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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.2 Mai-Août 2017





    COSA ACCOMUNA E COSA DIFFERENZIA LE PROFESSIONI NELLA RELAZIONE D’AIUTO? L’ESEMPIO DELLA PSICOTERAPIA E PROSPETTIVE FUTURE PER LE PROFESSIONI “AFFINI”

    Riccardo Zerbetto

    r.zerbetto@cstg.it
    Neuropsichiatra (sia per adulti che infantile) e psicoterapeuta, ha lavorato per oltre vent’anni in servizi di salute mentale e per le tossicodipendenze in qualità di consulente e supervisore delle comunità terapeutiche del Comune di Roma e consulente del Ministero della Sanità. È direttore del Centro Studi di Terapia della Gestalt (CSTG), istituto riconosciuto dal MIUR per lo svolgimento di corsi professionali nella Psicoterapia. Già presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia Umanistica e Transpersonale, dell’European Association for Psychotherapy (EAP), della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP) e della Federazione Italiana delle Scuole e Istituti di Gestalt (FISIG), coordina la Sezione su Psicoterapia e mito del World Council for Psychotherapy. E’ presidente e direttore scientifico di Orthos, associazione per lo studio e il trattamento dei giocatori d’azzardo che gestisce un programma intensivo per giocatori in ambito residenziale. Svolge incarichi d’insegnamento in Psicopatologia presso la Scuola di specializzazione in Psichiatria, in Psichiatria sociale e Criminologia presso la Cattedra di Medicina Legale degli Studi di Siena. È direttore scientifico della Rivista Quadrimestrale “Psicoterapia fra Scienze e Arte. Monografie di Gestalt” e autore di numerose pubblicazioni in materia di psicoterapia, psichiatria, dipendenze e psicologia archetipica.


    La congiunzione degli opposti 2 (Particolare) - Nicoletta Freti

    “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una valle oscura,

    chè la diritta via era smarrita”.  Dante, Inferno, Canto I

     

    Introduzione

     

    Quale che sia il destino del CIPRA e il ruolo che saprà svolgere a sostegno di una crescita professionale e maggiore definizione delle diverse caratteristiche di chi ne farà parte, considero la nascita del Coordinamento Italiano delle Professioni della Relazione di Aiuto (CIPRA) un evento decisamente straordinario. Si verificano saltuariamente, nella storia dell’umanità (a livelli diversi di importanza di significato e di rilevanza ovviamente), momenti aggregativi nei quali una pluralità di entità distaccate ed autonome si ritrovano nel condividere finalità che ne animano la spinta aggregativa. È avvenuto per città-stato micenee disperse sulle coste del mare Egeo nel ritrovarsi unite a combattere contro Troia, ma di fatto costituendo il nucleo di quella koinè ellenica, come tra i comuni lombardi nell’opporsi a Barbarossa o tra gli stati europei nel riconoscersi membri della UE. Per rimanere nel nostro campo, è avvenuto nel profondo movimento aggregativo che ha portato i diversi orientamenti nella psicoterapia a ritrovarsi in un documento condiviso, la Dichiarazione di Strasburgo, da cui è nata la European Association for Psychotherapy di cui ho avuto l’opportunità di seguire da vicino l’evolversi e riprodursi, a cascata, nelle diverse realtà nazionali.

     

    Come già intuì genialmente Empedocle di Agrigento, la forza aggregativa, che lui definisce phylotes, si scontra dinamicamente con una forza contropolare, eris (tradotta generalmente con contesa”), che svolge al contrario un ruolo di disgregativa e di separazione. L’equilibrio dinamico di queste due forze (archai) che agiscono sui 4 elementi costitutivi dell’universo (acqua, terra, aria e fuoco) determinano le alterne vicende dell’universo e delle umane vicende.

     

    La nascita del CIPRA, alla cui prima gestazione ho avuto la possibilità di essere testimone, avveniva infatti in un periodo di forte conflittualità tra professioni della relazione di aiuto, in particolare tra psicologi-piscoterapeuti e counselors, in tema di conflitto di competenze. Alternativamente, e forse inevitabilmente, si evidenziano fasi nelle quali prevalgono movimenti aggregativi ad altre in cui spiccano movimenti di separazione tra i diversi soggetti in gioco (su un “campo” che può essere di tipo concreto, come quello geografico per conflitti di territorio, o astratto, come per un conflitto su temi di carattere scientifico, filosofico o religioso).  Aspetti di carattere concreto si associano generalmente ad aspetti di carattere “ideale” in una complessità nella quale non è sempre facile dirimere le motivazioni profonde del conflitto.

     

    Nel caso che ci riguarda più da vicino, sembra che ad una fase di forte e anche conflittuale tentativo di demarcazione dei territori di competenza stia seguendo una fase nella quale cercare ciò che può unire, al di là delle diverse competenze territoriali, può diventare una finalità condivisa, efficace e benefica per tutti.  

     

    Una spinta innata al “prendersi cura”?

     

    Nell’immaginario collettivo, come in ambiente scientifico, ha avuto un forte impatto la teoria dell’evoluzione per la quale Charles Darwin ci ha trasmetto una concezione del mondo governata essenzialmente dalla “legge del più forte”. A prevalere nella inevitabile lotta per la sopravvivenza saranno quegli individui e specie animali che si saranno dimostrate più competitive e vincenti nella conquista del territorio di caccia-sopravvivenza a scapito, inevitabilmente, dei più deboli, condannati ad essere dei vinti destinati alla estinzione. Una teoria che rispecchia, per quanto tragicamente, aspetti ineludibili di “realtà” ma che sarebbe erroneo, nonché pericoloso, assolutizzare come fosse l’unica legge che governa il mondo. Una tale posizione venne, per inciso, assunta da Hitler e dal Terzo Reich deformando il concetto nietzschiano di “ubermensch” che venne utilizzato come strumento ideologico per giustificare le stragi operate dai nazisti in forza di un “legittimo” prevalere della superiorità della supposta “razza ariana”.

     

    A ben vedere, a governare il mondo esiste anche una forza polare che si esprime in un’ampia varietà di comportamenti accuditivi di individui e gruppi sociali, in posizione di forza a favore di altri in condizioni di debolezza, per età, per genere, stato sociale, economico, di salute etc.

     

    Non solo il care giving rappresenta un comportamento osservabile con diffusione praticamente universale nei processi di accudimento dei cuccioli da parte della madre – a cui si unisce talvolta anche il padre – ma i comportamenti “altruisti” si osservano anche nel regno animale.

     

    Navigando in Internet mi sono divertito per mesi a intercettare e raccogliere una serie incredibile di filmati che riprendevano animali di età, genere e razza diversa che interagivano in modo giocoso e “accuditivo”, tipo una cagna che allattava dei gattini, un’orsa un cucciolo di tigre, un delfino che soccorreva un cane, come un cane che portava acqua ad un pesce agonizzante.

     

    Al di là dell’appartenenza, spesso anche “competitiva” tra le varie specie animale, esiste parallelamente anche una percezione profonda ed ancestrale comune a tutti (in misura diversa, ovviamente) degli esseri viventi nel sentirsi parte di un unico processo vitale, dai Greci identificato come zoè e che ci lega indissolubilmente gli uni agli altri, al di là delle differenze di specie. Senza contare che, per quanto ci riguarda da vicino, condividiamo il 98% del patrimonio con gli scimpanzé, con i quali intessiamo anche incredibili schemi imitativi.

