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  • Lo sguardo del sociologo abbraccia per com-prendere
    Studiosi italiani ricordano cent'anni dalla pubblicazione del Trattato di Sociologia Generale di Vilfredo Pareto
    Maria Caterina Federici (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.1 Janvier-Avril 2017





    PARETO, LEOPARDI E IL PRINCIPIO DELLA SUPREMAZIA: NOTE SULLA SOCIETÀ CONTRO-BILANCIATA

    Andrea Lombardinilo

    andrea.lombardinilo@unich.it
    Ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, all’Università degli studi G. D’annunzio di Chieti-Pescara.


    Vilfredo Pareto in un disegno di Giorgio Belli (1961)


    Pareto e il residuo della forza: note sociologiche

     

    Pareto è un attento osservatore dell’evoluzione dei cambiamenti politici che caratterizzano lo scenario nazionale e internazionale (Busino, 2000). Inevitabilmente, lo scoppio della prima guerra mondiale attira l’attenzione di alcuni importanti osservatori politici, economici e sociali del tempo. Pareto è tra questi, come dimostrano i suoi saggi politici e sociologici pubblicati tra il 1914 e il 1918 (Pareto, 1966), nei quali è possibile rintracciare alcune chiavi argomentative sviluppate in quello stesso periodo nel Trattato di sociologia generale, pubblicato nel 1916.

     

    Evidentemente, l’analisi sociologica della Grande Guerra non trascura l’approfondimento delle principali derivazioni che determinano i profondi contrasti alla base del conflitto. In ottemperanza al suo approccio euristico, fondato sulla volontà di rafforzare la conoscenza delle azioni logiche e non-logiche, Pareto si sofferma sul ruolo assunto da alcune specifiche derivazioni nell’ambito dei conflitti tra gli stati e i popoli, siano essi di natura economica, religiosa, culturale o geografica. I differenti nazionalismi che si affermano all’inizio del ventesimo secolo derivano dalla recrudescenza identitaria di alcune minoranze territoriali coinvolte nella lotta all’occupazione straniera, come nel caso delle guerre balcaniche. Ma anche quando Pareto si attarda su singoli eventi o aspetti contingenti del comportamento umano, sembra interessarsi maggiormente ai processi generali che influenzano le situazioni particolari (Izzo, 2005: 81-90).

     

    Ogni guerra è generata dalla pratica della forza e della supremazia, concepite come due forme di derivazione in perenne mutamento, ispirate dal bisogno di rendere logici alcuni residui tenacemente radicati nella natura sociale degli esseri umani. Di qui la possibilità di sfruttare la lezione del Trattato di sociologia generale per comprendere il ruolo fondamentale svolto dalle derivazioni alla luce della complessità internazionale della nostra modernità (Ferrarotti, 1972: 193-211):

     

    «Le derivazioni mutano forma, per adattarsi alle circostanze, fermo rimanendo lo scopo al quale devono addurre. Tra coloro i quali stimano che la società umana ha avuto origine da qualche convenzione, patto, o contratto, parecchi teorici hanno discorso come se descrivessero un fenomeno storico; cioè, uomini che ancora non vivevano in società, un bel giorno sarebbero convenuti in un luogo, ed avrebbero costituito la società; allo stesso modo che in oggi si vedono uomini adunarsi per costituire una società commerciale» (Pareto, 1916: 78).

     

    Lo sviluppo diacronico delle derivazioni, che mutano in rapporto alla forza socio-culturale dei residui collettivi, evidenzia le straordinarie capacità degli attori nel costruire le relazioni essenziali al sostenimento di qualunque forma di equilibrio sociale. Le derivazioni evolvono in rapporto alle differenti circostanze, sebbene le loro finalità rimangano immutate: ne deriva che la società non è la risultante di una convenzione né di un contratto, come Rousseau avrebbe sottolineato in riferimento all’epoca illuministica. La società non è il prodotto della convergenza tra i residui che progressivamente permeano l’agire individuale, inesorabilmente proteso verso il soddisfacimento delle istanze internazionali.

