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  • Giornalismo narrativo
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
    Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia

    M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015



    UN INCONTRO RAVVICINATO CON UN UOMO DI MAFIA

    Elena Giordano

    elenagiordano0@gmail.com
    Giornalista Professionista. Laureata in Scienze Politiche. Ha collaborato con il mensile di moda "L'Uomo Vogue", con Tele Più e RaiTre. Nel 1992 si specializza in cronaca sindacale e politica nella redazione de "Il Mediterraneo". Collabora con il quotidiano La Sicilia e nel 1996 inizia l'esperienza di Capo ufficio stampa, caposervizio prima alla cultura e poi politico al Comune di Catania. Dal 2003 lavora con gli uffici stampa politici presso gruppi parlamentari all'Assemblea Regionale Siciliana e Montecitorio, fino a ricoprire l'incarico anche presso importanti Enti e Società pubbliche e private di diversa natura. Dal 1999 ha seguito in qualità di Press Manager per uno dei più importanti gruppi italiani di hair stylist. Ha condotto una trasmissione televisiva e radiofonica rispettivamente per Telecolor e Radio Antenna Uno di Catania, ha collaborato per la rivista "Viaggi" de la Sicilia e collabora attualmente con "I Love Sicilia", di Palermo. È stata corrispondente per L'Ora Quotidiano e I Quaderni de L'Ora di Palermo. Svolge attualmente il ruolo di capo Ufficio Stampa, caposervizio, di una delle più grandi imprese italiane nel settore delle Grandi Opere ( Infrastrutture e energie rinnovabili).

    Partiamo con una precisazione. Nella letteratura di Mafia esistono vari scritti e testimonianze, ma tra libri, conversazioni e reportage, chi è del mestiere lo sa, una cosa manca: un’intervista a un mafioso NON pentito. L’unico caso è quello di Luciano Liggio, boss di Corleone, in una celebre intervista televisiva rilasciata a Enzo Biagi. Nessuno, dopo di lui, accusato di reati gravi di mafia e non collaboratore di giustizia ha mai accettato alcun tipo di colloquio con la stampa. Con i giornalisti hanno parlato in molti, ma da “pentiti” e si tratta di personaggi di spicco come Giovanni Brusca, Gaspare Mutolo o Franco Di Carlo. Chi ha scelto una strada diversa del “collaborante” a servizio dello Stato non ha raccontato di sé in nessuna occasione pubblica, mai una parola su fatti, famiglia, emozioni, paure, punti di vista. Mai ammissioni sulla Mafia, sulle famiglie, sulle gerarchie. Liggio, alla domanda se esistesse la Mafia, disse solo “se esiste l’Antimafia credo che esista anche la Mafia”. Punto.

    Un non pentito non parla, è una regola, “non siamo al servizio della Polizia” e per noi cronisti è anche impossibile ricevere autorizzazioni per avvicinarne qualcuno in carcere. È così che è iniziata la nostra “prova” d’intervista. Franco S. (nome di fantasia, ndr) ha a cuore solo due argomenti da affrontare: l’uso delle intercettazioni e dei pentiti. «Cara, se vuoi sapere se la tua lettera è stata una sorpresa gradita, sappi che non avresti potuto farmi un regalo più grande, più piacevole e delizioso di questo! Certo che ricordo, purtroppo per me non sono bravo a scrivere, ma ti giuro che mai come in questo momento mi sono rammaricato di non essere andato a scuola.» Jung parlava di “sincronicità”, e siamo d’accordo con lui. Ci sono persone che nella vita conducono in modo sincronico, strade parallele ma opposte, partono dalla stessa linea di partenza, con l’unica differenza che il percorso scorre uno all’inverso dell’altro.

    Il ricordo che avevo di Franco era quello di un ragazzo normale, talmente normale che da bambina mi aveva fatto ridere molte volte. Ma l’immagine che mi è rimasta di più in verità, vivevamo nello stesso quartiere, è che aveva un banchetto della frutta, proprio vicino casa mia. E ogni tanto, quando mia nonna andava al mercato rionale, mi regalava le ciliegie. Grandi ciliegie rosse e diceva «per una bambina dai capelli lunghi e con le guance rosse come questa frutta». Poi più nulla, per cinque, dieci, venti, trent’anni. Non ho più saputo niente della vita e del destino di quel ragazzo dall’aspetto “signorile” che vendeva frutta al mercato. E quando ho capito, letto, indagato nelle carte dei processi che lo riguardano, ho deciso di scrivere. Non solo di lui, ma a lui.


