• Home
  • Revue M@gm@
  • Cahiers M@gm@
  • Portail Analyse Qualitative
  • Forum Analyse Qualitative
  • Advertising
  • Accès Réservé


  • Lo sguardo del sociologo abbraccia per com-prendere
    Studiosi italiani ricordano cent'anni dalla pubblicazione del Trattato di Sociologia Generale di Vilfredo Pareto
    Maria Caterina Federici (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.1 Janvier-Avril 2017





    UN FINALE A SORPRESA: ROMA, L’OCCIDENTE E LA GABBIA BIZANTINA

    Emanuela Susca

    emanuela.susca@uniurb.it
    Ricercatrice di Sociologia generale nell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo.


    Vilfredo Pareto - Biblioteca Civica Paolo e Paola Maria Arcari, Fondo Paolo Arcari (Tirano)

    Introduzione

     

    Questo contributo vuole essere una rilettura teorico-analitica indirizzata principalmente agli ultimi paragrafi del Trattato di sociologia generale. Nelle pagine che seguono, quindi, proporremo dapprima una breve sintesi del capitolo XIII – da Pareto intitolato L’equilibrio sociale nella storia – e ci concentreremo poi principalmente sulle sezioni conclusive e dedicate a una lunga vicenda tante volte rivisitata da storici e letterati: la vita e la caduta dell’Impero romano nelle sue due ramificazioni, quella occidentale e quella orientale.

     

    Si avrà così modo di mettere in rilievo come la lettura operata dal grande sociologo non solo offra un punto di vista originale rispetto a molta della letteratura esistente, ma presenti anche significative differenze rispetto agli schemi interpretativi fatti valere in generale nel Trattato. Infatti, sia la parabola dell’antica Roma sia – e ancor di più – quella di Bisanzio vengono da Pareto ripercorse sulla scorta di una contrapposizione radicale tra Occidente e Oriente che è poco o per nulla presente nelle altre pagine paretiane, così come praticamente assente vi è anche la profezia finale sull’imminente avvento di un’«organizzazione» di tipo bizantino nei Paesi economicamente e socialmente più avanzati.

     

    Infine, concludono l’intervento alcune osservazioni sull’attuale e perdurante vitalità del dibattito che circonda Bisanzio/Costantinopoli/Istanbul, multiforme città-simbolo che è stata ed è oggetto di trasfigurazioni positive o più spesso negative e che – come mostra esemplarmente il discorso paretiano – rinvia in modo diretto alla nostra realtà e auto-rappresentazione di europei e “occidentali”.

     

    Dall’antica Grecia all’Impero romano

     

    Il capitolo che conclude il monumentale capolavoro paretiano si apre con il paragrafo 2412 e con alcune considerazioni generali sui residui e, in particolare, sulla proporzione tra istinto delle combinazioni e persistenza degli aggregati in vista dell’utilità e prosperità generali. Il discorso si concentra però subito su una rivisitazione dell’antica Grecia intesa come «laboratorio di esperienze sociali e politiche» (Pareto 1988, § 2429).

     

    Siamo così messi davanti a quella contrapposizione tra Atene e Sparta di cui l’autore evidentemente si serve anche per mostrare come una classe eletta dovrebbe sapersi guardare da due opposti eccessi per reggere con successo l’intera società. Se «Sparta non accoglieva le innovazioni, perché troppo potenti erano in essa i residui della classe II» e «Atene le accoglieva subito, ma non sapeva trarne l’utile che comportavano, per via della potenza in essa dei residui della classe I» (ivi, § 2419), è insomma evidente che modelli e antecedenti vadano ricercati altrove: nella breve e significativa vicenda di Tebe (ivi, §§ 2430-2439), nei successi della Macedonia (ivi, §§ 2440-2443) e soprattutto nell’antica Roma, già altrove elogiata per la capacità di attraversare rinnovamenti anche significativi evitando traumi e caos (ivi, §§ 238-243) e ora nuovamente evocata per l’avere saputo incarnare, quanto meno nei propri momenti migliori, una giusta e possibile via di mezzo tra conservazione gelosa e rivoluzione perenne (ivi, § 2428).

     

    Prima però di soffermarsi ancora e per l’ultima volta su Roma, Pareto decide di spaziare nel tempo e nei luoghi e, dando in vero l’impressione di una trattazione poco ordinata, affronta alcuni ulteriori argomenti. In primo luogo, volge lo sguardo al passato recente e al proprio presente per evidenziare la similitudine che vede legare la coppia di opposti Atene/Sparta e l’odierno binomio Francia/Germania (ivi, §§ 2444-2476). Già nemiche almeno dai tempi delle guerre napoleoniche, le due potenze che si avviano a contrapporsi mortalmente nel conflitto mondiale sono così descritte la prima come una nazione irrequieta e guidata da un’élite incline all’ideologia e alla demagogia e la seconda come una comunità guidata da uomini saggi e, sul modello di Bismarck, capaci di fare affidamento tanto sulla forza della tradizione quanto su quella delle armi.