     

    Le derivazioni sono più propriamente l’espressione della tendenza ad ammantare di logicità ciò che non è di solito spiegabile in termini logici (Federici, 2016). La forza non fa eccezione, nella misura in cui essa è spesso sfruttata per giustificare le pratiche di governo e la supremazia politica. Pertanto Pareto insiste sul ruolo politico che la forza assume nello scenario internazionale del suo tempo, focalizzandosi sull’influenza esercitata da specifiche derivazioni nello sviluppo dei contrasti tra differenti ambienti sociali e culturali. La deflagrazione delle guerre è legata a doppio filo al raggiungimento di obiettivi politici ed economici, anche quando istanze ideologiche, nazionalistiche o religiose si sono poste a fondamento dei grandi conflitti bellici.

     

    La pace e la guerra sono le diverse facce della stessa medaglia: i discorsi sulla legittimazione della guerra (cari ai Futuristi) esprimono il bisogno di giustificare la prevaricazione sui diritti umani, nel nome di un apparente e intollerabile bisogno di ordine. Nell’era della società del disordine descritta da Boudon (1984), la lezione sociologica di Pareto può aiutarci a comprendere l’influenza cognitiva della dialettica tra impulsi razionali e irrazionali (Femia e Alasdair, 2016): sono questi ultimi a determinare le strutture profonde del comportamento umano, come accade in presenza di conflitti internazionali, l’esercizio della forza può configurarsi come la recrudescenza degli antichi residui di dominio, nascosti dietro il velo capzioso delle argomentazioni logiche.

     

    Anche per questo motivo Pareto rifiuta l’interpretazione delle organizzazioni sociali come sintesi delle leggi, dei comportamenti e delle convenzioni definite da un ipotetico contratto sociale. Questa interpretazione non si applica ai complessi aggregati sociali che prendono forma nel ventesimo secolo, segnato dalle conseguenze dirompenti delle due guerre mondiali; ecco la ragione per cui Pareto si sofferma sul ruolo socio-educativo assunto da Rousseau:

     

    «La teoria del Rousseau è in sostanza quella dell’Hobbes; ma, come al solito accade colle derivazioni, uno di questi autori giunge ad una conclusione opposta a quella dell’altro. Oggi è in auge la teoria del Rousseau, perché viviamo in un tempo di democrazia; domani potrebbe prevalere la teoria dell’Hobbes, se tornasse un tempo favorevole al potere assoluto; e quando venisse un tempo favorevole ad un altro ordinamento sociale qualsiasi, si farebbe presto a trovare la derivazione che, sempre muovendo dall’ipotesi del contratto sociale, giungesse a conclusioni confacenti al detto ordinamento. Il punto di partenza e il punto cui si deve giungere sono fissi, perché corrispondono a certi residui che formano la parte costante del fenomeno» (Pareto, 1916: pp. 79-80).

     

    Come attesta la lezione dei grandi pensatori, il tentativo di spiegare la formazione delle società nei diversi periodi storici può condurre a interpretazioni sociologiche anche contraddittorie. Il determinismo di Hobbes e il razionalismo di Rousseau devono essere riferiti alle rispettive fasi storiche di appartenenza, e tuttavia il loro pensiero sembra ispirarsi all’urgenza di comprendere la nascita dei residui e delle derivazioni che contribuiscono alla costruzione dell’agire sociale, ricondotto da Pareto nell’alveo del suo approccio elitista (Freund, 1974).

     

    Ma c’è di più. Rimanendo in area romantica, va rilevato che anche Leopardi, e molto prima di Pareto, recupera la lezione sociologica di Locke e Hobbes, le cui teorie politiche e civili acquistano un ruolo preminente nello sviluppo del suo machiavellismo sociale. La conoscenza dei lavori di Rousseau (Ambrus, 2012) lo proietta in una dimensione cognitiva sospinta da interessi educativi, oltre che letterari, rafforzando una volta di più il connubio tra sociologia e letteratura (Bourdieu, 1982; Adorno, 1974; Sighele, 1914).