    Fera 'o Luni - Mercato di piazza Carlo Alberto, Catania

    Franco è oggi e da circa vent’anni, al regime di 41 bis (ovvero isolamento, ndr), condannato in via definitiva per Mafia. Pare sia stato riconosciuto e sancito dalla Suprema Corte, il suo ruolo di “Capo”, che nella gerarchia della Cupola mafiosa della Sicilia occidentale si traduce in “capo mandamento”, oltre che “pungiuto”, e dalle nostre parti in “reggente”, capo supremo di un territorio, affiliato (in questo caso, ndr) alla più “nobile” famiglia mafiosa della Sicilia orientale. Franco, e dice di “andarne fiero”, non si è mai pentito. Averlo saputo è stato uno choc ma, per la verità, non per un fatto morale. Nella Sicilia di sciasciana memoria infatti “il contesto” è quello che è, capita spesso di starci dentro a queste storie. E, dunque, proprio per il principio delle strade parallele (ma all’inverso), questa notizia (e idea) non sono arrivate per caso.

    A distanza di trent’anni su due lati opposti del fiume, come guardie e ladri, come il diavolo e l’acquasanta, un’occasione ghiotta per scoprire, chiedere, conversare, indagare come solo un giornalista di lungo corso sa fare, scrutare nella vita di un uomo così, senza giudicare, raccogliere soltanto informazioni, fatti, storie. Restando sempre dall’altra parte. Fare cronaca. «Parlarti di me è cosa impossibile - scrive Franco - una storia infinita non può essere racconta per lettera. Comunque dal punto di vista processuale, posso dirti che sono condannato alla massima pena, cioè l’ergastolo, sulla base non di prove, ma di semplici deduzioni dei giudici di primo e secondo grado. Vale a dire fuori da ogni regola giuridica, a dispetto della vita altrui, al di là di ogni confine civile e democratico. Tra qualche mese dovrà pronunciarsi la Corte di Cassazione (ai tempi era in attesa dell’ultimo grado di giudizio, ndr) e se otterrò giustizia, nel senso favorevole, presto potrei fartela io la sorpresa».

    È così che la nostra corrispondenza si è trasformata in intervista. «Vuoi sapere della mia storia? - continua - io credo fermamente che certe cose capitano e non sono mai per caso. Tu, forse per il mestiere che fai, hai saputo maturare l’idea di scrivermi e a me hai sicuramente regalato una gioia indescrivibile. Comincio col dirti che sappiamo che il mondo è costituito dalle  persone e nelle persone c’è qualcosa che dovrebbe cambiare. Una società, infatti, che si muove e cresce con il solo intento dei fini speculativi, è una società malata. E ricordo di avere letto da qualche parte alcune frasi che mi hanno molto colpito: “Se si accetta il mondo per quello che è, risulta impossibile attribuirgli un senso”».

    Come si sente un uomo che sa con certezza che il suo destino è non avere più contatti con il mondo esterno? «Innanzitutto mi manca la famiglia, mio padre, mia moglie e mio figlio, sono loro i veri eroi della vicenda. Hanno dimostrato sempre, in tutti questi anni, di non nutrire mai un dubbio, non avere un tentennamento, hanno tenuto duro, cercando di starmi vicino per come si può, cioè in condizioni disumane e inaccettabili».

    Cosa significa per voi “ uomini d’onore” il carcere a vita, come viene trattato un “mafioso”, quali sono le consuetudini, come scorrono le ore lì dentro? «Ma che “uomini d’onore”, che vuol dire questa parola? Riguardo alla situazione carceraria, sono sottoposto da circa quattordici anni al regime del 41 bis, cioè il cosiddetto carcere duro per i criminali più pericolosi. Viene da ridere anche a me, ma purtroppo è così che vanno le cose in Italia. Ciò consiste nello stare solo (e solo sono), nel fare un solo colloquio al mese di un'ora dietro ad un vetro blindato che mi separa dai familiari e ci impedisce di toccarci, anziché le sei ore senza ostacoli divisori che toccano ai detenuti a regime ordinario, e tutta una lunga serie di altre limitazioni aberranti, quali ad esempio, la corrispondenza epistolare censurata, il divieto di parlare con altri detenuti, il vivere in una cella due metri per tre, gelida, buia, senza neanche i servizi igienici civili. Insomma ne avresti di cose da scrivere per raccontare a questo nostro ignaro Popolo che si illude di vivere in uno stato democratico, che la famosa dicitura “La legge è uguale per tutti” è la fregatura più grande che l’Italiano subisce a causa dell’indifferenza collettiva che, anzi, plaude chi col sangue della povera gente scala i gradini degli alti poteri. È vero, tu avrai sicuramente vissuto una vita intensa, piena di insidie e di difficoltà, ma quella che tu ignori è quella che io vivo giorno dopo giorno, lenta ed inesorabile da puro innocente».

