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  • Sociologia degli spazi e dei legami sociali
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.2 Maggio-Agosto 2014

    LO SPAZIO E LA DEFINIZIONE DEL MONDO SOCIALE


    Veronica Polese

    veronicapolese@yahoo.it
    Laureata in Sociologia con tesi in Antropologia Culturale dal titolo “La bugia come strategia d’azione: percorso storico culturale” presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.

    Lo spazio che definisce il mondo è sacro

    Nello spazio silente
    dei cieli,
    a Dio mancava
    una cosa:
    per essere uomo
    quaggiù discese bambino.
    Nello spazio affollato
    dei giorni,
    all’uomo mancava
    una cosa:
    ascese in Cristo lassù
    per esser divino.
    (Nello spazio silente, Alda Merini)

    «Primo di tutti fu il Caos» [1].

    Prima che il mondo fosse ordinato, gli elementi che costituivano l’universo erano commisti nell’ampia e tenebrosa voragine, che per gli antichi era il caos. Esiodo infatti non descrive il caos come il principio di tutto, ma piuttosto come ciò che ne deriva direttamente da esso. Nella lingua italiana, secondo la definizione filosofica, il termine caos ha preso così il significato di «originario stato di disordine della materia nel periodo antecedente alla formazione del mondo» [2].

    «In principio Dio creò il Cielo e la Terrà» [3] è invece l’incipit che spiega l’origine del mondo secondo uno dei testi religiosi più diffusi nel mondo. La prima cosa ad esistere dunque è stata lo spazio caotico, confuso, omogeneo, Dio decide perciò di separarlo, dividerlo ovvero di diversificarlo. Ecco che il mondo ha origine. Secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, l’origine del mondo, così come lo intende l’essere umano, inizia con una scoperta: il punto fisso. La distinzione di spazi qualitativamente diversi, come abbiamo visto, è la conseguenza di una spaccatura originaria, all’interno del caos omogeneo, che inizia proprio dal riconoscimento del punto di riferimento, che definirà e permetterà l’orientamento futuro. Ma il punto fisso, che dà origine al mondo, va individuato. Se nell’omogeneità laica dello spazio caotico il mondo non riesce ad avere principio, la manifestazione del sacro fonda il mondo: nell’omogeneità primordiale è la ierofania che definisce ed indica il punto fisso assoluto, che diventa centro del mondo, in cui il sacro si pone di conseguenza. Per l’uomo religioso lo spazio sacro diviene valore esistenziale, senza il quale non è possibile orientarsi e dunque non è possibile realizzare nulla. L’uomo religioso fonda il mondo e riconosce, nell’omogeneità, lo spazio sacro come unica cosa reale in opposizione allo spazio non sacro. Per tale motivo l’uomo religioso ha necessità di porsi al centro del mondo.

    «Non ti avvicinare – disse il Dio a Mosè – togli i calzari perché il luogo in cui ti trovi è sacro» (Esodo 3, 5).

    Secondo l’esperienza profana, invece, lo spazio è neutro e semplicemente geometrico. Questo significa che lo spazio non sacro resta omogeneo, in senso ontologico, e che l’orientamento laico si adegua continuamente sulla base delle necessità quotidiane. Non va confusa infatti la neutralità con l’esperienza che l’uomo laico effettua dello spazio stesso. Tale spazio è composto da una infinità di luoghi neutri, dove l’uomo profano si aggira e si muove, come elemento integrato, in una società con regole e costumi da seguire ed eseguire. Tuttavia nell’uomo non religioso Eliade individua un comportamento cripto religioso ovvero l’abitudine a consacrare i luoghi speciali, cioè spazi dove l’uomo profano ha realizzato esperienze caratterizzanti e significative durante la propria esistenza: il paese natio, la scuola frequentata, il luogo dei primi amori, la prima città visitata da giovane. Non essendo luoghi di esperienze ontologiche universalmente condivise, la dimensione di tale cripto sacralizzazione è assolutamente individuale e non partecipativa.

    A qualunque livello di desacralizzazione del mondo l’uomo profano arrivi, non riuscirà ad eliminare completamente le tracce del sistema di valore dell’uomo religioso. Se, per assurdo, in una città venissero abbattute tutte le chiese, sparirebbe un punto di riferimento non solo per l’uomo religioso, anche per l’uomo laico che potrebbe interpretare la chiesa ad esempio come bene culturale, come sito storico o semplicemente come luogo dove ascoltare concerti polifonici natalizi. La diversità è nel fatto che mentre per l’uomo religioso sparirebbe un punto di riferimento legato al suo mondo simbolico e quindi alla sua certezza esistenziale, per l’uomo profano sparirebbe un luogo in senso stretto, con un’incertezza momentanea, superabile con un nuovo adattamento ambientale. La statua del Cristo Redentor è uno dei monumenti più conosciuti al mondo. Collocata a picco sulla città Rio de Janeiro, con i suoi 38 metri di altezza, l’opera è diventata ormai il simbolo dell’intero Brasile. Nonostante il suo valore assolutamente religioso, nel 2007 il Cristo Redentore è entrato di diritto nell’elenco The new 7 wonders in the word [4], stilato dalla "New Open World Corporation" (NOWC), società a scopo di lucro svizzera, di natura laica.

