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  • Sociologia degli spazi e dei legami sociali
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.2 Maggio-Agosto 2014

    COMUNICARE E METTERE IN COMUNE NELLA SOCIETÀ INFORMAZIONALE


    Andrea Cavazzini

    cavazz.a@tin.it
    Docente di Storia della Filosofia Moderna e Contemporanea, Università di Liegi.

    Roberta Cavicchioli

    robertacavi@yahoo.it
    Storica delle idee, Dottorato di ricerca in Filosofia, Università degli Studi di Genova.

    «La comunicazione è uno scambio interattivo fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento.» (Paul Watzlawick, Pragmatica della  comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, 1971)

    L’impossibilità o la difficoltà di comunicare è più che un semplice fatto psicologico: essa riguarda l’incapacità di mettere in comune, e rinvia ad ostacoli più profondi e strutturali che gravano sulle relazioni umane. In quanto forme di impossibilità, o di fragilizzazione, del legame sociale, le varie fenomenologie della non-comunicazione hanno un impatto diretto tanto sul singolo che a livello collettivo, e vanno dalle patologie del quotidiano alla crisi della sfera pubblica e all’emergenza, cui dà impulso la crisi economica, di precarietà e “nuove povertà”.

    Dal punto di vista delle condizioni di uno spazio pubblico democratico, Hannah Arendt ha insistito sulla precarietà dei momenti in cui gli esseri umani riescono ad aprire uno spazio stabile ove la discussione e il pensiero siano messi effettivamente in comune [1]. Questa contingenza ineliminabile degli atti istitutivi dello spazio pubblico non riguarda però solo la sfera politica vista nella sua autonomia di luogo di articolazione delle opinioni. L’apertura e la conservazione di uno spazio condiviso e “comune” non sono senza rapporti con le condizioni sociali di una congiuntura di crisi e di impoverimento strutturali in cui la capacità di “mettere-in-comune” risorse ed oggetti, ma soprattutto azioni e saperi, può rappresentare una strategia indispensabile di resistenza alla marginalizzazione per individui e comunità.

    Dunque, la precarietà “essenziale” degli spazi e dei legami “comuni” si ricollega alla precarietà in senso sociologico ed economico: non solo perché quest’ultima erode e disgrega ulteriormente un “comune” che è per definizione contingente e mai garantito, ma anche e soprattutto perché la fragilità del potere di “comunicare” beni, saperi, situazioni e deliberazioni accentua l’instabilità di un universo sociale ed economico percorso da disuguaglianze ed esclusioni brutali. L’esclusione e l’invisibilità disgregano lo spazio comune, gli ostacoli interni allo spazio comune – il fondo ineliminabile di non-comunicazione a cui ogni comunicazione effettiva è sottratta, talvolta solo per un breve istante – riproducono l’esclusione e l’invisibilità. La povertà emergente è quindi anche povertà di “comune”, di attaccamenti positivi e di condivisione dell’agire.

    Donde alcune domande che aprono altrettanti campi d’analisi. Come pensare e descrivere la fenomenologia di questi ostacoli e dei loro effetti? E soprattutto: come immaginare e dove reperire i meccanismi stabilizzatori che dovrebbero rendere meno improbabile l’apertura di uno spazio comune? Quali sono le forme istituzionali che disinnescano provvisoriamente – e quali invece sostengono e alimentano – la non-comunicazione intrinseca alla marginalizzazione e all’impoverimento? Cosa rivelano le difficoltà odierne a “mettere in comune”, non solo a proposito della distruzione del Welfare, ma anche delle insufficienze del Welfare classico che non pare aver prodotto un habitus comunicativo sufficientemente durevole?

    Proprio in virtù di questa sua trasversalità a discipline e approcci metodologici differenti, un'indagine che si appunti sulla fenomenologia del comunicare corre il rischio di essere dispersiva, di perdere di vista lo scopo. Tra le varie strade che a noi si offrivano, abbiamo scelto di cominciare il nostro discorso assumendo innanzitutto una prospettiva genealogica: etimologicamente, il comunicare rinvia al mettere in comune un oggetto, materiale o simbolico che sia, a metterlo a disposizione di più persone, se non dell’intera comunità.

    Quand’è che gli esseri umani sono portati a mettere in comune qualcosa? L’esperienza ci insegna che tendiamo a mettere in comune ciò che ci appartiene – la parola, emozioni, pensieri o beni – con chi amiamo, ma questo è ancora uno slancio individuale in cui l’atto del dare, gratuito, non instaura uno schema complesso di reciproche obbligazioni.

