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  • Sociologie des espaces et des liens sociaux
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.2 Mai-Août 2014

    PRATICHE DEI MIGRANTI E PROCESSI DI RI-SIGNIFICAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO


    Daniela Panariello

    danielapanariello1@gmail.com
    Sociologa, Dottoranda di ricerca in Scienze Umane, Università degli Studi di Genova.

    Introduzione

    Nella città multiculturale le domande di città aumentano, i vari piani che caratterizzano e che intrecciandosi costruiscono e reinventano quotidianamente gli spazi urbani si moltiplicano e si fanno sempre più portatori di nuovi bisogni e domande di città [1] che nascono dai cittadini che vivono gli spazi urbani. Nella letteratura sociologica si parla spesso della fine e della morte degli spazi pubblici nella città postmoderna [2], abbandonati, svuotati del loro significato e funzioni iniziali: quella dell’incontro e della socializzazione tra persone aventi status e biografie diverse. In realtà, gli spazi pubblici delle metropoli postmoderne non sono morti, si stanno trasformando e il loro significato e senso sono in continua evoluzione. Lo spazio della città è da sempre rappresentativo della società e del periodo storico che una popolazione sta attraversando e più che mai oggi ciò è vero con i vari flussi migratori che hanno abbattuto il vecchio concetto di confine, tipico dello Stato-Nazione, costruendone uno più ampio, fluido [3], aperto, poroso, simbolico e applicabile ad ogni visione in scala della città. Vediamo allora come gli spazi pubblici urbani sono tuttora molto frequentati, non più dagli autoctoni ma soprattutto dai migranti li riempiono con significati nuovi attraverso processi lunghi e densi di socialità. Ciò accade dalle città più piccole a quelle più grandi e dagli spazi pubblici creati e voluti dalle amministrazioni locali -piazze, giardini, parco giochi- a quelli da esse dimenticati - gli spazi interstiziali [4] -. Ciò è molto significativo di quanto il bisogno di incontrarsi e socializzare è ancora fondamentale e necessario per una buona parte della popolazione che deve reinventarsi e portare avanti un processo di ridefinizione identitaria dove la dimensione territoriale è fondamentale.

    Vediamo allora come lo spazio urbano è uno dei luoghi privilegiati della città dove il multiculturalismo quotidiano [5] può esprimersi e diventare più evidente poiché sotto gli occhi di tutti. Interessante sarà quindi esplorare le motivazioni che spingono i migranti a frequentare determinati spazi piuttosto di altri, al significato che essi hanno per loro e alle pratiche che si esprimono al loro interno. Per comprendere questo processo di ri-siginificazione dello spazio pubblico verranno di seguito esposti i risultati di una ricerca condotta a Firenze, in particolare su due piazze del centro storico frequentate dalla comunità di filippina e somala per poi esporre alcune considerazioni su processi simili di ri-simbolizzazione che avvengono sempre più spesso all’interno degli spazi interstiziali.

    Lo spazio pubblico: luogo di incontro e di negoziazione simbolica

    La concentrazione di soggetti diversi all’interno della città non le assicura innovazione se tra essi non vi è comunicazione e in particolare comunicazione diretta, che avviene per mezzo del contatto faccia a faccia. Ma proprio a tale proposito, la città presenta un’essenziale risorsa: essa abbonda di spazi pubblici, nel quale il contatto comunicativo avviene non solo in modo agevole, ma anche ponendo gli interlocutori in una situazione di parità. Naturalmente una comunicazione diretta  può avere luogo anche  in uno spazio privato nel quale però è più facile si verifichi un confronto non alla pari. Uno spazio pubblico invece, è sempre un territorio non appropriato da nessuno, è un punto d’incontro su cui tutti possono accampare gli stessi diritti. Una strada, una piazza, un parco comunale sono di tutti e di nessuno in particolare; stabilire un contatto  in quei luoghi non vuol dire certamente vedere annullare le disuguaglianze sociali, ma quantomeno, significa trovarsi su di un terreno neutro, che non predetermina l’esito del confronto, ma che soprattutto dà la possibilità agli individui, non solo di incontrarsi, ma anche di scambiarsi opinioni, pensieri, condividere significati e simboli.

