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  • Sociologia degli spazi e dei legami sociali
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.2 Maggio-Agosto 2014

    OCCUPARE SPAZI, LIBERARE LUOGHI DELLA MENTE E DELLA CITTADINANZA: ESPERIENZE DI RIAPPROPRIAZIONE A ROMA


    Irene Ranaldi

    iranaldi@hotmail.com
    Dottore di ricerca in Teoria e analisi qualitativa, Facoltà di Sociologia, La Sapienza Università di Roma.

    Premessa

    Negli ultimi anni l’utilizzo degli spazi pubblici e abitativi è diventato una delle sfide più significative per le amministrazioni locali che si trovano a dover mediare tra gli interessi di soggetti pubblici e privati, associazioni e residenti per migliorare la qualità dei luoghi di vita urbani.

    Amministratori locali, urbanisti e organizzatori di comunità sono alcuni degli attori di queste nuove forme di cambiamento urbano che emergono dal basso, grazie ad un confronto costante con le esigenze del territorio che spinge ad una rimodulazione di spazi e strutture pubbliche ridando così nuova vita ad interi pezzi di città, spesso abbandonati o dismessi o in annosa attesa di recupero.

    Esperienze di questo tipo di ri-appropriazione, sia esso con la pratica dell’occupazione o dell’esito di un processo di progettazione partecipata tra cittadini e istituzioni, si susseguono sempre più spesso in Europa e negli Stati Uniti [1].

    Come può definirsi uno spazio pubblico? Può essere definito come ogni luogo di proprietà pubblica o di uso pubblico accessibile e fruibile a tutti gratuitamente e senza scopi di lucro. Gli spazi pubblici rappresentano i luoghi della vita collettiva delle comunità e un elemento decisivo per il benessere individuale e sociale in quanto dotati di specifiche caratteristiche spaziali, storiche, ambientali, sociali ed economiche. E’ possibile dividere gli spazi pubblici essenzialmente in due categorie: gli spazi aperti (strade, marciapiedi, piazze, giardini) e quelli coperti, creati senza scopo di lucro e a beneficio di tutti (tra cui biblioteche e musei). Ma gli spazi pubblici sono anche luoghi multifunzionali da cui dipende il funzionamento delle città: ospitano attività di mercato, offrono opportunità di istruzione e cultura, sono luoghi della memoria collettiva e sono parte integrante dell’architettura e del paesaggio urbano, con un ruolo determinante sull’immagine e l’identità della città.

    Numerosi sono però ancora gli ostacoli che permangono alla creazione e alla gestione di spazi pubblici di qualità: tra i principali figurano la diminuzione delle risorse disponibili per la manutenzione, la difficoltà di molti enti locali ad assumere un ruolo efficace, la situazione di insicurezza è percepita con effetti di abbandono e degrado ma anche la mercificazione della socialità urbana, con la proliferazione centralità specializzate per il consumo.

    Nascono quindi conflitti che, nel caso di spazi, danno luogo a vere e proprie occupazioni e quindi ri-appropriazione da parte di cittadini di spazi per la collettività.

    Nella capitale, questi conflitti si fanno sempre più sentire. L’ex sindaco di Roma Giulio Carlo Argan negli anni Settanta disse:« Roma è una città di case senza gente e di gente senza case». Un’immagine perfetta e sempre attuale. Ieri come oggi a Roma la politica non governa da sola: la rendita e la speculazione edilizia continuano a disegnare la metropoli mentre migliaia di famiglie ogni anno vengono sfrattate dalle proprie abitazioni. Roma è la città dei costruttori, il Comune che ospita il Vaticano, la capitale della politica e dell’informazione. Roma è il centro nevralgico degli interessi.

    L’esperienza della ri-appropriazione di spazi pubblici a Roma da destinare ad attività culturali aperte all’intera città, è un processo dinamico e in divenire che trova il suo milieu culturale e spinta propulsiva dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica e i beni comuni nato con una manifestazione nazionale a Roma il 20 marzo 2010.