     

    Come si vedrà in seguito, il dialogo con la modernità può essere visto come il tentativo di rafforzare il rapporto con il passato e tesaurizzare il retaggio intellettuale della civiltà occidentale (Lyotard, 1979). Sia Leopardi che Pareto conoscono l’importanza di Hobbes e Rousseau nella costruzione della moderna teoria sociale, nonostante le conclusioni differenti cui approdano, dediti come sono entrambi allo studio delle derivazioni che influenzano l’agire sociale:

     

    «Il punto di partenza e il punto cui si deve giungere sono fissi, perché corrispondono a certi residui che formano la parte costante del fenomeno; con un poco di immaginazione si trova facilmente una derivazione che unisca questi punti; se una non piace, se ne trovano altre, e purché stuzzichino certi residui esistenti negli uomini ai quali si rivolge il discorso, si può essere certi che essi le accoglieranno favorevolmente» (Pareto, 1916: 80).

     

    Come insegnano Hobbes e Machiavelli, la forza riveste un ruolo centrale nella conquista e nella conservazione del potere, legato alla pratica della supremazia. L’affidabilità delle derivazioni funzionali alla credibilità dei residui dipende dall’attendibilità dei discorsi (individuali e collettivi), mirati a persuadere sull’efficienza delle dinamiche sociali. La diatriba tra i sostenitori della guerra e i difensori della pace è alimentata da un velo di ipocrisia, che Pareto tenta di interpretare secondo il suo approccio sociologico. La comprensione di una modernità che sembra contraddire se stessa (Latour, 1991) non può trascurare la mutabilità in divenire delle derivazioni, destinate a rivestire di un’apparenza simbolica i residui atavici che regolano il mondo sociale (Susca, 2005).

     

    Questo assunto è valido anche per gli equilibri tra gli stati, caratterizzati a inizio Novecento da tensioni elevatissime: «In questo genere di derivazioni si debbono porre le teorie della pace mercé il diritto. A queste si suole obiettare che il diritto senza la forza che lo imponga poco o niente vale, e che, se si usa la forza, la guerra, cacciata da una parte, ritorna dall’altra» (Pareto, 1916: 80).

     

    Pareto rimarca scrupolosamente l’inscindibilità tra la forza e la legge, destinate ad essere sempre più intrecciate nello scenario sociale, di conseguenza respinge le obiezioni di coloro che si appellano alla legge come forma di garanzia sociale, da contrapporre come antidoto agli abusi dei governi. “Tale obiezione regge solo in parte” (Pareto, 1916 §1508, vol. II: 80), e per due buone ragioni:

     

    1) Molte norme del vivere sociale sono imposte senza che si usi la forza, e non è assurdo lo stimare che, se non tutte le norme di un certo diritto internazionale, almeno parte di queste siano imposte dall’opinione pubblica, da sentimenti esistenti negli individui; ed in realtà ciò già parzialmente accade. 2) La guerra non sparirebbe, ma diventerebbe più rara, quando una forza internazionale imponesse un certo diritto; come gli atti di violenza scemano in una società in cui la forza della pubblica podestà s’impone ai singoli individui (Pareto, 1916: 80).

     

    Le divisioni territoriali si fondano sull’esercizio della forza intesa come risorsa strategica, sfruttata anche in direzione simbolica. Il principio della legge è qualcosa di indefinito, rivendicabile grazie alle possibilità economiche: di qui le ragioni dello sforzo euristico di Pareto, supportato dalla necessità di interpretare i paradigmi comportamentali delle organizzazioni sociali (Padua, 2009). Gli stati sono sistemi geopolitici meta-temporali, soggetti al controllo di strutture governative ben definite, in grado di rafforzare – per quanto possibile – sicurezza, ordine, convivenza.

     

    Questo è ciò che la storia insegna, come Machiavelli asserisce nei suoi scritti politici, capitalizzati da Leopardi anche nei suoi pensieri sociologici. Inoltre, Pareto è strenuamente convinto che lo studio delle civiltà del passato possa aiutare lo studioso a comprendere come cambiano gli equilibri tra gli stati, nella misura in cui le derivazioni possono rinnovarsi per legittimare logicamente il residuo atavico della supremazia (Vaccarini, 2013).