     

    Sono poi passati in rassegna i «mezzi» di cui una classe governante può avvalersi per «eliminare gli individui aventi qualità superiori e tali da poter nuocere al [proprio] dominio» (ivi, § 2477): «la morte» inflitta agli avversari (ivi, § 2478); «le persecuzioni che non giungono sino alla pena capitale» (ivi, §§ 2479-2480); «l’esilio, l’ostracismo» (ivi, § 2481); «il chiamare a fare parte della classe governante (…) ogni individuo che ad essa potrebbe riuscire pericoloso», ovvero la cooptazione (ivi, §§ 2482-2487).

     

    Ancora successivamente, sono poi affastellati e offerti al lettore esempi di circolazione delle élites in cui l’antica Grecia è citata fianco a fianco con la storia di Venezia e con vicende tra loro disparate come quelle della crociata contro gli Albigesi e degli scontri intestini che dividevano l’Italia ai tempi di Machiavelli (ivi, §§ 2485-2538).

     

    La lettura del capitolo continua mostrandoci un Pareto che, forse per dare una chiusura più organica e ordinata al proprio capolavoro, affronta finalmente la dibattuta questione del consolidamento e del declino dell’Impero romano e per tale via rinviene analogie con la parabola dei sistemi sociali e politici occidentali. Per «comodo di esposizione» (ivi, § 2547), egli compie una partizione delle vicende in quattro fasi:

    1) Dal tempo della seconda guerra punica, vinta da Roma contro Cartagine (218 a.C. – 202 a.C.), sino alla fine della Repubblica (27 a.C.). È questa l’epoca ascendente in cui «la potenza politica, militare e finanziaria di Roma va crescendo» e «la libertà economica è notevole» (ivi, § 2548).

    2) Dal principato di Augusto al momento in cui inizia la cosiddetta “dinastia” degli antonini (27 a.C. – 96 d.C.). Stando a Pareto, «siamo sempre vicini al massimo» di prosperità e dinamismo che caratterizzava il periodo precedente, ma si cominciano a scorgere i primi segnali di «decadenza» e di una «tendenza alla cristallizzazione» che sembra avere due facce (ivi, § 2549): da un lato, una propensione alla burocratizzazione tale per cui «la classe governante diventa un ceto di impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente»; dall’altro, un mutamento nell’«origine etnica» dell’élite su cui diamo la parola al sociologo:

     

    «L’invasione, già principiata sul finire della repubblica, di elementi forestieri, non solo nella cittadinanza ma anche nella classe eletta, cresce d’intensità ed impoverisce ognor più dell’antico sangue romano od anche solo italiano il popolo che seguita a dirsi romano ed i suoi capi. Questi forestieri recano in gran copia residui della classe II. Nasce la pianticella che frondeggierà poscia coll’invasione delle religioni orientali, il culto di Mitra, il trionfo del cristianesimo» (ivi, § 2549).

     

    Il discorso si farà più esplicito nei paragrafi successivi, ma è già possibile vedere come nello schema della circolazione delle classi elette intervenga una contrapposizione razziale-culturale: l’Occidente romano e italiano, evidentemente identificato con il paganesimo tollerante e l’ingegno della prima classe residuale, versus un Oriente superstizioso e arretrato.

     

    3) Dal tempo degli antonini all’uccisione di Gallieno (96 d.C. – 268 d.C.). È la stagione del declino rovinoso e di una «cristallizzazione» irreversibile a cui sembrano mettere provvidenzialmente fine le invasioni barbariche (ivi, § 2551). Senza diffondersi nel racconto dettagliato dei vari momenti o tanto meno dei successivi particolari relativi alla fase degli imperatori illirici (268 d.C. – 284 d.C.) o a Diocleziano e alla tetrarchia (285 d.C. – 305 d.C.), Pareto prosegue sia con la descrizione di un irrigidimento economico che spegne la libertà di intraprendere e porta la società romana a somigliare a «una società di caste» e corporazioni chiuse sia, e soprattutto, con una narrazione dove è decisivo il fattore etnico e razziale. È questo il punto di vista che lo porta non solo a rimarcare la massiccia presenza di «elementi forestieri» (non romani né italiani) nelle file della classe eletta e tra «gli stessi imperatori», ma anche a sottolineare come l’ascesa sociale di «orientali» e «barbari superstiziosi» peggiorasse lo stato psichico dell’élite rendendo sempre più scarso l’istinto delle combinazioni e per converso sovrabbondante la persistenza degli aggregati (ivi, § 2550).

