’attaccamento sicuro col terapeuta.

    Anche Balint concettualizzò due tipi di carattere, che chiamò “ocnofilico” e “filobatico”: gli ocnofilici tendono alla ricerca dell’amore e della dipendenza dagli altri, mentre i filobatici, al contrario, rifuggono dall’attaccamento (Balint & Balint, 1959-68).

    Una polarità molto simile a quella studiata da Blatt fu proposta da Aaron Beck, padre della terapia cognitiva, il quale la definì “sociotropia versus autonomia”, ma va ricordato che il modello di Beck fu pubblicato nel 1983 (vedi anche Beck et al., 1983), ben dopo i lavori originali di Blatt del 1974 sulla depressione anaclitica e introiettiva, seguìti da altre ricerche sperimentali sempre anteriori alla formulazione di Beck.

    In tempi più recenti, Jay Greenberg (1991) ha riformulato la teoria duale freudiana delle pulsioni (libido e aggressività) proponendo di sostituirla con “sicurezza” (relazione interpersonale) ed “efficacia” (agentività), una dicotomia che ricorda molto quella di Blatt.

    Non è certo possibile in questa sede menzionare tutti gli altri autori che – all’esterno della tradizione psicoanalitica ma nella ricerca psicologica in generale – hanno formulato teorie che prevedono due tipologie fondamentali della personalità. Basti ricordare che in molti modelli dimensionali della personalità – che prevedono diversi tratti o dimensioni, ad esempio tre come nell’Eysenck Personality Inventory (EPI) (Eysenck, 1947, 1991), oppure cinque come nel Big Five (Costa & McCrae, 1988) che ha 25 sottodimensioni – tutti i tratti della personalità potrebbero trovare un livello di generalizzazione superiore, forse massimo, caratterizzato dalla polarità internalizzazione versus esternalizzazione: gli “internalizzanti” sarebbero i depressi, gli ossessivi, gli ansiosi, ecc., mentre gli “esternalizzanti” sarebbero i borderline impulsivi, gli antisociali, gli istrionici, coloro che fanno uso di sostanze, e così via (Krueger & Tackett, 2003; per un approfondimento, rimando a Migone, 2009). Si può anche parlare di individui field dependent, cioè dipendenti dall’ambiente, molto attenti ai rapporti interpersonali da cui sono facilmente influenzabili, e persone in gran parte field independent, cioè indipendenti dall’ambiente, influenzati principalmente da fattori interni piuttosto che esterni (Witkin et al., 1962; Witkin, 1965). Va certamente menzionata anche la linea di ricerca di Simon Baron-Cohen (2003), che con un’analisi ben documentata ha identificato due tipologie di personalità: “empatizanti” (più spesso le donne) e “sistematizzanti” (più frequentemente gli uomini).

    Anche al di fuori della psicologia e della psicoanalisi tanti sono gli autori che hanno indagato questa polarità, a volte in termini poetici. Si pensi ai concetti di “Io” e “Tu” in Martin Buber (1923), o ai tipi di personalità apollineo e dionisiaco descritti da Nietzsche (1872). Spiegel & Spiegel (1978) descrivono i dionisiaci come individui sensibili alle relazioni interpersonali, più distraibili, intuitivi, passivi, dipendenti, emotivamente ingenui, fiduciosi e più coinvolti dai sentimenti che dalle idee; sono influenzabili dagli altri e più orientati all’azione, sono meno critici e vivono più nel presente (Blatt, 2006a, pp. 747-748). Gli apollinei invece danno più importanza ai ragionamenti che alle emozioni, sono responsabili, affidabili e pianificano il futuro, valorizzano molto le proprie idee e cercano di convincere gli altri dei propri punti di vista poiché per loro l’area cognitiva è più importante di quella affettiva; sono molto cauti e metodici, fanno confronti tra le varie alternative e valutano le idee punto per punto prima di arrivare a una decisione finale; spesso sono orgogliosi del loro senso di responsabilità e riluttanti ad assu­mersi nuovi impegni dato che, se lo fanno, si sentono obbligati a rispettarli; sono affidabili e restano spesso legati a una decisione senza lasciarsi influenzare dagli altri (Blatt, 2006a, p. 748). Nelle parole quasi poetiche di Spiegel & Spiegel (1978), i dionisiaci sono influenzati dal cuore, gli apollinei dalla ragione.

