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  • Giornalismo narrativo
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
    Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia

    M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015



    UNA FINESTRA SUL POLO

    Graziella Busso

    graziellabusso@virgilio.it
    Giornalista pubblicista. Addetta Ufficio Stampa Ugl Polizia penitenziaria regione Sicilia. Collabora con diverse testate giornalistiche. Laureata in Scienze Politiche indirizzo politico-economico, Università di Catania.


    Foto di Graziella Busso

    «Sarebbe fantastico se ciascuno di noi avesse per un attimo l’opportunità di vedere la Terra dallo spazio. Basterebbero pochi istanti di questa visione di armonia, pace e bellezza per renderci molto meno indifferenti verso l’inquinamento, la deforestazione, il riscaldamento globale, la desertificazione e le molte altre tragiche conseguenze di una gestione disattenta e avida delle risorse del nostro pianeta.» Filippo Ongaro (giornalista, scrittore, medico)

    Rabbia, dolore, incredulità si mescolano in un turbinio di emozioni quando, dalle affissioni che quasi quotidianamente si danno il cambio, si legge il necrologio di un “qualcuno” che sappiamo ucciso dal cancro. E pensiamo che, ancora e forse per tanto tempo, potremmo essere più fortunati. E non c’è pace, non c’è consolazione per quei giorni di vita vissuta, strappata, stropicciata, rubata da un mostro che non sempre è possibile sconfiggere finché non subentra la stanchezza, la rassegnazione, la secchezza delle ghiandole lacrimali. Unico strumento per cercare di “cambiare le cose”, per quanto difficile possa sembrare farlo, è combattere, perché la lotta per un ambiente più vivibile sarà una conquista per noi e per i nostri figli, un’eredità che non ha prezzo.

    La salute è un bene inestimabile, non negoziabile e ogni qualvolta che perdiamo un amico, un congiunto, un vicino, un compagno di lavoro, muore una parte di noi, un pezzetto di speranza che qualcosa possa mutare. Rabbrividisco alle parole “multinazionali”, “sviluppo industriale”, “espansione dei mercati”. Mi chiedo dove pensiamo di poter ancora andare se questa crescita economica continua ad essere accompagnata da manovre inaccettabili di sfruttamento e deturpazione ambientale. Autodistruzione è l’unica tragica immagine che mi passa insistentemente davanti agli occhi. E ora c’è il nuovo decreto “Sblocca Italia” che facilita l’iter per l’ottenimento delle autorizzazioni alle trivellazioni e mi viene subito in mente una di quelle faccine inorridite della serie emotion che spopolano tanto sui social. Un’altra manovra che, con la promessa di creare posti di lavoro, mira a raddoppiare l’estrazione di gas e petrolio sfigurando, umiliando e svilendo ancora una volta l’ambiente e la salute dei cittadini.

    La voglia di “gridare” la sofferenza di chi vive la realtà di uno sviluppo insostenibile si è da tempo trasformata ad Augusta in una battaglia di sensibilizzazione alla ormai annosa problematica e nel profondo desiderio di raccontare, far conoscere, testimoniare emozioni, desideri, sogni di chi vive in prima persona o ha vissuto la malattia di un proprio caro perché tutto questo possa servire a spingere verso quel mutamento culturale, storico, ambientale a cui tutti noi agogniamo.


    Foto di Graziella Busso

    28 febbraio 2015

    Piove, è mattina, il vento impetuoso non vuole saperne di smetterla, si confonde con le voci e il pianto di chi assiste, in stato di semi coscienza, a una pellicola triste della quale mai nessuno di noi vorrebbe venisse girata in casa propria. Un’altra amica se ne va, una mamma, un altro splendido sorriso è volato a illuminare il cielo.

    Apro la finestra, quella sul polo e vedo il suo balcone. Immagino il marito, i figli e tutti i parenti stretti intorno a lei, per l’ultima volta. Respiro profondamente ma l’odore nauseabondo che rende pesante l’aria e il sapore acre che mi sembra quasi di percepire sul palato mi stringe la gola e la bocca dello stomaco. Penso ai bambini e, con le lacrime agli occhi, spero che con loro il destino possa essere sempre amichevole.

