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  • Lo sguardo del sociologo abbraccia per com-prendere
    Studiosi italiani ricordano cent'anni dalla pubblicazione del Trattato di Sociologia Generale di Vilfredo Pareto
    Maria Caterina Federici (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.1 Gennaio-Aprile 2017





    LETTERE DI VILFREDO PARETO ALL’AMICO ROBERTO MICHELS: CONFINI E CONFINE NEL TRATTATO DI SOCIOLOGIA GENERALE DEL 1916

    Raffaele Federici

    raffaele.federici@unipg.it
    Ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli studi di Perugia.


    Busto bronzeo di Pareto - Opera di Gianni Servettaz (1964)

    Il bello, il buono, il giusto, il diritto,

    sono entità che il sentimento afferra subito

    e che l’esperienza ignora come entità oggettive,

    conoscendole solo come espressioni di sentimenti.

    Vilfredo Pareto[1]

     

    L’interesse per le lettere di Vilfredo Pareto[2] a Robert Michels non risiede solo nella storia del pensiero sociologico. Infatti, tali lettere sollecitano l’attenzione per l’osservazione di una delle linee di faglia degli intellettuali di confine con il mondo di ieri, ovvero il periodo compreso fra il 1914 e il 1920, un tempo denso di inedite e globali incertezze: «dal punto di vista sociologico, il ventesimo secolo incominciò nel 1914, esattamente come il secolo decimo nono incominciò effettivamente intorno al 1830, quando la classe media diede la sua impronta alla vita pubblica dell’Europa occidentale. […] La concezione predominante in fatto di filosofia, di scienza e di arte, fino al 1920 era fondata su modelli del secolo decimo nono. Contemporaneamente, le forze che crearono una cultura nuova erano già all’opera verso il 1900, nei campi delle scienze fisiche, della tecnologia applicata, della psicologia del profondo, della musica e della pittura moderna. […] Sigmund Freud elaborò la tecnica della libera associazione intorno al 1895 e pubblicò L’interpretazione dei sogni alla fine del 1899» [3].

     

    Insomma la corrispondenza fra Pareto e Michels avviene in un tempo in transizione, un tempo nuovo in cui si afferma una nuova visione del mondo, «il 1900, come il 1400 e il 1600 e il 1000, ha tutta l’aria di un anno che conclude un saeculum»[4] o, ancora, con le parole di Robert Musil: «dalla mentalità liscia come un olio degli ultimi decenni del diciannovesimo secolo era insorta improvvisamente in tutta l’Europa una febbre vivificante. Si amava il superuomo e si amava il sottouomo, si adorava il sole e la salute, si adorava la fragilità di fanciulle ammalate di consunzione; si professava il culto dell’eroe e il culto socialista dell’umanità; si era credenti e scettici, naturisti e raffinati, robusti e morbosi si sognavano antichi viali di castelli, parchi autunnali, peschiere di vetro, gemme preziose, hascish, malattia, demoni, ma anche praterie, sconfinati orizzonti, fucine e laminatoio, lottatori ignudi, rivolte di operai schiavi, primi progenitori dell’uomo; distruzione della società. Tutto questo si svolse del resto nello strato e incostante degli intellettuali» [5].

     

    In questa ricerca di senso fra la fine di un'epoca e la nuova visione del mondo, c’è, nei due Autori, quello che potrebbe chiamarsi una betweenness: Pareto, quasi un franco-italiano, e Michels, un italiano-tedesco, anzi un più che italiano. Nella linea di faglia rappresentata dal primo conflitto mondiale, i due sociologi sono in una doppia relazione interiore appunto franco-italiana Pareto e italo-tedesca Michels e una relazione esteriore fra il mondo di ieri e il mondo successivo al cataclisma che fu la prima guerra mondiale, quando ben quattro imperi colossali erano stati smembrati (l’Impero Russo, l’Impero Tedesco, l’Impero Austro-ungarico e l’Impero ottomano), nello stesso tempo in cui Emile Durkheim guardava con inquietudine alla disgregazione delle vecchie comunità tradizionali, dove il senso della crisi del tempo investe non solo le persone e i comportamenti, ma il mondo logico stesso. Lo scambio epistolare avviene nella stessa terra: Pareto a Celigny, sul lago di Ginevra[6], e Michels a Basilea[7], lungo le rive del Reno.