    Secondo La Cecla «lo spazio è l’unica esperienza che consente alle identità di negoziare: è il luogo della negoziazione delle differenze», luogo nel quale le identità varie entrano in comunicazione fra loro e diventano fluide [6], in continuo movimento, dialettiche e pronte ad una continua negoziazione simbolica. Tale spazio diventa luogo ideale per l’incontro tra persone con varie origini culturali e la città viene qui vista come luogo aperto alla discussione e negoziazione, dove c’è un continuo confronto di pratiche e simboli diversi. Anche un qualunque spazio pubblico può trasformarsi in un luogo dove le varie etnie possono tra di loro scoprirsi e attraverso un processo di negoziazione costruire un nuovo spazio, declinato alla convivenza. In un certo senso, vivendolo, è come se gli stranieri costruissero un nuovo e personale luogo all’interno di uno spazio fisico e simbolico già esistente, è come se allargassero il senso e il significato dello spazio rendendolo più ampio, duttile, dinamico, sempre nuovo, adattandolo ai propri bisogni creando un particolare ed accogliente ethnoscape [7]. Attraverso le loro pratiche e il loro linguaggio vanno ad inserirsi in un ambiente precostituito, modificandolo e arricchendolo dal punto di vista semantico grazie alla propria potenzialità nel rappresentare un terreno d’incontro e un luogo privilegiato di sviluppo dell’innovazione culturale e dell’elaborazione simbolica.

    Processi identitari nell’era della globalizzazione

    Si deve tenere sempre presente che per ogni soggetto che opera in un sistema sociale, l’identità è il risultato di un continuo confronto con gli altri, che porta l’individuo a costruire una rappresentazione di se stesso; poiché tale processo si compie attraverso la relazione con gli altri, vi è una continua interazione tra la costruzione della propria identità, compiuta dal soggetto in prima persona, e il riconoscimento di tale identità da parte degli altri individui. Fondamentale è ricordare che la costruzione dell’identità di un individuo non avviene mai all’interno di un vuoto sociale, ma in un preciso contesto sociale e spaziale, di cui fa parte anche la città con i simboli che le sono connessi. Durante la vita, attraverso i processi di socializzazione, fin dall’infanzia, interiorizziamo i caratteri simbolici legati al contesto urbano di residenza e in parallelo si determina un processo di identificazione affettiva con la città, il quartiere o con ambiti ancor più limitati.

    Si sviluppano così sentimenti di appartenenza territoriale che fanno sentire il soggetto parte di una comunità spazialmente definita. Il senso di appartenenza avviene quindi, non solo su larga scala, a livello nazionale o della città, ma può scattare, attraverso varie dinamiche anche a livello spaziale, di luoghi. Se pensiamo ad un immigrato che arriva in un paese straniero, lo si può immaginare come un bambino che deve imparare a conoscere un luogo senza averne mai fatto prima utilizzo, ma allo stesso tempo si deve ricordare che a differenza del bambino lui ha già avuto esperienza di luoghi diversi ed è portatore di un bagaglio conoscitivo ed esperienziale preesistente che viene inserito in un determinato contesto socio-economico con tutte le dinamiche che possono scaturire a partire da quelle di tipo identitario. Per questo motivo non è scontato che un territorio venga compreso e vissuto allo stesso modo da parte di chi arriva da altrove. La ricerca di luoghi da condividere e vivere con i connazionali nei giorni liberi dal lavoro portano da una condizione iniziale di spaesamento (laddove per spaesamento si intende non solo una perdita di riferimento dal punto di vista territoriale ma anche di tutto ciò che è legato al territorio in cui si è cresciuti, come riferimenti culturali, sociali, spaziali, economici, affettivi) verso la costruzione di un nuovo paesamento [8] dove si cerca di creare nuovi legami e punti di riferimento a partire da quelli preesistenti, ciò accade poiché l’immigrato tenta di adeguarsi alle nuove esigenze di vita, avviando una sorta di circolo delle conoscenze, cercando di evitare una rottura netta col passato che non sarebbe costruttiva a livello identitario.

