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  • Sociologia degli spazi e dei legami sociali
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.2 Maggio-Agosto 2014

    CERCHIE DI APPARTENENZA E PERSONAL NETWORK: LE NUOVE COMUNITÀ NELLA DIALETTICA TRA DIRITTI INDIVIDUALI E DIRITTI COLLETTIVI


    Paola Di Nicola

    paola.dinicola@univr.it
    Professore Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università degli Studi di Verona.

    Introduzione

    Oggetto del presente contributo è un'analisi del ruolo e della funzione che i personal network possono svolgere nella società contemporanea. Dopo una riflessione tesa a mettere in evidenza come nel dibattito sociologico, a partire dagli anni '70 del secolo scorso, siano lentamente entrati i reticoli personali, quale nuova dimensione del sociale spesso ignorata e sottovalutata, si cercherà di delineare il profilo teorico ed empirico di questa nuova dimensione sociale a partire dalla prospettiva sociologica. In particolare, si farà riferimento alla teoria del riconoscimento, che consente di collocare i reticoli personali oltre la prospettiva funzionalista, in un contesto di community de-localizzata e de-spazializzata.

    I personal network nella società moderna: declino e riscoperta

    Il concetto di rete rinvia, e non solo metaforicamente, ad un insieme di punti (nodi) uniti da linee di connessioni dirette o indirette. Rete dunque come ciò che lega, limita, contiene  e nello stesso tempo sostiene, unisce, tiene a galla. La rete dunque delimita uno spazio relazionale le cui caratteristiche dipendono dal numero dei nodi e dai tipi di legami che li uniscono. La rete è uno spazio relazionale ordinato e relativamente stabile. In questo senso il concetto di rete, se applicato ai modelli e tipi di interazione che uniscono in maniera non casuale alcuni soggetti, rinvia al concetto di struttura così come definito dallo struttural-funzionalismo (Di Nicola, 1998). Se la struttura rappresenta la componente relativamente stabile di un sistema, essa è il  risultato di una serie di posizioni sociali (nodi) connesse e unite da un sistema di aspettative (di ruolo) reciproche e condivise (linee), che si sono cristallizzate in norme e modelli di comportamento, che si applicato e sono utilizzati da tutti quanti sono in quella determinata posizione, indipendentemente dalle caratteristiche personali dei soggetti che in carne e ossa esercitano quel ruolo.

    La struttura, dunque, è la componente stabile di sistemi di interdipendenza che a partire dalla più elementare interazione diadica ego-alter  assumono, per complessità crescente, forme sempre più articolate: istituzioni e società nel suo insieme. La struttura, infine, in quanto componente relativamente stabile di un sistema consente ad una società di sopravvivere a se stessa, nonostante il ricambio generazionale. L'enfasi posta dallo struttural-funzionalismo sul concetto di ruolo come sistema di aspettative reciproche a cui si viene addestrati (socializzati) sin dalla più tenera età,  ha fatto sì che l'attenzione degli studiosi si focalizzasse sulla conformità ai ruoli, come comportamento socialmente atteso e premiato (dalla società), con relativa indifferenza rispetto a quanto ricadeva e succedeva  al di fuori dei ruoli formali (Di Nicola, 2012). Nello stesso tempo, il meccanismo di risolvere i potenziali conflitti di ruolo, agganciando la costruzione delle identità degli attori sociali a ruoli socialmente rilevanti (sopratutto lavorativi), rispetto ai quali tutto viene ricondotto ad unità e acquista un senso (per l'agire), ha  creato un nesso forte tra la gerarchia di status di una società moderna e  industriale e processi di strutturazione di identità acquisitive, competitive, mosse da forti orientamenti  strumentali. Giungeva dunque a compimento nella teoria struttural-funzionalista quella transizione - descritta e temuta da F. Tönnies (1887) - da una società a base comunitaria verso una società a base societaria. Transizione che portava alla ribalta un soggetto autonomo, slegato, emancipato dai vincoli di solidarietà  che scaturiscono dai legami  'di sangue, di spirito e di luogo' (Esposito, 1998 - Di Nicola ,2002).