    All’interno del forum vari cittadini legati al mondo del sociale,dei movimenti, della politica svilupparono riflessioni inerenti la riappropriazione di luoghi abbandonati a Roma che stride con la scarsità di luoghi dove fare cultura.

    Dal sito del forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica e i beni comuni si legge: «Il contrario delle primarie è la democrazia partecipata. La distanza è abissale. Da un lato c'è la partecipazione alla consacrazione di un leader che poi deciderà per tutti, nell'ambito di una contrazione della democrazia che va sotto il nome di bipolarismo. Dall'altro c'è la presenza fisica in uno spazio di persone che si interrogano sul proprio destino e provano a determinarlo non sporadicamente. Il contrario di libero mercato sono i beni comuni. Così come tra bipolarismo e liberismo c'è un legame fortissimo (che la carta d'intenti delle primarie rende intellegibile quando stabilisce nel fiscal compact il cielo delle stelle fisse entro cui si muove l'azione di governo), così democrazia partecipata e beni comuni, anch'essi, sono legati per sempre e, alcuni mesi fa, una rete di comitati, realtà sociali, collettivi, singoli attivisti che hanno dato vita a Roma alla battaglia per la ri-pubblicizzazione dell'acqua, hanno immaginato uno spazio pubblico di discussione - sono citazioni dell'appello - all'interno del quale, camminare insieme per comprendere le reciproche differenze e, soprattutto, per cercare i nessi e il senso condiviso delle battaglie sui beni comuni nel territorio di Roma. Una larga alleanza sociale, riunite nel percorso chiamato "Ri_Pubblica, ha occupato il cinema America, a Trastevere, nella città di Roma. A questo spazio è stato dato il nome di Ri_Pubblica per unire le battaglie per l'acqua, quelle sui rifiuti, sui saperi, sulla difesa del territorio «con l'ambizione di superare la semplice sommatoria di singole esperienze ed individuare delle possibili azioni su nodi comuni».

    Quindi la prima esperienza di Ri-Pubblica nasce al Cinema America in via Natale del Grande, nello storico rione romano di Trastevere.

    Il disagio abitativo a Roma è uno degli aspetti strutturali di uno scadente diritto alla città come scrive Erbani [2] in un panorama edilizio che vede 250.000 alloggi vuoti mentre si continua a cementificare la poca campagna restante. Vengono spontanee molte domande: chi decide perché si costruisce,dove e per chi? Chi stabilisce che un mercato rionale, un’area di proprietà pubblica, un edificio posso finire in mano ad un privato?

    E questo si collega direttamente dagli spazi per l’abitare, agli spazi per la cultura.

    Soprattutto negli ultimi tre anni a Roma, ma con esperienze anche meno recenti (la casa delle donne di Lucha y Siesta nel quartiere Tuscolano) si stanno susseguendo esperienze di riappropriazione di spazi abbandonati (come il museo dell’arte e dell’altrove MAAM sulla via Prenestina nella fabbrica abbandonata di salumi Fiorucci dove esiste da tempo il collettivo Metropoliz/città meticcia. Metropoliz è uno spazio liberato, un'esperienza auto-organizzata di recupero di un'ex fabbrica a Roma dove peruviani, africani, ucraini, rom e italiani convivono lottando per il diritto all'abitare. Oppure il cinema Impero nel quartiere di Torpignattara).

    In questo articolo/reportage si è deciso di concentrare l’attenzione sulle tre riappropriazioni nate dalla stessa matrice ideale/culturale e che si riferisce al Forum per l’acqua e i beni comuni (Ex Cinema America di Trastevere; Teatro Valle; Ex cinema Palazzo di San Lorenzo) e sull’esperienza di occupazione da parte di donne nell’ex sede abbandonata dell’Atac (l’agenzia di trasporto pubblico di Roma) Lucha y Siesta nata all’interno dei movimenti per il diritto alla casa e al lavoro noti sotto il nome di «Action» e dall’esigenza di residenzialità di donne vittime di violenza e non più protette – per scadenza temporale di permanenza – nei centri antiviolenza gestiti dalla Provincia di Roma.