    Nonostante stiamo vivendo in un era globale, sembra che una parte della popolazione stia rivalutando alcuni luoghi della città, come avviene per gli stranieri nelle piazze. Quindi anche un luogo di ritrovo quale la piazza, che viene frequentato con assiduità e costanza può diventare e rappresentare un punto di ritrovo e di identificazione per alcune persone, luogo importante dove attivare processi che facilitino la costruzione identitaria di un immigrato nel paese d’arrivo. La frequentazione di alcuni luoghi diventa così  fondamentale per alcune persone, attraverso spazi all’interno dei quali possono avvenire degli scambi non solo materiali (di cibo, per esempio) ma anche simbolici (si raccontano le ultime notizie riguardanti il proprio paese) fondamentali per coloro che devono ricostruire una nuova immagine di sé per meglio adattarsi al paese d’immigrazione. Anche se si parte da bagagli culturali ed esperienziali diversi, essi diventano il punto di partenza di un percorso interculturale e possono essere valorizzati attraverso il dialogo, la condivisione dell’immaginario che ognuno ha di un luogo per costruire nuovi significati, investire luoghi di nuovi simboli.

    Si parte così da una varietà di percezioni ed esperienze per arrivare ad una rielaborazione di esse fino alla costruzione partecipata  di nuovi spazi, nuovi territori, luoghi, simboli in un processo di costruzione che porta alla nascita di una nuova memoria comune condivisa. La costruzione dell’identità legata al concetto di territorio nell’epoca postmoderna  viene quotidianamente influenzata dalle conseguenze della globalizzazione quali la mobilità, l’ampia circolazione di immagini e d’informazioni che consentono alla popolazione di entrare in contatto  con più luoghi contemporaneamente, mentre in passato si era propensi ritenere che i legami derivanti dall’identità potessero stabilirsi con un solo luogo (la città, il quartiere in cui si viveva).

    Oggi invece è possibile che si creino dei legami affettivi multipli tra i soggetti e gli ambiti territoriali coi quali vengono in contatto sia fisicamente che virtualmente [9], definendo così delle relazioni multi-appartenenza [10]. Tale concetto si adatta bene alla descrizione di una condizione che è tipica dell’immigrato, che ha lasciato fisicamente il paese d’origine, ma vi resta in contatto attraverso i nuovi mezzi di comunicazione (internet, cellulari) lasciando in sospensione questo doppio legame per cercare di vivere una sorta di doppia presenza, per sopperire ad una sua condizione psicologica di “doppia assenza”, come afferma Sayad (2002) [11].

    Per quanto riguarda la prima generazione di immigrati, quella che maggiormente si ritrova nella piazza (per quello che ho rilevato durante il periodo dell’osservazione non partecipante della mia ricerca etnografica), non si deve dimenticare che ha già costruito nel paese d’origine, durante la prima parte della propria vita, una determinata identità legata all’ambiente nel quale ha vissuto e al riconoscimento reciproco che ha portato avanti con esso e con i suoi abitanti per un lungo periodo. Tale identità legata al luogo di provenienza, una volta arrivati nel paese d’arrivo viene in un certo senso messa in discussione e si avvia un processo di negoziazione di simboli e significati tra l’ambiente di partenza e quello di arrivo, tra l’immigrato stesso e la città di destinazione con la quale attiva un nuovo processo di scambio e di ridefinizione della propria identità. Probabilmente, il ritrovarsi in piazza è utile per colmare quel “vuoto” simbolico interiore che lo straniero sente nel paese d’arrivo e che cerca di riempire attraverso pratiche, gesti consuetudinari e spontanei che vanno a creare un “pieno sociale” che lo aiutano a vivere meglio la sfera affettiva e psicologica nel paese d’arrivo dove deve trovare dei nuovi luoghi d’incontro e ricostruirsi una propria identità in relazione ad essi. Tale processo avviene attraverso uno sforzo psicologico molto importante che cerca di non affrontare da solo ma di condividere con i connazionali che vivono la stessa condizione di sospensione tra due luoghi e due sistemi simbolici.

