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  • Sociologia degli spazi e dei legami sociali
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.2 Maggio-Agosto 2014

    MULTICULTURALISMO QUOTIDIANO: LUOGHI E LEGAMI SOCIALI ALLA PROVA DELLA GLOBALIZZAZIONE


    Enzo Colombo

    enzo.colombo@unimi.it
    Docente di Sociologia dei processi culturali, Università degli studi di Milano.

    Vivere con la differenza in un contesto di crescente globalizzazione

    A partire dall’ultimo quarto del secolo scorso, si stanno verificando trasformazioni significative che incidono profondamente sulla struttura sociale, sull’esperienza quotidiana, sull’idea che abbiamo di noi stessi e delle nostre relazioni con altri. L’intensificarsi dei processi di globalizzazione, la crescita delle “interconnessioni complesse” (Tomlinson, 2001), le costanti innovazioni delle tecnologie digitali e comunicative, il crearsi di “sfere pubbliche diasporiche” alimentate da flussi planetari di persone, idee, capitali, merci e informazioni (Appadurai, 2001) e il ripetersi di crisi economiche finanziarie non sono che alcuni dei fattori che stanno modificando le nostre idee di locale, appartenenza, legame sociale. Spesso non possediamo ancora un vocabolario sufficientemente articolato per parlare di questi mutamenti – ‘globalizzazione’, che cerca di riassumerli, è un termine tanto ampio da risultare sfuocato, impreciso. Senza avere ancora una soluzione soddisfacente, ci rendiamo conto che: «Le parole che la cultura del XIX secolo ci ha tramandato e che continuano a nutrire il nostro lessico ci sfuggono come sabbia tra le mani quando proviamo a misurarci con le sfide e i dilemmi di una società planetaria» (Melucci, 1994: 12).

    Una di queste sfide è costituita dalla necessità di trovare nuove forme per organizzare, all’interno di società sempre più plurali, il vivere quotidiano con la ‘differenza’ (Harris, 2009; Meer, Modood, 2012; Valentine, 2013). Il modo in cui si riorganizza la relazione con l’alterità – soprattutto in ambito urbano e nella dimensione del ‘locale’ e della vita quotidiana – è un buon punto di osservazione per cogliere come la capacità/possibilità di costruire e decostruire la differenza culturale sia uno strumento politico importante per la definizione dei confini e degli spazi sociali, delle appartenenze e delle esclusioni. Tale capacità/possibilità sembra infatti costituire oggi, in particolare per le nuove generazioni, una competenza fondamentale nell’aprire o chiudere opportunità personali, per garantirsi, o vedersi esclusi da privilegi e risorse scarse.

    L’emergere del dibattito sulle società multiculturali negli anni ’80 del secolo scorso è un esempio del tentativo di trovare nuovi modi di vivere con la differenza e dello sforzo di elaborare nuovi termini per descrivere nuove esperienze. Evidenzia l’insoddisfazione per un linguaggio ereditato dal passato – assimilazione, integrazione, melting pot – che mostra tutta la sua inadeguatezza di fronte a situazioni sociali in rapido e costante cambiamento.

    Le trasformazioni nel nostro modo di concepire la differenza e il ‘locale’ evidenziano un possibile mutamento di prospettiva culturale (forse annuncio di un più radicale mutamento di paradigma) interconnesso con l’intensificarsi dei processi di globalizzazione.

    Dalla ricerca di una risposta normativa all’interesse per un multiculturalismo quotidiano

    Il dibattito sulle possibili modalità di convivenza in una società sempre più caratterizzata da individui e gruppi che si riconoscono in tradizioni e preferenze culturali diversificate è stato spesso monopolizzato da preoccupazioni di carattere normativo, sia orientate all’assunzione di appropriate politiche di intervento a favore delle minoranze, sia orientate all’elaborazione di consistenti e coerenti teorie della giustizia in grado di ampliare il carattere democratico e plurale delle società liberali.

    Nel primo caso, a partire dall’assunzione di esplicite politiche multiculturali in Canada (1971), in Australia (1973) e in Svezia (1975), il dibattito multiculturale ha spesso favorito un’ampia produzione normativa nel campo dell’educazione, del lavoro, delle politiche abitative, della difesa di linguaggi e culture dei gruppi minoritari tese a promuovere pari opportunità ed evitare forme di discriminazione ed esclusione. Si è trattato del tentativo di rendere effettive politiche di riforma sociale orientate a colmare evidenti svantaggi educativi, occupazionali e, più in generale, di inserimento sociale di gruppi minoritari: nativi, immigrati e altre minoranze culturali discriminate.

    Nel secondo caso, il dibattito si è concentrato sulla capacità di elaborare principi generali da cui far discendere forme di governo della vita pubblica in grado di valorizzare positivamente la differenza culturale. La discussione si è focalizzata sul tema del riconoscimento (Taylor, 1998; Honneth, 2002) e delle modifiche che è necessario introdurre nell’ordine liberale per assicurare un’effettiva libertà individuale e una piena possibilità di partecipazione alla vita collettiva. I principi liberali classici, fortemente centrati sul riconoscimento di diritti individuali e su un esteso universalismo, vengono attaccati o rivisitati in modo da includere il riconoscimento dei diritti collettivi e dell’importanza delle differenze culturali (Kymlicka, 1999; Habermas, 1998; Benhabib, 2005).