    Alcuni ricercatori hanno studiato questa dicotomia tra dipendenza e autonomia anche nei disturbi di personalità descritti dal DSM-IV (e anche dal DSM-5, dato che li ha mantenuti invariati), trovando che possono esser divisi in due gruppi: i disturbi di personalità dipendente, istrionico e borderline hanno problemi più legati alle relazioni interpersonali, mentre i disturbi paranoide, schizoide, schizotipico, antisociale, narcisistico, evitante, ossessivo-compulsivo e auto-frustrante (self-defeating) sono più introiettivi, cioè hanno più problemi legati alla definizione del Sé (alcune ricerche hanno però evidenziato che i pazienti borderline possono presentare comportamenti diversificati: alcuni hanno problemi sia nei rapporti interpersonali che nella definizione del Sé, cioè nell’identità, altri sono estremamente dipendenti, e altri ancora hanno tratti ossessivo-compulsivi e paranoidi; Blatt & Levy, 1998).

    Per tornare alla linea di ricerca di Sid Blatt, egli, come si è già accennato, formulò un modello a “doppia elica”, che definì anche “polarità fondamentale in psicoanalisi” – così recita il titolo dell’articolo di Blatt (2006a) che feci pubblicare su Psicoterapia e Scienze Umane appunto per far conoscere le sue idee ai colleghi italiani. In sèguito passò, in modo più ambizioso, a studiare non solo la depressione ma soprattutto la struttura di personalità sottostante, individuando due precisi tipi di personalità responsabili di diversi disturbi psicologici, secondo le due dimensioni psicopatologiche fondamentali dell’essere umano che scelse poi di chiamare “relazionalità” (relatedness) e “definizione di sé” (self-definition), corrispondenti rispettivamente alle personalità “anaclitica” e “introiettiva” di cui aveva parlato Freud. Queste dimensioni sarebbero le due principali linee di sviluppo della personalità, che interagiscono in modo dialettico, cioè influenzandosi reciprocamente, e questa polarità costituisce un importante schema di riferimento, una sorta di lente attraverso la quale cercare di costruire una teoria generale della personalità, dello sviluppo e della psicopatologia. Ha poi studiato il rapporto di questo suo “modello a due configurazioni” con la teoria dell’attaccamento (ad esempio trovò che spesso le psicopatologie anaclitiche derivano da attaccamenti ansiosi resistenti, mentre le psicopatologie introiettive da attaccamenti evitanti), e con le ricerche sul processo e il risultato della psicoterapia.

    A proposito dell’applicazione di queste ricerche allo studio del risultato e del processo della psicoterapia, che ha rilevanza per la pratica clinica, Blatt ha riesaminato le due più importanti ricerche empiriche sulla psicoterapia – e precisamente il Menninger Foundation Psychotherapy Research Project (Kernberg et al., 1972; Wallerstein; 1986) e il National Institute for Mental Health (NIMH) Treatment of Depression Collaborative Research Program (TDCRP) (Elkin et al., 1989) – dove ha trovato interessanti correlazioni tra forme di psicopatologia e risultati terapeutici: dimostrò, ad esempio, che i pazienti “anaclitici” rispondono meglio alle terapie supportive e quelli “introiettivi” alle terapie espressive, cioè introspettive o psicoanalitiche in senso stretto (queste correlazioni sono state confermate anche dal Riggs-Yale Project, che ha analizzato i trattamenti all’Austen Riggs Center di Stockbridge [cfr. Cramer, 2005] dove da più di cinquant’anni si riunisce annualmente il gruppo degli ex-allievi di Rapaport, il Rapaport-Klein Study Group, di cui Blatt fu un importante membro).