    Il metodo utilizzato è stato quello della classica ricerca di sfondo su fonti giornalistiche, sitografiche, bibliografiche; l’osservazione partecipante ad alcuni incontri e assemblee; interviste in profondità ad opinion leader e ad attori principali dell’azione in questi luoghi.

    È utile ragionare attorno al concetto di spazio pubblico/privato e possono essere di riferimento gli studi di George Simmel.

    Il sociologo tedesco nel configurare il rapporto spazio e società, lo definisce come un a-priori logico e percettivo dove le persone possono trovare un modo di fare esperienza. Lo spazio – sostiene Simmel-  non è mai un aspetto oggettivo, ma un’attività dell’anima.

    Nel suo testo La socievolezza. Esempio di sociologia pura o formale (1911) che raccoglie gli atti di una conferenza tenuta alla Gesellschaft fur Soziologie nel 1910 e poi pubblicata l'anno successivo, Simmel scrive che la socievolezza è un impulso fine a sé stesso che trascende il contenuto dello stare insieme e in quanto tale, la socievolezza è un rapporto formale fra le persone. La società pura quindi è quella che è tenuta insieme esclusivamente dalla voglia di stare insieme. Nello stesso saggio introduce il concetto di cornice anche nel campo delle interazioni. Simmel indaga anche il rapporto che esiste fra relazioni sociali e spazio in termini metaforici: lo spazio possiede un valore soggettivo e al contempo simbolico ed esprime metaforicamente il sociale.

    Lo spazio è un elemento importante attraverso il quale capire quei processi del fluire incessante della vita in forme sociali. Non è, di per sé, una forma, ma produce forme. Per Simmel lo spazio è “un’attività dell’anima”. Ecco quindi che le diverse caratteristiche dello spazio: esclusività, esistenza di confini, fissazione, vicinanza e lontananza, mobilità sono altrettanti modi di fare esperienza dello spazio che poi si coagulano in configurazioni spaziali specifiche (come lo Stato). In sintesi l’originalità del pensiero di Simmel rispetto alla spazio risiede nella possibilità di considerarlo non come un elemento esterno, un dato del mondo oggettivo di cui si fa esperienza, ma come un modo di fare esperienza. In questo Simmel si discosta dalla tradizione prevalente in sociologia, che studia lo spazio e il tempo in quanto rappresentazioni collettive ed esteriori all’esperienza umana.

    Esperienze di ri-appropriazione a Roma

    L’esperienza dell’ex Cinema America a Trastevere

    Liberare spazi di cittadinanza attraverso un ampio dibattito sulla individuazione, ruolo e fruizione dei beni comuni, è il sentire che ha mosso  numerosi operatori culturali e sociali, attivisti di movimenti, cittadini come Alfonso Perrotta [3] incontrato in qualità di attivo animatore del «Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica e i beni comuni». Dopo il risultato referendario nacque l’esigenza di mettere insieme il risultato positivo e il concetto di bene comune. Si cercava di trovare un elemento comune delle molteplici esperienze di movimento che esistono a Roma (comitati contro le discariche; comitati per gli orti urbani; comitati per la difesa del suolo; ecc.).

    Come luogo delle prime assemblee venne individuato l’ex Cinema America, nel cuore dello storico rione Trastevere. Nel 2008 un piano di una società edilizia prevedeva l'abbattimento dello storico cinema per permettere la realizzazione di 36 miniappartamenti e di due piani di garage sotterraneo. L’operazione venne bloccato grazie all'intervento tempestivo del comitato «Cinema America», organizzazione spontanea di cittadini del quartiere. Ma la società immobiliare non si arrese subito e si è ripresentò, nel tempo, con un piano rivisto ma sostanzialmente identico negli intenti: 20 appartamenti di media o piccola metratura, più due piani sotterranei in netto contrasto con quanto il quartiere necessitava e che prevedeva uno scavo tra due palazzi antichi.