    Se il moto spontaneo del condividere ciò che si possiede caratterizza i rapporti d’amore e le relazioni familiari o amicali e non attende una ricompensa, quando il dare avviene in un contesto allargato e meno personale, esso implica un ricevere, genera l’aspettativa di una reciprocità fra i soggetti coinvolti nell'interazione. In qualche misura chi riceve qualcosa, o utilizza nella modalità della condivisione un bene altrui, sottoscrive un patto in cui la stessa aspettativa di reciprocità, il differimento, la certezza che l'altro intenda ricambiare sono premessa per la nascita di uno spazio comune, in cui gli agenti operano riconoscendosi come eguali e condividendo una medesima scala di valori. Nel rinunciare al possesso esclusivo di un bene materiale o simbolico per il godimento differito di un bene superiore, o nell'attesa di beneficiare dei servizi scaturenti dall'alleanza esigibile, l’individuo si apre alla possibilità della cooperazione disegnando una prima forma di progettualità con altri individui e a partire da un’interazione non sporadica o casuale con propri simili. Concetto, questo, ben espresso nel linguaggio delle religioni e del mito, ove il dono tende a plasmare una nuova comunità e il rapporto di elezione produce inesorabilmente uno scambio di intenti e promesse (l’eucaristia con cui si stringe l’alleanza dei credenti). Condivisione, comunità, relazione sono tre termini che ritroveremo poco più avanti nel nostro discorso, e di cui riscopriamo l'attualità quando ci riferiamo all'esperienza dei moderni mezzi di comunicazione.

    Un esempio assai noto di come la pratica dello scambio possa allacciare e rinsaldare alleanze e spazi di condivisione, superando le barriere spazio-temporali, la offre la letteratura antropologica riportando la  notissima parabola del circuiti di scambio: l'azione del dare produce una temporanea asimmetria che, necessariamente, induce il ricevente ad un gesto di superiore liberalità che la ribalti e la riproduca in una spirale di entusiasmo e crescente coinvolgimento.

    Che siano il risultato di conquiste o di fatiche, i beni di cui disponiamo sono un'estensione all’io di un sociale che veicola particolari rappresentazioni della realtà, attribuisce valore ad alcuni beni e non ad altri, condivide l'apprezzamento per alcuni comportamenti e non per altri. Per questo, già ad una prima lettura risulta evidente la connessione fra il gesto del dare e il comunicare, veicolando contenuti culturali e identitari molto forti [2]. Non soltanto l'interazione fra donante e ricevente può esplicarsi solo all'interno di un codice culturale condiviso, ma è sensibile ad ogni variazione dello stesso e può produrre a propria volta innovazione.

    La tradizione contrattualista ci ha abituati a pensare che il mettere in comune nasca fondamentalmente dall’esigenza di unire le forze e le risorse disponibili trovando, nel prossimo, cooperazione, supporto e difesa. Le prime comunità di uomini si strutturano, giustappunto, attorno ad alleanze strette per migliorare le aspettative di vita del singolo; tali alleanze generano relazioni fiduciarie e di potere nel gruppo: ciascun alleato sa cosa gli spetta, cosa è tenuto a mettere in comune, cosa riceverà per il proprio contributo. Generando un’interdipendenza tra gli individui, il mettere in comune crea un modello di organizzazione sociale riconosciuto, un sistema di vincoli dinamici e rinegoziabili solo dal gruppo e all'interno del gruppo.

    Lo stato di necessità persistente non è, però, il solo movente che induce gli uomini a preferire un assetto comunitario. Si porta verso l’esterno, si pubblicizza, si condivide qualcosa che si ritiene utile per sé e si può, pertanto, scambiare; possiamo mettere in comune ciò cui attribuiamo un valore, che riconosciamo come indispensabile alla vita e di cui non possiamo ragionevolmente rivendicare l’uso esclusivo. Mettere in comune risponde ad un’esigenza di pubblicizzazione, in cui, a ben vedere, entra in gioco il riconoscimento del proprio ruolo, delle proprie forze. Ciò che pubblicizziamo, portiamo-fuori, instaura spazi di relazione più ampi e modifica gli equilibri precedenti.

    Possiamo decidere di mettere in comune anche una serie di beni che rientrano nella sfera della nostra proprietà personale: il nostro corpo, i frutti del nostro lavoro, il nostro pensiero. Quando questa scelta non scaturisce da una minaccia esterna o da un pericolo per la nostra sopravvivenza diciamo piuttosto che intendiamo “condividere” qualcosa. La condivisione rimanda ad un ulteriore aspetto della vita umana, quello della socialità (diciamo “socializzare” qualcosa per significare: metterla in comune intenzionalmente e per far scaturire nuove interazioni). Già, perché possiamo con-dividere solo ciò che abbiamo messo in comune, rinunciandovi provvisoriamente, come accade nella convivialità di un pranzo o di una festa, dove ciascun ospite contribuisce offrendo qualcosa di proprio per accrescere il banchetto o allietare la cerimonia, (un manufatto, una materia prima, un’abilità). Così comunichiamo l’intenzione stessa di mettere in comune attraverso una serie di gesti e comportamenti codificati che rende riconoscibile la nostra disposizione d’animo e incoraggia chi incontriamo a fare altrettanto.