    Entrambi questi dibattiti hanno sviluppato deboli strumenti concettuali per mettere a tema il significato delle pratiche sociali interculturali; pratiche che divengono una condizione normale, banale e routinaria, dell’esperienza quotidiana, soprattutto in ambito urbano. Hanno frequentemente finito per favorire il proliferare di un «normativismo intempestivo [che] ha prodotto una sconsiderata linea politica, che rischia di congelare le differenze di gruppo esistenti» (Benhabib, 2005: 8). Ciò ha spesso orientato il dibattito multiculturale verso un vicolo cieco, contrapponendo favorevoli e contrari alla ‘preservazione’ delle differenze culturali, considerate come essenze, eredità reificate, ‘bagagli’ ricevuti dal passato che ora è necessario conservare scevri da ogni mutamento, pena la perdita della propria identità e della capacità di riconoscersi come soggetti autonomi. Un orientamento che ha spesso appiattito il multiculturalismo a un impegno per la protezione delle differenze, favorendo isolamento e indifferenza piuttosto che confronto e integrazione tra prospettive e storie culturali diverse.

    Le critiche a queste forme di multiculturalismo che finiscono per congelare le differenze e promuovere una società a mosaico, in cui solide gabbie preservano le ‘culture’ esistenti solo perché rendono difficili scambio, dialogo e confronto reciproco, hanno portato a spostare l’attenzione dal piano normativo a quello esperienziale, indagando il senso che viene attribuito alla differenza culturale nelle interazioni quotidiane. Anche in questo caso, emerge la necessità di sperimentare un nuovo vocabolario per dare senso a nuove forme di esperienza. Cosmopolitismo (Breckenridge et al., 2002; Appiah, 2007; Kendall et a., 2009), intercultura (Lentin, 2005; Wood et al., 2006), multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi, 2007; Wise, Velayutham S., 2009) non sono che alcuni dei termini introdotti per provare ad uscire dal cul-de-sac del multiculturalismo normativo.

    L’emergere dell’interesse per la differenza

    Al di là delle peculiarità delle diverse prospettive teoriche e analitiche, le diverse critiche al multiculturalismo normativo e istituzionale evidenziano l’importanza di un’analisi delle ‘pratiche’ e dei ‘significati’ attribuiti alla differenza culturale in un contesto di crescente globalizzazione.

    La differenza e la cultura non vengono assunte come dati, come entità omogenee e coerenti, precisamente definite e stabili. Vengono, al contrario, indagate nella loro dimensione di costruzione sociale, risultato di pratiche di significazione che hanno come posta in gioco la definizione della realtà sociale: delle identità e delle appartenenze, dei luoghi e dei confini, delle modalità di distribuzione delle risorse e dei poteri.

    Risulta ingenuo sostenere che il dibattito sul multiculturalismo emerga negli anni ’70 del secolo scorso come risposta (meccanica) a un aumento quantitativo della differenza. Altri momenti storici sono stati caratterizzati da situazioni di convivenza urbana in cui la differenza culturale ha costituito una realtà molto più evidente e drammatica di quanto non avvenga nelle metropoli occidentali contemporanee. Basta pensare alle città nordamericane di fine ‘800 e inizio ‘900, così riccamente descritte dai sociologi della scuola di Chicago. Mentre la Chicago del 1880 ha poco più di 500.000 abitanti, nel 1920 il loro numero è più che quintuplicato. La Chicago di Al Capone è una grande metropoli caratterizzata dalla presenza di un’infinità di gruppi culturali diversi, che parlano lingue e professano religioni diverse, che tendono a vivere in zone etnicamente segregate e hanno occasioni di contatto che si manifestano soprattutto nella competizione, nella concorrenza o nel conflitto violento. La pluralità culturale a New York, nello stesso periodo, è altrettanto evidente: vi si stampano quotidiani e riviste in 23 lingue diverse (Park, Burgess, McKenzie, 1938/1999) e sono presenti miriadi di chiese, congregazioni, sette religiose differenti. Nonostante l’evidenza e la rilevanza della questione della relazione con l’alterità, in questo contesto i temi della valorizzazione e del riconoscimento della differenza non emergono. Il pluralismo urbano viene letto attraverso il prisma ideologico del ‘melting pot’ e del ‘progresso’: la differenza culturale costituisce il punto di partenza, la materia prima con cui costruire un nuovo modello di uomo (la sottolineatura della caratterizzazione di genere è voluta e rispecchia un ‘universalismo parziale’ che usa i termini dominanti per generalizzazioni ed esclusioni), più evoluto, più civile e moderno. Ma tale materia prima, piuttosto che conservata e valorizzata, deve essere ‘fusa’, rielaborata e infine superata se si vuole arrivare a forgiare ‘l’uomo nuovo’.

    Il valore oggi attribuito alla differenza non è pienamente comprensibile senza prendere in considerazione la critica culturale che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, decostruisce i concetti di universalismo ed eguaglianza. I nuovi movimenti sociali elaborano una visione positiva della differenza: black is beautiful, black and proud [1] diverranno gli slogan dei movimenti per i diritti civili; una parte rilevante del movimento femminista elaborerà una raffinata critica dell’universalismo come imposizione del modello maschile [2]; i movimenti studenteschi accuseranno l’eguaglianza di costringere entro schemi omologanti, repressivi, che ostacolano una piena espressione dell’individualità.