    Il modello a due dimensioni di Sid Blatt è stato recepito per la diagnosi di “Disturbi depressivi di personalità” nel PDM, il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM Task Force, 2006, p. 42) prodotto dalla comunità psicoanalitica internazionale (per una presentazione del PDM, rimando a Migone, 2006b). Secondo il PDM, non è sufficiente fare diagnosi di Disturbo depressivo di personalità, ma occorre specificare se si tratta di depressione anaclitica o introiettiva, e questo permette una comprensione migliore del quadro clinico, con ovvie implicazioni per il trattamento. Il PDM-2, la seconda edizione del PDM (Lingiardi & McWilliams, 2017), naturalmente conserva queste specificazioni.

    La polarità fondamentale di Blatt è stata recepita anche dal DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) per il “Modello alternativo per i disturbi di personalità” (definito “alternativo” perché, data la sua complessità, con una decisione presa all’ultimo minuto dal Comitato dei garanti dell’American Psychiatric Association i disturbi di personalità rimangono identici a quelli del DSM-IV, pur tuttavia esso non è stato scartato ma pubblicato nella Sezione III del manuale e può quindi essere utilizzato a scopo di ricerca). Il “Modello alternativo per i disturbi di personalità” del DSM-5 (vedi Migone, 2013, pp. 588-592) prevede, proprio come nel modello di Sid Blatt, due dimensioni: il Sé e il funzionamento interpersonale. La prima si riferisce alla personalità “introiettiva” (ad esempio i paranoidi introversi, gli ossessivo-compulsivi, i narcisistici e i depressi autocritici) e la seconda alla personalità “anaclitica” (ad esempio i borderline abbandonici, i dipendenti e gli istrionici): nella prima è coinvolta l’area della self-definition, cioè dell’Identità e dell’Auto-direzionalità, e nella seconda l’area della relatedness, cioè dell’Empatia e dell’Intimità. Purtroppo però la task force del DSM-5 ha recepito le indicazioni di Blatt solo per la personalità e non anche – come ha fatto il PDM – per la depressione, che andrebbe diagnosticata appunto nei due modi in cui può manifestarsi a seconda del tipo di personalità sottostante: “introiettiva” (in cui sono più presenti i sensi di colpa e di autocritica) e “anaclitica” (in cui prevale la paura dell’abbandono). Le ricerche di Blatt (2008) erano conosciute dalla task force del DSM-5 grazie a Donna Bender (una psicoanalista membro del gruppo di lavoro sui disturbi di personalità del DSM-5), che era stata a Londra come fellow a uno dei Research Training Programme (RTP) annuali della International Psychoanalytic Association (IPA) dove Blatt era tra i docenti (Blatt, comunicazione personale, 2013).

     

    Vorrei terminare queste brevi note per fare alcune riflessioni sulle implicazioni cliniche delle due dimensioni di personalità studiate da Blatt riguardo a cosa possa intendersi per funzionamento “sano” o “normale” della personalità (le virgolette qui sono d’obbligo, naturalmente). Abbiamo visto che queste due tipologie di personalità rappresentano tratti presenti in ognuno, in misura eventualmente più attenuata o comunque distribuiti in un continuum che va da un massimo a un minimo. Nella popolazione vi sono persone abbastanza dipendenti, e altre maggiormente autonome; questa è un’osservazione che possiamo fare tutti, basta osservare amici o conoscenti. Potremmo però chiederci: quali sono le persone meglio funzionanti o più adattate alla società? È ovvio che dipende anche dal tipo di cultura in cui una persona vive. Ad esempio, seguendo un cliché, può essere che in certi Paesi del Nord Europa siano più “normali” le persone introiettive, autonome o “fredde”, che non mostrano eccessiva dipendenza o coinvolgimento affettivo, mentre in culture più meridionali prevale la dipendenza, l’affettività, forti legami familiari, e così via. Potremmo anche dire che vi sono grosse differenze tra Occidente e Oriente (il primo valorizza l’autonomia e l’identità individuale, e il secondo è più sensibile ai valori della comunità), o tra uomo e donna (spesso l’uomo è più introiettivo e la donna più anaclitica, dato questo che sarebbe anche convalidato da alcune ricerche [Weissman, 2014]). Questa idea che determinate funzioni psicologiche siano più “maschili” e altre più “femminili” può implicare (al di là dei pericoli di sessismo che possono nascondersi dietro a questa concezione) che ogni buon terapeuta deve essere capace di essere sia “padre” che “madre” per il proprio paziente, e tante sono state le teorizzazioni a questo riguardo; si pensi ad esempio a Bion che ha parlato di K (Knowledge) e L (Love), cioè a una funzione conoscitiva (interpretativa, esplorativa, per così dire più “maschile”) e una funzione di amore (di contenimento, per così dire più “femminile” o materna), e così via. Si veda a questo proposito anche il modello proposto da Carere-Comes (2002).