     

    I paragrafi che stiamo esaminando ricostruiscono il clima sociale e culturale della decadenza richiamando tra gli altri Giovenale e le sue Satire. Ed è notevole come proprio l’ispirazione di Giovenale si rinnovi nel sarcasmo riservato al dilagare di costumi sempre più effeminati ed ellenizzati e a un Oriente visto come naturalmente incline alla mollezza e alla pederastia. Per di più, ci sono pochi dubbi sul fatto che la chiave di lettura pertinente sia qui da individuare principalmente nella dicotomia Occidente/Oriente e molto meno in quella civiltà/barbarie:

     

    «(…) da tutto l’impero, ed anche da contrade poste oltre ai confini, giungevano gli schiavi a Roma. Fra questi, coloro in cui era maggior copia di residui della classe I, ed arano specialmente greci ed orientali, facilmente acquistavano la libertà. I loro discendenti, sempre mercé la prevalenza dei residui della classe I, arricchivano, salivano nella gerarchia sociale, diventavano cavalieri e senatori. Per tal modo era eliminato il sangue latino e l’italico dalla classe governante; e questa per molti motivi, non ultimo dei quali era forse l’origine servile e la viltà asiatica, diventava ognor più aliena all’uso delle armi» (ivi, § 2599).

     

    Il dito è chiaramente puntato contro lo scadimento sociale e politico dovuto all’elemento “orientale”, “greco” o “asiatico” che esso fosse. Sensibilmente diverso è invece il giudizio sui barbari intesi come i feroci guerrieri – prevalentemente nordici e germanici – che saccheggiavano e invadevano i territori romani: parimenti superstiziosi e oltremodo dotati di residui della II classe, secondo Pareto essi erano uomini rozzi e caratterizzati da una sorta di sana «ignoranza» che precludeva loro l’arte del governo e li rendeva inconsapevoli artefici della benefica rottura di una «macchina» ormai prossima alla paralisi come quella imperiale (ivi, § 2551).

     

    4) La quarta e ultima fase individuata è quella dell’esistenza dell’Impero bizantino, ovvero di quella parte orientale dell’Impero sopravvissuta per secoli alla capitolazione di Roma e complessivamente meno colpita dalle incursioni delle popolazioni esterne e che però, stando alla chiusura del Trattato, proprio per questo era stata condannata a sopravvivere in quello «stato irrigidito» già «spezzato» a Occidente dai barbari e a patire «gli effetti dell’organizzazione spinta all’estremo» (ivi, § 2610).

     

    La parabola di Costantinopoli

     

    Considerato che Costantinopoli fu fondata nel 330 e cadde conquistata dai Turchi Ottomani nel 1453, il Trattato condensa nei pochi paragrafi finali una vicenda più che millenaria. E lo fa dando disinvoltamente spazio a due aneddoti: il primo è narrato dallo storico Prisco di Panion, membro di una delegazione inviata dall’Imperatore Teodosio II presso la corte di Attila e testimone delle parole con cui un ex prigioniero greco elogiava la moderazione del potere presso gli Unni paragonandola all’arbitrio e alle inique pretese fiscali vigenti nell’Impero d’Oriente (ivi, §2610). Il secondo aneddoto riguarda invece tale Chila, già «lenone» di professione e lanciatosi poi in una fortunata quanto disdicevole carriera militare a coronamento della quale ottenne il comando dei Marcomanni direttamente dalle mani dell’imperatore. E il commento di Pareto assume la vicenda a riprova di quanto misera e pericolosa possa essere la degenerazione burocratica:

     

    Con simili modi di costituire la classe governante si capisce agevolmente come, poco alla volta, furono perdute le province dell’impero, ed infine la stessa capitale. Occorre notare che il fenomeno non è speciale della burocrazia bizantina; esso è generale, ed appare quasi sempre nell’età senile delle burocrazie. Si osservò e si osserva in Cina, in Russia ed in altri paesi: l’ordinamento sociale, per tal modo, principia col recare prosperità e finisce col procacciare rovina (ivi, § 2611).

     

    Il punto è evidentemente centrale per Pareto, che non solo vi ritorna con un’aggiunta al paragrafo (composta a conflitto mondiale iniziato) che descrive la «burocrazia russa» come un regime mancante di meritocrazia e perciò inevitabilmente impreparato alla guerra cominciata nel 1914 (ivi, § 2611 nota 2), ma qualche pagina prima osserva come la burocrazia senescente sia poco patriottica e ancor meno incline all’uso della forza armata contro i nemici:

     

    «Gli europei contemporanei che vanno sognando “la pace mercé il diritto”, che fantasticano di uno stato sociale in cui «civiltà, giustizia, diritto» assicureranno le nazioni dall’oppressione altrui, senza che ad esse occorra difendere la propria indipendenza colle armi, possono trovare, nella storia della decadenza dell’impero romano, specialmente in quella dell’impero d’Oriente, e nella cinese, non pochi indizi per conoscere come sarà realmente lo stato al quale vogliono avviare le loro nazioni» (ivi, § 2550 nota 2).