     

    Le basi neurofisiologiche del comportamento accuditivo

     

    Di assoluto rilievo appaiono alcune ricerche recenti sviluppate dal neurofisiologo Jaak Panksepp, neuroscienziato fondatore delle Affective Neuroscience (Panksepp, 2014). In un suo capitolo scritto insieme al collega Antonio Alcaro, vengono presentati tre diversi livelli del Sé, dotati di differenti substrati neuroanatomici: il Sé affettivo, il Sé immaginativo e il Sé individuale (Alcaro e Panksepp, 2014)

     

    La maggior parte degli psicologi considera oggi la vita mentale come un’acquisizione dello sviluppo individuale e l’emergere di un senso di sé nel bambino come legato a capacità acquisite durante la relazione di attaccamento. Tuttavia, le più recenti indagini nel campo delle Neuroscienze dell’Affettività (Panksepp e Biven, 2014; Alcaro e Panksepp, 2014) mostrano come lo sviluppo di una vita psichica e di un senso personale di sé dipendano da alcune potenzialità istintuali (non apprese) comuni all’uomo e anche ad altre specie animali. Allo stato attuale, viene riconosciuta l’esistenza di sette Sistemi Emozionali: il Desiderio/Ricerca, la Rabbia, la Paura, il Panico/Angoscia da Separazione, l’Amore/Accudimento, la Gioia/Gioco e la Bramosia Sessuale (Panksepp 2014). Le prove in nostro possesso indicano che tali Sistemi Emozionali sono presenti in diverse specie animali, in primo luogo nei mammiferi, ma molto probabilmente anche negli uccelli e addirittura nei rettili.

     

    La componente relativa all’“accudimento” risulterebbe quindi ontologica e costitutiva degli esseri viventi, anche se maggiormente sviluppata nei mammiferi e in quelli che presuppongono un maggiore coinvolgimento del/dei genitore/i nel processo di accompagnamento del neonato alla condizione di relativa autonomia.

     

    La comprensione del livello affettivo e di quello immaginativo è fondamentale per giungere al livello individuale, che è invece oggi generalmente considerato, senza dare la dovuta rilevanza ai primi due. Il Sé individuale, infatti, si colloca quasi interamente nella dimensione dello sviluppo personale, mentre i primi due hanno un’origine prevalentemente istintuale, transpersonale ed archetipica sulla quale si sono mosse anche le ricerche di Jung.

     

    Dalle osservazioni di Panksepp, il neuroscienziato che più di ogni altro si è avventurato nell’indagine delle basi cerebrali delle emozioni di base e dei sentimenti affettivi, risulta come “L’affettività è situata al centro dell’organizzazione neuropsichica individuale ed essa costituisce l’“anello mancante” (il missing link) tra i processi primari dell’istintualità animale e le funzioni più evolute della psiche umana. In contrasto con il paradigma neuro-cognitivista dominante, che troppo a lungo ha trascurato il ruolo della coscienza e degli affetti, Panksepp ha individuato l’esistenza di un nucleo ancestrale di coscienza emozionale che è alla base di qualsiasi forma di attività psichica, tanto inconscia quanto cosciente. Tale proto-coscienza affettiva, sostanzialmente diversa dall'autocoscienza, o coscienza dell'Io, dipende dall'attività di aree cerebrali molto profonde ed antiche dal punto di vista filogenetico (denominate aree del “core-Self”), che l'uomo condivide con gli altri animali, perlomeno con i mammiferi e, in parte, con i rettili. Le ricerche di Panksepp indicano pertanto che l’attività mentale è, sin dalle sue origini, un’attività cosciente, intenzionale ed intrinsecamente affettiva” (Alcaro e Panksepp J.  2014, pag. 23). La stretta associazione tra comportamenti emozionali e stati affettivi indica che l’attivazione dei Sistemi Emozionali influenza una forma embrionale di coscienza, che noi definiamo proto-coscienza affettiva. Si tratta di una coscienza centrata su particolari stati emozionali che manca di una esplicita rappresentazione oggettuale, se non per quanto riguarda alcune forme estremamente elementari di percezione. Riguardo alle basi cerebrali del Sé affettivo, stando agli esperimenti di elettrostimolazione (Panksepp e Biven 2014), i Sistemi Emozionali di base sono localizzati prevalentemente in una zona profonda del cervello, molto antica dal punto di vista filogenetico, che comprende alcune aree del tronco cerebrale (come l’area grigia periacqueduttale o l’area tegumentale ventrale), molti nuclei dell’ipotalamo e vaste regioni del proencefalo basale (come lo striato ventrale e l’amigdala estesa). D’altronde, l’importanza dell’approccio etologico per la psicologia fu sostenuto con forza da John Bowlby, il quale riuscì a dimostrare come la psiche umana fosse profondamente condizionata dall’azione di modelli innati di attaccamento e dal modo con cui tali modelli trovassero o meno una corrispondenza nell’esperienza individuale (Bowlby tr. it. 1999).

     

    Dalla dimensione immaginale” a quella archetipica della funzione materno-accuditiva

     

    Nell’organizzazione di un Sé individuale, contribuiscono sia un Sé affettivo che, collegato a questo, un Sé immaginativo, come la capacità di immaginare, cioè di dar vita a rappresentazioni fantastiche che si costruiscono intorno a stati affettivi dominanti già anticipati nella psicologia analitica sviluppata da Carl Gustav Jung nel quale troviamo una proposta innovativa e teoricamente feconda di stabilire una connessione tra gli aspetti più profondi ed arcaici della psiche inconscia ed i comportamenti istintuali.

     

    Nel tentativo di definire come la mente individuale sia fondata su categorie archetipiche collettive, Jung sottolinea più volte la stretta analogia esistente tra la nozione di archetipo e quella di istinto. L’archetipo indica «una maniera ereditaria di funzionare che corrisponde al modo con cui un pulcino esce dall’uovo, l’uccello costruisce il nido (…). In altre parole, è un “pattern di comportamento”. Questo aspetto dell’archetipo, quello puramente biologico, è l’oggetto appropriato della psicologia scientifica» (Jung, 1976; tr. it. 1997). 

     

    L’archetipo a cui si riconduce, in particolare, oltre alla funzione generativa, quella nutritivo-accuditiva è senza dubbio quello della Grande Madre. Un tema dalla vastità senza confini e che è stato oggetto di studi approfonditi da parte di antropologi, mitologi e psicologi, come Marie Gimbutas, Neuman e Jung stesso che ci hanno lasciato pagine memorabili in proposito.