    Questo modello generale – potremmo dire ideal-tipico nel senso di Weber – della catena dare-condividere-comunicare ci servirà innanzitutto per analizzare alcuni fenomeni propri al mondo attuale, in cui le forme della comunicazione nel senso di mettere in comune sembrano incontrare alcuni ostacoli e distorsioni specifici, in parte già indicati all’inizio di questo studio.

    Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluse quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo-catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre) [3].

    Nel ventennio dominato dall'ideologia dell'autoregolazione del mercato, imperava una paura del comune, del suo potenziale eversivo: la strutturazione di reti comuni era già percepita come un attrezzo per smontare l'impalcatura del soggetto responsabile, libero agente economico.

    In ambito anglosassone, il fenomeno veniva descritto con l’espressione ambivalente di “age of access”- coniata per descrivere questa svolta potenzialmente auto-distruttiva all’interno del sistema capitalistico: Jeremy Rifkin paventava la nascita di una cultura dell'ipercapitalismo che avrebbe trasformato l'intera vita in un'esperienza a pagamento [4].

    L'ambivalenza caratterizza le modalità di sviluppo del capitalismo informazionale. Dopo il grido d'allarme di Garret Hardin con Tragedy of the Commons del 1968 che prefigurava la possibilità di un rapido deperimento dei beni comuni esauribili senza una regolamentazione, seguirono quelli che chiama “trent'anni di frenesia”- in cui dominano, come ricorda nel suo bel saggio Philippe Aigrin, l'estensione dell'ambito oggetto di brevettazione o di nuovi diritti di “proprietà”; la restrizione delle modalità con cui le entità coperte dal copyright possono essere usate; l'inasprimento universale delle meccaniche poliziesche, delle procedure e delle sanzioni pensali e civili relative a tutti i diritti di “proprietà intellettuale” (Causa comune, p.67)

    Lo svuotamento della sfera pubblica ha modificato dall'interno la categoria del comune che un tempo si faceva coincidere col pubblico, ingenerando un processo di privatizzazione e spoliticizzazione dell'esistenza, ben descritto da Daniel Innerarity [5]. La condivisione di risorse, tradizionalmente legata ad una concezione di bene comune ad una data società ha perso il suo spazio nel momento in cui hanno fatto irruzione come attori politici gruppi capaci di far valere i propri interessi in modo immediato e i loro diritti come un insieme retto da uno stile di governo, senza alcun impegno nella riforma dell’insieme collettivo di cui essi fanno parte.

    Allora risulta evidente che «dobbiamo reinventare il modo di articolare società ed economia e, a tal fine, partire dalla nostra necessità di sviluppare i servizi alla base dei beni pubblici e alla creazione di beni comuni informazionali e articolarli con la produzione materiale» [6].

    Nella società contemporanea dove l'isolamento e un senso di privazione e solitudine descrivono una realtà esperita da molti, torna alla ribalta il tema del comune, in una corsa sfrenata a nuove forme di  aggregazione, in una fame di condivisione che è senza dubbio amplificata dallo svuotamento dello spazio pubblico e dalle reti di sostegno (welfaristiche di primo e secondo livello). Mettere in comune significa allora restituire senso a sistemi di reciprocità vecchi e nuovi.

    Si parla sempre più spesso di condivisione e socializzazione: social network, social dinners, co-lunching, co-housing, eco-working – dal job-sharing ai gruppi di acquisto solidale, passando per l’accesso condiviso alla conoscenza (che rinverdisce l'utopia del General Intellect, un nodo concettuale aspirazione di una generazione antagonista), il mettere in comune è, su scala planetaria, l’oggetto di riflessioni e sperimentazioni spericolate. Mai come oggi, complice la generale contrazione della spesa pubblica nei paesi occidentali, è attuale l’idea di un’economia dello scambio di beni e della condivisione. La condivisione cittadina tra privati, al di fuori del quadro istituzionale o dei contesti formali, si riattualizza in una congiuntura economica che costringe le famiglie a fare i conti con vecchie e nuove povertà – il contesto sociale sprona a uscire dall’isolamento, quello culturale ad allargare le maglie dell’individualismo proprietario, condividendo “quello che resta” che si immette allora nel moltiplicatore della Rete [7]. In una fase di penuria, l'accessibilità totale di cui le reti virtuali sono promessa è la nuova cornucopia.

    Attenzione, però, a non idealizzare questa pulsione. L’enfasi attorno alla condivisione quale superamento del feticismo delle merci proprio alla società del ventesimo secolo è a dir poco sospetta: siamo di fronte ad un’epifania che scuote le aziende in trasformazione liberando spazi di mercato nella creazione di servizi di comunicazione e di scambio avanzati (The Mesh, per l’appunto). Gli attori economici hanno modellato l’infrastruttura dello scambio attraverso portali e luoghi di incontro virtuale in cui gli utenti, anche i più esperti, debbono essere instradati e accompagnati. A dispetto della sensazione che sia possibile gestire l’intero  processo di accesso nella più totale autonomia, ciò che arriva nelle nostre mani dalle vetrine virtuali, è monitorato a partire dalla pubblicazione dell’annuncio sino alla consegna.