     

    Possiamo così cominciare a tirare le fila del discorso. Pareto aveva già affrontato nel Cours il tema del declino della potenza romana indicandone le ragioni nella «cattiva organizzazione economica dell’impero», nella «distruzione sistematica dei capitali mobiliari» (dirottati verso spese voluttuarie e sottratti all’investimento nella produzione) e, più ingenerale, in un eccesso di misure protezionistiche e di controllo dirigistico sull’economia da parte degli apparati governativi (Pareto 1987a, § 802). Ora, nel finale del Trattato, allargando le considerazioni alla parabola di Costantinopoli, guarda in modo autocritico a quell’analisi passata e che gli appare ormai scritta da uno studioso troppo concentrato sull’economia e da un intellettuale pervaso dal desiderio di predicare il credo del libero mercato e del libero scambio (Pareto 1988, § 2610 nota 1).

     

    Nell’ottica paretiana della maturità, dunque, la prospettiva va allargata al complesso della materia sociale e, nello specifico, i fattori decisivi nella parabola dell’Impero romano d’Oriente vanno individuati nell’arroccamento e cristallizzazione di una società chiusa, longeva perché relativamente sottratta alle scorribande barbariche ma funestata da un’asfissiante centralizzazione e da un ipertrofico apparato statale che taglieggia i cittadini con una tassazione esagerata e al contempo premia servilismo e immoralità cooptando nella cerchia del potere gli elementi peggiori.

     

    L’evidente polemica anti-burocratica e anti-statalista, inoltre, si fonde con un’analisi che rinviene i germi della degenerazione sociale, politica ed economica in un elemento orientale variamente inteso: la Bisanzio che di Roma sembra rappresentare al tempo stesso la caricatura e il lato oscuro, ma anche la Grecia, la Russia e la lontana Cina.

     

    Infine, non ci sono dubbi sul fatto che Pareto percepisca e presenti il proprio discorso come attuale per le sue implicazioni se non addirittura urgente. Lo mostrano già chiaramente le riflessioni appena viste in cui, a guerra mondiale imminente o addirittura cominciata, mette in guardia i propri contemporanei dal lasciarsi contagiare dalla mentalità burocratica e quindi dalla fiducia in quello che oggi chiamiamo “pacifismo giuridico”. E lo rende ancora più evidente la chiusura del Trattato, eloquente nel riassumere i capi della requisitoria paretiana ma in verità criptica nel chiarirne i bersagli polemici:

     

    «(…) quando, circa un secolo fa, si era nel periodo ascendente della libertà, biasimavansi gli ordinamenti irrigiditi e restrittivi dell’impero bizantino; ora che siamo nel periodo discendente della libertà, ascendente dell’organizzazione, tali ordinamenti si ammirano e si lodano, e si proclama che i popoli europei debbono riconoscenza grande all’impero bizantino per averli salvati dall’invasione musulmana, dimenticando che i forti guerrieri dell’Europa occidentale seppero da soli più e più volte vincere e scacciare arabi e turchi, e che, prima dei popoli asiatici, si fecero molto agevolmente padroni di Costantinopoli. Bisanzio ci mostra sin dove può giungere la curva che stanno ora percorrendo le nostre società; chi ammira questo futuro è necessariamente tratto ad ammirare pure quel passato, e viceversa» (ivi, § 2612).

     

    Ricapitolando, in queste parole conclusive del Trattato sono presenti sia la polemica contro l’«organizzazione», e dunque contro statalismo e dirigismo, sia la dicotomia Occidente/Oriente che carica il secondo termine di significati univocamente negativi. Ma c’è di più. Accennando ai «guerrieri dell’Europa occidentale» divenuti senza alcuna difficoltà «padroni» della capitale del Bosforo, Pareto evoca un capitolo drammatico nei rapporti interni alla cristianità e nel processo di costruzione dell’identità occidentale: la IV crociata, indetta nel 1202 da papa Innocenzo III come lotta antiturca per liberare Gerusalemme e divenuta in realtà una campagna militare contro l’Impero bizantino culminata nelle atroci violenze del sacco di Costantinopoli del 1204.