    È facile intuire quanto sia inevitabile che uno spazio pregnante di senso simbolo per la religione, diventi punto di riferimento anche per l’uomo profano. Piazza San Pietro, ad esempio, il posto dove il Papa parla ed incontra folle di fedeli, territorio di confini tra il Vaticano e la città di Roma, è un punto di riferimento spaziale noto e riconoscibile in tutto il mondo, anche dall’occhio laico.

    Per l’uomo religioso lo spazio “chiesa” è qualitativamente diverso dallo spazio “città”, sebbene la chiesa sia collocata al suo interno. Il passaggio dal mondo laico a quello sacro rende necessaria la pratica rituale, che ne sottolineano la diversità qualitativa: inchinarsi in corrispondenza dell’altare, fare il segno della croce, bagnare la fronte con l’acqua benedetta. I gesti rituali accompagnano l’azione del varcare la soglia della dimensione esistenziale, diversa e separata da quella lasciata “fuori”. Se il mondo profano, con la sua omogeneità, trascende lo spazio sacro, il mondo sacro ha bisogno della ierofania, che provochi la frattura all’interno dell’omogeneità cosmica. La frattura provoca il distacco e quindi la differenziazione qualitativa dello spazio sacro, all’interno del resto dello spazio cosmico.

    La cultura religiosa della Campania è costellata di miti di fondazione [5], secondo cui la definizione dello spazio sacro avviene in seguito alla rivelazione di un segno, che rappresenta il volere divino. La determinazione dello spazio in senso materiale, quindi architettonico, geometrico e misurato, avviene per mano dell’uomo religioso, che si orienta a partire del punto fisso indicato dalla ierofania. La manifestazione del divino, al fine di orientare nell’omogeneità laica, diventa indicazione geografica. Il sacro diviene perciò il reale per eccellenza; così l’uomo religioso ha necessità di vivere in un’atmosfera impregnata di sacralità ed attraverso tecniche di sacralizzazione dello spazio, rende la realtà oggettiva, efficiente e reale.

    «È certo che san Luigi è passato più volte per Corbeny, fatto che non ha nulla di sorprendente, poiché quel paese era posto su una strada assai frequentata (una antica strada romana); dobbiamo supporre che ad ogni occasione, non trascurò di pregare il santo locale.» [6]

    Lo spazio dell’angoscia

    Spazio spazio, io voglio, tanto spazio
    per dolcissima muovermi ferita;
    voglio spazio per cantare crescere
    errare e saltare il fosso
    della divina sapienza.
    Spazio datemi spazio
    ch'io lanci un urlo inumano,
    quell'urlo di silenzio negli anni
    che ho toccato con mano.
    (Spazio spazio io voglio, Alda Merini)

    Per comprendere la profonda relazione che intercorre tra spazio ed essere umano, basti pensare alla funzione che la proprietà privata ha avuto come agente modellante sulle società occidentali. L’espressione “avere spazio” viene dunque usata in senso metaforico, ma in realtà ha molto a che fare con lo spazio fisico che una società ha a disposizione per ciascuno dei proprio membri. In tal senso, lo spazio è una vera e propria risorsa (al pari di quelle energetiche, economiche o di altro tipo) e l’individuo che possiede maggiore spazio, nella gerarchia sociale, possiede anche maggiore libertà e quindi maggior prestigio sociale. La mancanza di spazio a propria disposizione, al contrario, è indice di una posizione marginale nel quadro sociale. Lo spazio è dunque definito dalla relazione che intercorre tra esso e i soggetti che ne fanno uso, lo percorrono o lo dominano; attraverso tale relazione si stabilisce la sua qualità di risorsa, trasformandolo in strumento di sopravvivenza, opportunità oppure di rischio. Nel concetto di risorsa infatti è implicito un potenziale di cui si può o meno disporre, ma il risultato può rivelarsi anche negativo: eccessivi addensamento e rarefazione di insediamenti umani, sedentarietà spinta ed esplorazioni sbagliate hanno restituito anche una storia non felice dell’uso dello spazio da parte delle società.

    In Europa con il cambiamento di prospettiva dello spazio urbano si è modificato anche il fenomeno del “perdersi”: allo stato attuale, ci si perde nello stesso ambiente in cui si vive; non identificandosi con esso, non gli si appartiene, si è estranei e quindi distratti rispetto alla sua interiorizzazione. Il cittadino postindustriale viene, per questo motivo, definito da La Cecla un consumatore di domicilio, che esplicita il processo di “mente locale” [7] in uno spazio che viene ridotto dalla dimensione municipale alla dimensione casalinga, per esempio attraverso l’arredamento. Ecco come si spiega il successo che un certo tipo di negozi d’arredamento riscuote da qualche anno a questa parte. La pratica del visitare i centri d’arredamento, per cogliere al volo le novità, le stravaganze o semplicemente le funzionalità per la propria casa, ha assunto, infatti, le sembianze dell’hobby. I prezzi convenienti hanno permesso di poter “rinnovare” molto più facilmente l’ambiente domestico e di rendere confortevole la propria abitazione attraverso accessori e mobili low cost, intervenendo anche sullo stile e, quindi, sul gusto del consumatore. Si tratta di consumismo applicato,  come sostiene La Cecla, nello spazio più frequentato dal cittadino post industriale: la propria casa. Alcuni franchising permettono, al consumatore di domicilio, di diventare carpentiere, imbianchino e designer d’occasione e definire personalmente lo stile del “della propria tana”. L’alta riconoscibilità della provenienza del marchio però rende gli stili, oserei dire, ferocemente convergenti; questo sta a significare, a mio parere, quanto sia una “cultura nuova” indotta sottilmente dalle aziende, piuttosto che un’espressione spontanea della domanda. Gli stessi marchi di arredamento occupano anche lo spazio virtuale, con un proprio sito, dove trovano appunto “spazio” (ovviamente virtuale), “i blogger che vivono e raccontano la propria casa”. Lo spazio praticato dal cittadino post industriale non è ridotto solo dalla dimensione municipale alla dimensione domiciliale, ma viene ridotto addirittura dalla dimensione globale a quella domiciliale. Il leitmotiv di un marchio di mobilia è, infatti,  la possibilità di trasformare la propria casa nell’unico mondo dove orientarsi: “Un vero invito al viaggio e alla scoperta, *** vi propone una selezione di oggetti e mobili provenienti da tutto il mondo. […] Cina, India, Africa o Marocco, altrettante regioni ed ambienti da mescolare affinché ciascuno dei vostri interni non assomigli a nessun altro”.