    All'interno della teoria struttural-funzionalista (che è figlia della società industriale moderna) la persistenza delle reti informali, che inizia ad essere empiricamente segnalata a partire dagli anni '70 del secolo scorso proprio in ambiente statunitense, viene letta o come indicatore di una modernità imperfetta (quindi come strategie di azione di individui e gruppi mossi da intenti, finalità e orientamenti  particolaristici, in altri termini pre-moderni) oppure come bacino di risorse a cui l'individuo può attingere per migliorare e ottimizzare le sue performance sociali, sempre all'interno di un agire strumentale (Di Nicola, 2012).

    I personal network nella società del rischio: la politica della vita quotidiana

    Molteplici sono i fattori economici, politici, culturali e sociali che hanno determinato una nuova transizione: dalla modernità classica (industriale) alla modernità riflessiva. Si modifica quindi anche il paradigma di riferimento per l'analisi dei meccanismi di funzionamento della società. Le teorie olistiche cedono il passo alle teorie costruzionistiche, al funzionalismo che ha generato l'immagine di una società come sistema ordinato e composto da parti funzionalmente coordinate, si sostituisce il paradigma di rete, l'analisi strutturale che utilizza il concetto di società  come rete di reti (Di Nicola, 1998). Una società, come molti dicono, senza un centro ed una periferia: il web (world wide web) diventa la metafora del nostro nuovo spazio sociale, del nostro essere nel sociale.

    Modernità riflessiva, società del rischio, società post-industriale, società post-fordista sono tutti termini utilizzati dai diversi ricercatori per dare il senso del grande cambiamento che la nostra società sta vivendo (Giddens, 1994): gli esiti futuri sono incerti e per molti aspetti non prevedibili, mentre chiaro appare il flusso di comunicazioni e interconnessioni in cui poterlo inserire: la globalizzazione. Nella società post-fordista in cui i classici schemi interpretativi (status, classe sociale, stratificazione, sesso, età ecc.) mostrano limiti teorici ed interpretativi per comprendere e spiegare il comportamento dell’attore sociale ed i meccanismi di integrazione sistemica e sociale che sono alla base del funzionamento della società, l’individuo è meno radicato nei tradizionali sistemi di appartenenza e nei valori e più libero di fare scelte individuali orientate e costruite a partire dalla risorse sociali e relazionali possedute e valorizzate.

    Nella società del rischio i tradizionali sistemi di appartenenza e radicamento - famiglia, partito, sindacato, chiesa, ambiente di lavoro, stratificazione di status - si indeboliscono e perdono di centralità nei percorsi di costruzione e stabilizzazione di una biografia  di vita che deve essere progettata e realizzata in contesti altamente instabili e incerti (Beck, 2000). Nella modernità liquida affiora l'immagine di un individuo sempre più isolato e 'sconnesso', 'emancipato' dalle relazioni di solidarietà ascrittive e alla ricerca di nuove forme di appartenenza (Bauman, 1998 e 2002): come dice Bauman (2001) emerge una voglia di comunità che si manifesta nell'attivazione di relazioni selettive che trovano un loro radicamento nelle relazioni personali di amicizia, di affinità di interessi, di condivisione, di partecipazione, di fiducia che si realizzano in spazi sociali de-localizzati e decontestualizzati, sempre più spesso in spazi 'virtuali' (Di Nicola, 2002).

    Teoria del riconoscimento e  personal network: dall'inclusione per uguaglianza all'inclusione per differenza

    Se nella modernità riflessiva, nella società del rischio, i personal network si pongono come nuovo bacino per il radicamento delle identità sociali in ambiti di senso e di riconoscimento che non possono essere ricondotte alle appartenenze ascrittive del passato, il problema che si pone è quello di una riformulazione della teoria della comunità. Riformulazione che, come vedremo, deve essere in grado di fare convivere diritti individuali e diritti collettivi.