     

    Vi è, fra i due sociologi un profondo rispetto, che vedrà Robert Michels dedicare allo “scienziato e amico Vilfredo Pareto con venerazione” un’opera importante come “Problemi di sociologia applicata”[8] pubblicata solo tre anni dopo il Trattato di Sociologia Generale del Maestro. In questa antologia di saggi Robert Michels, probabilmente composti fra il 1914 e il 1917, negli anni del grande cataclisma, anzi concepiti prima «dell’insediamento di questa terribile corte suprema di cassazione di tutte le nostre ideologie, che è la guerra» [9], quindi contemporanea al Trattato, il Maestro viene citato tre volte, come Max Weber, ma, de facto, la presenza di Pareto è continua. In particolare, il richiamo al Maestro è iscritto a due piste di ricerca: da una parte la realtà della ricerca sociologica e del suo amplissimo spettro di analisi[10] e dall’altra la teoria della circolazione delle elités. È proprio in occasione della pubblicazione del volume “Problemi di sociologia applicata” che Pareto risponderà a Michels a proposito di metodo scientifico. La lettera è datata 09 gennaio 1919 ed è l’occasione per specificare la sua posizione metodologica: «tali mia osservazioni non mirano menomamente a combattere la sua dottrina, mirano solo a chiarire la differenza fra la sua dottrina e un’altra. Sarebbe come se dicessi: questo libro è scritto in italiano, quest’altro in cinese. Con ciò non voglio dare alcun giudizio sui meriti della lingua italiana e della lingua cinese. Voglio solo, esclusivamente dire che sono lingue diverse, e basta»[11].

     

    Da questa breve premessa, che ho precedentemente affrontato in “Intorno al problema del progresso”[12], nella “Sociologia dello straniero”[13], in “Sociologia di Parigi”[14], ho cercato di attraversare gli anni del “limite”, gli anni che hanno caratterizzato la corrispondenza  fra i due Autori, legati da una profonda amicizia.

     

    Ricordo che «con l’anno limite 1914 finisce l’età che oggi si ama definire il mondo di ieri»[15], un “Die Welt von gestern”[16] che si presenta come un mondo distrutto, annientato, stravolto da quella tragica esperienza che verrà successivamente chiamata la “Grande Guerra”. «È tuttora pressoché impossibile», ha scritto Hannah Arendt, «descrivere quel che si è realmente prodotto in Europa il 4 agosto del 1914»[17]. Un anno “limite” in cui la sproporzione fra «l’effetto e la causa, fra l’incendio e l’incidente che lo ha provocato continua e continuerà per sempre a eludere la comprensione»[18].

     

    I grandi progressi della scienza e della tecnica avevano progressivamente cambiato la maniera di vivere e anche la visione dell’umanità intera. Una trasformazione che la sociologia cercava di leggere, negli anni a cavallo fra XIX e XX secolo, con strumenti non solo quantitativi ma, soprattutto, qualitativi nella ricerca di una antropologia “post-filosofica” della modernità[19], tentando di cogliere la formazione e la saturazione delle “nuove” classi sociali. Un progresso che Pareto stesso non si azzardava di affrontare come tale[20]. Una lettura e una interpretazione che avviene nel tempo della Sekurität economica che, proprio sul finire del XIX secolo, raggiunse il suo culmine esasperandosi  nelle nuove forme del capitalismo industriale e delle nuove “sensibilità” culturali. Un processo e un mutamento che vedeva venir meno la sicurezza nel criterio di giudizio, la possibilità di orientarsi nei rapporti con le cose e le persone e che, un secolo dopo, ha paradossalmente spostato la riflessione al tempo  della  Unsicherheit come problema e della Risikogesellschaft come forma. Come nella pittura l’espressionismo portò l’insicurezza nello spazio immaginario euclideo, nella musica l’atonalità e la dodecafonia spostò il pentagramma oltre le armonie della sicurezza compositiva tradizionale, così il mondo sociale trasfigurò le sue certezze nella ricerca di un altro ordine eliminando ogni possibile ritorno all’ordine passato.

     

    Con altre parole si potrebbe osservare che lo stesso passaggio fra il secolo XIX, in cui dominava il dualismo «aut-aut», ovvero la tendenza alla suddivisione e alla specializzazione compreso nello sforzo di inquadrare il mondo entro criteri e indici univoci e costanti, e il secolo XX, caratterizzato dall’«e» ovvero dall’incertezza, dalla molteplicità e dalla coesistenza, è meno deciso e netto di quanto si possa pensare nonostante le tante macro definizioni proposte. Michels e Pareto infatti, oltre al problema metodologico, pongono una grande attenzione ai cambiamenti dettati dall’avvento di una società industriale in piena maturità, della divisione del lavoro, con tutti i problemi sociali da essa derivanti e del genere di razionalità che può prevalere in tale società, insomma tutti i problemi ed i rischi che derivano dal “progresso”. È un paesaggio in qualche modo in cerca di organizzazione, certamente creativo, costruzione e distruzione dell’individuo contemporaneo, in cui, come scrive Pareto, «un pastore tedesco dice che Gesù Cristo avrebbe preso parte alla guerra»[21].