    Terziario avanzatissimo o parassitismo inteso a massimizzare il margine di profitto sui prodotti? Nel caso in cui convivano compravendita e scambio su due binari distinti, il ruolo degli operatori è di incentivare il consumo attraverso il riutilizzo e la rimessa in circolo di beni che sarebbero fuori mercato e quindi inspendibili da parte dei proprietari. A ben vedere, l’operazione di marketing – sapientemente studiata coinvolgendo privati e aziende – ha per effetto di far fruttare almeno il doppio il bene per il rivenditore, facendone moneta corrente che il proprietario (e secondo venditore) può immettere sul mercato. Un travestimento sapiente che si alimenta delle teorie della decrescita e dell’economia di scambio con le quali conferisce una giustificazione ideologica (e moralmente ineccepibile) all’esigenza di recuperare un margine di manovra in un mercato saturato dai beni di bassa qualità acquisiti dalle masse negli ultimi decenni.

    Quanto appare inizialmente come una condotta suscettibile di prefigurare una fuoriuscita dall’antropologia capitalista, ad uno sguardo più ravvicinato sembra invece funzionare come un ammortizzatore della crisi, come un suo sintomo, o anche come una strategia finalizzata all’ottimalizzazione del profitto in tempi appunto di crisi e di turbolenze.

    Ciò non riguarda soltanto la produzione materiale: gli oggetti simbolici della cosiddetta cultura di massa vengono riproposti nella forma di auto-apprendimenti semplificati e adattati a diverse regioni del sapere (la cultura diventa parte del processo vitale perché finalizzata al divertimento e funzionalizzata [8]). Mettere in comune le proprie esperienze umane e culturali, un "senso" possibilmente condiviso: non è forse questa la giustificazione della proliferazione dei social networks o delle iniziative “culturali” di ogni tipo? (mostre, associazioni, festival, animazioni diverse, etc.).

    Eppure, è patente la legittimità di un certo scetticismo quando si tratta di stabilire se questa condivisione proliferante di orizzonti di senso sia realmente una comunicazione. La moltiplicazione dei fenomeni culturali, dei gusti, degli stili di vita, dei sistemi simbolici, delle referenze estetiche, in realtà crea delle segmentazioni, delle distinzioni effimere, che ripropongono su di una scala allargata l’isolamento dell’individuo e il culto delle piccole differenze narcisistiche (snobismo di massa, aristocratismo “per tutti”).

    Donde il carattere effimero di queste condivisioni: le comunità fondate sulla condivisione di un gusto non bastano mai ad assicurare il soggetto della propria originalità, e soprattutto a confermare tramite una comunicazione effettiva la consistenza delle proprie scelte ed identificazioni. L’ingiunzione contraddittoria ad individualizzare il proprio profilo soggettivo e a partecipare al tempo stesso a delle comunità fondate su giudizi estetici fuggevoli – e eterodiretti dall’industria culturale – produce un effetto di rincorsa perpetua. Allora le comunità e i gusti culturali proliferano, ma non c’è messa-in-comune, bensì solo riproposizione di gerarchie simboliche parzialmente obliterate e la corsa all'accaparramento dei beni residui.

    Cosa accade, quando lo scambio o la condivisione rafforzano il nostro senso di possesso e di accumulazione, non più degli oggetti in quanto cose, ma dell’esperienza del possesso (vedi noleggio di beni di lusso, oggi molto in voga fra i giovani) o crea scatole cinesi di possesso apparente e de-responsabilizzazione societaria (out-sourcing e franchising)? Come contrastare la conversione di una tendenza liberatoria in una strategia economica che mira a ridurre l’esperienza del senso attraverso il sotto-prodotto dello scambio?

    Lo stesso ideale della condivisione e di uno stile di vita conviviale e comunitario opposto al produttivismo tecnocratico rappresenta un’opportunità insidiosa che fa della solidarietà e della rinuncia titanica a una vita troppo comoda una via per rendere accettabile socialmente, non solamente in foro interiore, la repentina caduta degli stili di vita fra le ex-classi produttive europee e statunitensi. Come proteggersi dall’abbaglio e valorizzare gli aspetti progressivi di una proposta che potrebbe rivoluzionare il nostro rapporto con la proprietà?