     

    Non è un caso che Pareto evidenzi che la forza diminuisce quando e dove “un pubblico potere di polizia” controlla la società e può rafforzare la sua azione sui cittadini. Mutatis mutandis, il diritto della legge non è che la conseguenza del bisogno di spiegare in termini logici la natura istintiva della forza, celata sotto il velo dell’agire strategico. È una delle ragioni per cui Pareto prende le distanze dal concetto di legge come scudo logico da opporre agli ammiccamenti discorsivi della forza:

     

    «Di ben maggiore momento è l’obiezione che investe il termine di diritto, il quale, in questo caso, non corrisponde a nulla di preciso. I diversi popoli detti civili occupano territori colla forza, e non è possibile trovare alcun altro motivo per giustificare le presenti ripartizioni territoriali» (Pareto, 1916: 80).

     

    Lo scoppio della prima guerra mondiale pone in primo piano non solo l’instabilità dei rapporti tra gli stati, ma anche gli effetti delle aspirazioni di indipendenza delle minoranze nazionali, come nel caso dei paesi balcanici. Il ricorso alla forza è il solo modo per legittimare qualunque tipo di azione autoritaria, nonostante il grado di civilizzazione raggiunto dalle organizzazioni sociali. In questa prospettiva, Pareto puntualizza che gli attuali equilibri tra gli stati sono perseguiti attraverso l’autorità: “Le giustificazioni che si sono volute tentare si risolvono in sofismi spesso puerili” (Pareto, 1916: 80). Di qui la conferma del fatto che i diritti del più forte sono gli unici utili a rivendicare le ragioni della leadership, come i recenti conflitti internazionali dimostrano:

     

    «Se la Polonia fosse stata più forte della Prussia, come lo fu in tempi passati, avrebbe potuto conquistare la Prussia; essendo stata più debole della Prussia unita alla Russia ed all’Austria, fu conquistata da queste tre potenze. Se la Russia fosse stata più forte del Giappone, avrebbe conquistata la Corea; invece il Giappone se l’è fatta propria colla forza delle armi. Ciò solo è reale, il rimanente è vaniloquio» (Pareto, 1916: 80).

     

    Le tre occupazioni della Polonia da parte di Prussia, Austria e Russia (1772, 1793, 1794) appaiono emblematiche della pratica della forza (e della guerra) come strumento politico. Non fa eccezione l’annessione della Corea al Giappone del 1910 (al termine del processo di occupazione avviato nel 1905): essa inaugura la serie dei conflitti che sfociano nella prima guerra mondiale, come accaduto con le due guerre balcaniche del 1912-1913.

     

    Pareto tenta di sintetizzare questi principi nella lunga nota a piè di pagina che chiude il paragrafo 1508 del Trattato, dedicato alle condizioni fissate dal Congresso di Londra nel 1913, costituito con l’intento di stabilire vinti e vincitori delle guerre balcaniche. La nota si apre con un riferimento ironico alla Restaurazione, quando «i fedeli del dio Progresso ci volevano dare ad intendere che erano oramai trascorsi i tempi in cui, come nel 1815, i Congressi europei disponevano della sorte dei popoli» (Pareto, 1916: 80-81). Seguono alcuni versi leopardiani tratti dai Paralipomeni della Batracomiomachia, il poema satirico che vede protagonisti i topi e i granchi: i primi rappresentano i liberali italiani, i secondi alludono alle forze austro-ungariche occupanti il territorio italiano.

     

    Pareto sfrutta il sarcasmo leopardiano per criticare l’uso incondizionato della forza e per dimostrare che il destino dei popoli, dei paesi e degli stati dipende dal volere dei partiti più forti. Da questo punto di vista, la concezione sociologica paretiana non è così distante dal machiavellismo leopardiano, incentrato sulla piena consapevolezza della crudeltà e del cinismo che governano le questioni economiche e politiche. «Ciò solo è reale, il rimanente è vaniloquio».

     

    Leopardi, Pareto e la filosofia dell’utilità sociale

     

    Come già accennato, nel paragrafo 1508 del Trattato di sociologia generale Pareto è alle prese con l’analisi dello sviluppo storico delle derivazioni e in particolare si sofferma sull’equilibrio geopolitico in Europa e nel resto del mondo. Il suo obiettivo è evidenziare il fatto che «molte norme del vivere sociale sono imposte senza che si usi la forza» (Pareto, 1916: 80). Parimenti, Pareto osserva che, nonostante l’esistenza della legge, «i diversi popoli detti civili occupano territori colla forza, e non è possibile trovare alcun altro motivo per giustificare le presenti ripartizioni territoriali» (Pareto, 1916: 80).