    In culture come quella occidentale, in cui non si dà più importanza alla specificità dell’essere in un luogo, smarrirsi e quindi orientarsi hanno perso senso. Nelle culture in cui resta essenziale il rapporto con la propria località, con l’ambiente in cui si vive, smarrirsi resta invece un processo fondamentale per la formazione dell’individuo e quindi carico di significato. In Guinea i bambini del popolo Temne vengono mandati a raccogliere foglie nella boscaglia circostante il villaggio. I bambini sanno che quel luogo è abitato da Arshon lo spirito del bosco e provoca le vertigini. L’esperienza a cui sono sottoposti i bambini Temne ricorda molto quella che vivono i giovani protagonisti di alcune fiabe di tradizione europea. Hansel e Gretel e Pollicino [8], in cui i bambini vengono volontariamente dispersi nel bosco, dai genitori stessi e la loro sopravvivenza sta ad indicare il superamento di una fase di crescita. In Cappuccetto Rosso [9] la bambina, spinta da una naturale curiosità verso l’ignoto, devia volontariamente verso il sentiero boscoso; non immagina certo di incontrare il lupo, di cui ancora ingenua si fida. Cappuccetto Rosso cade nelle grinfie del famelico animale, coinvolgendo anche la Nonna, ma sopravvivere grazie all’ uomo - cacciatore, che la salva e le “apre gli occhi”. Rosaspina, in La Bella Addormentata, dorme per cent’anni nel torpore in un bosco e viene risvegliata solo dal bacio dell’amato con annesso passaggio dallo status di bambina a quello di donna [10]. Tutti questi giovani personaggi si relazionano con il bosco, foriero di forze oscure, segrete, soprannaturali, anche sensuali, che spesso risultano benevole con chi lo merita. Il mistero e la magia prendono forma attraverso uno spazio determinato culturalmente, quello della selva oscura, spazio in si realizza l’esperienza del rito di passaggio, che contiene in sé i segreti dello sviluppo psichico e fisico dell’individuo ovvero della vita.

    In Ecuador gli Indios Quechua di Cayamer definiscono paramo il luogo dove si può essere colti da espanto ovvero da uno spavento, provocato dal luogo stesso, che attanaglia l’individuo nell’anima e nel corpo, con una tristezza che può e deve essere curata con pratiche tradizionali specifiche.  Per i Quechua, così come per i bambini Temne, l’estraneità al luogo, la non familiarità rendono così intenso il senso di smarrimento da provocare nell’individuo il manifestarsi di un vero e proprio malessere fisico.

    In Burkina Faso i Gourmantchè del Gobnangou usano l’espressione fuali per indicare lo spazio diverso ed alieno allo spazio riconoscibile, corrispondente a quello antropizzato. Non è un concetto geografico di distanza, ma piuttosto un concetto di spazio senza definizione. Il fuali rappresenta per i Gourmentchè ciò che è lontano, l’ignoto, il non abitato dagli uomini; è uno spazio fisico e virtuale, che si espande continuamente, erodendo il mondo delle sicurezze e delle prevedibilità. Il fuali si muove soprattutto durante la notte, viene dal deserto e avanza verso le tende, fino ai recinti, insinuandosi, fuori dal controllo dell’essere umano, negli spazi vuoti del villaggio. Durante la notte, infatti, lo spazio non delimitato e riconosciuto dal recinto domestico diventa terreno selvatico, spazio da evitare. Il paesaggio notturno amplifica l’indeterminazione e provoca un’assenza di punti di riferimento, limiti e definizioni. Ciò produce angoscia negli abitanti del villaggio Gourmantchè. Anche in questo caso l’angoscia è somatizzata, diviene fisica: come spiega Michel Cartry, se si resta in zona fuali troppo a lungo, si diventa fuali – ni ovvero svuotati, appiattiti, al punto di evaporare, inoltre nel campo semantico del termine fua è compreso il concetto di “spazio che ha effetto e conseguenza sul corpo umano”.

    La paura di perdersi è causata dalla paura di perdere la sicurezza che la consuetudine attribuisce alla nostra esistenza, al perdere il mondo che si è interiorizzato attraverso la cultura, a cui si sente di appartenere, e quindi la certezza del proprio “essere”. Tuttavia perdersi può rivelarsi un’occasione di “origine”, di rinascita. Superare il momento di smarrimento, utilizzando gli strumenti a disposizione, interiorizzati attraverso la cultura di appartenenza, e quindi orientarsi e affrontare la situazione, assume il significato di crescita ovvero “conquistare uno spazio nuovo”.