     

    A ben vedere, però, nel discorso paretiano Bisanzio non è solo l’altro da noi, ma anche il possibile destino di decadenza incombente sulle società occidentali e fatto di stagnazione economica, perdita della capacità di innovazione e dell’energia morale e sclerosi burocratica che attanaglia sia gli ordinamenti sia la tempra degli uomini.

     

    Cultura illuministica, critica dello statalismo e aporie della modernità

     

    Non è invece facile capire esattamente chi siano gli estimatori di Bisanzio presi di mira nel finale del Trattato. È plausibile che Pareto non conoscesse nel dettaglio la storiografia e la letteratura pro-bizantine da cui prendeva le distanze, ma volesse invece andare complessivamente controcorrente rispetto a un certo clima culturale e politico a sé contemporaneo e in cui la memoria e trasfigurazione dell’Impero romano d’Oriente rivestivano un ruolo non secondario.

     

    Basti pensare alla Francia, dove gli studi bizantini erano popolari ben oltre la cerchia degli specialisti e l’interesse diffuso non esprimeva solo un gusto per l’esotismo, ma anche una simpatia politica sia verso Costantinopoli (fondata come Seconda Roma) sia verso Mosca, capitale che molti ormai consideravano una Terza Roma e in cui, già a partire dalla guerra di Crimea di metà ‘800, il potere zarista amava ergersi a difensore della cristianità contro la minaccia turca (Ronchey 2002, p. 162). Né va dimenticato come la moda avesse contagiato l’Italia, dove il mito di Bisanzio, pur assumendo forse una valenza meno politica, era coltivato da scrittori tra loro così diversi come De Amicis, che a quella meta dedica un fortunato libro di viaggio (De Amicis 2007), e D’Annunzio, che vi ravvisa il simbolo del raffinato estetismo e della torbida lussuria (Bernabò 2003; Caliaro 2004).

     

    È contro questo invaghimento fin-de-siècle e primonovecentesco che Pareto reagisce. E lo fa riappropriandosi della lettura di Bisanzio operata dal ‘700 e dalla cultura illuministica, troppo ostile all’assolutismo e al cristianesimo per poter apprezzare un Impero e per di più una storica roccaforte della cristianità. Né questo ritorno deve stupire in un autore impegnato nel «tentativo gnoseologico» di analizzare i meccanismi della superstizione (Federici 2016, p. 39) e dunque affine al Voltaire che detesta il «barbaro ed effeminato Costantino» e ancor più al Montesquieu, che nelle Considérations sur les causes de la grandeur descrive Bisanzio come un ignobile «tessuto di rivolte, sommosse e infamie varie» e l’Impero d’Oriente come un «continuo precipitare» durato secoli (Ronchey 2002, p. 154).

     

    Vale però la pena rilevare come la sezione conclusiva che stiamo esaminando introduca riflessioni ed elementi inediti o persino sorprendenti rispetto al resto del corposo svolgimento. E ciò in primo luogo per via della distanza tra questa cupa diagnosi finale e il ritratto complessivo precedentemente composto dell’Occidente economicamente avanzato. Nel resto del Trattato, infatti, le plutocrazie (siano esse «demagogiche» come Francia, Italia o USA oppure «militari» come Germania e Austria) appaiono come forme di società caratterizzate da una buona dose di dinamismo e tutto sommato tendenti alla meritocrazia, dato che – accanto al tutt’altro che raro caso dell’ascesa sociale di faccendieri, tribuni e truffatori abili nel «gabbare i buoni produttori di risparmio» – la norma sembra comunque prevedere che ricchezza e onori vadano a coloro che eccellono per «l’ingegno nelle arti, nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio, nel costituire imprese finanziarie» (Pareto 1988, § 2300). E, in ogni modo, la tendenza generale disegnata è quella di una classe eletta che non è pietrificata da un eccesso di persistenza degli aggregati ma diviene invece sempre più astuta, cinica e spregiudicata in conseguenza di un proliferare incontrastato dell’istinto delle combinazioni.

     

    Nel finale del Trattato, all’opposto, le società più avanzate – quelle a cui la «libertà» economica e sociale aveva garantito benessere e progresso nel XIX secolo – paiono sul punto di entrare in un’epoca di «cristallizzazione» che le condurrà a rovina ma che pure è salutata con favore generalizzato dalle élites e dalle masse perché sembrerebbe garantire, almeno in un primo momento, una prosperità ancora maggiore (ivi, § 2552).