    Accanto al sospetto che vi sia una pesante dose di dirigismo ad alimentare questo afflato di condivisione, resta l’evidenza di un paradosso: siamo sempre meno capaci di mettere in comune. Con l’introduzione dei social networks a potenziare l’azione dei media, la comunicazione ha acquisito una capillarità impensabile sino ai giorni nostri: possiamo far sapere a chiunque, o selettivamente, come ci sentiamo, farci localizzare, mostrare ciò che abbiamo fatto e commentare fatti di cronaca, contribuendo alla costruzione degli eventi nell’informazione emotiva dei “mi piace”. Diamo evidenza ai nostri profili per venire contattati e mettere in comune ciò che ci riguarda in una vera e propria indigestione che fa il verso al motto di Watzlawick: “non si può non comunicare”. L’effetto distorsivo si produce proprio per via del canale scelto che permette un riciclo anche delle impressioni, degli spunti, delle emozioni quotate in rete. In tal senso, non sorprende una ripetitività nei contenuti che trascende il conformismo, perché ha una funzione economica e politica simmetrica alla re-immissione degli oggetti nel circuito economico. I social networks assomigliano spesso ad un gigantesco riciclo di opinioni e affetti già usati (da qualcun altro).

    Qui, occorre introdurre una distinzione: il riciclo costituisce una messa in valore totale delle cose (e delle idee) sino alla loro consunzione, laddove il mettere in comune produce, talvolta suo malgrado, un’innovazione. Nel riciclo sopravvive un’idea di appagamento del e nel possesso. Ecco perché esso partecipa della nuova ideologia della frugalità in tempo di crisi: l’uno e l’altra non rappresentano delle alternative reali al comportamento proprietario e alla massimizzazione dei profitti. L’austerità e la parsimonia ci rafforzano nella convinzione che, con le giuste strategie, non ci manchi e non ci mancherà nulla. Al contrario, per mettere in comune qualcosa dobbiamo avvertire contemporaneamente una sensazione di sovrabbondanza e di mancanza. L'esperire una mancanza, il sentire che manchiamo di qualcosa, ci trasporta verso l’altro.

    All’opposto di questa mancanza produttiva, troviamo la messa in comune "economica", che in realtà non rompe affatto con l'individualismo proprietario, e la messa in comune "culturale" di senso ed esperienze che non rompe affatto con l'isolamento. Laddove risulta evidente che l’esaltazione dell’unicità dell’esperienza ridotta spesso a puro “gusto” e idiosincrasia personale cozza contro la tendenza conformistica che induce nei soggetti una coazione a replicare “il momento speciale” altrui, ad appropriarsene attraverso l’apparente risposta all’appello alla condivisione. Lo dimostra la vasta gamma di servizi intesi a fornire l’emozione irripetibile (dello sport estremo, del viaggio solitario, dell’incontro trasgressivo su larga scala, a costi ridotti e in totale sicurezza).

    Tutto ciò conduce ad un interrogativo: comunicare meglio non sarà anche comunicare meno? Abbiamo veramente bisogno di mettere in comune tutto quello che ci passa per la testa o tutti gli oggetti d’uso quotidiano? Quali sono i gesti che creano realmente uno spazio comune? In prima approssimazione, si potrebbe avanzare l’ipotesi seguente: una comunicazione autentica del senso e della cultura non può avere come base che una complicità – individui uniti dal riconoscimento di una mancanza, una privazione che trova il suo completamento nel volgersi all'altro. Esperire la mancanza, dunque, e cercare nella mancanza dell'altro l'occasione per la propria utilità.

    Se si considerano l’utilitarismo quotidiano e la mera appartenenza identitaria, culturale o ideologica, alla stregua di forme difettive della comunicazione intesa come “mettere-in-comune”, occorre però precisare a cosa potrebbero assomigliare delle modalità autentiche di questa pratica.

    Quale tipo di esperienza può essere indicata come base ipotetica di un’esperienza non-regressiva o mistificante del mettere-in-comune? Appoggiandoci ad autori “classici” del pensiero critico, faremo l’ipotesi che questa esperienza possa essere definita come “gentilezza” o “cortesia”. Con questa espressione – che riprendiamo da Bertolt Brecht e Walter Benjamin – non intendiamo alludere a vaghe disposizioni sentimentali, né ad un semplice rispetto formale delle convenienze. Ciò che questi termini indicano – certo in modo imperfetto e impreciso – è piuttosto un dato antropologico fondamentale, forse radicato nella lunghissima durata delle facoltà di adattamento della specie. Si tratta cioè della capacità elementare di articolarsi fattivamente ad altrui, alle sue necessità e alla sua situazione, quindi di collaborare e cooperare. Necessariamente, una descrizione di questa disposizione fondamentale dovrà partire dalla fenomenologia suindicata delle comunicazioni “false”, che si organizzano però attorno ad un’assenza o mancanza ben reale – mancanza di stabilità, mancanza di risorse materiali che assicurino un’iscrizione ordinata nella vita sociale, mancanza di un senso condiviso che rende muta e opaca l’esistenza in società e pertanto “povera di esperienza”, secondo l’espressione di Walter Benjamin, riferita alla condizione soggettiva dei contemporanei della Grande Guerra e della prima irruzione della tecnologia nei rapporti tra gli uomini: «L’arte di narrare si avvia al tramonto (…). È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze (…). Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?» [9].