    La sala può contenere 700 posti e tutt’ora rischia di cadere preda della speculazione edilizia. La proprietà dovrebbe cedere il 50% della superficie ad attività destinate alla collettività. Di fatto, tenendo chiuso il cinema la società edilizia ha privato per oltre un decennio il quartiere di un potenziale spazio pubblico, lasciando scivolare lo stabile in uno stato di degrado che solo la recente occupazione degli spazi da parte dell'Assemblea Giovani al Centro (inizialmente affiancati dagli attivisti di Ri-Pubblica) ha fermato.

    Nelle prime assemblee al Cinema America si trovarono quattro punti che univano tutti i movimenti esistenti in quel periodo (primi mesi del 2010) ovvero: democrazia, decisioni condivise con chi vive nei territori e non decisioni calate dall’alto che impattano sulla vita quotidiana delle persone; territorio e le comunità che vivono ai problemi reali; i saperi ovvero tutto ciò che ruota intorno alla consapevolezza dei diritti, della conoscenza dell’informazione dei cittadini. Uno dei progetti più utili portato avanti dal Cinema America è quello della mappa degli spazi abbandonati a Roma che arriverà a censire le fabbriche abbandonate nata dall’iniziativa di Ri-Pubblica nel senso di ri-pubblicizzare i servizi (come il servizio idrico). Tutto questo venne fatto insieme all’associazione «Giovani al Centro» che è stato il primo movimento a sollevare interesse e sensibilità sul cinema America, occupato nel novembre 2012. La risposta dei residenti del rione Trastevere è stata molto positiva con una partecipazione numerosa alle iniziative, dimostrazione, come dice Perrotta «di come i luoghi possono essere anche di proprietà privata, come per quello che riguarda questo cinema, ma se la percezione che se ne è ha è una percezione di tipo pubblico, allora questo valore deve essere riconosciuto e tutelato. Perché è un valore fatto di relazioni, esperienza, senso di comunità e questo va a costituire anche il valore immobiliare».

    L’esperienza del Teatro Valle Occupato

    Nel giugno 2011 lavoratrici e lavoratori dello spettacolo senza diarie e sussidio di disoccupazione occuparono un teatro del 1727 nel centro storico di Roma per attuare una rivolta culturale. Dall’home page del sito si legge: «Occupare è una pratica politica collettiva, un gesto di riappropriazione che istituisce uno spazio pubblico di parola. Continuiamo ad occupare il Teatro Valle perché il gesto si trasformi in un processo costituente: per attivare un altro modo di fare politica senza delegare, costruire un altro modo di lavorare creare produrre, affermare un’altra idea di diritto oltre la legalità, sviluppare nuove economie fuori dal profitto di pochi».

    Come racconta Marta Chiogna [4] - architetta e ricercatrice, nonché attiva partecipante nella vicenda del Teatro Valle - dalle lotte sull’acqua pubblica e dall’incontro con i giuristi Ugo Mattei e Stefano Rodotà nacquero alcune riflessioni: la categoria dei beni comuni può aprire uno spazio d’azione tra la logica del profitto dei privati e la burocrazia. Un terreno che genera connessione tra lotte molto diverse, moltiplicando spazi di confronto e piani del conflitto.

    Interessante anche la distinzione che Chiogna fa rispetto alle prime occupazioni nella città di Roma negli anni Novanta, quando aprirono i primi centri sociali e quando si sceglieva di occupare ex fabbriche dismesse e in cui c’era una richiesta di produzione contro-culturale. Dalla fine degli anni Duemila invece questa attenzione si sposta sul concetto di cultura come bene comune e cambia quindi il portato di riflessione politica che sottende le occupazioni.