     

    È a partire da qui che una lettura attenta delle diciotto lettere rimanda a una linguaggio nuovo. È quello della sociologia, di una scena mutata della scienza in cui la sicurezza di chi scrive trasforma la conoscenza di chi legge in insicurezza poiché lo pone di fronte a interrogativi nuovi, in fondo mai posti. Si pensi ancora al tema dei residui e delle derivazioni: «nel Trattato compare e campeggia la terza dicotomia fondamentale del pensiero paretiano, quello fra residui e derivazioni. Anzi il Trattato può essere considerato come un luogo, non sempre rettilineo, complesso (nonché complicato) discorso intorno a presupposti teorici, alle fonti materiali, alla costruzione concettuale, alla possibile utilizzazione per una teoria del sistema sociale, di questa grande dicotomia. Dopo un capitolo preliminare sul metodo scientifico, l’opera prende le mosse dalla prima dicotomia, cioè dalla distinzione fra azioni logiche e non logiche (cui sono dedicati il secondo e il terzo capitolo). Poiché il miglior modo per giungere alla enucleazione e descrizione delle azioni non logiche è quello di partire dalle loro manifestazioni verbali, che sono teorie non logico sperimentali (cui si riferisce la seconda dicotomia), l’opera procede con una analisi di un abbondante materiale di teorie di tal sorta, che vengono distinti in teorie che trascendono dall’esperienza (capitolo quarto) e in teorie pseudoscientifiche (capitolo quinto), secondo ché l’intervento di principi non sperimentali sia esplicito o soltanto implicito, e quindi, più o meno dissimulato. La conclusione di quest’analisi è che le teorie non logico-sperimentali sono composte da due parti: una parte più variabile, che consiste in un complesso di argomentazioni quasi logiche con cui gli uomini tendono a dare una giustificazione razionale, a razionalizzare post factum, i propri istinti o sentimenti; una parte più costante, attraverso cui vengono espressi questi istinti o sentimenti. Alla prima Pareto dà il nome di derivazioni; alla seconda di residui, in quanto sono ciò che residua di ogni teoria dopo averla sfrondata degli argomenti di giustificazione, o, per seguire una delle metafore preferite di Pareto, dopo averle scrostate di vernice logica»[22].

     

    Vi è, nella lingua dei due sociologi, certamente è evidente in Pareto, un linguaggio che non è separato dal potere, il potere di chi tenta di produrre nuove frontiere nella conoscenza[23], e, per i lettori del tempo, fu certamente spaesante[24]. Certo Pareto, è lo stesso Boudon a metterlo in luce[25], solleva molti interrogativi interpretativi e di fondo, si pensi alla distinzione fra azioni logiche e non logiche se tale distinzione non è operata con “nuances”[26] e, ancora, che la teoria dell’azione individuale sia più complessa di quella di Max Weber oppure che l’idea di residuo debba essere compresa non come teoria della natura umana concepita come un dato intertemporale, ma «au contraire sur l’hypothèse que les conditions sociales déterminent des montages affectifs et cognitifs variables, ainsi que des processus variables de sélection des individus»[27]. Tale osservazione diventa un principio organizzatore dell’insieme delle scienze sociali, un vertice da cui leggere il realismo critico del Maestro, il bisogno di andare ai fatti, alla realtà dei fenomeni.

     

    È a partire da queste sensibilità scientifiche, oltre quello che Pareto chiamava la ingannevole crosta delle ideologie, che ho cercato di leggere le diciotto lettere di Pareto all’amico e collega Robert Michels. Il corpus epistolare è conservato presso il Fondo Pareto; è un corpus smilzo ma offre la possibilità di gettare una luce ulteriore sia sul Pareto degli anni fra il 1915 e il 1918 sia sullo stato della sociologia in quegli anni.

     

    Per Pareto questi anni sono difficili: nel 1907 dopo la morte della sorella Cristina, cui era molto affezionato, lascia l’insegnamento poiché, con le sue parole, preferisce «comporre che far lezioni»[28]. Sono gli anni in cui elabora il Trattato nella ricerca di una oggettiva realtà. Fra il 1909 e il 1917 il Maestro è malato di cuore e la corrispondenza con i suoi amici si fa rara (lo stesso Pantaleoni riceverà poche lettere) e si fanno via via più pungenti le sue osservazioni sia verso gli studiosi sia verso l’establishment politico e accademico italiano. Sono, per Pareto, gli anni in cui viene denominato da Giovanni Papini «l’ateo di tutte le religioni»[29] [30], sono gli anni in cui il Maestro si definisce: «un legnaiolo che ha bisogno di uno scalpello e che, non trovandolo al mercato, deve farselo»[31].