     

    Non è allora fuorviante tracciare una linea di continuità tra questa polemica di stampo liberale e liberista e la vibrante requisitoria contro il socialismo di stato che troviamo affidata anni prima ai Sistemi socialisti. Presentando anche in quel caso il declino dell’Impero romano come un precedente e un monito, Pareto puntava il dito contro il «dispotismo orientale» che riteneva si fosse diffuso «soprattutto a partire dal tempo di Diocleziano» portando al «governo assoluto», alla «perdita della libertà», all’«ammollimento dei caratteri» e allo spegnersi delle «qualità virili e rudemente energiche, che avevano fatto la forza e la grandezza dell’antica aristocrazia romana» (Pareto 1987b, p. 259). E istituiva un parallelo con le politiche che vedeva prevalere in ambito europeo (appunto il cosiddetto “socialismo di stato”) e che gli sembravano insopportabili ingerenze nella sfera economica:

     

    Il socialismo di stato attuale avvia le nostre società verso una situazione analoga, cercando di rovinare i capitalisti, a mezzo dell’imposta progressiva o altre misure simili, e di fare scomparire gli imprenditori, a mezzo di scioperi e di innumerevoli misure vessatorie, che limitano la libertà dell’industria e del commercio e ne accrescono gli oneri (ivi, p. 261).

     

    Tornando però allo svolgimento complessivo del Trattato, è innegabile che la battaglia in favore del libero mercato e della libertà in sé vi appare largamente attenuata, così come assai più articolata e problematica vi si mostra la visione degli imprenditori capitalistici, cui è certo ascritto il merito di essere elementi indispensabili alla crescita economica ma che rappresentano comunque soggetti assai prossimi a quegli «speculatori» che sono oggetto di un ritratto fatto di luci e ombre.

     

    Ma vi è anche un’altra ragione per cui si può affermare che il finale del Trattato offre elementi non privi di originalità o addirittura sorprendenti. Parlando di società occidentali avviate a percorrere la parabola dell’«organizzazione» e ad essere rette (sul modello bizantino, russo o cinese) da una «classe di impiegati» priva di idealità, slancio creativo ed «energia guerriera» (Pareto 1988, § 2586), Pareto sembra infatti contraddire almeno in parte la propria immagine di teorico della potenza ed efficacia dell’irrazionale e preconizzare invece una tendenza alla burocratizzazione che è inevitabilmente anche una tendenza alla razionalizzazione.

     

    D’altra parte, il grande sociologo è già stato autorevolmente letto come una figura capace di cogliere sia il nesso inscindibile tra modernità e razionalità sia le aporie della moderna ragione (Maniscalco 1994). E anche per questa affinità di temi e ispirazioni ci sembra pertinente accostare non tanto e genericamente l’opera paretiana a quella weberiana (operazione già per altro più volte effettuata), ma più puntualmente i paragrafi conclusivi che stiamo analizzando all’arcinota immagine della «gabbia d’acciaio». Weber la preconizza come distopia e possibile destino dell’umanità occidentale – inaridita e spenta nella tensione vitale e morale dalla ragione strumentale e calcolante – e, richiamando lo stesso elemento orientale che abbiamo visto ben presente nel finale paretiano, mette in guardia contro il pericolo che una «pietrificazione cinese» deprima le qualità degli uomini e del vivere sociale (Weber 2002, p. 185).

     

    Se altri hanno già parlato per la chiusura del Trattato di un «tono profetico weberiano» (Bach 1994, p. 129), il titolo della nostra ricognizione fa allora riferimento a una “gabbia bizantina” proprio per sottolineare una prossimità che ci pare notevole e significativa tra la celebre metafora presente in Weber e divenuta ormai luogo comune e classico della letteratura sociologica e la Bisanzio paretiana soffocata dai propri «ordinamenti irrigiditi e restrittivi» (Pareto 1988, § 2612), rappresentazione certo meno nota e forse meno suggestiva ma che ha il pregio di riferirsi a un soggetto storico e culturale ancora vivo, dibattuto e a noi vicino.

     

    Conclusioni

     

    Esula ovviamente i limiti della nostra ricognizione parlare di ciò che la realtà e il mito di Bisanzio hanno rappresentato nella storia delle idee passata o recente. Avviandoci a conclusione, però, vogliamo accennare al fatto che l’immagine negativa tratteggiata dall’illuminismo e ripresa nel finale dell’opera paretiana non è certo un caso isolato. Infatti, il Montesquieu sulla cui scia Pareto evidentemente si pone ha esercitato un’influenza notevole su Gibbon, a propria volta autore di quella fortunatissima History of Decline and Fall of the Roman Empire che resta una pietra miliare per gli studiosi e in cui Bisanzio appare come il teatro di un’agonia secolare e come misero riflesso dello splendore incarnato dall’antica Roma e dall’Ellade. E anche l’800, in cui pure si è operata la rivalutazione contro cui il Trattato prende posizione, ha visto tutto sommato prevalere una visione tutt’altro che positiva e che separava radicalmente Roma e Bisanzio facendo della prima una parte fondamentale della storia occidentale e della seconda un elemento estraneo alla civiltà propriamente detta.