    Partecipare in prima persona all’autogoverno di uno spazio abbandonato, sottratto alla collettività per i più svariati motivi, porta con sé un’altra idea di cittadinanza.

    Una dinamica di inclusione e di ragionamento col tessuto urbano in cui il Teatro Valle è inserito – nel pieno centro storico di Roma vicino al Senato della Repubblica – non è una pratica percorribile per la scarsità, ormai, della presenza di residenti.

    L’esperienza del Cinema Palazzo a San Lorenzo

    Nell’aprile 2011 abitanti di San Lorenzo – cittadini, artigiani, artisti, studenti, attivisti di spazi sociali e associazioni – hanno occupato la Sala Cinema Palazzo in Piazza dei Sanniti per sottrarla alla speculazione. Il cinema teatro Palazzo apre nei primi decenni del Novecento e vive per alcuni decenni una stagione culturale di tutto rilievo che coinvolge anche Ettore Petrolini e Romolo Balzani.

    Sull’home page del sito si legge: «Non è solo una rivendicazione del quartiere: è necessario ottenere garanzia dalle amministrazioni affinché lo spazio torni ad essere un cinema-teatro per artisti e cittadinanza con una programmazione partecipata e di qualità, destinata alla ricerca e alla contemporaneità. Uno spazio di produzione e offerta culturale come ce ne sono tanti in Europa. Uno spazio che non serve solo al quartiere ma alla città tutta, provando a metterci al passo con le sperimentazioni delle metropoli europee».

    L’esperienza è nata da riflessione di partecipanti all’Associazione San Lorenzo cambia- Cambia San Lorenzo attorno ai disagi abitativi degli studenti fuori sede, alla precarietà lavorativa, alla progressiva gentrification in atto nel quartiere.

    Mentre era attivo il cantiere aperto per la trasformazione in Bingo, un collettivo di associazioni varie nel quartiere interruppero i lavori. Del collettivo facevano parte lavoratori dello spettacolo che poi si ritrovarono successivamente al Teatro Valle.

    Da qui si comprende una origine unitaria di una collettività riunita attorno all’interesse rispetto ai beni comuni.

    L'esperienza della casa delle donne «Lucha y Siesta» al Tuscolano

    L’esperienza di «Lucha y Siesta» nasce l’8 marzo 2008 quando un gruppo di donne auto-organizzate occupava uno stabile dell’Atac abbandonato da più di 10 anni nella zona di Cinecittà/Tuscolano nel X Municipio di Roma.

    Oggi in questo spazio vivono circa 15 donne, italiane e non, e diversi minori che insieme hanno creato uno spazio per l’accoglienza abitativa e sociale di donne per le donne dove non solo si possano elaborare percorsi di emancipazione e autodeterminazione ma anche contribuire a ricostruire un nuovo scenario sulle politiche di genere.

    Tutte le attività sono autofinanziate e fin dai primi mesi è stato aperto uno sportello di primo ascolto e accoglienza per le donne in situazioni di difficoltà socio-economiche, creata una rete con i servizi di assistenza sociale del municipio e con le realtà cittadine che offrono assistenza alle donne (centri antiviolenza, telefono rosa, etc. etc.) e sono state ospitate molte donne. È stata attività una fitta collaborazione con cittadini residenti che in maniera totalmente volontaria si sono avvicinati alla casa, con la vicina scuola materna ed  e sono stati attivati corsi di italiano per donne migranti, corsi di inglese, psicoterapia di gruppo, laboratorio di ceramica, sartoria e teatro, mostre fotografiche e artistiche, cineforum e rassegne teatrali, presentazioni di libri e di ricerche vicine alla questione di genere.

    Molte sono anche le iniziative rivolte all’esterno, per la rivendicazione e promozione dei diritti civili, politici, economici e sociali delle donne.