    È così difficile scrivere di qualcosa di cui si ha paura. Paura di poter urtare in qualche modo la sensibilità di qualcuno, di poter toccare quella parte di noi che non sanerà mai perché il dolore è troppo grande, perché il dispiacere è profondo, perché alla fine si ci ritrova disarmati con il solo desiderio che questa nostra realtà possa cambiare. Amo Augusta. Sarà perché ci sono semplicemente nata e cresciuta e, dunque, i ricordi più belli sono legati a questo pezzettino di terra. A volte, mi fermo ad ammirarla, la osservo, la fotografo.


    Foto di Graziella Busso

    Guardo la rada, mi lascio sedurre dal mare, scorgo più in là l’Hangar per dirigibili, unico esempio in Europa di costruzione in cemento armato, in quella che fu la città di Federico II. Respiro pagine di storia, attraverso il rivellino e, poi, tramite il boschetto che costeggia il castello Svevo salgo al centro. Raggiungo i giardini pubblici e mi rammarico dello stato di degrado in cui li trovo.


    Foto di Graziella Busso

    Nonostante il periodo diverso, ricordo era una giornata come quella di oggi, grigia, quella della primavera 1993.


    Foto di Graziella Busso

    Arriva! È Valentina, sorridente, luminosa con un cappellino rosso della Ferrari, entra nel salottino di casa sua dove io e sua sorella Gabriella stiamo studiando. Siamo all’università, tutte e tre. Non dimenticherò mai quegli anni, così freschi di giovinezza, così pieni di progetti.

    Credo fosse “Storia del pensiero politico” la materia che stavamo preparando. Ci accingevamo a viaggiare fra le teorie di Hobbes, Locke, Montesquieu. Non finivamo mai di ripetere, solo qualche breve intervallo al rientro dal mercato della signora Carmela perché u ciauru da mortadella richiamava in cucina, pausa pranzo, pisolino (sacro per Gabry come la chiamo io) e per qualche scambio di battute e risate con Vale. Ho il vizio di abbreviare affettivamente i nomi ma solo quando continuano, nonostante la mutilazione, ad avere un suono dolce.

    Faccio un’ osservazione sulla recente predilezione di Vale per i copricapo. Lei mi risponde: «Poi, ti spiego!» E io mi ammutolisco, vagando in pensieri che spero tradiscano il mio presentimento. Non c’è stato più bisogno di parlarne di quel nodulo ormai ben calcificato, scoperto sotto la doccia, che se l’è portata via un giorno ancora di primavera del 2000. Sette sono stati gli anni che Vale ha dovuto condividere con quell’odiosa malattia che lentamente le avvelenava il corpo ma non lo spirito. Sette anni, i suoi trascorsi sui binari di una normalità che ha difeso caparbiamente - sebbene l’intima consapevolezza che forse non ce l’avrebbe fatta - mano nella mano con la sua grande e meravigliosa famiglia tra un viaggio e un altro per sottoporsi ai controlli di routine e alla inevitabile terapia di chemio.

    Sette anni vissuti intensamente “furriannu furriannu”, perché lei amava viaggiare, in lungo e in largo per la Lombardia, che l’ha ospitata durante quel periodo, e d’intorni per poi fermarsi, per un breve intervallo, con la sua amorevole e instancabile mamma, nell’incantevole Capri per farsi scaldare dal caldo e sorridente sole, cullata dalle morbide onde nel sottofondo della brezza di quel mare luccicante.

    E la vedo allontanarsi così, sul suo materassino, mentre serenamente va verso l’orizzonte chiaro per il suo ultimo viaggio.