    Un contributo significativo alla trasformazione del concetto di differenza viene inoltre dal movimento e dalla teoria post-coloniale (Chambers, Curti, 1996; Hall 2000). In questa prospettiva, si elabora una stringente critica al modello dominante accusato di ‘togliere voce’ ai gruppi dominati e si sottolinea la necessità della rivendicazione del bisogno, da parte del colonizzato, di emancipazione dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici, emancipazione che può avvenire solo attraverso una riappropriazione della ‘differenza’ del colonizzato rispetto al colonizzatore (Fanon, 1962; Spivak, 1999). La prospettiva post-coloniale mette in discussione che il principio costitutivo dello Stato e dello spazio pubblico sia l’omogeneità culturale organizzata attorno a valori ‘universali’ declinati nei termini di un liberalismo individualista; valorizza, viceversa, una ‘eguaglianza nella differenza’ in cui la coesione sociale è garantita non dalla condivisione di un unico modello ma dal riconoscimento della irriducibile specificità dei diversi soggetti, dalla loro continua variabilità.

    Come risultato del convergere di queste critiche e di queste pratiche, la differenza emerge come un ‘valore’, un elemento significativo che consente di contrastare l’egemonia del pensiero e del modello dominante e permette la piena espressione individuale.

    La valorizzazione positiva della differenza è stata spesso declinata in due modi apparentemente contrastanti: da un lato, si è sottolineato il suo carattere ‘essenziale’; dall’altro, quello ‘processuale’.

    Nel primo caso, la differenza è percepita come una caratteristica ‘fondante’ l’identità. Un’essenza che costituisce il nucleo più profondo e autentico dell’esperienza individuale e collettiva, risultato della sedimentazione di una storia distinta. Una persona o un gruppo deprivati di questa specifica essenza, della loro specifica differenza, sono deprivati della possibilità di agire e di pensare autonomamente, secondo la loro più intima natura. Mostrare e vedersi adeguatamente riconosciuta la propria ‘differenza’ diviene un elemento imprescindibile per partecipare con pari dignità nello spazio pubblico, un prerequisito per un’effettiva equità sociale. Il limite di questa posizione consiste nel rischio di considerare differenza e cultura come oggetti sacri, che è necessario preservare da ogni ulteriore trasformazione. Differenza e cultura finiscono per essere congelati in un presente eterno che considera privazione e abiezione ogni modifica, che evita forme di dialogo e di confronto per sfuggire il rischio del ‘contagio’ e del ‘degrado’.

    Nel secondo caso prevale la critica al normativismo del modello dominante e la differenza viene concepita come possibilità di continua variazione, miscelazione; come opportunità di posizionamento sul margine e nelle zone interstiziali, dove è più facile resistere al potere ed esercitare la critica. La creazione continua di ibridi viene considerata essere la condizione normale di esistenza della cultura e della differenza e viene salutata come un processo sempre positivo, una trasgressione creativa, un’emancipazione dal dominio della maggioranza e del pensare-come-il-solito. Il limite di questa prospettiva risiede nella difficoltà di sottoporre a critica le condizioni di formazione degli ibridi, non riconoscendo che i processi di miscelazione e trasformazione possano legarsi a violenza e alienazione, possano essere il risultato di rapporti asimmetrici di potere e generare nuove barriere e nuove disparità (Anthias, 2001). Rischia inoltre di banalizzare l’idea che differenza e cultura siano costruzioni sociali evidenziandone eccessivamente il carattere mobile, instabile, continuamente sottoposto a revisione e mutamento. Trascura così l’altro fondamentale aspetto di ogni costruzione sociale: essa risulta efficace quando si impone come ‘fatto’ sociale, si presenta come evidente e produce effetti concreti. Un’enfasi sulla dimensione processuale rischia di non saper cogliere come differenze e culture siano spesso percepite come elementi ‘reali’ e come individui e gruppi siano disposti a lottare per rivendicarne riconoscimento e rispetto.

    Multiculturalismo quotidiano

    Le concettualizzazioni normative e filosofiche del multiculturalismo – che pure aiutano a mettere a tema la questione dell’eguaglianza delle opportunità e della partecipazione in società in cui la differenza culturale è valorizzata – esauriscono spesso le loro potenzialità in una visone idealistica, interessata a indicare come le cose ‘dovrebbero’ essere, e sottovalutano le dinamiche, le tensioni e i significati associati alla relazione con la differenza come pratica vissuta, come esperienza quotidiana. Per cogliere la rilevanza assunta dalla differenza in un mondo globale, è utile spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane e analizzare come la differenza e la cultura sono utilizzate nelle interazioni sociali, da chi, in quali contesti, per quali scopi e con quali risultati.

    L’interesse per la dimensione empirica – vissuta, dotata di senso – del multiculturalismo, una dimensione più complessa di quanto riducibile alla dimensione etico-filosofica di giustizia sociale – necessariamente normativa e quindi riduttiva –, restituisce l’ampiezza delle possibilità di azione e di costruzione di senso ma non trascura le condizioni contestuali – ‘locali’ – e i vincoli strutturali in cui tale azione è possibile e assume il suo senso specifico.

    Nella sua dimensione pratica, il multiculturalismo – che potremmo ri-definire come multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi, 2007) – consente di mettere a tema diversi aspetti che rimangono occultati o in secondo piano nella dimensione normativo-filosofica.