     

    Dire che la “normalità” dipende anche dalla cultura di appartenenza può risultate un’affermazione scontata, e nel contempo riflettere una concezione relativistica tipica dell’epoca post-moderna, che ha implicazioni problematiche. Ad esempio, in una civiltà come quella occidentale o improntata al lavoro e all’efficienza – tipica dell’etica protestante – è ovvio che una personalità fortemente introiettiva (caratterizzata da marcato senso del dovere e della responsabilità, dedizione al lavoro, ecc.) è più adattiva e funzionale al sistema economico (per ogni datore di lavoro è l’ideale un dipendente che ha maggiore senso del dovere e si sente in colpa se non produce quanto era stato programmato). La psicoanalisi però – come ci insegna soprattutto la sua tradizione critica rispetto alla cultura dominante – sa bene che a volte sono proprio coloro che appaiono normali quelli che sono più “malati” (Gitelson [1954] li chiamò “normopati”), e che questa ipotesi è permessa proprio dallo strumento psicoanalitico che non è legato a criteri descrittivi o di mero adattamento sociale.

    Fatte queste considerazioni, come si pone Blatt di fronte a queste domande? Come prima risposta verrebbe da dire che la persona più sana è quella che si pone a metà, nei punteggi, tra le dimensioni anaclitica e introiettiva, cioè che non è eccessivamente spostata in un senso o nell’altro, ma che rimane in equilibrio tra gli estremi delle due configurazioni di personalità.

     

    Ebbene, non c’è niente di più sbagliato che vedere le cose in questi termini. Il funzionamento di personalità ottimale non consiste nell’essere un po’ una cosa e un po’ l’altra: un po’ dipendenti, ma non troppo, e un po’ autonomi, ma senza esagerare. Questo sarebbe un modo del tutto sbagliato nel concettualizzare un ottimale funzionamento di personalità secondo le idee di Sid Blatt. La persona più sana è quella che mostra un punteggio alto in entrambe le scale, cioè che è capace di essere molto anaclitica e molto introiettiva: è una persona cioè che riesce a tollerare la solitudine, che ha un forte senso di responsabilità, che sa funzionare in modo autonomo e che è capace di reggere alla sofferenza per la mancanza di un partner (aspetti questi della personalità introiettava); ma nello stesso tempo è capace di provare molto la dipendenza senza averne paura, di legarsi profondamente a un’altra persona, di soffrire intensamente quando perde il proprio partner. In altre parole, come ci insegna la migliore tradizione psicoanalitica, è una persona che non ha bisogno di difendersi dal dolore e dalla dipendenza, che è capace di sperimentare una ricca gamma di emozioni e di conoscere e passare anche con flessibilità – come ha ben teorizzato Ernst Kris (1952) col concetto di “regressione al servizio dell’Io – attraverso le diverse esperienze di vita.

     

    Concludendo queste riflessioni sul problema dei fattori curativi, forse si può dire che nelle professioni di aiuto occorre, di volta in volta e a seconda dei vari contesti professionali, considerarli tutti, mantenendo il massimo rispetto per le caratteristiche specifiche di ogni individuo e per la complessità della natura umana, favorendo la crescita armonica delle sue varie componenti.

     

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