    Foto di Graziella Busso

    ORE 10.00

    Suonano alla porta. È lo zio Carmelo, è appena tornato da Catania, ha accompagnato suo figlio Marco all’università ed è passato a prendersi un caffè. È un combattivo lui, per tanto tempo ha lottato contro il cancro. Ero piccola quando ha scoperto quel mostro. Non so molto bene come siano andate le cose, ho solo un ricordo: quello dello zio che sta male e che dorme seduto nel letto, a causa del reflusso gastroesofageo. Gli chiedo, adesso, di raccontarmi di quel periodo. La concretezza con cui riporta i fatti è disarmante. «Erano i tempi - riferisce - in cui il passaggio dal lavoro nelle campagne, dove i cosiddetti campieri controllavano le terre per i grandi proprietari, a quello nelle industrie faceva sperare in una vita migliore».

    Erano i tempi in cui l’onorevole Mario Scelba, come raccontava il nonno, proferì queste parole: «Finalmente, grazie a questa mensa, anche voi potrete mangiare due volte al giorno!» all’inaugurazione della sala refezione di uno dei primi stabilimenti petroliferi. Perché allora chi lavorava la terra pranzava con pane e, a volte, componatico e la sera cenava a base di piattoni di pasta poveri o minestre, qualche mela. Tempi duri per chi li ricorda!

    «L’industria ci ha dato da mangiare  - afferma lo zio - e così come ci ha permesso di sviluppare un certo agio ha anche dato vita, di converso, a un tipo d’inquinamento non indifferente che si è cercato di contenere con l’ammodernamento e l’avvento di nuove tecnologie». Erano i tempi in cui dietro la coltre pesante della guerra, s’incominciava a intravedere uno spiraglio di luce, a respirare l’aria della ricostruzione.

    Ricorda gli anni in cui l’interruzione del flusso di approvvigionamento di petrolio dalla Libia, spinse le compagnie petrolifere ad acquistarlo in altri paesi, un tipo di greggio molto più ricco di zolfo, causa ineccepibile ancora e di più d’inquinamento. Proprio in quegli anni, avverte i primi sintomi della malattia, lui come tanti altri. Avevo quattro anni, era il 1976, e lui era conduttore d’impianto di raffinazione. Il mostro si chiamava linfoma gastrico.

    «Vedi - mi dice - è vero che la salute è prioritaria, purtroppo ogni cosa ha il suo costo, l’azienda però non ci ha mai abbandonati creando dei posti tampone per noi che ci siamo ammalati. Nell’82 - conclude - un intervento di anastomosi alla Brown mi ha salvato la vita, altri - mi dice con un filo di voce - non ce l’hanno fatta». Poi, nel 2008, una nuova anastomosi migliora sensibilmente la sua qualità della vita permettendogli, finalmente, di tornare a dormire in posizione supina.

    Non gli chiedo più niente, lo guardo, preferisco non dire altro. Ognuno poi ha dentro un cumulo di emozioni e pensieri che a volte si abbracciano tra loro, altre si respingono e che, comunque, non si riescono neanche ad esprimere per paura di apparire contradditori.

    Ore 23.00

    Piove, ancora, è tarda sera.

    Oggi non potevo mancare alla funzione che ogni 28 del mese padre Palmiro celebra in chiesa Madre. Oggi, è trascorso esattamente un anno dalla prima messa in onore dei morti ammazzati dal cancro. Ad oggi, siamo arrivati ad un  elenco di circa 750 vittime di cui il parroco racconta per ognuno una breve storia indicando l’età, la professione e il tipo di cancro che ne ha causato la morte. E, naturalmente, si tratta solo di una piccola parte della casistica che, quotidianamente, si va insaziabilmente ad ingrassare.


    Foto di Graziella Busso

    Prima ancora di entrare dal portone laterale, sento la sua voce, il suo tono pacato contrasta con la sua combattiva natura. È alla lettera A. Una lettura che mi fa rabbrividire. Mi perdo a pensare a tutte quelle persone, a cercare di captare i conosciuti soffermandomi in certi pensieri e, nello stesso tempo, cercando di scacciarli. A sentire leggere il solo nome di una delle vittime, al mio uguale, mi si è congelato il sangue. Numerosi i fedeli che ascoltano in religioso silenzio, scambiandosi, di tanto in tanto, sguardi compassionevoli.