    Innanzitutto, emerge il carattere ambivalente della differenza: risultato della continua produzione di distinzioni e confini entro discorsi e condizioni non sempre pienamente manipolabili dai soggetti. La differenza assume il carattere di un elemento indispensabile e costitutivo del continuo e necessario processo di attribuzione di senso alla realtà sociale, ma le condizioni del suo utilizzo e il materiale di cui è composta non sono necessariamente risultato di libere scelte. La differenza risulta, contemporaneamente, ‘conferita’ – dalle categorizzazioni e dalle tipizzazioni imposte dalle condizioni contestuali, dal discorso mediatico e da quello politico – e ‘prodotta’ – dalle azioni di distinzione e di esclusione, dalla traduzione del discorso egemonico nel linguaggio vernacolare utile per affrontare esigenze pratiche situate.

    Il riconoscimento dell’ambivalenza della differenza – sia vincolo, quando imposta al di là della volontà e degli interessi degli attori, sia risorsa, quando mezzo per distinguere e distinguersi, per vedersi riconosciuti e per escludere – consente di superare la distinzione tra differenza come ‘essenza’ e differenza come ‘processo’. Se ne sottolinea, da un lato, il carattere di costruzione sociale: non il semplice ‘riconoscimento’ di differenze esistenti, ben definite e stabili, ma il risultato del costante processo di significazione connesso alla costruzione di distinzioni e confini. Dall’altro, se ne evidenzia il carattere fattuale: una significazione e una distinzione sono efficaci quando sono ‘naturalizzate’, quando sono trasformate in dati-di-fatto, in istituzioni e reificazioni e, così, sottratte alla contestazione o al dubbio sulla loro ‘realtà’.

    Nell’interazione quotidiana i soggetti mostrano una duplice competenza culturale (Bauman, 1996): sono in grado di trattare la differenza come un’essenza per dare forza alle proprie azioni e significazioni (o semplicemente riproducendo i discorsi egemonici) e di considerarla relativa e flessibile per contestare etichette esterne sfavorevoli o per rivendicare riconoscimenti e inclusioni. Passare da un registro retorico all’altro non è causa di confusione o segno di contraddizione; al contrario, risulta essere una capacità indispensabile per far fronte a situazioni complesse e mutevoli.

    Più che essere caratterizzati dal possedere una cultura e una differenza, i soggetti risultano caratterizzati dalle loro capacità di utilizzare cultura e differenze per dare senso alle loro esperienze quotidiane.

    L’attenzione alle pratiche multiculturali quotidiane consente, inoltre, di considerare come la capacità/possibilità di utilizzo della differenza sia inevitabilmente connessa alla dimensione del potere. La differenza non è sempre e solo prodotto delle strategie e delle tattiche personali; in molti casi risulta imposta, e non è detto che persone e gruppi amino la differenza che è loro attribuita. La posta in gioco della produzione (e della relativa decostruzione) di differenze è la definizione della realtà sociale, una definizione che – producendo confini che classificano, includono ed escludono – privilegia inevitabilmente alcuni soggetti e alcune posizioni a scapito di altre. La produzione sociale della differenza è sempre anche una battaglia per privilegi sociali, per produrre, resistere o demolire etichette negative. Il multiculturalismo quotidiano non riguarda solo positive situazioni di comunicazione interculturale, ma anche i conflitti e le frizioni che emergono nel costante tentativo di distinguere e di distinguersi. Alcuni soggetti e alcuni gruppi occupano posizioni più favorevoli per rendere egemonica la propria differenza e attribuire ad altri differenze negative e degradanti. «Un importante aspetto dell’attenzione alle pratiche di multiculturalismo quotidiano consiste nel riconoscere che le società multiculturali contemporanee non sono la semplice collezione di “differenze eguali”, ma riflettono le relazioni di potere che hanno forgiato le storie nazionali e i flussi globali di individui e gruppi» (Harris, 2009: 191). L’analisi delle relazioni multiculturali quotidiane non si esaurisce dunque nell’osservazione degli ‘incontri’, dei ‘dialoghi’ interculturali, ma interroga anche la genesi e le pratiche di legittimazione delle gerarchie esistenti. Non riguarda solo le ‘minoranze’, ma analizza come i gruppi dominanti costruiscono e mantengono le loro posizioni di privilegio, come pregiudizio e razzismo sono spesso parte della cassetta degli attrezzi del gruppo dominante per costituirsi come egemonico e unitario. Riconoscere una differenza può anche essere un mezzo per definire una barriera, per legittimare un’esclusione, per segnare una distanza, per definire se stessi in negativo, per contrapposizione. Può servire per creare un nemico esterno che catalizza la formazione di maggiore solidarietà e riconoscimento interno.

    L’attenzione all’uso quotidiano della differenza consente, infine, di evidenziare come, in un contesto di crescente globalizzazione, saper coniugare particolare e universale, differenza e eguaglianza, reificazione e relativismo costituiscano risorse relazionali fondamentali: la capacità di mediare e di utilizzare opzioni apparentemente opposte risulta garantire più opportunità rispetto a scelte definitive e radicali per un’unica opzione. In situazioni di variabilità, complessità e incertezza, la differenza costituisce un’importante risorsa politica: consente di costruire o demolire confini che potrebbero favorire od ostacolare le opportunità, la partecipazione, il riconoscimento, la realizzazione personale. In un contesto di crescente globalizzazione, passare da un contesto all’altro – in cui valgono regole diverse e ci sono interlocutori e pubblici diversi – diviene un’esperienza comune e inevitabile. Essere riconosciuti – cioè essere ‘individuati’ come caratterizzati da una qualche specifica ‘differenza’ – diviene un elemento cruciale: può consentire accesso e visibilità, ma può anche essere motivo di esclusione e discriminazione. Saper evidenziare la ‘giusta’ differenza nel giusto contesto risulta essere una risorsa importante – soprattutto per le nuove generazioni – per giocare al meglio le proprie carte e sfruttare le occasioni possibili nei diversi contesti. Vedersi imbrigliati in un’unica differenza, in un’unica appartenenza, riduce le possibilità perché rende più difficile il movimento, l’attraversamento dei confini, lo spostarsi da un contesto all’altro. Mostrare, rivendicare od occultare la differenza in base alle specifiche aspettative dei diversi contesti costituisce un sapere pratico che riduce il rischio di essere bloccati sulla soglia, di essere considerati intrusi, stranieri, di essere discriminati ed esclusi.