    « - Tu vedi che non possiamo più dar da mangiare ai piccini; vedermeli morir di fame sotto gli occhi non mi dà l'animo, e ho deciso di menarli domani al bosco perché vi si sperdano. La cosa sarà facile; quando li vedremo occupati a far fascinotti, tu ed io ce la svigneremo. -Ah! esclamò la moglie, e avrai proprio cuore di far smarrir i figli tuoi?» (Pollicino, Charles Perrault)

    Elementi di geografia e geometria sociale

    «Abbi pazienza ché  il  mondo è vasto e largo.» (Flatlandia, Edwin  A. Abbott)

    Umberto Eco scrive: «I paesi dell’Utopia si trovano (tranne qualche isolata eccezione, come il regno di Prete Gianni) su di un’isola». L'isola, per definizione, è isolata dal resto del mondo e rappresenta, per le società continentali, una geografia dell'ignoto; lo spazio isola è diventato perciò il luogo per eccellenza, in cui la cultura ha realizzato il modello sociale utopico; il posto dove è possibile realizzare una civiltà tangente alla perfezione, di cui il resto dell'umanità avrà notizia esclusivamente attraverso le leggende. L’esempio più noto è probabilmente Atlantide, il leggendario continente - isola, descritto da Platone come appena al di là delle colonne d’Ercole [11], scomparso nelle profondità marine in seguito ad un cataclisma che ne ha cancellato la geografia, la civiltà e con essa la sua storia. Il mito atlantideo ha affascinato ed ispirato Francis Bacon che con La Nuova Atlantide, scritto rimasto incompiuto, ha descritto una società ideale ed utopistica, basata sulla tecnica e la scienza. Bacon, come già Thomas More per Utopia, ha usato l’espediente dell’isola.

    Lo spazio, in questo caso inteso come ambiente, come forma geografica, plasma l’immaginario collettivo e ne fa derivare uno stereotipo concettuale, che produce, a sua volta e nel tempo, un modello filosofico sociale, quello utopistico, che deve però avere collocazione nello stesso spazio dove è iniziato il processo.

    Qualcuno però non si è limitato a teorizzare una società collocata in un luogo specifico, l’ha realizzata, anche se non sempre per motivi etici. La realizzazione di “un’isola felice” alternativa a ciò che già esiste, cambia molto nella realtà: viene personalizzata dagli scopi e dai fondatori stessi, perdendo quel carattere di ideale sociologico che ha invece nella teoria. La rivista Internazionale, in Agosto, ha dedicato un articolo alle “micronazioni”, luoghi in cui uno o più individui decidono di fondare un entità politica, non riconosciuta internazionalmente, che chiede di essere considerata ufficialmente come neostato. A partire dall’ottocento, in tutto il mondo, sono nate centinaia di micronazioni, per motivi di varia natura: evasione fiscale, protesta sociale, simulazione, rivendicazione di privilegi storici. Il Principato di Sealand, ad esempio, si estende per 0,55 km quadrati a largo delle coste britanniche; è governato da Michael Bates ed è collocato su un’isola artificiale: la piattaforma HM Fort Roughts, eretta nella seconda guerra mondiale e poi abbandonata. Il padre dell’attuale governatore, un militare in pensione, Paddy Roy Bates la occupò. Caratteristiche: numero abitanti 4, moneta: dollaro sealandese, bandiera, passaporto e rilascio di titoli nobiliari, in vendita sul web. Altra isola, altro regno: il Regno di Elleore si estende per  1, 5 km quadrati, in Danimarca, e sorge su un’isola naturale. Nel 1944 alcuni insegnanti progressisti di Copenaghen comprarono l’isola, individuando in essa il luogo ideale dove poter organizzare dei campi estivi. Lo scopo dei campi era simulare, in maniera parodistica, il funzionamento delle istituzioni; l’immedesimazione aveva il fine di istruire gli studenti alla gestione della società. Ogni anno, da allora, per una settimana l’isola, che conta 370 abitanti, tra cui numerosi studenti appartenuti a quella scuola, diventa un regno indipendente. L’articolo continua con altri esempi micronazioni, tra cui uno in Italia, in Liguria, ma non si tratta di isole. Sicuramente l’isola restituisce un senso di distanza dal resto del mondo; questo dà l’idea di una maggiore libertà per il cambiamento, ma non necessariamente questa distanza, a mio avviso, differenzia gli esseri umani che vi abitano dal resto dell’umanità.