     

    Come avviene nei migliori epistolari, è possibile privilegiare fra le lettere di Pareto a Michels un itinerario, una pista interpretativa, ovvero il perché della sociologia. Una avventura che potrebbe definirsi interdisciplinare che investe la storia, le lettere, l’economia politica e la riflessione epistemologica. A questa collocazione della ricerca corrisponde una immagine della sfera culturale che non ha un suo territorio interno ma è disposta, adagiata, dispersa, ai e oltre i  confini. Ogni richiamo sembra essere irrevocabilmente partecipe dei processi di formazione, di dissolvimento, delle cristallizzazioni e delle scosse improvvise nella conoscenza che si manifestano in quel determinato periodo storico. Il fenomeno sociologico si manifesta, anche in queste lettere, sia sotto l’aspetto oggettivo, allorché studia rapporti fra oggetti reali, sia sotto l’aspetto soggettivo, allorché si focalizza nella ricerca degli strumenti intellettuali per la ricerca.

     

    Il richiamo al confine, alla ricerca dei confini della sociologia, è un richiamo al mondo della cultura, un mondo che non può intendersi un volume stabile, solido e pieno ma un reticolo, in continuo movimento di nodi fili e giunture. La sfera culturale sia in Pareto sia in Michels non ha un territorio interno definito, si espande e si “fissa”, si dispone in inediti confini (si pensi ai “residui”). Sono gli anni del limite, proprio gli stessi anni della corrispondenza fra i due Autori, dal settembre del 1915 al gennaio del 1919.

     

    In questo complesso quadro gli Autori sono testimoni attenti, sensibili, di un angosciante processo di trasformazione della intera società occidentale. Pareto e Michels  appartengono ad una epoca «als das Lesen noch geholfen hat»[32] e le loro asserzioni attingevano sempre a conoscenze derivanti da letture scientifiche e non solo, ma anche da letture che possono essere ricordate senza censure, senza accomodamenti. Rammento che Pareto non era mai stato benevolo verso le forme della censura, anzi nel 1911 aveva pubblicato in francese “Il mito virtuista”[33], un breve saggio in cui si era fatto beffe del bizzarro senso del pudore che portava le classi borghesi a inorridire dinnanzi alla letteratura erotica, tollerando invece pacificamente articoli e libercoli di propaganda rivoluzionaria.

     

    Insomma Pareto sentiva la necessità della capacità di espressione e di conoscenza senza essere uno “strenuo difensore della libertà”, secondo la classica definizione di Burnham[34]. Ricordo che proprio il Maestro in una lettera a Sorel del 1916 sottolineò come l’episodio della censura al “Giornale d’Italia” e, indirettamente, all’Osservatore Romano a proposito del necrologio dell’imperatore Francesco Giuseppe e, più in generale, a proposito del conflitto mondiale, fosse qualcosa di inutile. A sottolineare ancora questa posizione del Maestro di Celigny, presenta anche nella corrispondenza con Robert Michels, è interessante ricordare e rileggere uno dei suoi ultimi scritti comparso nel gennaio del 1923 nella rivista “Gerarchia” di Milano con il titolo di “Libertà” in cui si può leggere: «l’unità dell’Italia fu fatta da una dittatura borghese, che fu buona entro certi limiti, non già solo perché era una dittatura, ma perché vantaggiosi, sino a un certo limite, ne furono gli effetti, come agevolmente può vedere che paragoni lo stato dell’Italia prima del 1859 con quello dopo la guerra mondiale, e perché volle, seppe, poté vincere gli avversari si nazionali che forestieri, e superare ostacoli veramente formidabili come, per esempio, quello del Papato di Roma, favorito dal cattolicismo mondiale. Il reggimento fascista non è buono solo perché dittatoriale, anzi, come tale, potrebbe a somiglianza di ogni altra dittatura, essere pessimo con un cattivo dittatore, ma perché buoni, sinora, ne furono gli effetti come appaiono dal miglioramento recato nelle condizioni del paese, dal biennio 1919-1920 della tirannide rossa, allo stato presente. Che sarà dell’avvenire? Solo i fatti possono dare sicura risposta: ma non è escluso che si possano fare probabili previsioni; e queste appaiono favorevoli se il futuro somiglierà al passato. Non vuolsi peraltro tacere che formidabili pericoli sono da superare. Alcuni già paiono allontanati dal senno dei capi; per esempio quello di avventure forestiere, analoghe ad altre che trassero in rovina il secondo impero francese, quello di abuso della forza, quello di prepotenti arbitrii. Al preservare in questa via gioverà una ampia libertà di stampa»[35]. Ecco un tema caro a Pareto la libertà di espressione, tema che attraversa anche alcune lettere inviate a Michels.