    Oltre la topografia: una definizione topologica del locale

    Analizzare le pratiche multiculturali quotidiane consente non solo di evidenziare il carattere costruito della differenza – nella sua duplice accezione di ‘fatto’ sociale: ‘costrutto’ e ‘reale’ – ma anche di porre in rilievo l’importanza del contesto e della dimensione locale.

    Come anticipato, le trasformazioni nella concezione della dimensione locale costituisce un altro significativo portato dei contemporanei processi di globalizzazione.

    L’idea di locale – cioè di uno spazio significativo, uno spazio relazionale in cui le persone si sentono a casa, chez soi – è infatti profondamente modificata dalla compressione spazio-temporale che accompagna i processi di globalizzazione (Giddens, 1994). Nel passato, il locale era principalmente definito in termini topografici – la sua definita collocazione spaziale – e caratterizzato dalla sua ‘oggettività’: si imponeva come un ‘dato’ che coincideva con l’idea di comunità e di vicinato. Oggi, è perlopiù percepito nella sua dimensione topologica – i significati e le esperienze soggettive – e considerato come risultante da scelte e negoziazioni individuali. Sempre più frequentemente ciò che si considera il proprio ‘locale’ è separato dalla comunità e dal vicinato. Il locale non è più un ‘dato’, ma diviene una posta in gioco nelle battaglie simboliche per la significazione della realtà, per la definizione di differenze e appartenenze.

    Locale assume un suo significato specifico, che si distanzia dall’idea di comunità e di semplice vicinato. Comunità rimanda all’idea di legami forti, a una totale inclusione all’interno di un gruppo (di un territorio) ben delimitato da confini riconoscibili e selettivi. Rimanda a forme forti di identificazione con altri percepiti soprattutto come ‘simili’. In un contesto di crescente globalizzazione, la pregnanza della comunità radicata in uno specifico territorio tende a riemergere in forma difensiva e reattiva. Rappresenta spesso una risposta a presunte minacce, il tentativo di costruzione di uno spazio di condivisione dell’incertezza e della paura, piuttosto che un luogo di solidarietà e riconoscimento reciproco. Si tratta di comunità effimere, il cui unico collante è la costruzione di un nemico esterno e minaccioso (Bauman, 2001). Come sottolinea Anita Harris (2010: 580), soprattutto per le nuove generazioni, l’accresciuta mobilità spaziale e il coinvolgimento in una comune cultura giovanile globale fa sì che il loro senso di comunità possa risultare radicalmente ‘dislocato’ quando creano affiliazioni multiple con culture e spazi ben al di là del loro quartiere e delle loro città. Per molti giovani oggi, la comunità non è necessariamente forgiata da un definito e condiviso senso del luogo o dalle reti di fiducia incastonate in tale luogo, bensì attraverso connessioni che si possono sviluppare in modo virtuale e trans-spaziale, che sono il risultato più di scelte che dell’appartenenza, per ‘destino’, a una specifica comunità territoriale.

    Il vicinato può essere definito come lo spazio fisico della vita e delle interazioni quotidiane. È lo spazio dell’esperienza multiculturale quotidiana, costituisce il contesto – con i suoi vincoli architettonici e naturali, con le sue temporalità specifiche, con le sue gerarchie di potere e con le sue peculiari asimmetrie nella distribuzione degli oneri e delle risorse – entro cui si sperimenta la quotidiana relazione con la differenza. Costituisce il contesto fisico dell’azione ed è sempre più caratterizzato da differenza e mutamento piuttosto che da stabilità e routine. La sua specifica conformazione incorpora forme di potere che promuovono alcuni modelli di comportamento inibendone altri, sostenendo così alcune forme di identificazione e contrastandone altre. Il vicinato diviene uno spazio ambivalente: da un lato è spesso vissuto come luogo del conflitto tra abitudini e interessi diversi, esperienza completa della pluralità, della difficoltà di relazione e di comunicazione; dall’altro, costituisce l’ambito di sperimentazione di nuove forme di convivenza, il luogo della contrattazione, dell’accordo, del dialogo, della sorpresa.

    Il locale include diversi aspetti della comunità e del vicinato senza però sovrapporsi a essi in modo completo. Come la comunità, è un luogo di ricerca di solidarietà e di identificazione, ma è definito più dalla struttura dei sentimenti e dei valori (Appadurai, 2001) che dalla spazialità topografica. Il locale ha a che fare con relazioni consapevoli e riflessive, è il risultato di scelte e di azioni piuttosto che del destino. In quanto spazio di azioni significative, il locale tende a riprodurre la complessità e la variabilità del mondo globale contemporaneo piuttosto che dipendere dalla riproduzione di routine meccaniche e comportamenti conformi.