     

    Nella concezione omerica ed esiodea che rispecchia una logica “generativa” (rappresentata da una successione di “generazioni” di dei che, pur eterni, lasciano spazio a divinità che si succedono in una traiettoria evolutiva) più che “creazionista” e che riassume cosmologie antecedenti di origine orfica, viene riportata una “Teogonia” (θεογονία) che, in sintesi, narra il passaggio da un Chaos (Χάος,) primordiale sino a Zeus come primo (primus inter pares) fra gli dei. Coevi di Chaos (che, anche in modo onomatopeico, allude ad uno “spazio vuoto” e non ad un disordine come noi intendiamo questo termine) sono Gaia (Γαῖα, la Terra) ed Eros (Ἔρως) come principio primo di attrazione reciproca che mette in moto il processo generativo dell’universo. Da Gaia (Madre Terra che per sua natura “dà forma”) origina, per partenogenesi, Urano (suo opposto) e dall’unione con lo stesso la prima generazione di dei e dee tra cui l’ultimo, il titano, Kronos, che, a sua volta, genera Zeus unendosi a Rhea. Seguendo Maria Michela Sassi (2009, p. 71) «Possiamo quindi scorgere un itinerario complessivo dall'informe al pienamente formato (da Chaos a Zeus), che comprende vari sotto-itinerari, dal negativo al positivo (dall'oscurità alla luce), da ciò che ha forma (Gaia) alle sue successive specificazioni (tutto ciò che via via nasce da Gaia)».  Ma lo stesso mito greco rappresenta, a sua volta, la riedizione di teogonie più antiche di derivazione medio orientale secondo studi accreditati di mitologia comparata, come riportato dalla fonte autorevole di Guidorizzi (2009, p. 1167) secondo il quale il «modello della Teogonia è un testo hittita redatto intorno al 1400 a.C. e derivato a sua volta da una più antica versione hurrita (forse del terzo millennio a.C.) (…) Il racconto di Esiodo s'ispira dunque a un antichissimo mito cosmogonico che, attraverso varie mediazioni, giunse sino a lui e fu inglobato molto precocemente nel sistema mitologico greco». Ci danno testimonianza inequivoca del ruolo dominante (pressoché egemone) svolto dalla figura della Dea Madre sia i racconti mitici, che le numerosissime raffigurazioni in argille e pietra di epoca neolitica nelle quali domina la rappresentazione di una figura femminile dotata di attributi squisitamente riferibili alla funzione generativa e nutritiva. Come sottolinea Zoja (2003), alla figura paterna non appartiene, in origine, una funzione minimamente accuditiva ma di pura fecondazione. L’archetipo paterno originario, Uranos, non vuole che la nascita di figli si interponga nell’amplesso tra lui e la sposa Gea, come pure Chronos (che lo castrerà) divora i propri figli. Il passaggio “culturale” dalla funzione di inseminatore a quella di colui che contribuisce al procacciamento del cibo e quindi all’allevamento della prole faranno del padre un partner progressivamente significativo nel processo di accompagnamento alla condizione adulta della prole.

     

    La malattia del corpo … e dell’anima

     

    Una persona che chiede aiuto è solitamente in uno stato di debolezza, di carenza o infermità. Nei sistemi tradizionali di cura questa distinzione, se non per cause accidentali e traumatiche (ma anche queste interpretate come segno di un intervento divino o demonico) non esisteva. Nella tradizione greca, che faceva seguito ad una consuetudine di derivazione medio-orientale, i luoghi di cura erano essenzialmente gli “asklepeion” (famosi quelli di Epidauro, Pergamo, Kos, Oropos), templi-ospedali dove si recava chi soffriva di malattie del corpo, ma anche chi era angosciato da problemi di vario tipo per i quali invocava un segnale dal dio attraverso il sogno rispetto a quale rimedio o comportamento poter adottare. La malattia, coerentemente ad una concezione comune al mondo antico, era considerata quindi come una deviazione da una condotta “secondo natura” (katà physis) o comunque tale da non recare offesa o mancato rispetto al volere degli dei che, come sappiamo, erano molteplici (da Zerbetto 2011 e 2014).

     

    Con l’evolversi della medicina ippocratica e successivamente ellenistico-romana, la medicina ha progressivamente perso questo collegamento di significati religiosi ed ha acquistato una dimensione maggiormente empirica e focalizzata sul sintomo e sulla “malattia di organo”, sino ad arrivare, con il progresso dei moderni strumenti di diagnosi e cura, a settorializzarsi progressivamente in specializzazioni sempre più mirate con il rischio di perdere di vista lo stato di salute complessiva del soggetto come unità psicofisica in perenne osmosi con l’ambiente di appartenenza. Si è quindi amplificato quel dualismo corpo-mente che, a partire da Socrate-Platone, ha accompagnato il pensiero e la pratica della cura nei confronti delle persone in stato di sofferenza (sul tema del corpo, vedi articolo di Massimo Soldati nello stesso volume).

     

    Nel caso delle professioni nella relazione di aiuto si è portati in genere a prendere in considerazione quelle collegate maggiormente ad una condizione di sofferenza psichica, più che fisica, ambito che rimane di competenza di discipline più settoriali e specifiche di intervento a livello biologico.

     

    Interessante ricordare come, nella tradizione cristiana le opere di misericordia venissero distinte in “corporali”, come dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, curare gli infermi, visitare i carcerati e seppellire i defunti e in opere di misericordia “spirituali” come: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese e sopportare pazientemente le persone moleste, pregare per i vivi e per i morti.

     

    È ovvio che molte, se non tutte le forme di sofferenza implicano sia una componente somatica che psichica, ma è indubbio che alcune cadono più sul versante della medicina biologica, mentre altre – quelle mentali o psicosomatiche – più sul versante psichico. In tempi recenti, è emerso un orientamento teso ad identificare alcune sofferenze come non riconducibili a quadri psicopatologici franchi, sia di natura psicotica che nevrotica, ma di pertinenza squisitamente esistenziale. Il “mal d’amore”, il lutto, il disorientamento nei passaggi del ciclo vitale, solo per fare alcuni esempi delle forme di disagio più frequenti, possono accompagnare – e in realtà accompagnano inevitabilmente – il percorso esistenziale di ogni individuo anche se non necessariamente interessato da forme esplicite di psicopatologia.

     

    Lascio ad altri l’approfondimento della distinzione tra interventi di “cure” o di “care” che sottolineano interventi detti anche di orientamento maggiormente diagnostico-procedurale (in quanto maggiormente ispirati ad un quadro di riferimento medico-biologico) da quelli che privilegiano un approccio dialogico-processuale in quanto orientati maggiormente ad una ricerca di significati sulle origini della sofferenza che vede nella psyché (traducibile come “anima”) l’ambito su cui rivolgere l’attenzione curativa (vedi articolo di Carere-Comes nel presente volume).

     

    “Gli dèi sono diventati malattie” (C.G. Jung, Opere, XIII, p. 47).

     

    Merita, tuttavia, ricordare che, accanto ad un movimento scientifico-culturale che cerca il suo fondamento di validazione nell’ancoraggio ad una dimensione biologicamente orientata e sostenibile con prove evidence based, si sta facendo strada un ritorno ad una “ricerca di significato” sul senso della sofferenza. È di Victor Frankl l’individuazione di nevrosi cosiddette “noetiche” e caratterizzate da disorientamento e perdita del significato “esistenziale” del vivere, che non sembrano riconducibili a forme nevrotiche tradizionali (Frankl, 2005). Seppure è importante non perdere il collegamento con una matrice anche biologica evidenziata dal sintomo, come ricorda anche Freud, che pure inaugurò una metapsicologia che si distaccò dalla illusione-pretesa di ricondurre ad una etiologia biologica, risulta illusorio ricercare le radici biologiche della sofferenza dell’anima-psyché: «Signore e Signori, so che conoscete l'importanza che ha il punto di partenza nei vostri personali rapporti, siano essi con persone o con cose. Così è stato anche per la psicoanalisi: per lo sviluppo che essa ha avuto e per l'accoglienza che ha trovato, non è stato indifferente che abbia iniziato il suo lavoro con lo studio del sintomo, della parte più estranea all’Io» (Freud da Hillman, 1975, p.123).