     

    Tale asserzione è confermata dalla crisi dei Balcani del 1912-1913: in quella guerra, Austria e Italia tentarono di contrastare le mire espansionistiche di Serbia, Montenegro e Grecia. Nella lunga nota a piè di pagina che conclude il paragrafo, Pareto indugia proprio sulla situazione balcanica, con l’intento di approfondire le ragioni per cui altri paesi vollero interferire in vicende straniere. «Non c’è che un motivo che spieghi i fatti, ed è la forza» (Pareto, 1916: 81).

     

    Sarebbe questo il motivo contingente per cui Austria e Italia miravano a mantenere l’equilibrio nel mare Adriatico. E sarebbe questo il fattore sfruttato da Napoleone III per liberare l’Italia del “giogo austriaco”. A conti fatti, la guerra turco-balcanica consente al sociologo di valutare quanto sia fondamentale il ruolo che la forza assume nelle dispute tra gli Stati, animati da strategie fondate sull’espansione territoriale.

     

    Mutuando Dante, il sociologo auspica per l’Italia avere “un Possente, / Con segno di vittoria incoronato” (Inf., IV, 53-54), in grado di affrancarla dal dominio austriaco. Tuttavia, nessuno ha scoltato “il grido di dolore dei Balcani e dell’Egeo”, il cui destino fu affidato al Congresso di Londra del 1913. Pareto cita allora il Leopardi dei Paralipomeni della Batracomiomachia e, al pari del poeta, il sociologo si ispira ad un profondo scetticismo nei confronti dei principi di giustizia sociale ed equilibrio tra i popoli. Questi principi sono stati spazzati via dalla forza esercitata contro i soggetti deboli:

     

    «Il nostro Leopardi cantò, nella lingua di Dante, le eccelse gesta dei granchi austriaci intenti a mantenere “l’equilibrio” in Italia (Paralipomeni della Batracomiomachia, II, stanze 30 a 39); ed ora qualche poeta greco potrebbe cantare, nella lingua d’Omero, le non meno belle gesta dei granchi austro-italiani intenti a mantenere “l’equilibrio” dell’Adriatico e di altre regioni. […] Chi giudica i fatti coi sentimenti dell’internazionalismo o del pacifismo, dà torto a chi egli stima l’aggressore, ragione a chi egli crede l’aggredito. Chi invece vuole rimanere nel campo oggettivo vede semplicemente, nei fatti, nuovi esempi di quelle contese che sempre ci furono tra i popoli, e nei giudizi il solito modo di tradurre coll’espressione “ha ragione”, il fatto che certe cose si confanno al sentimento di chi giudica, e coll’espressione “ha torto”, il fatto che certe cose ripugnano a questo sentimento. Cioè vi sono solo residui e derivazioni» (Pareto, 1916 §1508, vol. II: 81).  

     

    Pareto si riferisce alle stanze 30-39 del secondo canto della Batracomiomachia leopardiana, in cui il generale dei granchi, Brancaforte, detta al Conte liberale Leccafondi (messaggero dei topi sconfitti), le dure condizioni per la pace. Il topo immagina che, per aver sostenuto le rane, quelle condizioni debbano riferirsi ai territori d’acqua, come laghi, fiumi, paludi e stagni, ma le mire dei granchi sono altre:

     

    Non equilibrio d’acqua ma di terra,

    Rispose il granchio, è di pugnar cagione,

    E il dritto della pace e della guerra

    Che spiegherò per via d’un paragone.

    Il mondo intier con quanti egli rinserra

    Dei pensar che somigli a un bilancione,

    Non con un guscio o due, ma con un branco

    Rispondenti fra lor, più grandi e manco (II, stanza 32).