    Come il vicinato, il locale è il luogo fisico dell’interazione quotidiana, ma è definito più dalle scelte e dalle capacità personali che dall’inevitabilità degli incontri. Saper riconoscere e usare eguaglianza e differenza sono una competenza necessaria per promuovere relazioni favorevoli o per evitare incontri spiacevoli, per costruire confini efficaci che consentano l’ottenimento di privilegi o di escludere potenziali competitori. La località è ancora definita dal vicinato – dalle interazioni quotidiane – ma le dimensioni globali divengono sempre più importanti e il senso di ciò che accade localmente, i vincoli e le risorse che caratterizzano lo spazio dell’esperienza quotidiana, trova origine più nella connessione che si stabilisce a livello globale che dalle costrizioni della vicinanza spaziale. Più che essere rappresentato da un cerchio, la località (la propria città, il proprio mondo) è rappresentata da una rete, da connessioni tra spazi significativi intervallati da ampie zone insignificanti, di transito, di attesa, di minaccia. La crescente separazione tra lo spazio ‘dato’ e lo spazio ‘agito’ – il locale – rafforza la consapevolezza dell’importanza della capacità di azione: gli individui assumono un ruolo attivo nella costruzione del loro ‘locale’, e possono solo accusare loro stessi dei risultati indesiderati. Essere capaci di creare un locale adeguato, sufficientemente protettivo ma aperto a nuove opportunità, è legato alla capacità di fare le giuste scelte e di avere le risorse e le libertà necessarie a realizzare le proprie preferenze. L’auto-realizzazione e l’indipendenza individuale sono così legate alla capacità di acquisire le competenze necessarie per comprendere differenti contesti e i codici che regolano le interazioni al loro interno. Saper presentare se stessi in accordo con le aspettative dei diversi contesti e saper usare eguaglianza e differenza come strumenti per produrre relazioni favorevoli – risultare interessanti – o costruire confini che riducono l’accesso a potenziali competitori sono competenze importanti per evitare esclusioni o riduzioni delle opportunità personali. Anche in questo caso, risulta evidente come la differenza sia divenuta un rilevate strumento politico, uno strumento per dare senso alla realtà quotidiana e, in quanto tale, una rilevante posta in gioco nella definizione delle opportunità e dei vincoli, dei riconoscimenti e delle negazioni, dei poteri e delle discriminazioni che delineano lo spazio di azione e di realizzazione di singoli e gruppi.

    La crescente interconnessione globale consente l’emergere di nuove forme di località in cui il senso di appartenenza e di coinvolgimento sono il risultato di azioni riflessive, dello sviluppo di competenze specifiche, della capacità di distinguere e di distinguersi, di mostrare e occultare differenze significative. Dare significato all’esperienza quotidiana in queste nuove località implica lo sviluppo di specifiche capacità personali (Melucci, 2000): mescolare differenti linguaggi, maneggiare differenti codici e regole, essere in grado di utilizzarli in modo appropriato in relazione ai diversi contesti. Questo implica una propensione al mutamento, al passaggio da un contesto all’altro, allo sviluppo di adeguate forme di appartenenza che consentano l’accesso senza creare legami eccessivamente stretti, senza ridurre la libertà di movimento.

    Considerate nel loro intrecciarsi, processi di produzione e di mantenimento delle località e relazioni multiculturali quotidiane – ciò che potremmo definire, seguendo Ash Amin (2006), l’everyday urban – consente non solo di cogliere come eguaglianza e differenza, inclusione ed esclusione vengano continuamente prodotte e contestate nell’interazione, ma anche di evidenziare alcune direzioni di trasformazione dell’esperienza sociale in un contesto di crescente globalizzazione.

    Nuove forme di cittadinanza urbana

    Un buon punto di partenza per cogliere alcune di queste trasformazioni è l’analisi dei mutamenti dell’idea di cittadinanza (Colombo, 2009). Come evidenziato, la differenza sembra essere divenuta una dimensione indispensabile per la realizzazione personale. La capacità di adeguarsi a differenti contesti e l’inclusione in molteplici località non implicano una completa identificazione né una totale assimilazione. Richiedono piuttosto la capacità di mantenere un costante equilibrio, sebbene sempre instabile e potenzialmente contraddittorio, tra eguaglianza e differenza, omologazione e distinzione, inclusione e libertà di movimento (Noble et al., 1999). La possibilità di sviluppare questa competenza e di garantirsi un adeguato spazio di azione non è connessa al raggiungimento di una coerenza forte – fare una scelta chiara e definitiva tra le opzioni disponibili secondo un modello ‘o…, o…’ – ma all’abilità di gestire, mediare e mantenere insieme eguaglianza e differenza, distinzione e appartenenza – favorendo una logica inclusiva basata su un modello ‘e…, e…’ (Beck, 2006).

    La cittadinanza ha costituito tradizionalmente lo spazio di rivendicazione e di riconoscimento di una adeguata libertà d’azione che consentisse agli individui di partecipare alla vita collettiva e di perseguire i propri progetti di realizzazione personale. Tale spazio si è però spesso sviluppato secondo le direttrici della somiglianza (eguaglianza) e della territorialità, seguendo un’apparentemente scontata equivalenza tra territorio, nazione, cultura e cittadinanza. I contemporanei processi di globalizzazione mettono in discussione tale equivalenza, ponendo la questione della necessità di un riconoscimento pubblico della possibilità di una ‘partecipazione senza inclusione’ o di una ‘cittadinanza senza appartenenza’. Appare sempre più evidente che appartenenza, partecipazione e riconoscimento dei diritti sono in parte autonomi, non più completamente riassumibili sotto la categoria di identità nazionale o di ogni altra unica identità collettiva.