     

    Per lo stesso autore, «La coscienza ‘non è ancora giunta’ nella scoperta di una più ampia sulla rete dei significati in cui muoversi e ‘costellarsi’. Si tratta quindi di non limitarci a “vedere i nostri sintomi come gli accidenti che ci hanno portato in terapia, invece come la via regia per entrare nell'anima» (ibid. p.142). In modo ancor più definito, Jung riconduce le diverse forme di psicopatologia ad un mancato riconoscimento degli elementi costitutivi su cui si fonda l’universo psichico: gli dei stessi. «Crediamo di poterci congratulare con noi stessi per aver già raggiunto una tale vetta di chiarezza, convinti come siamo di esserci lasciati alle spalle tutte queste divinità fantasmatiche. Ma quelli che ci siamo lasciati alle spalle sono solo spettri verbali, e non i fatti psichici che furono responsabili della nascita degli dèi. Noi continuiamo a essere posseduti da contenuti psichici autonomi come se essi fossero davvero dèi dell’Olimpo. Solo che oggi si chiamano fobie, ossessioni, e così via. Insomma, sintomi nevrotici. Gli dèi sono diventati malattie» (Jung, tr. it 1997 Vol 13, p. 47).

     

    Maieusi

     

    Il discorso sulle origini della sofferenza “psichica” ci porterebbe oltre lo spazio consentito in questo contesto, ma mi sembra utile riportare la grande intuizione di Freud per il quale la nevrosi (e più ancora la psicosi), altro non sono, nella loro essenza, che espressione di elementi di “fissazione”, e quindi di parziale interruzione, nel processo di maturazione psico-emotiva (per Freud strettamente collegate allo sviluppo di una sessualità adulta). Coerente, in questa prospettiva, la concezione della Psicologia Umanistica che vede la stessa sofferenza psichica come espressione di una “non realizzazione del potenziale umano” dove, con questo termine, non si allude soltanto alla dimensione sessuo-affettiva ma anche, più in generale, al conseguimento di una condizione in cui l’individuo sente di aver, in qualche modo, realizzato quello che la sua condizione umana, in generale, e sua particolare, potevano offrire.

     

    Ad una nascita e crescita a livello corporeo, a cui presta la sua funzione maggiormente la figura materna (archetipicamente Gea-Demetra) dovrebbe quindi seguire una “nascita seconda” che consente al soggetto di superare il legame simbiotico (o di eccessiva dipendenza) “infantile” per entrare in una dimensione adulta. La risposta al conosci te stesso (gnoti seautòn) che compariva sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, rappresenta forse l’interrogativo di fondo a cui, in modo più o meno consapevole, ognuno di noi cerca di dare risposta. Alla funzione di facilitare questa seconda nascita, Socrate sosteneva di dedicarsi alla pratica di questa geniale forma di indagine che mirava a risvegliare la consapevolezza di coloro che si rivolgevano a questo sapiente che, paradossalmente, asseriva di “sapere di non sapere” ma che, a partire da questo umile riconoscimento, si concedeva quell’indagine fatta dalle domande giuste che potevano aiutare i processi di auto-esplorazione del soggetto che a lui si rivolgeva per trovare risposta ai suoi dubbi esistenziali.

     

    Questa pratica, inutile dirlo, rappresenta lo strumento essenziale delle pratiche nella relazione di aiuto che non presuppongono la riproduzione di un percorso dato per scontato, come può essere quello proposto da un maestro spirituale o un sacerdote che “amministri” un bagaglio di convincimenti dati per buoni (se non unici a garantire la “salvezza”) ma che si offra per “accompagnare” il ricercatore nell’esplorazione di un territorio di indagine nel quale lui stesso potrà trovare le risposte ai suoi quesiti.

     

    Questa ricerca può comportare anche l’emergenza di aree conflittuali più o meno rimosse, che tuttavia interferiscono con un progresso nel processo, che Jung definisce di “individuazione”, come forma più consapevole dei limiti e delle potenzialità che ciascun individuo può realizzare. In taluni casi può trattarsi di un autentico “descensus ad inferos” che presuppone un’esperienza di vita personale e un’acquisizione di strumenti conoscitivi e metodologici che rendano l’accompagnatore sufficientemente in grado di svolgere questa delicata funzione (Zerbetto, 2009 e 2010). La metafora del Virgilio dantesco esprime bene questa funzione che, già nella tradizione antica, veniva attribuita ad Ermes e definita “psicopompo” e cioè accompagnatore delle anime in una dimensione nella quale il sogno (Ipnos fratello di Thanatos) veniva considerato “fratello” di morte intesa come fine della vita nel corpo, ma non nella psyché-anima che alla morte del corpo sarebbe sopravvissuta in una vita ultraterrena.

     

    Gli ingredienti di una ricerca condivisa in psicoterapia – orientamenti e paradigmi

     

    Per rispondere ad un simile quesito sarebbe indispensabile disporre intanto di una buona definizione di cosa effettivamente intendiamo per relazione di aiuto. Le definizioni, ovviamente, non mancano e, in questo caso, prenderò lo spunto da un mio precedente scritto che riguarda la psicoterapia (Zerbetto, 2009), professione che rappresenta, per me il paradigma di riferimento.

     

    Sono infatti numerosissimi gli orientamenti e i paradigmi concettuali di riferimento a cui questa disciplina si ispira e diverse quindi le enfatizzazioni sui diversi aspetti che la costituiscono. In termini molto generali si possono tuttavia individuare gli elementi costitutivi di un procedimento che chiamiamo relazione di aiuto nei seguenti punti.

     

    1. La finalità orientata a favorire:

    1.1 il superamento di uno stato di disagio psichico più o meno coscientemente avvertito ed espresso

    1.2 un adattamento sociale meno conflittuale e fonte di sofferenza per l’individuo, la famiglia e la comunità

    1.3 una maggiore realizzazione delle potenzialità dell’individuo e del suo progetto di vita.

     

    2. Una metodologia di lavoro che si fonda essenzialmente su un processo dialogico e cioè di interazione comunicativa tra paziente (o come si voglia chiamare) e terapeuta attraverso strumenti come:

    2.1 ascolto attivo e presenza

    2.2 uso della parola (intesa secondo una vasta accezione che implica anche le modalità del linguaggio, del tono espressivo etc.)

    2.3 una mediazione corporea collegata quanto meno alla presenza fisica dei due soggetti implicati nell’interazione (salvo forme intermedie di comunicazione solo verbali o scritte come possono essere le consultazioni telefoniche o via Internet) con eventuale ricorso a manipolazioni, posture, tecniche di attivazione, etc.

    2.4 L’uso di sostanze:

    2.4.1 psicoattive come ansiolitici, psicolettici o antidepressivi che rientra tra le competenze maggiormente professionalizzate (specie di carattere medico-psichiatrico)

    2.4.2 l’utilizzo di preparati omeopatici o di erboristerica prescrivibili anche al di fuori di competenze strettamente mediche

    2.4.3 pratiche che contemplano il ricorso a stati di coscienza inusuali attraverso tecniche di ipnosi, uso di materiale onirico, eccezionalmente (ma attualmente senza consenso legislativo) egolitiche e attivatrici di stati emozionali (emotional enhancers) e contenuti immaginativi (allucinogeni), specie tramite l’intervento di sciamani che abbiano sperimentato consuetudine con l’uso di queste sostanze.