     

    Sfruttando la metaforizzazione zoomorfa, il poeta avvia una polemica ideologica atta a denunciare le illusioni e le ambiguità dei politici contemporanei (Galimberti, 1999): da un lato egli stigmatizza le azioni dei granchi, che riflettono l’immagine degli Austriaci e delle forze reazionarie, dall’altro palesa una velata preferenza per i topi, dietro cui si celano i liberali italiani, che agognano alla libertà ma difettano di concretezza. La storia insegna che il segreto di ogni organizzazione sociale risiede nella capacità di mantenere l’equilibrio tra le varie componenti coinvolte nella costruzione della vita quotidiana, così da preservare l’ordine pubblico collettivo.

     

    Questa la ragione per cui Leopardi cela la fattualità degli eventi umani dietro la metafora della battaglia tra i granchi e i topi, vista come uno scontro perpetuo per la sopravvivenza. La metafora degli animali che si contro-bilanciano esprime efficacemente la tendenza degli attori sociali a contrastare le possibili criticità e a trarre vantaggio dalle difficoltà che gravano sui soggetti più deboli.

     

    La salvaguardia dell’equilibrio risiede nella possibilità che gli attori più deboli hanno di acquistare forza, speranza e armonia. La rappresentazione paradigmatica dell’equilibrio animale ci aiuta a tratteggiare l’azione sociale secondo le istanze euristiche del machiavellismo che Leopardi e Pareto capitalizzano. Per quel che concerne il cimento tra i granchi e i topi, il poeta sottolinea il bisogno di mantenere i piatti perfettamente in equilibrio, senza prestare attenzione agli aspetti etici e comportamentali:

     

    Queste membra tagliate a quei son porte

    Che dimagrando scemo era di peso,

    O le si mangia un animal più forte,

    Ch’a un altro ancor non sia buon contrappeso,

    O che, mangiate, ne divien di sorte

    Che può star su due gusci a un tempo steso,

    E l’equilibrio mantenervi salvo

    Quinci col deretan quindi con l’alvo (II, stanza 35).

     

    La metafora dell’amputazione è una straordinaria intuizione poetica, che trae la sua forza semantica dall’immaginario della vivisezione sociale imposta dal potere. Nel tentativo di dare continuità alla storia narrata in stile pseudo-omerico, Leopardi propone un gran numero di riferimenti ai fatti politici del suo tempo, e in particolare accenna agli eventi napoletani occorsi tra il 1815 e il 1821, allude agli eventi toscani del 1831 e al comportamento dei liberali moderati. Per l’occasione sviluppa una strategia comunicativa differente rispetto a quella che caratterizza le Operette morali e la Crestomazia italiana della prosa (Lombardinilo, 2012):sceglie infatti il registro satirico per criticare le abitudini intellettuali dell’era della Restaurazione e le strategie politiche che conducono al Risorgimento. Un tale registro satirico gli permette di esprimere quel senso di sfiducia alla base del suo machiavellismo sociale (Lombardinilo, 2016).

     

    Ciò non di meno, la visione della società come equilibrio complesso è connessa alla stessa matrice metaforica della società omeostatica descritta nei Pensieri e nello Zibaldone. Sfruttando la sua sensibilità visionaria, gli uomini sono paragonati a piccoli “globetti” e a colonne d’aria, costretti a esercitare una pressione costante all’esterno. Inoltre, egli sviluppa il concetto della società come mercato tratteggiata nella Crestomazia da Gasparo Gozzi: soltanto coloro che sono in possesso del potere e della forza possono raggiungere un tale equilibrio, nonostante l’importanza della pace, della morale, dell’etica e del senso di giustizia. È questo il messaggio liminale della Batracomiomachia, ispirata da un machiavellismo non di maniera, come lo Zibaldone dimostra chiaramente.

     

    A tal proposito Leopardi declina la sua critica sociale in chiave satirica nei tardi anni napoletani, come accade nella Palinodia al Marchese Gino Capponi e ne I nuovi credenti. Ciò dimostra quanto rilevante sia l’istanza di ricerca sociologica in questa fase della sua vita, rischiarata dal mito della “social catena” celebrata ne La ginestra. Mutuando il linguaggio di Pareto, è possibile affermare che la solidarietà non è che una derivazione fondata sull’utopia dell’amore e della fratellanza fra gli uomini: a dispetto del progresso e dell’insegnamento della storia, gli uomini saranno sempre trascinati dall’odio reciproco. Si tratta di un residuo ancestrale profondamente radicato nel genere umano, ribadito ripetutamente anche da Leopardi (Severino, 2005).