    Come per il dibattito multiculturale, anche in questo caso sembra utile non limitarsi alla dimensione ‘formale’ – che pure costituisce un aspetto rilevante – ma concentrarsi sulle ‘rappresentazioni’ della cittadinanza, cioè sulle pratiche di produzione di senso della partecipazione e dell’azione nello spazio pubblico. Il focus di attenzione rimane dunque sulla dimensione ‘attiva’ e ‘culturale’ della cittadinanza. Questo consente di guardare alla cittadinanza non come semplice riconoscimento burocratico concesso dall’alto, bensì come una maniera particolare di concepire lo spazio pubblico, la partecipazione, l’identificazione individuale e collettiva, cioè come un criterio specifico di elaborazione dell’intersezione pratica tra differenza e località. Il modo in cui questa intersezione è intesa e attuata incide in maniera significativa sul riconoscimento formale nonché sui vantaggi e sugli obblighi che si ritengono connessi alla cittadinanza garantita da istanze istituzionali.

    In un contesto di crescente globalizzazione, i diritti e le garanzie che definiscono la libertà di azione nello spazio pubblico nel rispetto della libertà collettiva non sono più necessariamente e meccanicamente sottomessi a un’appartenenza comunitaria, omogenea per linguaggio, pensiero e tradizione. Essere una società non coincide più necessariamente con l’essere una comunità o un gruppo di vicinato: la valorizzazione positiva della differenza apre lo scenario per appartenenze fluide, parziali, condizionate, non definitive.

    La cittadinanza diviene un nodo importante per provare a dare senso, mediare e gestire le trasformazioni contemporanee. Innanzitutto, venendo a erodersi garanzie ascritte, il riconoscimento formale della cittadinanza assicura il diritto basilare di ‘esserci’, a essere considerati legittimamente titolati a occupare un luogo, a esistere come soggetti di quel luogo. Il mancato riconoscimento della cittadinanza – non potendo più contare su un riconoscimento iscritto nella posizione sociale, nella collocazione storica e generazionale di un gruppo: quel tipo di riconoscimento e di garanzie derivanti dall’essere ‘nato a X’, ‘figlio di Y’ – costringe nel limbo delle non-persone (Dal Lago, 1999), riduce l’esistenza alla nuda vita dell’homo sacer (Agamben, 1995). Quando i diritti rimangono garantiti da entità territoriali (lo Stato) mentre l’esperienza è sempre più vissuta entro località fluide, continuamente assemblate e trasformate, temporaneamente abitate, si presenta il rischio di essere privati del riconoscimento della propria esistenza sociale e politica: ovunque alieni, esclusi dal diritto di parola e di azione, prima di tutto a riguardo della propria stessa esistenza.

    Intesa nella sua dimensione formale – il possesso di un documento che certifica la propria esistenza e la titolarità a essere considerate persone, avere cioè una certa possibilità di autonomia, di azione e di resistenza – la cittadinanza costituisce un prerequisito fondamentale per essere inclusi nella connettività complessa del mondo globale. Più la cittadinanza formale è valutata a livello globale – la differenza è, ad esempio, tra passaporti che consentono di andare e stare quasi ovunque e passaporti che attivano controlli alle frontiere, richiedono garanzie supplementari, pongono restrizioni –, minore il rischio di essere esclusi, di essere fermati sulla soglia, di vedersi impedita la possibilità di partecipare alle molteplici vite locali. La differenza culturale diviene sempre più un fattore che può favorire o impedire il riconoscimento di una cittadinanza formale capace di assicurare fruibili diritti e necessarie garanzie.

    Senza cittadinanza formale che assicuri una basilare eguaglianza – di presenza, di azione, di parola, di ascolto – non è possibile alcuna forma di relazione multiculturale, nessun riconoscimento di una differenza in grado di supportare una relazione. Per questo è importante ribadire, nella riflessione sulla pluralità culturale delle società contemporanee, la rilevanza dell’eguaglianza nel riconoscimento e della difesa dei diritti basilari, senza i quali nessuna capacità può essere attivata, nessuna differenza effettivamente riconosciuta e rispettata.

    D’altro lato, però, la cittadinanza non viene più percepita come coincidere con forme forti di identificazione. La necessità di sentirsi liberi di transitare da un contesto all’altro, in base alla percezione delle opportunità che si rendono disponibili, rende un potenziale handicap legami di appartenenza troppo stretti. La cittadinanza allora è percepita non solo come garanzia di riconoscimento e forma di legittimazione della propria presenza, ma anche come possibilità di partecipazione critica, di espressione delle proprie preferenze, di manifestazione di appartenenze molteplici. La cittadinanza finisce allora per riflettere più la geometria delle diverse località personali, piuttosto che rimanere vincolata all’adesione a un’unica e ben definita comunità territoriale. Si fa largo l’idea che la possibilità di partecipare attivamente e autonomamente nello spazio pubblico e di vedersi riconosciuti i diritti di cittadinanza non debbano essere subordinati a una stretta fedeltà e a un’unica identificazione in una sola comunità. Al contrario, la possibilità di manifestare adesioni ‘parziali’ e identificazioni ‘molteplici’ testimoniano l’effettiva garanzia di diritti in grado di supportare la piena libertà individuale e la possibilità di perseguire la propria felicità e realizzazione personale.