    È sempre secondo Benjamin che la possibilità di fare esperienze ricche di senso si traduce immediatamente nella possibilità di comunicarle: tale è la funzione del narrare nelle società pre-industriali: «L’arte di narrare storie è sempre quella di saperle rinarrare ad altri, ed essa si perde se le storie non sono più ritenute. Essa si perde perché non si tesse e non si fila più ascoltandole (…). Questa è la rete in cui si fonda l’arte di narrare. Essa si scioglie oggi da ogni banda, dopo essere stata intrecciata millenni or sono nell’ambito delle prime forme artigianali (…). La narrazione, come fiorisce nell’ambito del mestiere – contadino, marittimo e poi cittadino –,  è anch’essa una forma in qualche modo artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro “in sé” dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il fatto nella vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa» [10].

    Questa comunicazione-condivisione è lungi dal ridursi ad un’appartenenza puramente simbolica o emotiva ad un orizzonte culturale “organico” quale si attribuisce al mondo sociale premoderno: in realtà, gli esseri che vivono in un mondo comune, che possono scambiarsi delle esperienze e arricchirle prolungando ciascuno le narrazioni degli altri, questi esseri sono legati gli uni agli altri da vincoli che possono essere definiti di utilità, a condizione di possedere una definizione sufficientemente sottile dell’utilità: «L’orientamento pratico è un tratto caratteristico di molti narratori nati (…). Ciò rinvia alla vera natura della vera narrazione. Essa implica, apertamente o meno, un utile, un vantaggio. Tale utile può consistere una volta in una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di “consiglio” per chi lo ascolta (…) “Consiglio”, infatti, è meno la risposta a una domanda che la proposta relativa alla continuazione di una storia (che è in atto di svolgersi). Per riceverlo, bisogna innanzitutto saperla raccontare (a prescindere dal fatto che un uomo si apre ad un consiglio solo nella misura in cui sa far parlare la propria situazione)» [11].

    Se ci si attiene a questa descrizione, “essere utili” gli uni agli altri significa che l’agire di ciascuno permette agli altri di agire con più efficacia, precisione e coerenza. L’incremento della consistenza dell’azione può allora essere visto come il risultato di quell’utilità il cui fondamento è la condivisione dell’esperienza. Ma la tesi di Benjamin è che appunto questa condivisione, per così dire data immediatamente nelle società pre-industriali e proto-moderne, è stata dissolta dalle condizioni di vita proprie alla modernità capitalista: non solo perché le mutazioni tecnologiche e le loro applicazioni sia economiche che militari hanno contribuito a rendere inafferrabile il paesaggio della vita sociale; ma anche perché il mondo della metropoli capitalista è il mondo della guerra di tutti contro tutti, dello scatenamento degli animal spirits della concorrenza universale, cui fa da pendant il freddo calcolo utilitaristico della ragione mercantile e strumentale. Che ne è in queste condizioni – che sono ancora largamente le nostre – della capacità di mettere in comune le esperienze e, quindi, di essersi utili gli uni con gli altri?

    Una risposta a questa domanda, Benjamin l’ha cercata nell’opera letteraria di Bertolt Brecht: non solo perché le forme di scrittura di quest’ultimo rappresentano un’attualizzazione di pratiche artistiche – ballate, canzoni, storie d’almanacco, plaintes medievali, morality plays… che appartengono al mondo sociale pre- o proto-moderno in cui poteva fiorire la narrazione; ma soprattutto perché l’attualizzazione brechtiana di tali forme tenta di renderle adeguate ad esprimere l’esperienza della solitudine, dell’abbandono, della conflittualità universale e della glaciazione dei rapporti tra gli uomini, che è l’esperienza della modernità capitalista. La posta in gioco etica e politica è quindi chiara: si tratta di far emergere, grazie all’operazione letteraria, delle forme di solidarietà e di comunicazione, di messa-in-comune, che sono proprie al nuovo contesto moderno, posto ormai aldilà di ogni immaginabile base immediata dell’esperienza condivisa.