    Una corrispondenza di questo genere da un carcere di massima sicurezza è rigidamente sottoposta a censura, vengono lette e vistate le lettere in entrata e in uscita, ma Franco scrive senza fermarsi, è un fiume in piena, si difende, fa teoremi, afferma che non vuole passare per debole. Spesso è diffidente. «Ma cos’è per voi la Mafia me lo volete spiegare? Cos’è questa entità di cui parlate tanto e a vanvera. Che cosa ne sa quel napoletano, Roberto Saviano, di cui sento parlare quando esco a prendere aria? Lui si fa i soldi sulla nostra pelle, ma dice solo falsità, sciocchezze. Avete mai letto come si fanno in Italia i processi, avete mai visto le carte? Non sapete leggere, se foste capaci, compresa tu, capireste che certe cose sono già state scritte a tavolino. Tante sono le contraddizioni tra quello che si dice e i riscontri investigativi».

    La mafia è un fatto umano, diceva Giovanni Falcone, e Franco a volte sembra di un’umanità infinita. «Un mafioso è un uomo normale diceva il giudice - o che almeno avrebbe preferito essere normale, ma che le circostanze della vita ed i valori in cui credeva hanno trasformato in una persona non normale. Quello di non fidarmi è, cara mia purtroppo, il mio pane quotidiano e debbo per questo confessarti che sin dall’inizio nutro il sospetto che su di me ci siano state forti pressioni che hanno indotto qualcuno a vendermi. Non mi rassegno a vivere qui dentro per tutta la vita solo per “capriccio” di qualcuno. Ci sono molte cose che non quadrano, troppi i finti tonti, troppi gli spunti non utilizzati. Il lavoro degli avvocati l’ho fatto tutto io e gliel’ho messo su un piatto d’argento. Per fare ciò sono rimasto chiuso in cella non so per quanto tempo; ho raccolto ogni possibile riferimento utile a smentire l’impianto accusatorio, riuscendo a grandi linee a smontarlo in ogni sua piccola parte; ho effettuato una cinquantina di colloqui con loro, ciascuno dei quali non durava meno di sei ore; conosco ogni punto e virgola del processo e certuni avvocati si sono dovuti rivolgere a me per avere indicazioni di riferimenti utili ai loro assistiti. Insomma ho ricevuto i complimenti di ognuno di essi e, soprattutto, dei miei difensori che non hanno fatto altro che ripetermi - “Non sai quanto lavoro ci hai risparmiato di fare (Col cavolo loro l’avrebbero mai potuto fare un lavoro del genere!). Ebbene, mia cara, al momento dell’arringa difensiva e nella presentazione delle memorie per iscritto, non ci crederai, così come stento a crederci anch’io, mai nessuno è sembrato avere argomenti su cui trattare la causa. E comunque credo che tutto il lavoro che ho prodotto sarebbe stato comunque inutile, poiché quella non che mi ha giudicato non era una corte, ma un plotone d’esecuzione».

    Come definire una simile affermazione? Franco vomita tutto il suo mondo, la sua cultura, il suo senso di giustizia parallela. Come fa un uomo condannato per reati gravissimi, compreso l’omicidio, a negare così sapientemente? Qual è l’accusa che muove ai suoi giudici che, comunque, si attengono per definizione e sempre alle carte processuali? «Voglio dire che la maggiore colpa la dò agli avvocati. Non solo questi stronzi non sono stati capaci di difendermi e mi tengono sequestrato da quattordici anni, ma ancora oggi rompono le scatole sostenendo che il mio problema sta nelle intercettazioni. Ma ti sembra una cosa normale che nessuno, sia in fase di arringa che per iscritto, voglia dire: guardate che le deduzioni ricavate dalle intercettazioni sono categoricamente smentite dalla realtà processuale! Ti pare normale che nessuno, neanche con le mie accorate insistenze, voglia dire: guardate è ormai storicamente risaputo e processualmente accertato che “Cosa nostra” è una struttura criminale che si regge attraverso determinate regole con organismi piramidali? Rappresentante provinciale e vice; rappresentante per la città e vice; consiglieri; capo decina; soldati (cioè “uomini d’onore” senza carica che non possono assumere decisioni). Il reggente viene nominato in via ufficiale dai maggiori esponenti in carica. Si tratta di investiture importanti. E se c’è un pentito che tutti ritengono attendibile che dichiara che il “reggente” era lui fino al 1999 come avrei fatto io ad autoproclamarmi capo, reggente o quant’altro? E, bada bene, che Riolo occupasse tale carica, fino alla data da lui indicata, è stato riferito anche da tutti gli altri collaboratori di giustizia che, tra l’altro, asseriscono che senza i suoi ordini nulla facevano. Insomma, per concludere l’argomento, ti dico soltanto che sono capitato in mezzo a tanti malati di mente, ma corro il rischio di finire io in manicomio!».

