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  • Sociologie des espaces et des liens sociaux
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.2 Mai-Août 2014

    CORPI ABIT(U)ATI: RELAZIONI DI RELAZIONI E UNITÀ SISTEMICA


    Sergio Straface

    sergio.straface@gmail.com
    Antropologo culturale, laureato in Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Perugia.

    Sempre la risposta più bella alla domanda più difficile. (E. E. Cummings)

    F: Papà, perché i francesi agitano sempre le braccia? […] Papà, perché quando c’insegnano il francese a scuola non c’insegnano ad agitare le mani?
    P: Non lo so. Non lo so davvero. Questo è forse uno dei motivi per cui è spesso così difficile imparare le lingue. […] Ti dico… dobbiamo ricominciare tutto daccapo e supporre che una lingua sia prima di tutto un sistema di gesti. Dopo tutto gli animali fanno solo gesti e toni di voce… e le parole furono inventate più tardi. Molto più tardi. E dopo s’inventarono i professori (G. Bateson, 2008, pp. 39-44).

    Pare sia pericoloso trasgredire le regole della comunicazione, così come pare sia pericoloso trasgredire le regole del proprio corpo, e della natura. Se il linguaggio può produrre una frattura tra il senso originario e primitivo dell’idea da comunicare e il significato profondo imbrigliato dalle parole scelte, allora, forse, è consigliato sperimentare formule comunicative diverse, e con combinazioni semantiche pronte a svincolarci dalla linearità repressiva, per concederci alla complessità semantica, e frequentare la via estetica. Quella via di grazia e saggezza sottesa e implicita alla totalità.

    La scelta delle parole pare generare significati nuovi, capaci di tradire l’idea originaria per produrne di altre: linguaggio come traduzione di idee che nella pratica genera nuove idee… allora diventa necessario equilibrare tale frattura. Così, sarà giusto tradire l’idea originaria? Come scegliere il linguaggio, le parole che facciano bene il loro lavoro? Come fare per ricominciare tutto daccapo? Sarà possibile? La via d’uscita, o di ritorno, sarà mica la scelta di un linguaggio simbolico, metaforico? Quella forma comunicativa, che è prima di tutto connettiva, capace di pizzicare quelle corde interiori che cospirano verso la sinfonia perfetta? L’armonia, forse.

    Così procedendo, ancora, la negazione può essere solo pre-vista, il no serra l’ingresso all’esplorazione allontanandoci dal possibile. Poiché nell’ambiente nulla corrisponde alla negazione, la negazione […] deve nascere entro l’organismo come conseguenza del modo in cui esso percepisce la relazione tra se stesso e l’ambiente (H. von Foerster, 1987, pag.148), allora, pare proprio che la negazione sia un’ecologia sbagliata, da qui la ‘mia’ breve riflessione sulla sociologia degli spazi antropologici, e delle relazioni sociali. Relazioni sociali, pare, caratterizzate da disconnessioni, da privazioni, da separazioni, ma prima ancora l’oggetto delle relazioni: il soggetto. È il soggetto l’oggetto antropologico e sociologico da indagare, da osservare, da spogliare per scoprire qualcosa in più, per poi ricoprirlo, custodirlo, per non contaminarlo. Da qui le relazioni di relazioni, e magari la possibilità della ricerca di un’unità sistemica, quella persa, forse.

    Relazioni di relazioni. Qual è la relazione originaria? Sarà forse l’unità sistemica la relazione da cui il tutto consegue? Se così è, e ancora forse, sarà l’unità sistemica la matrice connettiva che genera relazioni, e relazioni di relazioni? Ne consegue che tradire l’unità sistemica significa produrre disconnessioni, significa congelare la possibilità di procedere dalla prima relazione e, così di seguito, a quelle conseguenti, le relazioni di relazioni.