     

    D’altra parte, anche durante il XX secolo lo stereotipo anti-bizantino si rivela estremamente vitale. Decisive sono in questo senso la guerra fredda e più in generale la battaglia politica e culturale contro i regimi comunisti, che conduce per un verso a identificare l’Europa occidentale come l’Europa tout court valorizzandone esclusivamente la tradizione romano-germanica a scapito delle altre e per l’altro a scorgere in Bisanzio l’incarnazione del “dispotismo orientale”, ovvero di un potere assoluto che congiunge modello di produzione asiatica e negazione delle libertà individuali (Garzia-Ravelli-Gadotti 2009).

     

    Va però detto che, contro la persistenza del pregiudizio negativo, si sono alzate voci di intellettuali che non a torto hanno parlato e parlano di un’amputazione del patrimonio culturale europeo e della necessità di rivoluzionare la nostra intera mappa concettuale. Esemplari e pionieristiche sono in questo contesto le parole di Asimov, noto scrittore di fantascienza e anche autore nel 1970 di Constantinople: the forgotten Empire:

     

    «Quando pensiamo al Medioevo, siamo soliti pensare alla caduta dell’Impero Romano e alla vittoria dei barbari. Pensiamo alla decadenza del sapere, all’avvento del feudalesimo e a lotte micragnose. Le cose non andarono così in realtà, senza dubbio, perché l’Impero Romano nella realtà non cadde. Si mantenne durante il Medioevo. Né l’Europa né l’America sarebbero come sono oggi se l’Impero Romano non fosse continuato nella sua esistenza per molti anni dopo la sua presunta caduta» (cit. in Carile 2005).

     

    Gli ultimi decenni sono insomma stati anche un’epoca di rivisitazione e valorizzazione di quanto rischiava di andare perduto. L’ambigua immagine di Bisanzio è stata così sottratta, almeno in parte e nell’ambito degli addetti, a quella sorta di damnatio memoriae che l’aveva relegata ai confini della civiltà pienamente intesa e in sostanza espunta dalla storia europea (Carile 2005). E, in questo quadro di critica e superamento dei consueti paradigmi occidentalistici, si è posto in luce come lo stesso termine “bizantino” sia una «designazione storica impropria» e chiaramente ideologica (Carile 1994, p. 231), dal momento che punta l’attenzione su Bisanzio – luogo secondario e caduto sotto l’influenza romana – e non sulla grande Costantinopoli imperiale rifondata su quell’insediamento arcaico per essere a tutti gli effetti capitale quanto la stessa Roma.

     

    Un rapido sguardo all’oggi può infine suggerirci almeno alcune delle ragioni che ancora fanno di Bisanzio un mito per così dire politicamente sensibile e dalle molte facce: sfida interpretativa, simbolo, luogo di ibridazione e confine, terreno di disputa e anche oggetto di rimozione. Se infatti pensiamo all’indiscutibile leadership tedesca nell’Unione europea, è più che verosimile ritenere che prosegua la sottovalutazione del ruolo svolto dalla civiltà bizantina nella continuità dell’Impero romano e, parallelamente, si continuino a enfatizzare esclusivamente l’apporto del Sacro Romano Impero e dei ceti dirigenti germanici alla costruzione dell’Europa e della cosiddetta “società occidentale”.

     

    Né va dimenticata la posizione tutta particolare che rispetto all’Europa stessa assume l’attuale Turchia, partner privilegiato ma anche potenza regionale che molti europei continuano a sentire come spuria se non inguaribilmente “orientale”. Se il cosmopolitismo della città del Bosforo è spesso citato da chi vuole sottolineare una profonda affinità culturale tra noi e loro, è però anche innegabile che l’attuale Istanbul non può essere l’immaginaria Bisanzio-Costantinopoli ed è invece oggi la meta di una massiccia migrazione interna dalle aree rurali che l’ha resa una popolosa città poco multiculturale e dove si conta ormai una percentuale minima di «abitanti non turco-musulmani» (Cardini 2014, pp. 237-243).

     

    Su di un versante diverso eppure connesso, si può qui solo accennare al tema dei rapporti con il mondo ortodosso, che registrano la crescente centralità del Patriarcato di Costantinopoli e però anche il profilarsi di tensioni tra la cristianità intesa nel suo complesso e il potere politico turco così come è ormai da tempo concentrato nella figura di Erdogan. E che dire dell’attuale ruolo di Mosca, la cosiddetta “Terza Roma” dove pure è forte la presenza ortodossa? In effetti, la Russia di Putin si mostra particolarmente attiva nella rivisitazione e divulgazione della storia bizantina e, a ben guardare, è più che lecito supporre che questo impegno sia anche un tentativo politico di ridisegnare i rapporti con l’Europa spostandone il baricentro culturale e ideale verso Est.