    Dall’home page del sito si legge: «In una situazione di totale smantellamento dello stato sociale, di diffusione di una cultura ridicolmente maschilista, di attacco alle strutture conquistate con anni di lotta come i consultori, di tagli ai servizi socio-assistenziali, di sostituzione dell’idea del “favore” a quella del diritto, crediamo che Lucha y Siesta sia un luogo prezioso per tutte le donne e gli uomini della città».

    Sulla rivista DonnaWomanFemme è stato pubblicato un articolo su questa esperienza dal titolo «Gli spazi dell'agire politico. Tra radicalità, esperienza e conflitto» [5] di cui si riportano alcuni passaggi: «L’idea originaria di liberare uno spazio da dedicare esclusivamente alle donne -cosa che ci ha portato ad agire direttamente un conflitto, non a rappresentarlo e basta- partiva dall’affermare un diritto all’abitare, che di per sé è qualcosa di molto più complesso del rivendicare il diritto ad avere un tetto sopra la testa, e che nel nostro caso ha rivelato da subito la centralità dei diritti rivendicati dalle donne che sono, senza dubbio, diritti sociali.

    Ma di questa centralità è difficile cogliere tracce nella politica e nelle istituzioni perché  anche quando parlano di “questioni di genere” non riescono ad uscire da una logica  assistenzialistica rivolta a un settore marginale della società di cui non riconoscono le istanze; per questa ragione, ad esempio, le donne che si ribellano e cercano di sfuggire alla violenza domestica - o anche alla più generale e sfaccettata esclusione sociale - sono un problema da risolvere e non vengono mai viste come portatrici di una soluzione.

    La nostra storia politica di movimento, che è precedente rispetto alla scelta di dare corpo alla nostra visione di che cosa significa “sicurezza” per le donne,  era già inscritta in un percorso in cui si cerca di incidere sulla realtà - spostare le cose con dei fatti compiuti di cui ci si assume collettivamente la responsabilità – piuttosto che creare dei moti di opinione, e da questo punto di vista in realtà, a dire il vero, qualcosa di nuovo siamo riuscite a metterlo sul piatto della bilancia.

    Qualche risultato pratico -qualche passo in avanti rispetto alla consuete strade istituzionali - lo abbiamo messo a segno. Le donne di Lucha y Siesta hanno ottenuto la residenza, cioè la possibilità di avere, oltre a una casa in cui vivere, seppur temporaneamente, anche un certificato di residenza, necessario per avere il permesso di soggiorno, se migranti, per accedere alle borse lavoro, per avere l’assistenza medica e sociale… e non era scontato ottenere tutto ciò.

    Inoltre lo sportello per donne in difficoltà che a titolo volontario riusciamo a portare avanti è di fatto entrato nel circuito dei centri antiviolenza e i nostri spazi riservati alle emergenze spesso vengono sono richiesti proprio da istituzioni che non hanno modo di far fronte in pochi giorni, a volte ore, a situazioni di pericolo in cui l’unica soluzione è l’allontanamento delle donne e dei bambini.

    Ma della complessità delle istanze politiche che vogliamo far avanzare poi non resta traccia, e rischiamo di trovarci schiacciate in un orizzonte che in realtà non è il nostro, noi non siamo assistenti sociali di professione, non abbiamo stipendi, sovvenzioni, fondi e finanziamenti… . Non vogliamo sottrarci, se possiamo essere d’aiuto, a situazioni di emergenza ma non vogliamo nemmeno che un luogo di sperimentazione di forme di autogoverno venga soffocato dalle necessità/emergenze… senza che sia possibile cercare vie d’uscita ragionate e praticabili con le donne e non “sopra” le donne.

    Non ci siamo sottratte alle emergenze sociali che nel contesto di totale precarietà, in cui noi stesse siamo immerse, subiscono la ferocia di un sistema che si basa sul profitto, non sulla condivisione. E ci siamo interrogate -ci stiamo interrogando- su come è possibile, quando tutte le risorse sembrano venir meno, trovare delle vie d’uscita, dei percorsi di autonomia.