     

    3. Una connotazione delle costanti spazio-temporali tendenti a definire uno spazio e un tempo (setting) più o meno rigorosamente identificati dove prevedere lo svolgimento dell’interazione terapeutica.

    3.1 A livello più strutturale, che metodologico, sembra ravvisarsi anche la tensione verso un uso del tempo inteso come:

    3.1.1 un presente da cui partire nell’analisi dei vissuti

    3.1.2 un passato a cui ricondurre la presenza di elementi che facilitino la comprensione di aspetti altrimenti non comprensibili nel comportamento e nei vissuti attuali del paziente

    3.1.3 un futuro a cui collegare un’ipotesi di non-ripetizione stereotipata e disfunzionale di comportamenti e percezioni di sé e del mondo

    3.1.2 Uno spazio inteso come luogo metaforico in cui si svolge un percorso. Un tragitto esistenziale nel quale è dato ricostruire in qualche modo la strada fatta, la condizione in cui ci si trova e dai quali poter inferire ipotesi di direziona mento nel futuro.

     

    4. In analogia alla pratica medica, al terapeuta viene chiesta (implicitamente o esplicitamente) una diagnosi, una valutazione (interpretazione) sulle origini della sofferenza psichica e, in qualche modo, un’indicazione sui rimedi. Nella forma della “diagnosi” questa prerogativa è riservata a medici e, solo più recentemente, anche a psicologi a cui viene riconosciuto l’assessment tramite reattivi mentali come prerogativa identificata come “atto tipico” della professione.

     

    5. A tale prestazione corrisponde un tributo in denaro corrisposto direttamente o attraverso sistemi previdenziali di diverso tipo che, se di tipo professionale, viene contemplato solo in ambito medico-psicologico in senso stretto.

     

    6. Nel risultato atteso sembra emergere anche un’aspettativa, più o meno coscientemente espressa, di congruenza tra contenuti emozionali, vissuti corporei, elementi cognitivi, ridefinizione nelle relazioni interpersonali; in altre parole, un cambiamento nel senso di integrazione e congruenza del sé nei diversi livelli nei quali si esprime.

     

    7. Costitutivo sembra anche apparire un elemento collegato alla “sacralità” del procedimento inteso in senso etimologico di sacer, delimitato, protetto e quindi riservato e non esposto alla indebita ed indiscriminata ingerenza di persone non direttamente e consapevolmente coinvolte nel procedimento terapeutico. A tale contesto si collega anche il vincolo alla tutela della privacy che ogni operatore della relazione di aiuto è tenuto a tenere nella massima considerazione, come risulta puntualmente in tutti i codici deontologici che accompagnano la definizione delle diverse professioni.

     

    8. Il procedimento si svolge ancora nel contesto di un quadro di riferimento concettuale relativamente definito e nel quale si presume che il terapeuta si sia adeguatamente formato ricevendo possibilità più o meno formalizzate di verifica da parte di professionisti con maggiore conoscenza ed esperienza nel campo specifico (supervisione). Tale quadro di riferimento non pare tuttavia debba avere le caratteristiche di una sistematizzazione dogmatica (come è più spesso riscontrabile in sistemi di pensiero riconducibili a fedi religiose o scientifiche “non falsificabili” per usare un termine popperiano), ma implica una messa in gioco ed una ricerca che, seppure appellandosi ad un sapere di carattere filosofico-scientifico sufficientemente validato dall’esperienza, conservi il suo elemento esistenziale di problematicità, di dubbio, di unicità della singola situazione affrontata e quindi di apertura del quesito. 

     

    9. Implicita, quando non esplicita, è la componente legata alla contrattualità della relazione terapeutica che prevede (auspicabilmente senza eccezioni) una delimitazione temporale della relazione di aiuto. Tale intervento si situa spesso in concomitanza di passaggi critici del ciclo vitale allorché più frequentemente emergono necessità di ristrutturazione del progetto di vita dell’individuo. Non è superfluo dire che tutte le “pratiche” nella relazione di aiuto che abbiano conseguito o ambiscano ottenere un riconoscimento formale nel contesto delle professioni accreditate prevedono (o dovrebbero prevedere) forme di remunerazione che rispettino le norme fiscali coerentemente al regime che regola le altre professioni.

     

    10. Più in generale, l’intervento di relazione di aiuto sembra trovare la sua funzione elettiva allorché l’individuo attraversa fasi di sofferenza collegate a disorientamento ed incertezza circa l’immagine che ha di sé e la rete di relazione con l’ambiente e ha quindi esigenza di un aiuto esterno che lo metta in grado di riprendere il suo percorso esistenziale facendo nuovamente leva sulle proprie risorse autonome.

     

    È evidente come esigenze di questo tipo implicano, da una parte, un tipo di problema a cui è possibile dare attenzione allorché quelli primari di sussistenza sono in qualche modo soddisfatti e, dall’altra, un sufficiente livello di individuazione, per usare un termine sviluppato in particolare da Carl Jung, come premessa di realizzazione personale che si esprime unicamente in società più evolute culturalmente e socialmente.

     

    Non stupisce quindi che la psicoterapia sia nata e si sia sviluppata in epoca recente e stenti ancora ad estendersi in contesti che non assolvono ancora a queste prerogative, come i contesti socioculturali maggiormente connotati da regimi politici totalitari o fortemente influenzati da una cultura religiosa, specie se ad orientamento dogmatico.

     

    Nonostante il procedimento psicoterapeutico appaia relativamente semplice e quasi scontato (si tratta, ad una considerazione semplicistica, di due persone di cui una chiede aiuto ad un’altra) gli ingredienti che la costituiscono, come abbiamo visto, non sono pochi e per niente ovvii. La mia tesi è che sia così per tutte le professioni.

     

    La novità della relazione di aiuto sta quindi, probabilmente, nel fatto che tanti elementi si siano messi insieme per la prima volta in un “quid novi” che, per usare un concetto gestaltico, risulta essere “più della somma degli elementi costitutivi”.

     

    Quali competenze si richiedono a chi accompagna un percorso di evoluzione psicologica?

     

    Risuonano più che mai attuali le parole di Eraclito circa la “mappa del territorio” nel quale un accompagnatore delle anime dovrebbe sapersi orientare: «I confini dell’anima non li potrai trovare, neppure se percorressi tutte le strade: così profondo è il suo logos» (Eraclito, fr. 55, tr. Colli, 1980). Tali competenze si fondano su doti innate, comunemente definite come componenti “aspecifiche” e acquisizioni di competenze più specifiche che tengano conto del particolare tipo di intervento che l’operatore professionale intende svolgere in funzione dell’area specifica sulla quale intende operare e che può avere, come abbiamo accennato, implicazioni di carattere anche biologico oltre che psicologico.