    «Tagliati, nonostante tutto, i ponti con il pensiero dell’Ottocento, la ripresa del dibattito sulla comunità si gioca oggi sul tema della rivendicazione dell’identità culturale e delle lotte per il riconoscimento. Tema che sta avendo delle forti ripercussioni anche in ambito politico e politologico, proiettando la voglia-bisogno di comunità oltre la modernità e inserendola nell’orizzonte di una nuova cittadinanza, da ridefinire e rifondare. Rivendicazione dell’identità culturale e lotte per riconoscimento sono “movimenti” sociali profondamente connessi: si può dire che nell’ampio alveo delle lotte per il riconoscimento, che per Honneth [1] sono alla base di tutti i mutamenti politici, economici, culturali e legislativi (una nuova e più matura frontiera della “lotta di classe” nella società globale e globalizzata!), un posto a parte è riservato alla rivendicazione dell’identità culturale (un tipo di lotta per i diritti di specifiche e particolari minoranze, che acquista visibilità e vigore man mano che le società diventano sempre più multiculturali e multietniche)» (Di Nicola, 2010:17).

    Per Honneth (1992 e 2009), le lotte per il riconoscimento sono alla base delle rivoluzioni più o meno silenziose o cruenti che gruppi minoritari, emarginati e/o emergenti hanno portato avanti per vedersi conferita pari dignità rispetto ai gruppi dominanti e vedersi riconosciuti non solo diritti, ma anche rispetto dei propri stili e modi di vita radicati nelle comunità di appartenenza. I movimenti di emancipazione  operaia e femminile usavano, tuttavia, il linguaggio dei diritti individuali e aspiravano ad un inclusione per similitudine: era proprio il principio della sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini, indipendentemente dalla posizioni sociale e lavorativa e dal gender che giustificava la richiesta di pari trattamento e pari dignità, rendendo ogni forma  di discriminazione 'ingiusta'.

    Invece «La  rivendicazione dell’identità culturale si pone come forma particolare di lotta per il riconoscimento. Forma particolare di rivendicazione che, non a caso, emerge con forza laddove e quando nella seconda metà del secolo scorso le minoranze, diversamente caratterizzate dal punto di vista etnico, religioso, del gender e dell’orientamento sessuale, ma tutte accomunate dalla sperimentazione di forme di discriminazione ed emarginazione sociale, oltre che essere vittime di stereotipi negativi che scalfivano il rispetto di sé, l’autostima e la fiducia in sé dei quali ogni uomo ha diritto, hanno posto in termini nuovi il problema politico dell’inclusione sociale e dell’uguaglianza. Tali gruppi si sono battuti per il riconoscimento di dignità e valore non in quanto “fondamentalmente uguali a” (nello specifico: maschi, bianchi, eterosessuali), ma appunto perché “irriducibilmente diversi da”» (Di Nicola, 2010: 18).

    Con l'affiorare del tema della rivendicazione delle identità culturali, si ripropone con forza il problema del rapporto tra diritti individuali e diritti collettivi, riportando alla ribalta una dimensione olistica delle appartenenze (le comunità di luogo, di spirito e di sangue di cui parlava F. Tönnies), che la grammatica dei diritti individuali sembrava avere superato. «Poiché, tuttavia, le identità culturali “pretendono” di definire se stesse a partire da elementi di differenziazione che possono essere di tipo etnico, religioso, culturale, di origine geografica, ovvero radicarsi in una tradizione-memoria condivisa [2], tali identità possono accedere al livello della lotta per il riconoscimento (dal livello individuale al livello del gruppo), solo riconoscendo che gli elementi di differenziazione (rispetto all’esterno) costituiscono in realtà i fattori di coesione e di legame interno. Solo riconoscendo che l’appartenere è sinonimo di essere e che l’interesse del gruppo (dimensione olistica) è di ordine superiore rispetto all’interesse individuale e pertanto degno anche del sacrificio della libertà. Riemerge, dunque, quella dimensione comunitaria di vita, che pone in termini nuovi il problema dell’inclusione, dell’integrazione sociale e dell’uguaglianza dei diritti» (Di Nicola, 2010: 18-19).