     

    Tutte le lettere inviate a Michels da Pareto sono attraversate da una sincera amicizia e da un legame che raggiunge anche le figlie. Manon, la prima figlia di Michels[36], trascorreva lunghi periodi di vacanza proprio a Villa Angora e sui suoi soggiorni a Celigny Manon scrisse un articolo pubblicato in “The Atlantic Monthly”[37] nel 1935. Un ulteriore tema che ricorre nella corrispondenza è la responsabilità, il radicamento nei valori telici. Nella lettera data 20 maggio 1917 scrive il Maestro: «ci sono tre scogli che desidero scansare. Il primo: Ella sa che poco mi curo di onori vari, ma d’altra parte mi preme molto di essere cortese, e perciò non potrei, perché sarebbe scortesia, rifiutare di accogliere un atto benevolo i cui volesse onorarmi il Governo italiano; il secondo ci sono atti che possono parere benevoli e che non sono: ed è naturale il desiderio di sottrarmi a essi. Se, per esempio, il governo del Cantone di Vaud volesse nominarmi aiutante bidello o anche privat-docent all’università non potrei avere per esso la gratitudine che sento profonda per la mia nomina a professore ordinario; il terzo, questo è il minor male e si potrebbe anche tralasciare di farne motto. Non vorrei fare la figura di chi chiede e si fa rifiutare. Io nulla chiedo ora, come mai nulla ho chiesto, come mai ho preso parte a un concorso per ottenere una cattedra universitaria in Italia. Non dimentiche la favola dell’orso che uccise l’amico per cacciargli la mosca. Per essere maggiormente chiaro, mi è necessario confidarle un segreto. Sappia che io sono cavaliere della Corona d’Italia. Se non ci crede, quando verrà qui le farò vedere il diploma, che spero che sarà stato rispettato dai topi. Ma dica un poco, ora che sa ciò, non le pare molto migliore la mia Sociologia? Ecco come andò il fatto memorando. Molti anni or sono, fu ministro Domenico Berti, amico di mio padre, il quale Berti, supponendo di farmi piacere, mi conferì la croce. Non rifiutai per non fare scandalo, perché allora il rifiuto era anche un genere di vanità, e infine per non recare dispiacere all’amico di mio padre, ma tenni il fatto occulto per quanto stava in me. Fui in ciò tanto avventurato che ora è dimenticato e, meglio ancora, non saputo: Duc ne daigne, Prince ne puis, Rohan suis. Ora, se il governo volesse promuovermi cavaliere ufficiale (Dio! Che onore!), non darei certo scandalo rifiutando, ma mi recherebbe un dispiacere che non mi pare di avere meritato in nessun modo. Procuri dunque di risparmiarmelo. Ogni atto cortese, ogni vero onore allo scienziato mi sarà graditissimo e ne sarò riconoscente; ma mi parrebbe di essere avvilito se, dopo quanto ho potuto fare in tanti anni di assiduo lavoro, mi si giudicasse appena degno di uno di quei nastrini che si prodigano ad agenti elettorali di decimo ordine od ai bottegai che provvedono carta ed inchiostro ai ministeri. Né il governo può desiderare di avvilarmi, né gli amici suoi o miei possono consentire ad avere parte in ciò; era dunque forse inutile che mi fermassi su tale argomento, ma è sempre meglio dare spiegazioni ampie piuttosto ché [sic] scarse. E poiché discorriamo di tale materia, mi conceda di aggiungere che più di ogni altra cosa avrò caro il menomo atto benevolo del governo del Cantone di Vaud. L’uomo è un animale riconoscente; ed io, sinché campo, non dimenticherò mai che il capo del Dipartimento dell’istruzione pubblica ed il decano della facoltà di diritto vennero a Fiesole a cercare il Pareto, allora “irato ai patrii numi”, come dello Alfieri dice il Foscolo; che al Pareto il governo di Vaud affidò la cattedra di Economia politica, e poscia quella di Sociologia, in cui lo mantenne e lo mantiene, non ostante la mal ferma salute. Della mia malattia mi dolgo più che pel male che mi fa, perché mi toglie di pagare, sia pure in piccola parte, il debito di gratitudine che ho verso quel governo. “Amor che a nullo amato amar perdona” disse Dante, ed è anche vero dell’amicizia e della benevolenza. Dimentico facilmente il male, ed è perciò che più non rammento come mi trattò il governo italiano; non dimentico mai il bene, ed è perciò che in me è ognor viva la memoria dei benefici del governo di Vaud, e che non si scancellerà quella dell’opera amichevole del prof. Michels»[38].