     

    Soltanto i grandi sentimenti possono elevare gli uomini al di sopra della specie animale, come asserito da Verri nelle Avventure di Saffo all’interno della Crestomazia: «quindi la beneficienza, la fede, la pietà, la grandezza d’animo, il valore, l’amor della patria, la benevolenza universale, sono que’ pregi all’uomo soltanto concessi, e per i quali soltanto è meritevole del supremo dominio» (Leopardi, 1837: 387):

     

    «Questa derivazione ha luogo in tutti i ragionamenti nei quali si invoca la Ragione, la Retta ragione, la Natura, il fine dell’uomo, od altri fini simili, il Bene, il Sommo bene, il Giusto, il Vero, il Buono, ed ora specialmente, la Scienza, la Democrazia, la Solidarietà, l’Umanità, ecc. Sono tutti nomi che indicano solo sentimenti indistinti ed incoerenti» (Pareto, 1916: 83).

     

    L’utilità sociale non è alimentata da principi solidi e propositi lirici (Donà, 2014), ma è ispirata da interessi contingenti, perseguiti a discapito degli altri. La natura transeunte delle derivazioni etiche è affermata da Pareto in ottemperanza ad uno scetticismo derivante dall’osservazione degli eventi politici. Questi ultimi confermano il ruolo assoluto assunto dalla forza e dal potere nei rapporti tra gli stati.

     

    Leopardi ha in mente tutto questo quando si dedica alla stesura della storia dei topi, dei granchi e delle rane, proponendo una critica corrosiva e mimetica dello scenario civile e culturale del suo tempo. E sorprendentemente Pareto riprende la metafora della “società contro-bilanciata” per comprendere le tensioni italo-turche; la sua priorità è dimostrare l’azione svolta dalla forza delle vicende umane: le classi «che hanno la forza, ingegno, abilità, furberia, ecc., più di altre si fanno la parte del leone» (Pareto, 1916: 81).

     

    A sua volta l’immagine è ripresa dalla lezione machiavelliana. Il poeta vuol riaffermare la forza indiscussa posseduta dai granchi, destinati ad essere i guardiani della sicurezza collettiva. Il possesso della corazza e l’assenza di cervello e fronte consentono a Brancaforte, generale dei granchi, di ricordare ai topi: «noi, disse il General, siam birri appunto / D’Europa e boia e professiam quest’arte» (II, stanza 37).

     

    La lezione metaforica risulta quanto mai attuale per i moderni. Leopardi insegna che essa è caratterizzata dalla dialettica tra i residui di dominio e le derivazioni della coabitazione (Cassano, 2003). Al giorno d’oggi, tale dialettica risulta priva di soluzione di continuità, soprattutto in riferimento alla complessità liquida (Bauman, 2001), scandita dalla provvisorietà dei paradigmi esperienziali e dalla precarietà degli universi simbolici (Beck, 1986; Baudrillard, 1974).

     

    Sullo sfondo si staglia il conflitto irrisolto tra interessi personali e aspirazioni universalistiche, scandagliato da Pareto in avvio del ventesimo secolo anche grazie alla mediazione di Leopardi, osservatore privilegiato di una società in continuo divenire (Cerroni, 2000) e afflitta dall’utopia del benessere, derivante dal perfetto contro-bilanciamento delle emozioni, delle aspettative e delle delusioni.

     

    In primo piano vi è l’eterno conflitto tra vantaggi personali e interessi collettivi che possono determinare il destino degli uomini e la loro condizione esistenziale. Dopo tutto, l’obiettivo di ogni società è quello di migliorare qualità e stili di vita, nonostante la tendenza che il potere talvolta ha di controllare gli individui e di imporre loro i canoni della “uniformità”. È ciò che Leopardi rileva a proposito della società francese:

     

    «Ora, lasciando stare che lo spirito umano non fa progressi generali o nazionali se non per mezzo della società, e che dove la società è maggiore per ogni verso, quivi sono maggiori i progressi del nostro spirito; e quella tal nazione si trova sempre, almeno qualche passo, più innanzi delle altre, e quindi in istato più moderno; lasciando questo, osservo che la società e la civiltà tende essenzialmente e sempre ad uniformare. Questa tendenza non si può esercitare se non su di ciò che esiste, e l’uniformità che deriva sempre dalla civiltà, non può trovarsi nè considerarsi che in quello che successivamente esiste in ciaschedun tempo» (Zibaldone, 2000, p. 425).