    La critica sostanziale al pensiero neo-comunitarista, si gioca sul concetto di appartenenza culturale e cultura. Se la cultura è l'insieme dei significati, dei segni, dei simboli attraverso cui l'individuo acquisisce consapevolezza di sé rispetto agli altri e rispetto al mondo, essa non può essere considerata monade isolata, radicata in uno spazio sociale e storico-geografico che non intrattiene rapporti di scambio con altre monadi. La storia dell'umanità e dell'uomo è una storia di scambi comunicativi, più o meno intensi e duraturi, più o meno cruenti o pacifici, in virtù dei quali le culture sono entrate in contatto e si sono contaminate le une con le altre. E questo è tanto più vero nella società globale, caratterizzata da una intensificazione dei flussi comunicativi e della loro velocità che connettono regioni, nazioni, Stati a livello intercontinentale. Su questi flussi comunicativi circolano: denaro, merci, uomini, idee e armi!. Il multiculturalismo (Cesareo, 2000) - inteso come situazione in cui convivono sullo stesso territorio gruppi che appartengono a culture  diverse - diventa  una condizione, una esperienza sempre più frequente (si pensi alla scuola, a quanto si è modificato il panorama delle nostre classi, soprattutto nelle scuole elementari). Nello stesso tempo, coloro che arrivato "da lontano" sono figli di una cultura di origine che è stata a sua volta investita dai processi di globalizzazione che hanno toccato le società occidentali.

    La cultura non è una zaino (un contenitore) che abbiamo sulle nostre spalle, da cui traiamo gli strumenti che ci servono per vivere e per interagire con gli altri, ma è essa stessa uno strumento che usiamo quotidianamente, che si modifica con l'uso e che è tanto più utile quanto più è flessibile e adattabile alle nostre esigenze (Bauman, 2003).

    In questo senso, come sostiene la Benhabib (2002), le culture hanno confini porosi, per cui il riconoscimento delle identità culturali non può basarsi su un processo di ontologizzazione delle appartenenze che non è più possibile dare come ovvio e scontato (supposto che mai, anche nelle società più tradizionali, la cultura abbia avuto una dimensione ontologica immutabile e assoluta). Le culture non sono matrici che producono serie di uomini tutti uguali (Bauman, 2003).

    La tensione tra diritti individuali e diritti collettivi è molto forte, perché su di essa si gioca per la tradizione liberale il destino delle democrazie: tale tensione è bene esemplificata dal dibattito che si è aperto tra C. Taylor (1992) e J. Habermas (1996).

    Riconoscere le identità culturali significa dunque non riconoscere i diritti collettivi (delle comunità etniche, religiose, ecc. di appartenenza)  come fonte di uno stato giuridico, di un trattamento diverso, speciale rispetto alla comunità ospite (autoctona), rispetto al quale stato giuridico la comunità ospite applica il principio della tolleranza, dell'indifferenza (che può nascondere un sostanziale disprezzo), ma riconoscere agli stranieri il diritto individuale di poter vivere - se lo vogliono - secondo i valori e le norme del gruppo e riservare al loro stile di vita lo stesso riconoscimento e rispetto di cui sono destinatari gli altri gruppi. Sempre che all'interno del gruppo, siano  rispettati i diritti individuali di tutti i componenti (Benhabib, 2002). Perché nelle società democratiche che si fondano sulla formazione discorsiva del consenso e su forme partecipative di definizione di bene comune, non tutte le rivendicazioni per il riconoscimento possono essere accolte e recepite (Habermas, 1996). Se lo li facesse, paradossalmente, verrebbero meno i presupposti per la convivenza di soggetti che esprimono interessi divergenti e diversi che possono, tuttavia, essere realizzati, solo all'interno di un universo di senso e valori condiviso.

    Il radicamento delle identità si gioca dunque su più livelli e su più dimensioni spazio-temporali (Wellman, 1999 e 2007 - Di Nicola, 1998): si gioca sulla possibilità di entrare ed uscire (la libertà di uscire che non è data nei sistemi chiusi) in/da cerchie sociali che si muovono su registri temporali (il passato, la memoria, ma anche il futuro, la progettazione), relazionali (la famiglia, l'amicizia, i colleghi di lavoro e  di partito,  le associazioni culturali, di tempo libero, di volontariato, ecc.) e spaziali (le relazioni faccia a faccia, ma anche quelle indirette e quelle virtuali) diverse, senza che nessuno di questi registri diventi dominante ed esclusivo, inglobando totalmente le identità individuali.