     

    Dello stesso tono una lettera del 29 giugno 1917: «ho ricevuto la sua lettera di ieri, e subito le ho telegrafato: “Je regrette devoir refuser absolument, mais je suis reconnaissant aux personnes qui se sont intéréssées à moi”. Se ella rilegge la mia lettera del 20 maggio, non rimarrà sorpreso da questa mia decisione. Capirà che l’essere la promozione a Commendatore invece che a cavaliere ufficiale nulla muta alla sostanza, e che quando uno dice che tale promozione gli reca dispiacere e lo avvilisce, l’insistervi giustifica il rifiuto, anche se, invece di privato dovesse diventare pubblico. Il governo italiano non mi stima degno delle onorificenze serbate agli scienziati, ed io vado più in là e neppure mi stimo degno della Corona d’Italia. Siamo dunque interamente d’accordo. Non ho la presunzione di paragonarmi a Giosué Carducci, ma quando egli accettò onorificenze - con grave scandalo di molti - furono almeno quelle che convenivano all’indole della sua attività. L’ordine della Corona d’Italia, dissero gli stessi ministri, fu istituito per sfollare quello Mauriziano, che doveva essere serbato a coloro che veramente onoravano l’Italia. Quando Regina Coeli ospitò molti Commendatori e fu pubblicato l’Inno dei Commendatori, ci fu chi osservò che erano Commendatori della Corona d’Italia, non Mauriziani. Troppo onore sarebbe per uno scribacchiatore di libri, come io mi sono, lo stare in questa compagnia. Occorre dunque che i miei editori usino pazienza, e che si rassegnino a fare figurare - come sempre sin ora - il nudo nome sulla copertina dei miei libri. Spero, per loro, che ciò non nuocerà alla vendita. E forse riceverò ancora lettere colla soprascritta che tanto mi piace, e che, senza neppure il signore, dice semplicemente: a Vilfredo Pareto. Tutto ciò non toglie che io rimanga grato e riconoscente alle persone che vollero adoperarsi per me. Alle intenzioni solo si deve badare; di queste porgo sentiti e vivi ringraziamenti a lei ed alle persone che si adoperarno in mio favore, ppresso le quali la prego di farsi mio interprete» [39].

     

    Le diciotto lettere di Pareto a Michels rappresentano, in qualche modo, sia lo stile sia la tenacia del Maestro. Certo fu «scrittore aspro, disordinato, uomo altezzoso, sprezzante, polemista terribile, Pareto usa ed abusa dell’ironia scanzonata e soprattutto del sarcasmo per volgere in ridicolo quel che non gli aggrada»[40]. È stato un outsider e, forse questo aspetto è stato meno sottolineato di quanto si dovrebbe, uno studioso, un intellettuale di confine nella complessità che la parola confine sembra rimandare. «È stato l’unico sociologo che ha rifiutato, contemporaneamente e senza mezzi termini, il patrimonio comune dei valori cristiani, il positivismo che sembrava portare verso una morale umanista del progresso, come l’applicazione dell’utilitarismo alla spiegazione di tutte le azioni sociali. È inoltre il solo a rifiutare il sogno filosofico di una “obiettività” intrinseca della scienza, o il mito di una “razionalità” inerente al corso del mondo storico-sociale, insomma, a collocarsi ostentatamente in opposizione alle opzioni teoriche fondatrici della sociologia»[41].

    [1] Lettera a Roberto Michels del 09 gennaio 1919. G. Manca ( cura di), Vilfredo Pareto. L’uomo e lo scienziato, Scheiwiller – Banca Popolare di Sondrio, Milano, 2002, p. 414.

    [2] Vilfredo Pareto nacque a Parigi il 15 luglio 1848 in rue Guy La-Brosse, 10, dal marchese Raffaele, emigrato in Francia perché compromesso a Genova come mazziniano, e dalla gentildonna Maria Mattenier. I Pareto appartenevano alla nobiltà commerciale genovese e avevano tradizioni liberali e novatrici: un Pareto fu  nominato pair de France da Napoleone Bonaparte quando conquistò il genovesato e dei Pareto fu pure il ministro degli esteri del Ministero Balbo, il primo ministero costituzionale di Carlo Alberto”. A. Cappa, Vilfredo Pareto,  Piero Gobetti Editore, Torino, 1923, p. 7.

    Note

    [3] G. Lichtheim, L’Europa del Novecento fra storia e cultura, Laterza, Roma – Bari, 1973, p. 85.