     

    In definitiva, la vicenda della nostra relazione con Bisanzio è ancora aperta e tocca al cuore quel binomio Oriente/Occidente che alcune tra le figure più lucide e avanzate presentano oramai come costruzione immaginaria (Hentsch 1988) o come una frattura arbitraria perché connessa a una maniera di pensare e organizzare il mondo per opposizioni binarie (Cardini 2003; Corm 2003).

     

    Lungi dallo sfuggire a quell’opposizione prendendo le distanze dall’etnocentrismo, come pure sa fare altrove e anche in altri passaggi del Trattato (Susca 2014), il “nostro” Pareto sceglie di concludere il suo capolavoro di teoria sociale riproponendo quelli che possiamo definire come due “cavalli di battaglia” sia del liberalismo sia dell’illuminismo: la critica allo statalismo e la riaffermazione dell’identità occidentale. Ma anche così egli si conferma un grande classico, sorprendentemente vicino alla nostra auto-rappresentazione e a uno stato d’animo oggi diffuso in cui si mescolano l’insofferenza per la sudditanza a un potere che si fa sempre più lontano e anonimo e l’apprensione verso minacce terroristiche che incombono dall’esterno e che – quasi per un ironico ritorno ciclico nella storia e nell’immaginario – evocano ancora una volta il pericolo proveniente dall’elemento orientale-islamico e personificato ora dal migrante ostile ora dal militante del Califfato.

     

    Riferimenti Bibliografici

     

    Bach M. 1994, Un modello di mercato della storia sociale? Sull’equilibrio della storia in Vilfredo Pareto, in E. Rutigliano (a cura di), La ragione e i sentimenti. Vilfredo Pareto e la sociologia, FrancoAngeli, Milano.

    Bernabò M. 2003, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D’Annunzio, fascismo e dopoguerra, Liguori, Napoli.

    Caliaro I. 2004, Da Bisanzio a Roma. Studi su Gabriele D’Annunzio, Fiorini, Verona.

    Cardini F. 2003, Introduzione a G. Corm, Oriente Occidente, cit., pp. 5-20.

    Cardini F. 2014, Istanbul. Seduttrice, conquistatrice, sovrana, Il Mulino, Bologna.

    Carile A. 1994, Costantinopoli Nuova Roma, in F. Cardini (a cura di), La città e il sacro, Garzanti-Scheiwiller per Credito Italiano, Milano, pp. 203-242.

    Carile A. 2005, Bisanzio e l’Europa. Lezione per l’inaugurazione dell’anno accademico 2004-2005 (6 novembre 2004), Clueb, Bologna.

    Corm G. 2003, Oriente Occidente. Il mito di una frattura, Introduzione di F. Cardini, Vallecchi, Firenze.

    De Amicis E. 2007, Costantinopoli, introduzione di U. Eco, Einaudi, Torino.

    Federici M.C. 2016, L’immaginazione sentimentale ovvero dell’istinto delle combinazioni, introduzione a V. Pareto, L’immaginazione sentimentale. Residui del Trattato di sociologia, Mimesis, Milano-Udine.

    Garzia M.B.C.-Ravelli M.-Gadotti G. 2009, Bisanzio, il dispotismo orientale e i valori dell’Europa, omaggio a Franco Demarchi, in R. Gubert (a cura di) Franco Demarchi: contributi alla sociologia, Valentina Trentini, Trento, pp. 203-218.

    Hentsch Th. 1988, L’orient imaginaire. La vision politique occidentale de l’Est méditerranéen, Minuit, Paris.

    Maniscalco M.L. 1994, La sociologia di Vilfredo Pareto e il senso della modernità, FrancoAngeli, Milano.

    Pareto V. 1987a, Corso di economia politica, a cura di G. Palomba, Utet, Torino.

    Pareto V. 1987b, I sistemi socialisti, a cura di G. Busino, Utet, Torino.

    Pareto V. 1988, Trattato di sociologia generale, a cura di G. Busino, 4 voll., Utet, Torino.

    Ronchey S. 2002, Lo stato bizantino, Einaudi, Torino.

    Susca E. 2014, Vilfredo Pareto’s Contribution to a Sociology of Globalization, in M. Pendenza (a cura di), Classical Sociology Beyond Methodological Nationalism, Brill, Leiden, pp. 65-89.

    Weber M. 2002, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Id., Sociologia della religione. Protestantesimo e spirito del capitalismo, a cura di P. Rossi, vol. I, Comunità, Torino.

    Collection Cahiers M@GM@


    Volumes publiés

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com