    Un breve esempio

    Condizione di semplicità assoluta
    Che costa meno di ogni cosa
    E tutto sarà bene…
    T. S. Eliot

    Qualche tempo fa mi è capitato di assistere ad una scena bizzarra, curiosa, che mi ha fatto sorridere e riflettere sul mio sorridere. Mi trovavo nel centro storico di un piccolo paese Calabrese, con amici. Parcheggiata l’auto incrociamo un chiosco e di fianco al bancone del bar vedo un bagno, una cella chimica plastificata e profumata. C’era la fila... erano tanti corpi abit(u)ati che attendevano il loro turno, posatamente e in silenzio. Qualche attimo dopo si avvicina un cane, randagio, anche lui posato e silenzioso. Il suo incedere era misurato, pareva quasi danzasse. Il cane, allora, dopo aver osservato quanto stava accadendo, entra in scena, si avvicina ad un angolo del bagno chimico e con disinvoltura alza la zampa posteriore per poi procedere nel suo andare. (Sorrido).

    Solo il tempo di un caffè per rivedere, nella mia mente e divertito, quanto prima osservato. E nel ri-vederlo ho pensato alla disinvoltura del cane. Pareva quasi borioso nel suo gesto, ma forse così non è stato. Per un attimo l’ho invidiato, ma prima ancora ho invidiato la sua ecologia, quanto di armonico e giusto ci fosse nel suo gesto. Forse, quel cane, randagio, disinvolto, libero, ha voluto comunicare qualcosa, ha voluto sedurre la fantasia dell’osservatore, e anche qualcos’altro... ancora un altro attimo e ho pensato a quanto siamo distanti dalla natura, a quanto ci siamo allontanati dalla natura. Se la cultura consegue dalla natura e se la cultura, inter-retro-agendo, modifica la natura ri-definendone  il processo, allora negli individui che si allontanano dalla natura c’è qualcosa che non va, qualcosa di antropologicamente, culturalmente, socialmente e assieme di naturalmente sbagliato. C’è almeno un errore, si tratta di un’ecologia sbagliata. Pare proprio che anche di questi errori si caratterizzano le nostre relazioni sociali e la socializzazione negli spazi e con lo spazio.

    Cosa centrerà allora la cultura, la natura, il bagno chimico, la fila di persone, il cane, la sociologia degli spazi e delle relazioni sociali?

    Corpi abit(u)ati

    Come mi disse una volta un maestro giapponese Zen:
    “Abituarsi a qualsiasi cosa è terribile”
    Gregory Bateson

    Mi sovviene un dubbio: se il mio corpo è abituato ad attendere, in fila dietro e davanti altri corpi abituati, per entrare in un bagno chimico, così come un cane domestico, addomesticato, è abituato ad attendere il padrone che, con guinzaglio, lo possa guidare in un prato alla ricerca di un albero dove concedersi ai propri bisogni, allora anche il mio corpo è addomesticato. Pur tuttavia il corpo di un cane, randagio, non è abituato ad attendere né dietro e né davanti altri cani in fila a un albero, così come il mio corpo, se non addomesticato, forse, non attenderebbe mai in fila davanti un bagno chimico. E se questa cultura, e la società in cui vivo, in cui viviamo, ci avesse allontanati dalla natura, abituandoci all’attesa, alla dipendenza, generando comportamenti regolari e attesi, banali forse, che condizionano la nostra vita privata e sociale? Viviamo in una società che sembra preferire i divieti alle esigenze positive? (Gregory Bateson, 2008, Pag. 548). La risposta, forse, ancora una volta è si.

    Pensando al genere animale, e in condizioni di autonomia, parrebbe che nessuna creatura attenderebbe un attimo per soddisfare un proprio bisogno fisico. L’attesa è un errore, esitare è un errore. Ma prima ancora, mi pare che l’attesa sia un condotta disordinata, in quanto si tratta di un disordine non soddisfare, e nell’immediato, i propri bisogni... è una negazione, e la negazione è una ecologia sbagliata. Ne consegue che è un errore non allestire le condizioni perché questo accada. E’ questo, forse, l’errore che consegue dall’allontanamento dalla natura, dalla banalizzazione, dall’abitudine: il non allestire le condizioni.