    Ma com’è possibile che tutti si sbaglino? Il Suo nome è noto, i maxi processi hanno scandagliato certosinamente la Sua storia, e non solo a Catania, ma anche nell’aula bunker di Palermo. «Si certo ma tutti (o quasi tutti) i tuoi colleghi giornalisti blaterano, senza sapere ciò che vanno dicendo. Io, invece, ti propongo un invito alla riflessione che rientra nella materia della tua professione: hai mai pensato chi è colui che facilita certa gente ad armarsi e ad uccidere? Hai mai preso in considerazione il motivo per cui, rispetto agli anni passati, le nostre città meridionali risultano maggiormente invivibili? Sai perché la criminalità di oggi è molto più spietata di prima? Ebbene, a prescindere dal degrado sociale, ti è mai capitato di leggere un articolo giornalistico o di ascoltare qualche pezzo “grosso” della politica che affermi che oltre la metà dei crimini che si consumano giornalmente in Italia sono partoriti dalla legge sul pentitismo? In altre parole, hai mai considerato con quanta facilità si può sparare e uccidere, avendo in preventivo l’atto di pentirsi nel momento in cui l’attività criminale volge al termine per l’eseguito arresto? Hai mai riflettuto sul fatto che lo Stato premia, stipendia, coccola e difende degli individui che hanno sparato a destra e a manca, uccidendo perfino donne e bambini? E chi paga lo sai? Paghi tu e tutto il popolo italiano, per mantenere degli stramaledettissimi criminali sotto finta protezione dopo che hanno reso le nostre città invivibili. Pago io, come elemento di comodo al consolidamento del meccanismo perverso».

    Franco S. si è sempre dichiarato innocente, nonostante la sua condanna, oggi definitiva, per omicidio. «La mia posizione processuale, come ti ho accennato, si basa su delle logiche deduzioni dei giudici. Deduzioni che vanno in netto contrasto con le risultanze processuali. Un breve esempio: per via del convincimento dei giudici, il reggente dell’organizzazione ero io. Tredici pentiti, tra cui il Reggente per sua esplicita ammissione, dichiarano chi era il “capo” escludendo che io occupassi un ruolo dirigenziale. Nonostante siano stati ritenuti complessivamente attendibili, sul punto in questione i giudici si dichiarano convinti che il reggente dovevo essere io in quanto più intelligente degli altri consociati. La consumazione del reato che mi si addebita, secondo la dichiarazione dei pentiti, si sarebbe verificata all’interno di un ristorante una mattina del 1997, dove io mi sarei trovato in compagnia di mio cognato. Ebbene la mattina del 4 marzo 1997, sono stato pedinato e videofilmato dai Carabinieri e mi trovo in tutt’altri luoghi. Ma c’è di più. Dicono che con me quella mattina ci fosse con me mio cognato che invece si trovava detenuto al carcere di Poggioreale!! Ovviamente è stato tutto documentato e acquisito agli atti del processo, ma se ne sono fregati altamente. Lo trovate scritto voi giornalisti tutto questo sulla rete informatica?»

    E quindi? «In conclusione voglio aggiungere solo questo: che esiste la criminalità è un dato assodato; che va combattuta e sconfitta è un fatto indiscutibile. Ma qual’è il prezzo da pagare? Fino a quando si useranno metodi mafiosi in un’aula di giustizia? Perché i giudici non debbono pagare per le ingiustizie che commettono? Perché la mia famiglia paga le tasse e deve contribuire al pagamento di migliaia di burocrati inutili della Pubblica Amministrazione? Per subire infiniti abusi di potere, soprusi, sciacallaggi, ingiustizie? E allora non farmi parlare per cortesia, fammi stare mutu».



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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