    [4] F. Kermode, The sense of an ending,  Oxford University Press, London – New York,  1967, p. 98.

    [5] R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962, pp. 50-51,

    [6] Vilfredo Pareto già nel 1901 si era trasferito a Celigny.

    [7] Chiamato nel 1913 ad assumere il prestigioso incarico di codirettore della rivista «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», nello stesso anno, a fronte di un crescente disagio nei confronti della Germania guglielmina, maturò la decisione di chiedere la naturalizzazione italiana che avrebbe tuttavia ottenuto nel 1921. Alla vigilia della Prima guerra mondiale si trasferì a Basilea, in Svizzera, dove nel 1913 era stato invitato a ricoprire la cattedra di economia politica e statistica.

    [8] R. Michels, Problemi di sociologia applicata, Bocca, Milano – Roma, 1919.

    [9] R. Michels, Problemi di sociologia applicata, Bocca, Milano – Roma, 1919, p. VIII.

    [10] È strepitosa, da questo punto di vista, l’affermazione riportata da Michels a riguardo della risposta fornita a Guido Cavalieri da Pareto a proposito del progresso.

    [11] Lettera a Roberto Michels del 09 gennaio 1919. G. Manca ( cura di), Vilfredo Pareto. L’uomo e lo scienziato, Scheiwiller – Banca Popolare di Sondrio, Milano, 2002, pp. 414-415.

    [12] R. Federici, Introduzione a Intorno al problema del progresso, Armando, Roma, 2011, pp. 7-26

    [13] R. Michels, Materiali per una sociologia dello straniero, traduzione di R. Federici, in “Studi Interculturali”, 3, pp. 15-32.

    [14] R. Michels, Sociologia di Parigi e della donna francese, a cura di R. Federici, Morlacchi, Perugia, 2013.

    [15] L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione 1820-1970, Einaudi, Torino, 2002, p. 1149.

    [16] S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un Europeo, Newton, Roma, 2012, 45. È il mondo sintetizzato da Zweig e non a caso il primo capitolo ha per titolo “Il mondo della sicurezza”.

    [17] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, 372.

    [18] A. Finkielkraut, L’incontemporaneo. Peguy lettore del mondo moderno, Lindau, Torino, 2012, p. 13.

    [19] Scrive Bauman: «quando è nata la modernità? La questione è controversa: non c’è accordo sulla datazione, né su ciò che bisogna datare. […] Possiamo dire che l’esistenza è moderna nella misura in cui si biforca in ordine e caos. L’esistenza è moderna nella misura in cui contiene l’alternativa fra ordine e caos» (Bauman 2010, 14-17).

    [20] «Perché tutta la mia sociologia è volta a bandire dalla scienza una simile terminologia che mi par sia mancante di ogni precisione e atta solo a generare equivoci. D’altra parte lo spiegare questo modo di vedere non è cosa da potersi fare in un breve scritto; basterà a mala pena il grosso volume che sto scrivendo e che è quasi al termine... » V. Pareto,  Lettera al Comitato organizzatore dell’VIII riunione dell’Institut international de sociologie, tenutasi a Roma nell’autunno 1912 e dedicata al tema “La concezione sociologica del progresso”, Bocca, Roma – Torino, 1912, p. 5.

    [21] V. Pareto, Lettera del 16 settembre 1915 a Robert Michels, Fondo Vilfredo Pareto, Banca Popolare di Sondrio.

    [22] N. Bobbio, Pareto e il sistema sociale, Sansoni, Firenze, 1973, pp. 19-20.

    [23] «La società umana è soggetto di molti studi. Alcuni costituiscono discipline speciali, come, ad esempio, quelli che concernono il diritto, l’economia, la storia politica, la storia delle religioni e simili; altri non esistono ancora con nomi distinti. Alla loro sintesi, che mira a studiare in generale la società umana, si può dare il nome di Sociologia. Tale definizione è imperfettissima; può forse essere migliorata, ma non di molto, poiché infine nessuna scienza, neppure delle diverse scienze matematiche, si ha una definizione rigorosa;ne si può avere, perché l’oggetto della nostra conoscenza solo per comodo si divide in varie parti, e tale divisione è artificiale e varia col tempo. […] Occupiamoci di ricercare le relazioni fra i fatti sociali, e poi lasciamo che a tele studio si dia il nome che si vuole, e che con qualsiasi metodo la conoscenza di queste relazioni si ottenga. A noi preme il fine, molto meno e anche niente i mezzi che a esso adducono». V Pareto, Trattato di Sociologia Generale, Barbera, Firenze, II edizione, 1923, p. 1.