     

    L’uniformità è raggiunta mediante la conciliazione tra istanze razionali e irrazionali, considerate come il riflesso (logicizzante) degli istinti umani. Quest’azione di contro-bilanciamento è implementata da coloro che possono imporre il loro potere. I diritti dei più deboli sono destinati ad essere spazzati via al cospetto di una forza soverchiante. La letteratura può metaforizzare la lezione della storia e delle vicende umane. Del resto, la metafora della battaglia tra i granchi e le rane esprime la fenomenologia del contratto tra gli attori democratici e conservatori, travolti dallo scontro perpetuo per la supremazia. E il fatto che Pareto e Leopardi si riferiscano alle guerre del loro tempo sta a significare che non è possibile sottovalutare la funzione esercitata dalla forza e dalla diplomazia nella definizione dei confini territoriali, da cui dipendono gli equilibri tra i popoli e gli stati.

     

    Il futuro delle nazioni è regolato dal principio della forza, interpretato come derivazione del residuo della supremazia. A confermarlo è il dominio dei granchi sui topi e le rane, trasfigurato ed eternato dalla immaginazione di Giacomo Leopardi (Citati, 2010).

     

    In conclusione. Residui e derivazioni di una società “contro-bilanciata”

     

    La metafora della società “contro-bilanciata” consente a Pareto di soffermarsi sulla funzione politica e sociale che la forza acquista nei tempi correnti; così facendo, il sociologo fornisce al lettore alcune significative intuizioni euristiche, utili per interpretare le ragioni a fondamento delle due guerre mondiali. Il velo metaforico che nasconde le vicende umane non impedisce a Leopardi di rilevare che gli equilibri sociali sono solitamente fondati sulla forza e sul potere. Questo principio è bene illustrato dalla battaglia dei granchi e dei topi, rielaborata secondo i paradigmi poietici di un “pensiero poetante” (Prete, 2006).

     

    La legge del più forte governa la vita quotidiana e le relazioni tra i governanti e i loro sudditi. Pareto può sfruttare la metafora zoomorfa in riferimento allo scenario politico del suo tempo, atteso che il lavoro leopardiano si ispira ai tentativi infruttuosi del partito liberale italiano di interrompere l’occupazione austro-ungarica, durata fino alla conclusione della prima guerra mondiale. Pareto studia il conflitto mondiale in alcuni saggi critici, non senza palesare l’influenza di Machiavelli, il cui pensiero è capitalizzato da Leopardi e Pareto per svelare le ambiguità e gli inganni del vivere sociale.

     

    Sullo sfondo vi è l’utopia della società contro-bilanciata, fondata sul perfetto equilibrio tra forze centrifughe e centripete. La metafora leopardiana dei “globetti” e della colonne d’aria sviluppata nel Pensiero n. CI sembra anticipare l’analisi sociologica di Pareto, incentrata sull’interpretazione della forza come strumento di supremazia e mantenimento dell’equilibrio sociale. Pareto insegna che tipologie differenti di derivazioni possono essere elaborate per legittimare l’uso della forza, dell’autorità e della supremazia, come Machiavelli efficacemente sottolinea attraverso la mediazione di Tito Livio.

     

    L’intuizione leopardiana della società “contro-bilanciata” è più di una suggestione lirica, è la proiezione delle istanze esistenziali di un grande poeta, impegnato nella missione pedagogica di fornire ai giovani un prontuario sociologico appropriato. Il suo obiettivo è svelare il meccanismo nascosto dell’agire sociale. Questa la probabile ragione per cui Pareto decide di mutuare la lezione leopardiana, ancora utile per spiegare la proliferazione di derivazioni legate alla pratica della supremazia degli uomini sugli uomini.

     

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