     

    Giova forse riportare anche qui il lungo e complesso percorso di definizione avvenuto nell’ambito della psicoterapia che, fra tutte le professioni nella relazione di aiuto – specie se a livello “psichico” – rappresenta la forma maggiormente professionalizzata e dotata di oltre un secolo di esperienza, da quando Freud ha cercato di dare un fondamento scientificamente sostenibile alla procedura di indagine psicologica. Dal primo impianto freudiano, sappiamo come ne sono derivati molti orientamenti che si sono in parte differenziati dai presupposti teorico-metodologici della psicoanalisi e che, a seguito di un laborioso processo di definizione, si sono riconosciuti negli statuti della EAP (European Association for Psychotherapy). Merita quindi riportare, seppure in estrema sintesi, tale processo che può fornire uno schema di riferimento per altre professioni nella relazione di aiuto che intendessero avviare un simile processo di definizione. Nell’ambito della stessa EAP, in qualità di presidente nel 1997, ho promosso un convegno su Common Ground and Different Approaches in Psychotherapy con l’obiettivo di identificare elementi di differenziazione e di comune appartenenza in questo ambito di estrema ricchezza e complessità. Ne è derivata la pubblicazione: “Fondamenti comuni e diversità di approccio in psicoterapia” edita da FrancoAngeli (Zerbetto, 2004).

     

    Sempre in questa prospettiva, vorrei dedicare quest’ultima parte del mio contributo ad un tema molto attuale nel mondo delle professioni che, a livello internazionale, si trovano impegnate nella definizione dei loro territori di competenza. Un tentativo che vuole assolvere sia all’esigenza di ciascuna professione di delimitare meglio il proprio ambito di intervento al proprio interno sia nei confronti dell’utenza a cui si rivolge, ma anche di tracciare confini nei confronti di professioni “affini” con le quali possono emergere – ed inevitabilmente emergono - conflitti di territorio sugli ambiti di appartenenza. Se per talune professioni tale distinzione appare più facilmente delimitabile in quanto fondata su dati maggiormente obiettivabili (come quella di un ingegnere civile da quella di un architetto o da un geometra nell’ambito delle costruzioni o come quella di un odontoiatra da un odontotecnico o di dietologo da dietista) per altre può risultare più incerta e ambigua, e quindi inevitabilmente oggetto di controversie, in particolare quando ci si riferisce alle scienze umane e alle professioni di questo ambito; tema molto complesso che tuttavia non affronteremo in questa sede, rimanendo nell’ambito della psicoterapia come punto di riferimento.

     

    Per quanto riguarda la psicoterapia, è stata avviata un’approfondita riflessione in seno alla EAP che ha prodotto un documento su: The Professional Competencies of a European Psychotherapist, approvato in occasione del Congresso di Mosca del luglio 2013 e che rappresenta il frutto di un lavoro durato tre anni con il contributo delle National Umbrella Organizations e della European Wide Organization (EWO) che rappresentano i principali orientamenti nella psicoterapia. Un’analoga commissione è stata costituita all’interno della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia - FIAP - (in quanto National Umbrella Organizations  per il nostro Paese) in collaborazione con il Coordinamento Nazionale delle Scuole di Psicoterapia - CNSP – che si è adoperata per adattare al contesto italiano il documento prodotto a livello europeo (sito del progetto https://www.psychotherapy-competency.eu) e denominato “Le competenze di base dello psicoterapeuta”.

     

    Merita constatare tuttavia come, nel campo della psicoterapia, non sia stato sufficiente giungere ad una definizione delle competenze della stessa, tenuto conto della grande diversificazione tra i vari orientamenti, sia a livello di riferimenti epistemologici, che di definizione del setting o della metodologia applicativa. Questa realtà di fatto ha quindi comportato il tentativo di differenziare ulteriormente tali competenze in funzione dei diversi orientamenti. 

     

    Sul primo testo, inerente alle competenze “di base”, prodotto dalla EAP, si sono andati differenziando infatti alcuni orientamenti specifici a cura delle citate EWO o associazioni di area (psicodinamica, cognitivo-comportamentale, sistemica, umanistica etc.). Nel caso dell’approccio gestaltico, un’apposita Commissione in seno alla EAGT - European Association for Gestalt Therapy, ha portato alla definizione di un orientamento che rispecchiasse le peculiarità di questo tipo di approccio e che i Colleghi della SIPG-Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt si sono incaricati di tradurre adattandola agli standard normativi e culturali del nostro Paese. Ne è emerso un documento di base che è stato sottoposto al confronto con una trentina di colleghi come espressione di molti istituti collegati alla Federazione italiana degli Istituti e Scuole di Gestalt-FISIG.

     

    A seguito di un fecondo confronto coordinato da Gianni Francesetti, la Commissione ha prodotto il documento che viene riportato con il titolo: “Le competenze specifiche dello psicoterapeuta della Gestalt”, approvandolo in occasione di un Expert Meeting, tenutosi a Roma il 23 marzo 2017 (Francesetti, 2017).

     

    La gran parte dei documenti citati sono riportati nel numero della nostra rivista Monografie di Gestalt/Gestalt Monographies nella quale, oltre ai menzionati documenti di riferimento, viene riportato il modello di intervento riferibile all’approccio gestaltico nell’ambito dell’area umanistica: (https://cstg.it/wp-content/uploads/2017/06/Monografie-di-Gestalt-n2_web.pdf).

     

    Analoghi documenti inerenti i diversi indirizzi sono in corso di definizione attualmente e saranno disponibili a breve sul sito della FIAP (www.fiap.info).

     

    Ho ripercorso in sintesi questo iter come esempio di un complesso lavoro sulle “competenze” che, a mio parere, dovrebbero tendenzialmente avviare tutti gli orientamenti nelle diverse professioni della relazione di aiuto e che, in quanto tali, sono chiamate (a prescindere dal configurarsi a livello ordinistico o come associazione di categoria) a dotarsi  di  documenti formalmente approvati dalle rispettive assemblee costituenti di statuti che ne definiscano le finalità, gli ambiti di intervento, le metodologie di cui dotarsi nonché il codice deontologico che ne regoli il buon funzionamento sia al proprio interno sia nei confronti dell’utenza a cui si rivolgono.

     

    Il quanto e il che cosa

     

    La differenziazione delle varie professioni della relazione d’aiuto (PRA) può essere presa in considerazione sia sotto il profilo quantitativo che su quello qualitativo, con particolare riferimento al monte-ore richiesto per un percorso formativo, nonché delle specifiche materie di insegnamento che si ritiene abilitino a svolgere un dato intervento professionale. Questo tema verrà affrontato anche da altri contributi raccolti in questo numero della rivista, ma merita sottolineare come il dato quantitativo non possa venire in alcun modo sminuito nel suo valore. Nell’attuale assetto normativo del nostro Paese emergono ancora grossolane incongruenze che meritano di essere riesaminate con urgenza pena, come purtroppo troppo spesso avviene, intasare le aule dei tribunali per dirimere contenziosi che dovrebbero essere prevenuti da una normativa più chiara e più equa. Solo per fare un esempio, prenderò in considerazione il counseling, rispetto alla psicoterapia, visto le difficoltà di riconoscimento di quest’attività professionale, anche se il discorso potrebbe allargarsi a molte altre professioni:

     

    1. inutile addebitare ai counselors la mancanza di una formazione di base se i titoli per accedervi non vengono stabiliti a livello legislativo, creando una difformità nel mercato dell’offerta formativa con ripercussioni significative anche sulla qualità della formazione stessa.

    2. Il monte ore complessivo in una durata triennale è stato recentemente definito dall’attuale Federazione Italiana di Counseling (a seguito della costituzione, su iniziativa anche mia) del Coordinamento delle Organizzazioni Italiane di Counseling allineandosi ai training standards previsti dalla European Association for Counseling (EAC).