    È appunto questa ricostruzione della comunicazione che Benjamin cerca di mettere in evidenza nei suoi commenti alle poesie di Brecht. Le figure che attraversano questi poemi sono le figure della solitudine e dell’isolamento estremi: il paria, l’esule, il perseguitato, il clandestino… Solo per queste figure contemporanee può aver senso il tentativo di ricostruire un universo comune, aldilà di ogni comunità immediatamente data: ma questa ricostituzione non può avvenire se non sullo sfondo di un abbandono assoluto e glaciale. In “Del povero B. B.”, il poeta dice: «Io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto/da boschi scuri, dentro mia madre, una volta»; secondo Benjamin, «La determinazione temporale, quasi zoppicante in coda alle altre (…) rafforza l’impressione di un’esistenza in balia delle cose. Il poeta parla come se già nel grembo materno fosse stato esposto al mondo» [12]. Per questa umanità “esposta” ad un mondo freddo e ostile, i gesti della comunicazione sono ad un tempo difficili e necessari: essi devono ergersi su di una distesa di ghiaccio, su di un vuoto sconfinato, per apportare gli elementi più rudimentali e fragili di una solidarietà senza la quale la sopravvivenza stessa non è più garantita. La lirica “Dei peccatori all’inferno” «evoca le anime degli amici nelle fiamme dell’inferno, come una di quelle scritte apposte sulle strade per raccomandare ai passanti di intercedere per coloro che sono defunti senza sacramenti» [13]. Ma la tavola commemorativa ricorda – senza lamentarsene – l’assenza di lamento e di lacrime per i dannati, e si rivolge ad essi come a dei passanti affinché essi preghino per il poeta stesso, la cui anima è essa pure dannata e abbandonata da tutto e da tutti: «Per il poeta il giuoco deve cessare e, dopo aver mostrato tanta spietatezza, chiede lacrime, sia pure spietatamente» [14].

    Questa dialettica tra derelizione e solidarietà – necessaria, richiesta, eppure dichiarata e constatata come impossibile – è alla base dell’estrema pregnanza dei gesti di “benevolenza”, “cortesia” o “gentilezza” (tre traduzioni possibili del vocabolo Freundlichkeit) presenti nel mondo lirico brechtiano. La cortesia amichevole è un legame minimo, che si rivela in gesti effimeri e quasi impercettibili: malgrado la sua debole intensità, essa instaura tuttavia una condivisione e una solidarietà in cui, ancora per un attimo, uno scambio di esperienze, e quindi una maniera di utilità reciproca, ridivengono possibili: «Nel Libro di devozioni domestiche Brecht ha scritto una ballata delle cortesie del mondo. Queste cortesie sono tre: la madre sistema i pannolini; il padre tende una mano; alcune persone gettano terra su una fossa. E Basta. Perché alla fine di questa ballata è detto: «Quando gli si danno due manate/di terra, quasi ognuno ha amato il mondo». Le dimostrazioni di benevolenza del mondo avvengono nei momenti più duri dell’esistenza; alla nascita, al momento del primo passo dentro la vita e al momento dell’ultimo, che porta fuori della vita. Si tratta del programma minimo dell’umanità» [15].

    La cortesia – che non consiste «nel fornire occasionalmente cose piccole, bensì nel fornire cose grandissime come fossero piccolissime» [16] - è anche ciò che spinge Laotse – controfigura di Brecht nella lirica “Sull’origine del libro Taoetking” – ad acconsentire alla richiesta del gabelliere, cioè a fermarsi, malgrado sia egli stesso sulla via dell’esilio, per mettere per iscritto ciò che appreso e che ora può insegnare, il contenuto della sua saggezza.

    Questa cortesia però non deve essere confusa con una benevolenza al limite della niaiserie: essa è una pratica tanto più preziosa quanto più è appropriata a dei tempi duri e inumani, e di essi reca la traccia fin nelle proprie condizioni di esercizio: «“Con lo sguardo allora il vecchio scese/su quell’uomo. Giubba a toppe. Scalzo”. La preghiera del gabelliere può essere cortese fin che si vuole. Laotse si accerta prima che a formularla sia una persona idonea [Inoltre] di questa cortesia si apprende che essa non elimina, bensì rende vivente, la distanza tra gli uomini. Dopo che il saggio ha fatto cose così grandi per il gabelliere, gli rimane ben poco da fare con lui, e non è lui a consegnargli le sue ottantun sentenze, bensì il ragazzo [che accompagna Laotse]» [17]. Essere cortesi non vale con e per chiunque. In tempi di separazione e di solitudine, occorre trovare coloro a cui un atto di gentilezza può essere utile, nel senso di “portare consiglio”, e di aiutare a condurre la propria esistenza.

    La cortesia presuppone che un legame di complicità si sia instaurato – ed è un legame fondato su di una privazione comune. È nel riconoscimento di una mancanza comune – Laotse mormora “Anche tu?” quando constata che il gabelliere non fa parte dei vincitori e dei potenti – che una condivisione effettiva diventa possibile. Essa non ha nulla della comunità fusionale e dei suoi fantasmi regressivi: le distanze sono mantenute, essere cortesi, e quindi utili, gli uni con gli altri non implica l’adozione di un atteggiamento enfatico di benevolenza esibita e immaginaria. La mancanza e la privazione fondano solidarietà discrete, ma reali, e la cui intensità talvolta impercettibile può diventare una grande forza. I tre gesti di cortesia del “programma minimo dell’umanità” risuonano, secondo Benjamin, nel poema su Laotse quando vi si dice “Che cede all’acqua docile/a lungo andare, la pietra tenace/Quel che è duro la perde, capisci?”: «Il poemetto è stato scritto in un’epoca in cui una simile asserzione colpisce l’orecchio come una promessa che non è da meno di ogni promessa messianica (…). Questi versi insegnano che è consigliabile non perdere di vista l’elemento incostante e mutevole delle cose e stare dalla parte di ciò che è poco appariscente e prosaico ma anche inesauribile, come l’acqua. Il dialettico materialista penserà in proposito alla questione degli oppressi. (Si tratta di una questione poco appariscente per coloro che dominano, di una questione prosaica per gli oppressi, e, per quel che concerne le sue conseguenze, della più inesauribile di tutte). In terzo luogo, accanto alla promessa e accanto alla teoria c’è la morale che risulta dal poemetto: Chi vuole che ciò che è duro soccomba non deve lasciarsi sfuggire nessuna occasione per essere cortese» [18].