    Sebbene le sue messe abbiano ormai risonanza nazionale, finché il Capo dello Stato non presenzierà a una di queste padre Palmiro non avrà raggiunto il suo obiettivo ovvero accendere i riflettori e l’interesse istituzionale su Augusta e sull’inquinamento che i  suoi cittadini vivono quotidianamente e di cui si alimentano giorno dopo giorno, confidando nel fatto che, a differenza del predecessore, il neo-eletto Presidente della Repubblica Sergio Mattarella possa mostrare una maggiore sensibilità  alla problematica. Ad Augusta, una delle piazze del quartiere Borgata è stata dedicata al fratello Piersanti, assassinato dalla mafia mentre era presidente della Regione Sicilia.

    Padre Palmiro, per il suo perseverante impegno e per il sociale e per l’ambiente è candidato al “Premio Nenni” 2015. «Non è importante - ribadisce però il parroco - un riconoscimento alla mia persona ma il riconoscimento della strage silenziosa di Augusta». Ormai, la sua è una vera e propria missione cha ha una data ben precisa, il 19 maggio 1985 quando un grave incidente industriale, che per fortuna ebbe pochi morti e feriti, creò il panico e la fuga in massa dalla città.

    Ricordo quei momenti, benissimo. Mi sono rimasti impressi nella memoria. Dormivo a casa di mia nonna Paola, nel lettone tra lei e la sua mamma, la bisnonna Maria, quando fummo svegliate da uno spaventoso boato. All’istante eravamo pronte a “scappare”. La domanda, non di allora che avevo 13 anni ma di ora che ne ho 43, è “Dove?” se viviamo in una polveriera che non ci lascia scampo, in alcun modo. Le mie nonne abitavano in via X ottobre 53. La camera da letto affaccia sul lato ponente della città e offre un’ampia vista della rada di Augusta. Sullo sfondo, le industrie. In lontananza, si vedevano ardere le candele dell’allora Icam che illuminavano a giorno non solo l’intera area industriale ma anche buona parte della Sicilia orientale. A distanza di pochi minuti una dall’altra, cinque esplosioni terrorizzarono tutti.

    I miei ricordi dell’episodio si fermano lì. Poi, si ritornò alla normalità come se niente fosse accaduto o quasi.  È da allora che padre Palmiro si è rimboccato le maniche.


    Foto di Graziella Busso

    «Augusta - mi dice in sacrestia - l’unico rischio che non ha è quello delle valanghe poi ce li abbiamo tutti: rischio idrogeologico, sismico, industriale, militare in una zona, la nostra, dove tutti questi rischi possono avere una sinergia tra loro con effetti devastanti». E ricorda il terremoto dell’11 gennaio 1693 che causò la morte di 2400 persone a cui si aggiunsero gli 800 provocati dall’esplosione della polveriera del castello. «Solo che oggi - continua amaramente - Augusta è di gran lunga meglio attrezzata. Il nostro territorio è estremamente fragile, con il suo polo industriale e la presenza di centrali elettriche, raffinerie, industrie chimiche, porto sia militare sia commerciale che, in caso di conflitto, potrebbero diventare un bersaglio piuttosto appetibile.»

    «Dal 1985 - prosegue padre Palmiro - mi sono chiesto cosa si potesse fare per questa città in termini di sicurezza perché quando, allora, si tentò l’evacuazione da Augusta, le macchine rimasero bloccate nell’imbuto della Porta spagnola. Ancora non c’era il secondo ponte, costruito successivamente grazie a una mobilitazione popolare che raccolse 11 mila firme e a una successiva azione che mi spinse insieme a circa 4 mila cittadini a inviare una lettera di protesta all’allora Capo dello Stato Cossiga, a seguito di una missiva della Sovrintendenza datata agosto 1987 - qualche giorno dopo il ferragosto ovvero in un periodo in cui la città era distratta dalle ferie estive - attestante che il ponte avrebbe deturpato il paesaggio, lasciando tutti allibiti.»