    Abbiamo solo qualche indizio (per ora): abitare in luoghi in cui sono previsti degli spazi da gestire in comune -nel nostro caso la cucina e i servizi igienici - è di aiuto anche se non sembra, può creare dei conflitti iniziali ma poi genera sempre delle soluzioni condivise, e trovare delle  soluzioni collettive, attraverso la mediazione, a problemi che devono essere risolti socialmente è già un percorso di autonomia, di autostima, di rispetto reciproco.

    Ci siamo trasformate, anche in forza di alcuni aspetti correlati alla nostra decisione di interagire con le istituzioni, in un servizio, in una istituzione. Ma siamo una istituzione che nasce dalla gestione di un bene comune».

    Uno degli aspetti peculiari di questa esperienza, come di molte altre associazioni formali o informali, cooperative sociali, fondazioni e quindi tutte le esperienze che rientrano nel cosiddetto Terzo Settore (terzo perché tra Stato e Mercato) è che finiscono per essere l’unica alternativa e accesso a servizi sociali e culturali che il Welfare State e le Istituzioni non riescono più ad erogare ai cittadini: ecco che nasce ad esempio la Biblioteca BibLyS, una biblioteca di quartiere, aperta al territorio del X Municipio, molto vasto e praticamente sprovvisto di biblioteche comunali».

    L’intervista con una delle volontarie e coordinatrici del collettivo politico [6] restituisce pienamente il senso di questa occupazione: «L’idea nasce dall’esigenza di offrire “un dopo”, una continuità abitativa alle donne vittime di violenza che dovevano uscire per intervenuti limiti di permanenza, nei centri antiviolenza. Questo stabile, noto storicamente come la sotto-stazione Cecafumo [7] del tram che dalla Stazione Termini portava ai Castelli. La logica che muove le attività della casa non è una logica separatista anche se questa è una esperienza costruita dalle donne per le donne e il pernottamento è consentito solo alle donne, con una particolare attenzione all’accesso nella casa agli eventuali compagni delle donne nella casa stessa, abitata anche da donne di religione musulmana».

    Conclusioni

    Lo spazio è una condizione perché le modalità spaziali di esperienza in qualche modo indirizzano il configurarsi delle forme sociali, ma assume un significato sociologico in quanto simbolo della relazione sociale.

    Riappropriarsi in qualche modo di questo simbolo, declinandone gli esiti in forme differenti di partecipazione, può significare liberare luoghi della mente e dell’espressività.

    Sitografia

    https://www.americaoccupato.org

    https://luchaysiesta.wordpress.com

    https://www.teatrovalleoccupato.it

    https://www.nuovocinemapalazzo.it


    Note

    [1] Si veda l’articolo di Simone D'Antonio , Lo spazio pubblico nelle città italiane, in «Diritto e pratica amministrativa», Ilsole24Ore, settembre 2013.

    [2] F. Erbani, Roma: il tramonto della città pubblica, Laterza, Roma-Bari, 2013, p.9.

    [3] Alfonso Perrotta(1946) insegnante, antropologo, ex funzionario del Comune di Roma. Intervista del 6 settembre 2013.

    [4] Marta Chiogna (1981), architetta, intervista del 30 settembre 2013.

    [5] In DonnaWomanFemme, 2013,1 di Milva Pistoni.

    [6] Michela (1984), laureata in scienze politiche internazionali, intervista del 14 ottobre 2013.

    [7] Così chiamata per la presenza nell’intera zona di un accecante fumo prodotto dai fuochi accesi in capanne e botteghe artigiane prive di un impianto di aerazione. In via Lucio Sestio era presente il mercato ortofruttifero all'aperto della zona.  Il film Mamma Roma (1962, regia di P.P. Pasolini  è ambientato su questa strada).



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