    «Notte, neve e sabbia disegnano la forma della mia patria sottile  […].  Questa terra affusolata è come un'isola, separata dal resto del continente, a nord dal Deserto di Atacama, il più arido del mondo, come amano dire i suoi abitanti, anche se probabilmente non è vero […].» (Il mio paese inventato, Isabel Allende)

    Ciò che l’essere umano intende e concepisce come “mondo” diventa definizione dell’intero cosmo. Il sistema cosmico concepito dall’essere umano però è così fragile che ogni dissonanza proveniente dall’esterno potrebbe mandarlo in frantumi e produrre caos. Ciononostante, l’umanità passa gran parte del tempo a “determinare, conquistare, riconfermare” i punti di riferimento che stabiliscono l’ambientazione e l’orientamento degli individui. Ed è Edwin A. Abbott, nel suo romanzo Flatlandia, che descrive esattamente questo fenomeno: «Pareva che questo povero, ignorante Monarca – come chiamava se stesso – fosse convinto che la Linea Retta, che chiamava il suo Regno, e nella quale passava la sua esistenza, costituisse il mondo intero, anzi tutto lo Spazio. Non potendo muoversi né vedere se non lungo la Linea Retta, non concepiva nient’altro all’infuori di essa». Il rapporto tra genere umano e spazio è così pregnante di senso sociale che Abbott è riuscito ad inventarsi un mondo in cui la società è espressa in geometria: «Chiamo il nostro mondo Flatlandia non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per rendere più chiara la natura a voi, o lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio». In Flatlandia il mondo è una superficie piana in cui gli abitanti, sono figure geometriche bidimensionali, che scivolano senza sovrapporsi. La società di Flatlandia è ben strutturata, secondo una gerarchia sociale, alla base della quale troviamo le donne, semplici linee rette, costrette a muoversi ondeggiando, per permettere agli uomini che le incontrino di individuarle. Subito dopo ci sono gli operai ed i soldati, tutti triangoli isosceli. Abbott spiega che quando gli operai manifestano, il loro vertice incute timore, poiché molto appuntito. La cosa interessante è che visti dal lato della base, soldati e operai, possono essere scambiati per donne. Anche la borghesia è composta da triangoli, questa volta equilateri, mentre i professionisti sono quadrati o pentagoni, sempre dai lati uguali. Salendo nella scala sociale si ha l’aristocrazia, divisa in gradi, che variano in base al numero dei lati, dai poligoni a sei lati in su. Quando il numero dei lati diventa così elevato ed i lati così piccoli da non poter distinguere la figura da un cerchio, si è di fronte alla classe Sacerdotale, il vertice della gerarchia sociale. La legge della natura, in questo mondo bidimensionale, prevede la mobilità sociale, il figlio maschio nasce con un lato in più rispetto al padre, ma come scrive Abbott stesso: «questa regola non sempre funziona per i commercianti, e ancor più di rado per i soldati e gli operai». Il legame, prima fisico e poi simbolico, tra spazio e società è tale che la morfologia urbana diventa espressione della cultura della società che essa accoglie. Nell’introduzione alla Città del Sole di Alberto Savinio [12] compare nuovamente la componente geometrica:

    «(La Città del Sole) è fatta a cono. È fatta ad imitazione del Purgatorio di Dante e dell’Inferno suo negativo. […] Come architettura, La Città del Sole ha la forma piramidale della monarchia divina. Anche nella forma La Città del Sole è in contraddizione con lo spirito e la lettera di Utopia. All’avvento dell’Umanesimo, l’architettura piramidale dell’universo cala e si spande in pianura. L’architettura di Utopia è piana come il suo spirito.» [13]

    La città e il comportamento sociale

    «L’aria di città rende liberi.» (proverbio tedesco)

    La città è il luogo dove si vuole portare a conclusione l’analisi sul tema dello spazio nella sua funzione di relazione con l’essere umano.

    La pratica dell’appaesamento [14] cioè il meccanismo di modellamento dello spazio, in cui si sviluppa e riproduce la vita, è per la specie umana processo fondamentale. L’uso antropico dello spazio è simbolico, espressivo, strumentale: la sua interiorizzazione comporta, per l’individuo, l’interiorizzazione del sistema sociale del gruppo di appartenenza. Definizione ed uso di uno spazio sono consapevolezze implicite solo in chi abita tale spazio. Quando agli individui che abitano, viene consegnato uno spazio che non possono modellare, la proprietà della “mente locale” viene lobotomizzata. L’evacuazione forzata degli indigeni dai loro territori, gli sfratti di intere popolazioni dai loro luoghi abituali, gli insediamenti di masse di rifugiati o profughi e di cittadini espulsi dai centri storici in alloggi pianificati sono tutti esempi di espropriazione culturale ed identitaria. In questi casi, l’ambiente viene tolto a chi lo abita, lo definisce, lo riempie di senso e significato per affidarlo ad esperti, che lo concepiscono in modo a-culturale ed esclusivamente tecnico. Questa metodologia di gestione dello spostamento e dell’assegnazione spaziale è stata sperimentata in Europa a partire dal XIX secolo, quando nelle grandi e piccole città si sviluppò il disprezzo per il fermento del fermentare della vita in piazza e in strada. Questa politica ha avuto ricadute anche sulla microeconomia, tipica e locale: viottoli e piazze sono sempre stati i luoghi delle botteghe, dei mercati, degli artisti; hanno a lungo rappresentato un punto di riferimento per la vita collettiva. Come scrive Marco Aime: «Al mercato si va per incontrare altre persone, per fare due chiacchiere con altri clienti e anche con i venditori». I mercati sono spazi che hanno assolvono altre alla funzione strumentale economica, anche una funzione simbolica di spazio socializzante e di aggregazione. Il forte senso socializzante dello spazio “mercato” è reso ancor più evidente dalla realtà urbana: supermercati, ipermercati e centri commerciali offrono prodotti a prezzi più competitivi. Eppure il mercato resta sempre molto frequentato grazie alla dimensione di fiducia, familiarità, che intercorre tra venditore e cliente e grazie alla dimensione “a misura d’uomo” che esso offre rispetto alle megarealtà commerciali. Che la vita all’aperto sia è parte del DNA culturale della nostra società è evidente anche dall’uso contemporaneo di termini come “agorà”, dal greco, e “forum”, dal latino: entrambi hanno il significato di “mercato” e stanno ad indicare spazi virtuali di incontro e dibattito. [15]