    Il ponte!!!! «La seconda via di fuga fu realizzata ma solo successivamente all’emergenza terremoto del 13 dicembre 1990 che, ancor di più, mi convinse del fatto che questa è una zona a più rischi.» Ricordo benissimo anche quei momenti. La paura con cui mi svegliai. Quarantacinque secondi di panico preceduti da un forte boato. Pensavo fosse rumore di ferraglia, ero convinta fosse stato un incidente ferroviario perché i binari attraversano la città e da casa dei miei si sentiva distintamente il rumore dei convogli, più o meno carichi di persone o merci, sulle rotaie.

    Ancora una volta nel sonno, di notte, era l’1,25 circa. E, ogni volta, penso ‘menomale’. Almeno, eravamo tutti in casa, tutti insieme. Ricordo mio padre che ci chiamava e, nello stesso tempo, ci tranquillizzava ma ci incitava a scendere in strada. E l’angoscia perché, a causa delle linee telefoniche intasate o interrotte, non riuscivo a chiamare i miei nonni. Abbiamo trascorso la notte in macchina. E anche quella successiva. Poi, pian piano, com’è abituale che sia, si è ritornati anche questa volta alla normalità. Ma le case divelte non le dimentico!

    Settimo grado della scala Mercalli! Nessun riconoscimento dello stato di calamità naturale! 17 morti e 15.000 senzatetto in provincia di Siracusa! Nessuna edizione straordinaria! Il terremoto dei silenzi nella notte di Santa Lucia! Forse perché l’area colpita dal terremeto ospita un polo petrolchimico di notevole valore da salvaguardare ad ogni costo?

    Ha una carpetta padre Palmiro piena di documenti, lettere, articoli di giornali. Me ne mostra uno, uno dei tanti che parlano di Augusta, d’ambiente. Poi continua, ha tanto da raccontare sugli allarmanti dati raccolti negli anni ’80 dal pediatra Franco Giacinto e dal professore di chimica industriale Luigi Solarino sull’alta incidenza ad Augusta di nascite di bimbi malformati e di morti per cancro, tanta voglia di richiamare l’attenzione delle Istituzioni su questo maltrattato territorio. A volte, mi chiedo dove siano andati a finire certi “scarti” industriali, poi penso al centro commerciale di Melilli e qualche dubbio mi viene in mente.


    Foto di Graziella Busso

    Se l’inquinamento con le sue conseguenze sia sull’ambiente sia sulla salute è il prezzo che abbiamo e dobbiamo ancora pagare per aver ospitato un colosso industriale di vasta portata, in un periodo in cui il bisogno faceva gridare al miracolo economico mentre il concetto di sviluppo sostenibile doveva ancora nascere, allora noi cittadini residenti in zone ad altissimo rischio d’incidenza tumorale RECLAMIAMO con forza allo Stato, per il quale il polo costituisce una ricchezza non indifferente, il DIRITTO ad ottenere delle diagnosi precoci  per tutte le patologie senza limiti d’età - la migliore arma per combattere il cancro ma onerose  per tantissime famiglie italiane - nonché una seria e capillare opera di risanamento ambientale.

    Dopo la benedizione, Padre Palmiro ancora una volta invita tutti a una protesta pacifica e democratica, inoltrando al Capo dello Stato i nostri inviti a partecipare a una delle messe del 28 per non dimenticare, per non dimenticarci. Torno a casa, scrivo la mia lettera, la chiudo e, con il cuore carico ma fiducioso, la indirizzo a ‘Esimio Presidente della Repubblica Sergio Mattarella’.

    È ormai tardi. Chiudo la finestra, quella sul polo e respiro profondamente l’aria frizzantina che, al momento, odora di una serata ancora autunnale. Do il bacio della buonanotte ai miei figli e ripongo il diario in un cassetto, quello delle mie speranze!



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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