    Succede, allora, che non ascoltiamo più il nostro corpo, siamo abituati a non farlo, non lo conosciamo più, così abitiamo in uno spazio non più nostro e lui, lo spazio, non ci ri-conosce più. Aver vissuto e vivere in una società che educa all’attesa, alla sofferenza, che educa a non soddisfare i propri bisogni, non allestendone le condizioni ottimali e in armonia con la nostra natura, allontana progressivamente da quello che di più naturale è in noi. Così gran parte di quello che ci riguarda, gran parte dei bisogni che avvertiamo, che immaginiamo di avvertire, non sono bisogni reali, animali, imprescindibili, ma sono bisogni che effettivamente non ci appartengono. Semplicemente non sono bisogni, sono illusioni, inganni, allucinazioni.

    Essere abit(u)ati - a e da - è una condizione quasi schizofrenica, e la schizofrenia è una condizione gravissima, in altre parole lo schizofrenico non ce la può fare. Gregory Bateson sostenne che l’eziologia della schizofrenia fosse da individuare  nei difetti della comunicazione. La questione fu da lui indagata, anche, attraverso la teoria dei tipi logici di Alfred North Whitehead e Bertrand Arthur William Russell, esposta nei Principia Matematica. La teoria sostiene che l’insieme di elementi appartiene ad un livello più alto del livello al quale appartengono i suoi elementi. In altri termini si verifica una discontinuità tra una classe e i suoi elementi, in quanto la classe è di un tipo logico diverso rispetto i suoi elementi. Allora la caratteristica della schizofrenia, e dello schizofrenico, è l’incapacità di interpretare i messaggi di tipo logico diverso, e nello specifico dall'incapacità di valutare correttamente i legami tra comunicazione esplicita ed implicita adoperati dalle ‘persone normali’.

    Gregory Bateson, quindi, concentrandosi sui problemi della psicosi, elabora la teoria del double bind, doppio vincolo, come ipotesi esplicativa della schizofrenia. Bateson riferisce l’episodio della bread-and-butterfly, la farfalla di pane e di burro descritta da Lewis Carrol in Alice nel paese delle meraviglie: “Eccola lì che zampetta ai tuoi piedi…”, disse la Zanzara (Alice tirò indietro i piedi un po’ allarmata), “…puoi osservare la Farfalla ‘Pane-e-Burro’. Le sue ali sono fettine sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è una zolletta di zucchero.” “E di che cosa si nutre?” “Di tè leggero con panna”. Una nuova difficoltà sorse nella mente di Alice: “E se non ne trova?” - chiese. “Allora muore, naturalmente” - rispose la Zanzara. “Ma è una cosa che le deve capitare molto spesso”  – osservò Alice, pensierosa. “Le capita sempre” - disse la Zanzara. Dopo di che Alice restò silenziosa per un paio di minuti, sovrappensiero. Bateson conclude: La bread-and-butterfly si trova nella situazione che, se trova il suo cibo, la sua testa vi si dissolve, quindi la sua sola speranza di sopravvivenza sarebbe di non trovare alcun cibo, ma allora morirebbe di fame (Gregory Bateson, 1997, pag. 332). È questo un doppio vincolo, o legame.

    Se così è, allora, il corpo abit(u)ato, è un corpo sempre davanti un doppio vincolo, è un corpo che non ce la può fare, disconnesso, banalizzato, condannato a vivere di illusioni, di allucinazioni. È un corpo condannato alla schizofrenia forse, un corpo in imbarazzo tra il livello del discorso verbale e quello non verbale (meta comunicativo) senza alcuna possibilità di scelta, incapace di disabituarsi e di scegliere.

    Un altro breve esempio

    Vedete,
    ci sono altri rimedi oltre la meditazione,
    uno di essi è la contemplazione del mondo vivente.
    G. Bateson

    Qualche tempo fa, durante una passeggiata notturna, e precisamente in Piazza Venezia a Roma, mi è capitato osservare un gruppo di clochard, riparati sotto i porticati di un grande edificio, in quel tempo sede di un istituto di credito. Ho osservato scodelle per i cani, buste di plastica incastrate in carrelli scorrevoli, piattini per gli spiccioli, e soprattutto loro, i clochard. Erano uomini, e donne, riparati in sacchi a pelo, coperte di lana e un cartone come materasso. Ho osservato l’apparente indifferenza di alcuni passanti, forse abit(u)ati da scene analoghe, abit(u)ati da una routine che inibisce la condivisione per una collaborazione necessaria, da una routine che partorisce relazioni di relazioni, forse sbagliate. Ho osservato i clochard, anche loro, forse, abit(u)ati alla separazione, alla perdita di quella relazione originaria, l’unità sistemica, o meglio, e ancora forse, abit(u)ati ad una nuova unità sistemica, alquanto bizzarra (S. Straface, 2009).