    Società liquida e dell'incertezza, in cui una maggiore libertà si paga con una maggiore insicurezza. Tuttavia, come sosteneva Georg Simmel, per vivere nel punto di intersecazione di una molteplicità di cerchie sociali ci vuole un'identità forte e non  debole, perché sono necessarie capacità di negoziazione, di scelta, di fiducia, molto più forti che vivere all'ombra di un guscio che tutto ingloba e in definitiva tutto controlla.

    Bibliografia

    Bauman Z. (1998), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.
    Bauman Z. (2001), Voglia di Comunità, Bari-Roma, Laterza.
    Bauman Z. (2002), La società individualizzata, Il Mulino, Bologna.
    Bauman Z. (2003), L'enigma multiculturale. Stati, Etnie, religioni, Il Mulino, Bologna.
    Beck U. (2000), I rischi della liberta, Bologna, Il Mulino (traduzione di una selezione di saggi di Beck pubblicati a Frankfurt a.M., per Suhrkamp Verlag nel 1994, 1996 e 1997).
    Benhabib S. (2002), The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton, Princeton University Press, trad. it. La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, Il Mulino, 2005.
    Cesareo V. (2000), Società multietniche e multiculturalismi, Milano, Vita e Pensiero.
    Di Nicola P. (1998), La rete: metafora dell’appartenenza. Analisi strutturale e paradigma di rete, Milano, FrancoAngeli.
    Di Nicola P. (2002), Amichevolmente parlando. La costruzione di relazioni sociali in una società di legami deboli, Milano, Franco Angeli.
    Di Nicola P. (2010), Voglia di comunità, in P. Di Nicola, S. Stanzani e L. Tronca, Forme e contenuti delle reti di sostegno. Il capitale sociale a Verona, Milano, Franco Angeli, pp. 15-29.
    Di Nicola P. (2012), Gli approcci teorici per lo studio dei personal network, in «Sociologia e Politiche sociali», vol.15, n.2, pp. 9-26.
    Esposito R. (1998), Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi.
    Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità,  Bologna, Il Mulino.
    Habermas J. (1996), Kampf um Anerkennung im Democratischen Rechtsstat, Frankufurt a.M., Suhrkamp Verlag, trad. it. Lotta per il riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007.
    Honneth A. (1992), Kamps um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, trad. it. Lotta per il riconoscimento. Proposta per un’etica del conflitto, Milano, Il Saggiatore, 2002.
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    Taylor C. (1992), The Politics of Recognition, Princeton, Princeton University Press, tad. it. La politica del riconoscimento, in J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007.
    Tönnies F. (1887), Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig, O.R. Reislad, trad. it. Comunità e società, Milano, Comunità, 1979.
    Wellman B. (1999), Networks in the Global Village. Life in Contemporary Communities, Oxford, Westview Press.
    Wellman B. (2007), The Network is Personal: Introduction to a Special Issue of Social Networks, in «Social Networks», 29, 3, pp. 349-356.

    Note

    [1] Honneth ritiene che gli uomini non lottano e non hanno mai lottato solo per il potere o la ricchezza. La molla del mutamento sta anche nel desiderio-bisogno dell’uomo di riconoscimento: di attribuzione di una valenza positiva al proprio modo di essere, pensare ed agire. Per Honneth (2002), ai fini della comprensione delle dinamiche di mutamento legislativo, istituzionale, politico e culturale, il concetto di lotta per il riconoscimento è maggiormente esplicativo e comprensivo del concetto di lotta di classe.

    [2] È su tale pretesa che si appuntano tutti gli strali di coloro che temono che la recente ondata neo-comunitarista possa favorire il ritorno a società che negano i diritti individuali ovvero alimentare processi di balcanizzazione, in virtù dei quali la diversità “ontologizzata” (non importa se su base etnica, religiosa, culturale, geografica etc.) alimenta la violenza e lo scontro anche tra comunità che hanno convissuto per decenni.



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