    Il problema del condizionamento che la città ha sul comportamento e sulla psiche degli individui che la abitano è oggetto di ricerche analitiche finalizzate anche alla progettazione. Nella città contemporanea è possibile individuare due qualità di spazio urbano che si stanno manifestando: gli spazi iperregolati e gli spazi sotto regolati. Nel primo caso abbiamo luoghi urbani dove, a causa di una data conformazione architettonica, le variabili dell’agire sociale sono fortemente limitate ad un ridotto numero di possibilità, per cui la libertà dell’azione è volutamente costretta. Il caso estremo è costituito dagli spazi definiti da Goffman “istituzioni totali” ovvero carceri, ospedali psichiatrici e tutti i luoghi in cui lo spazio è gestito ai fini dell’organizzazione totale della vita dei soggetti che lo vivono. Casi meno estremi sono costituiti dai luoghi progettati per una funzione specifica: centri commerciali, ipermercati ma anche i luoghi del divertimento, come discoteche o parchi gioco, posso indurre a comportamenti omogenei ai fini di massimizzare l’efficienza e ridurre il rischio. Gli spazi sottoregolati sono, al contrario, ambienti che hanno una destinazione funzionale ambigua ed incerta, zone residuali di confine tra spazio pubblico e privato. Sono spazi sottoregolati gli edifici abbandonati. L’assenza di destinazione d’uso e di norme comportamentali favorisce l’espressività, l’anticonformismo, è il caso degli squot, immobili abbandonati, occupati da gruppi sociali o nuclei familiari per necessità abitativa o esigenza di spazio dove esprimersi. La mancanza di controllo, però, non permette ai soggetti deboli un uso paritario dello spazio pubblico, di fronte all’appropriazione di tale spazio ad uso e consumo di soggetti forti. Una delle maggiori problematiche della metropoli contemporanea è il continuo sviluppo di spazi iperregolati, intervallati da spazi sottoregolati, nel deterioramento dello spazio pubblico “normale”, unico tipo di spazio in cui hanno luogo la libertà e la varietà di comportamenti, di tutti i soggetti, forti o deboli che siano.

    Se il comportamento sociale è segnato dallo sviluppo urbano, la produzione artistica non è da meno. L’inquietudine e l’eccitazione della vita frenetica della città si riflette anche sulla produzione musicale e trova la sua analogia in una musica frammentaria, moderna e multiforme (videoclip, musica elettronica, uso pubblicitario della musica). L’estetica della città si riflette nel racconto musicale contemporaneo.

    Sono figlio della rabbia e dell’amore, il Gesù di periferia
    […]
    Città dei  dannati
    Al centro della terra
    Nel parcheggio del 7/11 dove mi è stato insegnato
    Il motto era solo una bugia
    Dice la casa è dov’è il tuo cuore
    Ma che vergogna
    Perché il cuore di tutti
    Non batte allo stesso modo
    Battiamo fuori tempo, Città dei morti
    In fondo a un'altra autostrada perduta
    Un cartello che ci svia nel nulla,
    Città dei dannati,
    figli perduti con le facce sporche, oggi
    a nessuno sembra importi veramente,
    leggo i graffiti nel box di un bagno
    Come le scritture sacre in un centro commerciale
     sembravano confessare
    senza dire molto
    Ma confermavano solo che
    il centro del mondo
    é la fine del mondo
    e non me ne potrebbe fregare di meno

    The Jesus of suburbia [16] rende bene l’idea del disagio sociale che le fasce giovanili delle periferie patisono. Il contesto è quello della metropoli americana ed il titolo “Il Gesù di periferia” subito inneggia al sacrificio di un metaforico calvario di incomprensione e diversità. La distanza, fisica e metaforica, rende questi ragazzi vittime di una mancanza di opportunità, che la periferia non offre; il punto di vista del perbenismo da cittadino modello si scontra con il punto di vista del giovane medio disadattato. Quella di non adattarsi alle strutture consolidate della società americana, infatti, si rivela una scelta, poiché nella civiltà urbanizzata il “Gesù di periferia” riconosce comportamenti sociali non condivisibili come la retorica, la falsità e la censura è una scelta. Disagio giovanile, incomprensione, mancata integrazione, ribellione, lotta di classe sono gli elementi che vengono fuori da questo testo.

    Nel suo ultimo rapporto annuale, Legambiente pone la crisi dello spazio urbano al centro dell’analisi e ne individua la causa non tanto nell’aspetto economico ma, e soprattutto, in una crisi della capacità di innovazione, che frena gli interventi utili a rendere le città più sostenibili e blocca lo sviluppo di una prospettiva futura. Nei capoluoghi italiani manca un filo condutture nelle politiche amministrative, che offra l'immagine di quello che sarà la città futura. Dal  report si evidenzia la necessità di una prospettiva d'insieme, a lungo periodo, che riveda lo spazio urbano come potenziale di un territorio, da valorizzare attraverso politiche di sostenibilità ed efficienza, che rendano gli spazi pubblici più sicuri, salutari e funzionali.