    3. Suona decisamente irragionevole quanto rivendicato da alcuni counselor in termini di semplice “differenza” nelle competenze professionali che non dovrebbe comportare anche un dislivello nel senso della professionalità quando si confrontano i nove anni di formazione minima (tra università e specializzazione) nella psicoterapia di fronte ai tre del counseling. Se gli anni di studio hanno un peso (quale che sia il contenuto degli stessi che, ovviamente, deve essere sempre più adeguato alle finalità da conseguire) è inevitabile che questo “peso” si rifletta in un aspetto di gerarchizzazione per quanto questa parola possa non piacere a molti. Sarebbe come pretendere di livellare il ruolo di un medico da un infermiere, pur nulla togliendo al fatto che, specie in ambito psichiatrico, un infermiere possa avere capacità empatiche e comunicative anche superiori a quelle di uno psichiatra.

    Il territorio e …  i suoi inevitabili conflitti di confine

    Dove c’è pluralità vi è, inevitabilmente, conflitto di territorio di competenze. Nella concezione dei greci improntata ad un pluralismo di poteri (Omero chiama gli dèi “oi kratistoi” i potenti) anche gli stessi dèi non sfuggono al conflitto. Nell’inno omerico, ad Afrodite si dice che la Dea ha tre nemiche: Era, dea dei vincoli matrimoniali, Atena, dea dedita alle arti e alla politica e non alle seduzioni d’amore, ed Ecate, dea della magia. Il conflitto, che non viene di per sé inteso in senso negativo, viene da Eraclito definito come “il Padre di tutte le cose” (polemos pater panton esti) e, in effetti, da una gestione di un conflitto “agonistico” e non distruttivo originano le Olimpiadi che ne determinano lo stesso calendario.

     

    Tuttora da dirimere (nei fatti, più che nelle parole) è l’ambito di competenza della professione di psicologo. Prendendo alla lettera il Codice deontologico dell’Ordine degli Psicologi (all’articolo 21 della Legge del 18 febbraio 1989, n. 56) dove si dice che «L’insegnamento dell’uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa costituisce violazione deontologica grave. Costituisce aggravante avallare con la propria opera professionale attività ingannevoli o abusive concorrendo all’attribuzione di qualifiche, attestati o inducendo a ritenersi autorizzati all’esercizio di attività caratteristiche dello psicologo. Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici. È fatto salvo l’insegnamento di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in psicologia e ai tirocinanti. È altresì fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche» ne deriva che:

     

    - Non competerebbe ai non-psicologi nessun intervento nelle PRA che avesse a che fare con qualcosa che richiama un “colloquio psicologico”. Se per “psiche” si intende con interpretazione più ampia anche il concetto di anima, ne deriverebbe che neppure i sacerdoti, i maestri spirituali, i filosofi o i consulenti di ogni tipo che includono anche una più attenta valutazione dell’intervistato (non ultima la finalità di una selezione lavorativa) potrebbero essere tacciati di abuso della professione.

    - “Reato grave” viene inoltre considerato l’insegnamento di “strumenti conoscitivi e di intervento” a non-psicologi creando di fatto una insostenibile discrepanza con la grande diffusione di informazioni sulla promozione della salute in generale che non viene contestata ai medici, come se la sensibilizzazione a concetti di salute mentale non dovesse spettare anche agli psicologi.

    - Analoga precisazione dovrebbe estendersi anche alla definizione dell’assessment, dal momento che strumenti di valutazione (come questionari e prove attitudinali) vengono utilizzati anche nell’ambito della selezione del lavoro, sportiva o altro anche in situazioni che non presuppongono necessariamente l’intervento dello psicologo trattandosi di valutazione non propriamente clinica.

     

    Mentre non si registrano di fatto denunce nei confronti di psicologi che insegnano nelle scuole di counseling (denuncia che probabilmente cadrebbe in forza dell’art 33 della Costituzione italiana che cita testualmente “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”) stante anche il fatto che tale prassi è ormai consolidata da decenni, dacché le scuole di formazione nel counseling si sono diffuse anche nel nostro paese, non stupisce la denuncia da parte di un ordine regionale degli psicologi nei confronti della più rappresentativa organizzazione di categoria nel counseling (AssoCounseling – www.assocounseling.it) nella quale si asserisce il principio per il quale «il disagio psichico, anche fuori da contesti clinici, rientra nelle competenze della professione sanitaria dello psicologo». A seguito della sentenza in primo grado del TAR del Lazio n.13020/2015 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha chiesto la cancellazione di AssoCounseling dall'elenco del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) (www.sviluppoeconomico.gov.it). Riporto questo dato a conferma del fatto che la mancanza di un ordinamento che definisca meglio le competenze delle diverse PRA non può che comportare azioni legali che certo non giovano alla costruzione di una strategia collaborativa tra le professioni, ma ne esasperano le contrapposizioni.


    Lavorare in rete

    Al di là delle specifiche competenze di ciascuna professione, si dimentica spesso come l’integrazione funzionale possa rappresentare spesso una carta vincente che può compensare, se non favorire, la promozione delle diverse tipologie di intervento di cui emerge più spesso l’elemento competitivo.

     

    L’esperienza raccolta in questi decenni in ambito socio-sanitario ha portato ad una definizione relativamente funzionale delle diverse mansioni delle professioni riconosciute. Un’équipe di salute mentale, come pure nel campo delle tossicodipendenze, propone generalmente un valido e sinergico assortimento di professioni che vanno dallo psichiatra allo psicologo-psicoterapeuta, all’educatore, all’assistente sociale e all’infermiere se trattasi di intervento che implica anche una componente medico-biologica. Tali profili professionali, relativamente ben codificati nell’iter formativo e nella definizione delle competenze (pur in perenne processo di definizione), risultano tuttavia una piccola parte dello spettro estremamente ampio delle PRA che si sono andate sviluppando in questi ultimi decenni e che comprendono i mediatori familiari, i coach, gli psicopedagogisti per estendere poi ramificazioni negli ambiti degli operatori che si occupano di salutogenesi, discipline spirituali, pratiche meditative e approcci psico-corporei (rebalancing, esercizi di bioenergetica, tecniche di massaggio di vario tipo), shiatzu, sino all’uso delle diverse branche della medicina “naturale”, dell’ayurveda, delle diete etc.

     

    Alcune di queste pratiche si sono costituite anche come organizzazioni di categoria con definizione di obiettivi, metodi, codici deontologici e sistemi accreditatori sino a configurarle come espressione di quelle “Libere professioni” individuate dalla Legge 14 gennaio 2013, n. 4 che definisce con chiarezza l’obbligo all’aggiornamento professionale, la formazione continua, la supervisione professionale mentre per altre il percorso di definizione delle competenze e dei percorsi auto-accreditatori sono ancora all’inizio. Tale riordino è contemplato anche dalla Legge di stabilità sulle professioni sanitarie il cui art. 5 punto 15 del Patto per la Salute 2014/2016 sottolinea la necessità di una ridefinizione dei ruoli, delle competenze e delle relazioni professionali con una visione che assegna a ogni professionista responsabilità individuali e di équipe su compiti, funzioni e obiettivi «abbandonando una logica gerarchica  per perseguire una logica di governance responsabile dei professionisti coinvolti prevedendo sia azioni normativo/contrattuali che percorsi formativi a sostegno di tale obiettivo».