    [24] Forse in questa direzione potrebbe essere riletta la recensione di Benedetto Croce al Trattato. «Dispiace per la riverenza che si nutre verso la memoria di quel degnissimo uomo che fu il Pareto, ma non si può far di meno di dire, che questo Trattato di Sociologia, che il curatore della nuova edizione reputa: uno dei più mirabili capolavori del genio italiano sia piuttosto un caso di teratologia scientifica. Vi si potrà osservare in forma tipica quel che accade quando si pretenda costruire una scienza della società umana e della politica con metodo positivistico, e sul serio ci si accinga e si proceda oltre in tale bisogna. Metodo positivistico (si noti bene), e non già il metodo delle scienze naturali; perché questo metodo non contrasta con la intelligenza filosofica e storica, e anzi la presuppone come fondamento delle sue costruzioni. I1 metodo positivistico, usato dal Pareto, è invece quello di una stravagante filosofia, fondata su una logica impossibile, che vuole trattare i filtri che sono atti spirituali come cose esterne, e vuole afferrarli come tali, e classificarli, e notare tra essi rapporti,  uniformità o leggi, e stare paga a ciò come a vera scienza. La conseguenza è che il Pareto non esegue niente di quanto egli si propone e che è,ineseguibile; e, con fatica immane, mette capo ad alcune concezioni che sono tutt'insieme confuse o indeterminate, indimostrate e, in quanto hanno un senso, ovvie, cioè attribuite al pensiero comune». B. Croce,  Vilfredo Pareto. Trattato di sociologia generale, seconda edizione, in “La Critica Letteraria”, 22, 1924, pp. 172-173.

    [25] R. Boudon, Pareto, in “Dictionnaire critique de la sociologie, Presses Universitaires de France, Paris, 1982, pp. 440-448.

    [26] R. Boudon, ivi, p. 447.

    [27] R. Boudon, ivi, p. 447.

    [28] F. Ferrarotti, Pareto. Una antologia, Mondadori, Milano, 1973, p. 33.

    [29] Sulla recensione di Papini al Trattato e sulla definizione di “ateo di tutte le religioni”, definizione molto amata da Pareto, si veda. V. Pareto, Lettre set correspondances, Droz, Paris, 1989, pp. 565-631; G. Manca ( a cura di), Vilfredo Pareto. L’uomo e lo scienziato, Scheiwiller,  Milano, 2002, p. 382.

    [30] È contenuta in un saggio nel “Resto del Carlino” del 21 gennaio 1917, successivamente ripubblicato nella rivista La Libertà Economica il 31 gennaio del 1917, la definizione di Papini: «il carattere fondamentale del pensiero paretiano è di essere non religioso. Badiamo: non religioso e non già antireligioso. […] Il Pareto, quasi solo nell’Europa moderna, non appartiene a nessuna delle relgioni, né alle vecchie né alle nuove. Egli è l’Ateo perfetto. […] Il Pareto è non religioso rispetto a tutte le relgioni ma non è anti-religioso rispetto a nessuna religione».

    [31] V. Pareto, Lettera a Luigi Sfriso, 2 maggio 1917, in ; G. Manca ( a cura di), Vilfredo Pareto. L’uomo e lo scienziato, Scheiwiller- Banca Popolare di Sondrio,  Milano, 2002, p. 389.

    [32] In cui leggere ancora serviva.

    [33] V. Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale, in M.C. Federici, R. Federici, Ciak si gira. Appunti per una sociologia dello spettacolo, Morlacchi, Perugia, pp. 115-271.

    [34] J. Burnham, I difensori della libertà, Mondadori, Milano, 1947.

    [35]  A. Cappa, Vilfredo Pareto,  Piero Gobetti Editore, Torino, 1923, p. 13.

    [36] Manon Micheles diplomata in belle arti, sposò Mario Einaudi, figlio dell'economista e futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che finirà alla Cornell University negli Stati Uniti, dove ricoprirà le cariche di professore di Teoria politica e diritto costituzionale comparato. 

    [37] M. Michels, Pareto as I knew him, in “The Atlantic Monthly”, 156, 3, pp. 336-346.

    [38] V. Pareto, Lettera a Robert Michels, 20 maggio 1917, Fondo Vilfredo Pareto, Banca Popolare di Sondrio.

    [39] V. Pareto, Lettera a Robert Michels, 29 giugno 1917, Fondo Vilfredo Pareto, Banca Popolare di Sondrio.

    [40] G. Busino, Vilfredo Pareto et le Canton de Vaud, in « Revue Européeen de Sciences Sociales », XLVIII, p. 113.

    [41] G. Busino, opera citata, p. 124.



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