    Ora, a di stanza di anni, continuo ad osservarmi in quella scena, forse anch’io abit(u)ato alla stessa routine, abit(u)ato a quella interruzione, abit(u)ato a quell’unità bizzarra. Mi osservo osservare quella scena, e impaurito, partecipare alla distinzione tra il ‘noi’ e gli ‘altri’, posseduto da quel processo mentale che mi consiglia di separare le cose. Continuando ad osservarmi, penso allo smarrimento di quella connessione necessaria del sé al tutto a cui appartengo. Anche qui penso all’allontanamento dalla natura, alla natura dell’uomo. Così come penso e vedo la presenza di un errore, di un’ecologia sbagliata. Errore che caratterizza queste relazioni sociali, la presenza di un ‘noi’ e la presenza di un ‘altri’.

    Sarà forse necessario abbandonare quel processo mentale che ci consiglia di separare le cose per pensare diversamente? Sarà così che la natura e la cultura, e la cultura e la natura, così come le molteplici connessioni, le relazioni di relazioni, potrebbero assumere un senso diverso, una forma diversa, nuova, di ordine superiore?

    Relazioni di relazioni

    Una delle cose meno capite è il capire
    Heinz von Foerster

    Bradford P. Keeney, nel capitolo introduttivo de L’estetica del cambiamento, racconta una serie di episodi sul corso da lui tenuto su Carlos Castaneda, presso un college del Midwest. Nella prima lezione presentò materiale che provava l’autenticità antropologica del lavoro di Castaneda fornendo prove convincenti circa le sue ‘esperienze alternative’, provocando così lo sconcerto degli studenti. Cominciò la seconda lezione scusandosi con gli allievi, asserendo che i libri di Castaneda fossero una mistificazione e come nella precedente lezione avesse dimostrato quanto fosse facile indurre ad accettare una storia irrazionale sulla base di opinioni autorevoli. In una successiva lezione si scusò nuovamente, questa volta confessando di aver ingannato gli studenti presentando argomentazioni unilaterali contro l’opera di Castaneda. Da qui alcuni interrogativi, tra cui: in che modo il reale è reale? (B. P. Keeney, 1985, pag. 13-14).

    Dalle storie narrate potrebbero sorgere numerosi interrogativi, probabilmente ognuno potrebbe formularne di diversi, e diverse potrebbero essere le risposte. Parrebbe, però, che prima della risposta occorra formulare una domanda giusta, solo una giusta domanda pre-vede una giusta risposta. Tuttavia, credo, sia ancora più giusto presentare domande difficili per le quali, forse, non c’è alcuna risposta certa, se non parziale, sperimentale. Flussi di domande capaci di depistarci dalle certezze del nostro mondo epistemologico, domande capaci di generare sbandamenti, l’attraversamento dei costumi, delle abitudini, per l’apertura ad un metodo estetico dove possono affiorare quelle strutture naturali e descrittive delle relazioni. Quindi, relazioni di relazioni… (s)oggetto di attenzione per una riflessione sulla sociologia degli spazi e delle relazioni sociali antropologicamente mediate. L’una prevede l’altra ed entrambe, assieme, concorrono nella realizzazione della persona, l’essere in relazione.

    Non riesco ad immaginare un’esistenza priva di relazioni, relazioni con il proprio sé, con l’altro, con l’ambiente, più qualcos’altro… Carl Gustav Jung, di fatto, scriveva che per capire il comportamento degli individui bisogna salire di un gradino e capire la relazione di cui questo individuo è parte (C. G. Jung, 1995). Da qui, forse, è possibile una riflessione sulla sociologia degli spazi, e prima ancora delle relazioni sociali, che conseguono dal proprio essere e sentirsi in relazione, partecipando ad un processo epistemologico nuovo che concepisca una nuova visione del posto dell’uomo nel mondo, a partire dal ‘suo’ corpo.