     

    Mentre non mancano esperienze nelle quali alcuni interventi sono legittimati e accreditati anche dal servizio pubblico, come interventi di agopuntura, shiatzu e omeopatia, permangono forti resistenze a che, specie in un periodo di ristrettezze economiche, le risorse del danaro pubblico vengano devolute a sostegno di discipline cosiddette “complementari” quando quelle di base risultano spesso scoperte per mancanza di organico.

     

    Prima fra tutte le professioni a soffrire è la psicologia che ha visto un taglio drastico ai posti in organico a favore di professioni maggiormente orientate in senso organicistico. Sconcerta, per quanto mi riguarda più da vicino, come ruoli di responsabilità nei servizi per la tossicodipendenza privilegino attualmente specialisti in tossicologia anziché in psichiatria e psicologia quasi che la valutazione dei valori ematochimici sia più importante nel percorso terapeutico-riabilitativo (fatta salva un’emergenza tossicologica) di una più approfondita valutazione della personalità e delle dinamiche psico-sociali che hanno portato ad uno stato di disadattamento sociale di cui la droga è più spesso un’espressione più che la causa. Questo, ancora, a testimonianza di una tendenza tesa a svalutare orientamenti di tipo “dialogico-processuale” a favore di altre ad orientamento “diagnostico-procedurale”, come più ampiamente verrà approfondito da Tullio Carere-Comes nel suo intervento nel presente numero monografico.

     

    Prospettive future

     

    Per tornare al panorama recente della PRA e alla prospettiva di una possibile integrazione funzionale tra le stesse, merita forse richiamare in conclusione alcuni punti:

    - Ricostruire una “mappa delle professioni nella PRA” rappresenterebbe un formidabile strumento di conoscenza e di consultazione per operatori della salute e cittadini, nella possibilità di acquisire informazioni più precise, aggiornate e verificabili sulle indicazioni, i limiti, il quadro di riferimento teorico e le metodologie adottate dalle diverse professioni.

    - Una maggiore professionalizzazione delle diverse forme nella PRA rappresenterà la premessa ineludibile per una potenziale e progressiva integrazione nel Servizio sanitario nazionale con possibilità di rimborsi (totali o parziali) per le prestazioni elargite nella prospettiva di un ampiamento delle risorse terapeutiche che si renderanno disponibili.

     

    Per la mia esperienza personale, ad esempio, ho verificato come la collaborazione professionale tra psicologi-psicoterapeuti si sia dimostrata “vincente” in ambiti di intervento che conosco meglio come:

    - Gli interventi in ambito residenziale sulle dipendenze (comportamentali, nel mio caso, come gioco d’azzardo, dipendenze affettive e Net addiction, vedi www.orthos.biz, vedi anche Zerbetto 2014) analogamente a quanto si verifica nelle comunità terapeutiche nelle quali, accanto a interventi più professionali (spesso molto sporadici) di psicologi-psicoterapeuti, sono gli educatori a gestire gran parte del lavoro riabilitativo. Una mansione che, è doveroso ricordare, viene spesso richiesta a psicologi sotto-occupati che si prestano ad essere pagati come educatori, sottraendo, per inciso, occasioni di lavoro agli stessi, a riprova del fatto che la definizione delle competenze resta un ambito assai confuso e spesso influenzato da motivazioni di carattere contingente più che professionale.

    - In ambito scolastico nel quale ho formato in tre decenni numerosi counselors che hanno avviato o sostenuto “sportelli di counseling a partire dai CIC (Centri di Informazione e Consulenza) già previsti a partire dagli anni Ottanta e che, dall’utilizzazione di “docenti referenti per la salute” per attività di “ascolto partecipe” si sono progressivamente professionalizzati. Tali iniziative sono state molto penalizzate, in tempi recenti, da una minaccia di denuncia per “abuso della professione di psicologi” da parte della passata presidenza dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia producendo, di fatto, un impoverimento delle risorse di intervento in situazioni di disagio sociale per le quali, nella maggioranza dei casi, non era neppure presente un servizio di psicologia scolastica. La mancanza di quest’ultimo rappresenta una vera “ignominia” nel sistema scolastico in assenza di una legge nazionale che lascia alla mera discrezione del preside l’attivazione (o meno) di un minimo di servizio di psicologia scolastica. Una situazione che considero davvero aberrante e che troverebbe una soluzione, a mio parere funzionale e ragionevole, se ad un intervento di “primo ascolto” da parte di un docente con acquisizione di competenze di counseling si affiancasse, con funzioni di supervisione e verifica, un operatore professionale in grado di intervenire nelle situazioni più complesse e che richiedono un diverso tipo di intervento.

     

    Per rimanere in tema formativo, pur essendo uno psichiatra (e ancor maggiormente per questo) esprimo la mia indignazione per il fatto che a colleghi appena usciti da una scuola di specializzazione in psichiatria che, attualmente, elargisce una formazione quali unicamente imperniata su aspetti di neuro-fisiologia e psicofarmacologia, venga concesso di iscriversi nell’“Elenco provinciale degli psicoterapeuti” senza aver ricevuto una formazione in un indirizzo specifico della psicoterapia né aver fatto un percorso anche minimo di terapia personale o, comunque, una personal experience come previsto ineludibilmente dalla Dichiarazione di Strasburgo [1].

     

    Un orientamento umanistico unificante?

     

    Al di là delle differenze dei quadri di riferimento teorico e di strumenti adottati, non vi è dubbio che l’obiettivo di tutte le professioni della RA sia l’essere umano e la promozione del suo benessere e la sua “realizzazione” in quanto tale. Non solo per i molteplici aspetti specifici che ne condizionano lo stato di salute fisica o psichica e che hanno aperto lo spazio ad una miriade di diverse procedure applicative di carattere medico e psicologico, ma per quel “minimo comune denominatore” che in qualche modo dovrebbe rappresentarne l’elemento di convergenza e di comune appartenenza.

     

    L’augurio, per noi che facciamo comunque parte dell’arcipelago (forse una vera galassia) delle PRA, è che accanto ad una dialettica competitiva non si dimentichi di essere, comunque, parte di un unico organismo che, con le sue diverse funzioni, si “prende cura” delle afflizioni dell’umanità. Risuona, in tal senso il concetto di “corpo mistico” per il quale, come sta scritto nella prima lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso «A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune» vuoi che si tratti del dono della conoscenza, della guarigione, dell'interpretazione delle lingue, etc. «ma tutte queste cose le opera quell'unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole».

     

    Note

     

    [1] La dichiarazione di Strasburgo sulla psicoterapia.

    *La psicoterapia è una disciplina scientifica indipendente, la cui pratica rappresenta una professione libera ed indipendente.

    *La formazione in psicoterapia deve avvenire ad un livello scientifico avanzato e qualificato.

    *La molteplicità dei metodi psicoterapeutici viene assicurata e garantita.

    * La formazione in psicoterapia comprende la teoria, l’esperienza su di sé e la pratica sotto supervisione. Viene acquisita un’adeguata conoscenza di ulteriori processi di psicoterapia.

    * L’ammissione alla formazione richiede varie qualifiche preliminari, soprattutto nelle scienze umane e sociali.

     

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