    Il corriere della sera Sette, reportage di viaggio in Turchia, una frase in risalto: «La massiccia urbanizzazione dal Sud – Est e dall’Anatolia ha creato una classe che chiede diritti» [17]. Spesso è stato enfatizzato il ruolo della densità e dell’eterogeneità dell’insediamento urbano ai fini della creatività, dell’innovazione. Tuttavia la semplice concentrazione di soggetti diversi non produce innovazione se tra essi non si sviluppa un dialogo, secondo la comunicazione diretta, che avviene per mezzo del contatto faccia a faccia. Questo vuol dire che la città, ricca di spazi pubblici nei quali il contatto dovrebbe avvenire in modo agevole, presenta un enorme potenziale. Lo spazio pubblico costituisce una risorsa per la sua qualità di mettere tutti gli interlocutori sullo stesso piano. Uno spazio privato, in quanto proprietà di qualcuno, non è un luogo neutrale, dunque uno o più interlocutori saranno avvantaggiati. Lo spazio pubblico, invece, è il luogo di ognuno, dove tutti possono accampare gli stessi diritti.

    Questa prospettiva, a mio avviso, va però integrata con le problematiche che sono nate nella città, con la percezione attuale del fenomeno delle migrazioni. Le città sono crogiolo di identità anche straniere, ma da un lato difficilmente il suolo pubblico è percepito da queste come luogo dove accampare anche i propri diritti, dall’altro i residenti oriundi hanno difficoltà a condividere lo spazio pubblico con i nuovi arrivati. Questo fortifica il pensiero del sociologo urbano Giandomenico Mela, secondo cui non basta la concentrazione di umanità eterogenea per innovare il tessuto sociale e culturale; senza dialogo diretto il progresso non si manifesta. Le paure dei Gourmantché del Burkina Faso, sono anche le paure dell’uomo metropolitano: la città è terreno di scontro – incontro costante con l’ignoto e con ciò che viene percepito come pericolo. Nella metropoli quelle che un tempo erano le barriere difensive, simboliche e fisiche, le mura, decadono. Il limite tra gli spazi diviene incerto, evanescente, sovrapponibile; l’ignoto si insinua nella città attraverso la presenza dell’altro e dello straniero, di culture diverse e non omologabili. Perdendo i confini definiti, ciò che non si conosce può espandersi, ritirarsi ed insinuarsi nelle fenditure dell’agire quotidiano e del consono. L’atteggiamento di impermeabilità alla folla o di indifferenza psicologia, descritto da Georg Simmel, allo stato attuale, non basta più a garantire sicurezza: è necessario costruirsi un mondo su misura e viverlo. Lo spazio rappresenta una risorsa ed il controllo di una risorsa si tramuta in potere. È dunque invitabile che il sistema di gestione dello spazio urbano sia teatro delle relazioni di potere dei gruppi sociali che lo occupano. Non a caso se da un lato in nessuna società lo spazio è lasciato alla spontaneità istintuale, dall’altro esso è socialmente regolato e culturalmente definito, regolamentazione e definizione che trovano corrispondenza nel gruppo utilizzatore dello spazio stesso. In altre parole il rapporto uomo – spazio coincide con il rapporto tra gli uomini nello spazio.

    La nuova tendenza di realizzare mobilitazioni collettive lampo, i cosiddetti flash mob, a mio avviso, costituisce esattamente un esempio dell’uso culturale dello spazio. Il tentativo di riappropriarsi dello spazio pubblico e di coinvolgere le persone che in quel momento vi si apprestano ad “usarlo” è sfociato in una consuetudine creativa, che spesso riesce a coinvolgere cittadini su vasta scala, in una condivisione non fisica, ma simbolica. Questa modalità di riappropriazione ha insita in sé anche la possibilità di sviluppare il dialogo faccia a faccia necessario all’innovazione, di cui Giandomenico Mela si fa promotore. Il 14 febbraio 2013, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il flash mob ha raggiunto una dimensione planetaria: donne ed uomini, in tutto il mondo, hanno occupato spazi pubblici per ballare all’unisono e dimostrare, al resto dell’umanità, consapevolezza di genere ed avversità alla violenza. Altra mobilitazione collettiva e pacifica di riappropriazione degli spazi urbani pubblici è la critical mass ovvero la passeggiata di gruppo, in bicicletta per le strade cittadine. Anche la critical mass ha portata mondiale. Queste mobilitazioni hanno però un connotazione culturale determinata; non sempre riescono a superare le barriere dell’appartenenza identitaria: la maggioranza dei partecipanti è composta da giovani, studenti, persone con una certo grado d’istruzione o cultura e quindi apertura mentale e consapevolezza dei propri diritti, persone che hanno a disposizione del tempo.

    Il fatto è che vivere in un certo quartiere o in un certo tipo di abitazione (ad esempio edilizia popolare) attribuisci ai soggetti elementi identificativi, tanto caratterizzanti, quanto più la città si differenzia nelle sue parti in modo diseguale. Nonostante la diversità che lo spazio urbano manifesta attraverso la fenomenologia sociale e culturale, secondo Pina Lalli le città, in quanto entità, vengono percepite con delle caratteristiche precipue. Tali caratteristiche ricadono di riflesso sugli abitanti, creando ciò che Lalli definisce l’identità relativa alla città. Così, ad esempio, se New York è definita una città cosmopolita, cosmopoliti saranno i suoi abitanti; se Tokyo è una città conosciuta per la continua produzione, i suoi abitanti saranno considerati lavoratori indefessi. La città ha dunque una dimensione simbolica che ha legame e ricaduta sulla vita sociale e sulle esperienze quotidiane dei suoi abitanti: la costruzione dell’identità soggettiva, di gruppo e sociale infatti si attua in un contesto spaziale preciso, in cui la città stessa rientra.