    Note

    [1] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Introduzione di R. Zorzi, traduzione di A.-M. Magrini, Torino, Einaudi, 2006.

    [2] Marcel Mauss, Saggio sul dono, Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Introduzione di M. Aime, Torino, Einaudi, 2002, p. 23, «Tali istituzioni esprimono solamente un fatto, un regime sociale, una mentalità definita: insomma, tutto, cibo donne, bambini, beni, talismani, terreno, lavoro, servizi, uffici sacerdotali, e ranghi, è materia di restituzione. Tutto va  viene, come se ci fosse scambio costante di una sostanza spirituale comprendente cose e uomini, tra i clan e gli individui, suddivisi per ranghi, sessi e generazioni».

    [3] Beni comuni vs capitalismo. Un paradigmi a confronto, Giovanna Ricoveri Numero 19 aprile 2012, Copyright © MMIX Altronovecento - Tutti i diritti riservati - Riproduzione vietata - CreditiFondazione Luigi Micheletti - micheletti@fondazionemicheletti.it.

    [4] Penso soprattutto a Jeremy Rifkin, The Age of Access, Ken Tarcher/Putnam
    Copyright, 2000. Nel suo lavoro Rifkin paventava che l’interdipendenza fra gli individui in uno scenario di libero accesso scardinasse il senso di responsabilità e autonomia del proprietario. Gli fanno da contraltare svariati testi celebrative sul tema, fra cui  di Rachel Botsman e Roo Rogers What’s Mine is Yours: The Rise of Collaborative Consumption).

    [5] Daniel Innerarity, Il nuovo spazio pubblico, Roma, Meltemi, 2008.

    [6] Philippe Aigrin, Causa Comune, pubblicato 11/06/2007, p. 141.

    [7] Mabel Franzone - Alejandro Ruidrejo (dir.),  « Mito y poder en las sociedades contemporáneas/Mythe et pouvoir dans les sociétés contemporaines », M@gm@ vol.11 n. 2, 2013. Interessante contestualizzazione: « Cette tendance culturelle valorise la frugalité, la simplicité volontaire, le minimalisme. Une littérature importante se situe dans ce courant  Paul Ariès (2010), Dominique Loreau (2009), Serge Mongeau (2005), Pierre Rabhi (…). Ce courant exprime la lutte contre le formatage commercial et publicitaire, il fait aussi l’objet de militantisme associatif ou simplement de mouvements citoyens qui organisent des actions comme la journée sans achat, la rentrée sans marque, les semaines sans télé… »

    [8] Già Hannah Arendt osserva, in Tra passato e futuro: sei esercitazioni, Milano, Garzanti, 1991, p. 267: “La crisi della cultura nella società e nella politica”: «L’industria del divertimento, alla quale si contrappongono pantagruelici appetiti che consumano i suoi prodotti distruggendoli, è costretta a offrire merci sempre nuove.  In questa situazione, chi lavora nei mass media mette a sacco l’intera gamma della cultura presente e passata, sperando di trovare materiale adatto, che per di più non può essere usato così com’è: per diventare divertente deve essere modificato, per essere di facile consumo deve subire un processo di elaborazione».

    [9] Walter Benjamin, “Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov”, in Id., Angelus Novus, traduzione e cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962, riedito nella Nuova Universale Einaudi, 1994, p. 248. Si noterà l’attualità di queste osservazioni: «Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle morali dai detentori del potere» (Ibid.).

    [10] Ibid., p. 255-256.

    [11] Ibid., p. 250.

    [12] W. Benjamin, “Commenti ad alcune liriche di Brecht”, in Id., L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, traduzione di E. Filippini, con una Prefazione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 1966, 1991, p. 150. Le versioni italiane delle poesie di Brecht sono tratte da B. Brecht, Poesie e canzoni, versioni di Ruth Leiser e Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1964.

    [13] Ibid.

    [14] Ibid., p. 151.

    [15] Ibid., p. 155.

    [16] Ibid., p. 154.

    [17] Ibid.

    [18] Ibid., p. 155-156.



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