    Unità sistemica

    … qualunque cosa, o meglio qualunque idea, è ‘reale’
    B. P. Keeney

    Certo, gli esempi sopra citati potrebbero risultare banali, poco complessi, addirittura inopportuni, popolari, ingenui. Avrei potuto sceglierne di altri, altri esempi che avrebbero potuto generare diverse e altre riflessioni. Tuttavia, credo che ogni comportamento, ogni atto riflessivo, sia una metafora di un più ampio processo, di un processo connettivo e correttivo per l’accesso alla totalità, all’unità… quella sacra e misteriosa, via via che si sviluppa. Forse si può trovare un correttivo alla banalità, all’occultamento delle prove, distogliendo lo sguardo dalla ‘realtà’ forse, e approcciando alla conoscenza nella sua dimensione simbolica.

    Sembra che, riflettendo sulla dimensione simbolica, e quindi sul simbolo, si possa avere accesso a quella dilatazione semantica che concede l’interpretazione dei differenti fenomeni naturali, animali, culturali. Ma prima ancora così indagando, forse, si potrebbe tentare una risposta, bella magari, alle domande iniziali, e in particolare: Come scegliere il linguaggio, le parole che facciano bene il loro lavoro? - per la ricerca di una attuale, dinamica, viva, unità sistemica. Dopotutto il simbolo, e quindi il processo simbolico che ne consegue e che assieme lo anticipa, pare sia in grado di permettere quell’unione emotiva necessaria, connettendo le parti al tutto, per la produzione dell’unità e, con uno sforzo di immaginazione, si potrebbe addirittura sperare in una nuova unità.

    Carl Gustav Jung, a tal proposito, e ancora forse, fornisce qualche dettaglio intuitivo particolarmente potente quanto insiste sul carattere dinamico del simbolo. Il simbolo, per Jung, è destinato a conservarsi nel mistero, ovvero quella condizione che gli consente di generare ‘significati vivi’. Il simbolo, infatti, mantiene la sua vitalità solo in quanto esprime il fenomeno della trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. Ne consegue che il simbolo, oltre ad essere trasformativo è anche generativo (C. G. Jung, 1995). Il simbolo concede quella trasformazione generativa inscritta e concessa nella e dall’unità che consegue, e nel contempo anticipa, dal con-sé-crare.

    E allora, un corpo disconnesso, autonomo, abbandonato a se stesso, lontano dalla (sua) natura, isolato, separato, è un corpo terribilmente abit(u)ato. Potrebbe essere questa quella relazione originaria da cui potrebbero dipendere le relazioni e le relazioni di relazioni, antropologiche, sociali, a partire dal proprio corpo, animato, consacrato… con-sé-crato, cosciente e assieme incosciente del suo essere e sentirsi in relazione.

    Consacrare uno spazio, allora, un’abitazione, un corpo, il corpo persona e personificato potrebbe generare quella connessione sistemica che disabit(u)a… Questo è forse uno dei motivi per cui è spesso così difficile imparare le lingue. E allora, l’unità sistemica, quella nuova, che genera significati vivi, potrebbe essere possibile con-sé-crandosi all’unità stessa ricordando quella lingua connettiva e correttiva, sistemica, che riconnette il sé al proprio corpo, lo stesso corpo che non dimentica e che si esprime in gesti e toni di voce. Forse.

    Per una antropologia degli spazi… persona.

    Bibliografia

    Gregory Bateson, Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1997.
    Heinz von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987.
    Carl Gustav Jung, Opere 12 – Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
    Bradford. P. Keeney, L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1985.
    Sergio Straface, Diasporici Metropolitani: nuovi scenari metropolitani di lotta di classe, M@GM@, Vol. 7 n. 1, 2009, www.analisiqualitativa.com/magma/0701/articolo_09.htm.

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