    «Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenice future sono presenti in questo istante, a volte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili.» (Le città invisibili, Italo Calvino)

    Riferimenti bibliografici

    AA.VV., Rapporto Legambiente, Ecosistema urbano XIX edizione, Il Sole 24 Ore edizione, 2012.
    Abbott E. A., Flatlandia, Adhelfi Edizioni, 2011.
    Ammendola Giandomenico, La città postmoderna, Editori Laterza, 2000.
    Aarne A. - Thompson S., The Types of the Folktale: A Classification and Bibliography. The Finnish Academy of Science and Letters, Helsinki 1961.
    Calvino I., Le città invisibili, Oscar Mondadori, 2006.
    Campanella T., La città del Sole in I classici del pensiero, Fabbri editore, 1997.
    De Martino E., Sud e magia, Feltrinelli, 2006.
    De Martino E., La terra del rimorso, EST, 1996.
    Eco U., La memoria vegetale, Edizioni Rovello, 2007.
    Eliade Mircea, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, 2013.
    Fele Giolo, Etnometodologia introduzione alle attività ordinarie, Carrocci editore, 2002.
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    La  Cecla F., Perdersi, Editori Laterza, 2011.
    Mari A., Kindl U., Il bosco. Miti, leggende e fiabe, Arnoldo Mondadori Editore 1989.
    Mela A., Sociologia della città, Carrocci editore, 1999.
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    Signorelli A., Antropologia Urbana, Guerini Studio, 2001.
    Thompson S., La fiaba nella tradizione popolare, Il Saggiatore, Milano 1994.

    Emerografia

    Internazionale, anno 20, 2/ 22 agosto 2013, Internazionale srl.
    SETTE, Corriere della Sera, numero  28, 12 luglio 2013, RCS.
    AM. Antropologia Museale, anno 8, numero 22, Editrice La Mandragora, 2009.

    Note

    [1] Esiodo, Teogonia, v. 116.

    [2] Zingarelli, 1998.

    [3] Genesi 1, 1.

    [4] Le 7 nuove meraviglie del mondo moderno.

    [5] Santuari come quelli della Madonna del Rosario in Pompei (NA), della Madonna dell’Arco in S. Ananstasia (NA), della Madonna delle Galline in Pagani (SA) hanno nella loro storia una ierofania, che, in relazione allo spazio contestuale,  si manifesta in maniera completamente diversa: la chiamata diretta della divinità nel caso della città di Pompei; le galline che, raspando, trovano l’icona sacra in territorio di Pagani; l’episodio esemplare che porta alla devozione nel paese di S. Anastasia.

    [6] Marc Bloch, I re taumaturghi, 2012.

    [7] Perdersi ed orientarsi, per La Cecla, sono entrambi processi dell’adattamento all’ambiente, necessario alla storia collettiva ed individuale. Secondo antropologo la “mente locale” è l’insieme dei processi che sviluppa nel genere umano la facoltà di abitare i luoghi.

    [8] Secondo la classificazione di Aarne-Thompson- Uther Hansel and Gretel corrisponde all’indice 327A, Pollicino all’indice 327B ed entrambi appartengono alla categoria di “storie di magia” e con connotazione “bambini abbandonati”.

    [9]  Nel catalogo  Aarne - Thomson  Cappuccetto Rosso è classificata sotto l’etichetta AT 333 “storie di magia”.

    [10] Secondo l’indice di Stith Thompson Motif-Index of Folk-Literature, La Bella Addormentata nel Bosco, appartenente al tipo AT 410, contiene i seguenti motivi: F316, Fata che getta la maledizione sul bambino. D1962.1, Sonno magico a causa di una maledizione. D1967.1, Persona caduta nel sonno magico circondata da una siepe protettiva. D1978.5, Risveglio dal sonno magico attraverso un bacio. D735, Disincantamento attraverso il bacio.

    [11] «Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. [...] In tempi posteriori [...], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte [...] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve.», Platone, Timeo, Capitolo III.

    [12] Alberto Savino è il nome d’arte dello scrittore e pittore Andrea Francesco Alberto de Chirico, fratello del più noto Giorgio de Chirico.

    [13] Alberto Savinio, Introduzione e commento in La Città del Sole, 1997.

    [14] Amalia Signorelli, 2001.

    [15] Mercatigrafie, Marco Aime in AM, 2009.

    [16] Jesus of Suburbia è un singolo estratto dall'album American Idiot dei Green Day, uscito il 25 ottobre 2005. Il brano è suddiviso a mo’ di un poema in cinque parti, ognuna delle quali affronta un tema: Jesus of Suburbia, City of the Damned, I Don't Care, Dearly Beloved, Tales from Another Broken Home .

    [17] Antonio Ferrari, Quei sette confini della Turchia dove c’è la chiave del suo futuro in Il corriere della sera Sette, RCS, 12 Luglio 2013, n. 28.



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