    La cittadinanza tende così a slegare il riconoscimento dei diritti (e dei doveri) dall’omogeneità (eguaglianza) e dalla nazione (territorialità, comunità). Ciò apre però il problema di quali altri requisiti – oltre all’appartenenza e alla fedeltà alla comunità – possano essere usati come criteri di inclusione ed esclusione dai diritti di cittadinanza.

    Anche in questo caso, si avverte l’inadeguatezza dei concetti ereditati dal passato, ma la capacità di sapere inventare criteri e linguaggi nuovi appare ancora incerta.

    Da un lato, si cerca di sviluppare le massime potenzialità connesse all’idea di universalismo: il concetto di diritti umani diviene la base ultima per il riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali, al di là di qualsiasi appartenenza.  Una cittadinanza ‘post-nazionale’ (Soysal, 1994), ‘cosmopolita’ (Delanty, 2000), tende a separare cittadinanza da lealtà e inclusione in una specifica identificazione collettiva. Mentre i diritti e i doveri della prima sono legati all’universalità della condizione umana, l’appartenenza abbandona il suo legame con una comunità territorialmente vincolata per ristrutturarsi attorno a un ideale contemporaneamente più ampio – legato all’idea di un legame morale tra tutti gli esseri umani – e più contestuale – legato alle molteplici possibili ‘appartenenze elettive’, alle diverse forme di locale a cui si aspira a partecipare, in base alle esigenze specifiche e ai risultati che si intendono ottenere date le situazioni in cui ci si trova ad agire.

    Dall’altro, l’enfasi sulla differenza pone il merito alla base del riconoscimento della cittadinanza (Lister et al., 2003). Non criteri ascritti – il sangue, la lingua, l’appartenenza nazionale o religiosa – fungono da discrimine tra cittadini e alieni, ma la condivisione o meno delle regole, degli obiettivi e delle aspirazioni. La cittadinanza diviene una ‘ricompensa’ per una partecipazione alla vita pubblica basata su un comportamento corretto, adeguato alle regole comuni, piuttosto che il prerequisito necessario a garantire effettivamente tale partecipazione. Questa idea di cittadinanza rischia, però, di far scivolare l’enfasi dai diritti ai doveri e di trasformarsi in uno strumento flessibile di controllo dell’inclusione e dell’esclusione: piuttosto che costituire un riconoscimento basilare di eguaglianza che consente la partecipazione alla vita pubblica, si trasforma in uno strumento legittimo per escludere chi viene percepito come deviante, irrispettoso delle regole.

    La definizione di una nuova idea di cittadinanza, capace di integrare il riconoscimento e il rispetto della differenza e di tener conto delle trasformazioni dell’idea di locale e di appartenenza, è tutt’altro che un processo concluso ed è difficile prevedere ora la direzione in cui si orienterà la trasformazione di diritti e doveri in un contesto di crescente globalizzazione. Ciò che appare evidente è che multiculturalismo, definizione dinamica dei luoghi e cittadinanza sono esempi e campi concreti di azione sociale in cui si ridefiniscono, a volte in termini conflittuali, i rapporti tra eguaglianza e differenza, locale e globale, doveri e diritti. I processi di globalizzazione influiscono nello stabilire il frame entro cui tali ridefinizioni sono possibili evidenziando la necessità di superare un pensiero binario che costringe a scegliere obbligatoriamente e in modo definitivo per uno dei due poli. Un’attenzione alle dinamiche quotidiane entro cui tali ridefinizioni sono concretamente sperimentate, attuate e contestate consente di cogliere il modo in cui la realtà sociale viene costruita in un contesto di crescente interdipendenza globale e mette in discussione la dualità tra essenzialismo e processualismo radicale. I processi di globalizzazione rendono ancora più evidente come la realtà sociale – la differenza, lo spazio, i diritti e i doveri – sia socialmente costruita, ma rende altrettanto evidente che questa costruzione non è il semplice risultato cumulato dell’azione, delle scelte e delle preferenze individuali. I contesti – e sempre più l’interconnessione globale dei diversi contesti – incidono e vincolano ciò che è possibile costruire socialmente.

    Bibliografia

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    Note

    [1] La canzone funk di James Brown, Say It Loud (I'm Black and I'm Proud),scritta nel 1968, divenne uno degli inni del movimento statunitense Black Power. La prima strofa della canzone recita:
    Uh, with your bad self, say it louder (I got a mouth)
    Say it louder, I'm black and I'm proud
    Look a'here, some people say we got a lot of malice, some say it's a lot of nerve
    I say we won't quit moving until we get what we deserve
    We've been ‘buked and we've been scorned, we've been treated bad, talked about as just as sure as you're born
    But just as sure as it takes two eyes to make a pair, huh, brother, we can't quit until we get our share
    Say it loud, I'm black and I'm proud
    Say it loud, I'm black and I'm proud, huh.

    [2] Scrive Carla Lonzi in un testo molto discusso nel movimento femminista italiano all’inizio degli anni ’70: «il mondo dell'eguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata, dell'unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove [...] la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita. L'uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità della donna» (Lonzi 1974: 21).



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