    La costruzione simbolica della città avviene attraverso uno scambio reciproco e continuo tra città e cittadini che contribuiscono l’uno alla costruzione dell’identità dell’altro. Infatti, la connotazione simbolica della città è prodotta dall’agire concreto dei cittadini che non si limitano a ricevere passivamente un patrimonio simbolico ereditato dalla tradizione, modellando su di esso la propria identità, ma al contrario, se ne appropriano attivamente, interpretandolo, modificandolo e, in determinate circostanze, rifiutandolo del tutto o in parte [12]. Lo spazio urbano è uno spazio in continuo divenire, che si rinnova costantemente, un processo che crea un continuo movimento e dinamismo e che non si arresta mai, che agisce anche attraverso pratiche spontanee e latenti.

    L’evoluzione e la strutturazione dei rapporti interni a una comunità avvengono a partire da una collocazione spaziale sufficientemente stabile, alla quale vengono conferiti significati strumentali, simbolici, rituali [13]. Tale affermazione la si può applicare sia al luogo d’origine dove una popolazione decide di vivere, sia alla scelta di un luogo, da una parte della comunità dove riunirsi. Secondo il sociologo Simmel (1891) [14] il “riempimento dello spazio” è una delle attività maggiormente significative cui i raggruppamenti umani danno corso nelle loro relazioni reciproche ed è interessante pensare che ogni persona vede, interpreta e vive la città come un’esperienza completamente diversa dagli altri, in relazione a quelle che sono le sue esperienze urbane e personali costruendo particolari mappe cognitive [15] per orientarsi nello spazio urbano.

    La centralità dello spazio pubblico: lo studio di caso

    Verranno qui presi in considerazione i risultati di un lavoro di ricerca che mette a confronto due spazi pubblici per indagare  sulla centralità sociale di cui ancora oggi godono per una parte della popolazione, quella migrante, che frequentando assiduamente e con continuità tali luoghi fanno sì che essi non muoiano, a differenza di ciò che dice molta letteratura sociologica.

    Il case study riguarda un lavoro di ricerca condotto dalla sottoscritta tra il 2008 e il 2009 per una tesi di laurea specialistica in Sociologia presso l’Università di Scienze Politiche “C. Alfieri” di Firenze, dal titolo “La piazza come valore sociale nella città multietnica: uno studio del caso fiorentino” dove si è indagato sulla trasformazione sociale del concetto di spazio pubblico ed in particolare della piazza attraverso una ricerca sul campo suddivisa in due momenti: un’osservazione non partecipante delle pratiche di alcuni gruppi di migranti in Piazza Santa Maria Novella e in Piazza dell’Indipendenza e la somministrazione di interviste semistrutturate ad esponenti di associazioni fiorentine interculturali e ai frequentatori degli spazi in questione. Attraverso tale ricerca si è cercato di comprendere il significato che la piazza acquisiva nella città postmoderna, all’interno di trasformazioni transnazionali che si esprimono a livello locale nello spazio della piazza, nella sua dimensione glocal [16]. Quindi la piazza, sembra quasi essere un emblema della condizione moderna, all’interno della quale si rimescolano valori, processi identitari, stili di vita che portano alla produzione di nuovi simboli e significati  da parte di una consistente parte della popolazione non autoctona e attraverso un’osservazione più attenta si possono svelare quelle che sono alcune dinamiche interne a tali gruppi etnici, che spesso sono il prodotto di bisogni ed esigenze che gli immigrati hanno nel momento in cui vivono in un paese straniero.

    Tutti gli elementi raccolti durante lo studio hanno portato ad alcune riflessioni riguardanti le pratiche [17] e le motivazioni che spingono alcuni migranti a scegliere proprio questi spazi per ritrovarsi. Si è ritenuto interessante indagare l’uso di uno spazio pubblico quale quello della piazza, in passato utilizzato dai fiorentini ed oggi invece frequentato soprattutto da determinati gruppi di migranti, sempre più presenti e protagonisti della vita pubblica fiorentina.

    La comunità filippina in Piazza dell’Indipendenza a Firenze

    La piazza è potenzialmente un luogo di confronto, di crescita e per l’immigrato serve a creare un legame tra l’identità passata e quella in costruzione nel paese d’arrivo che si crea in relazione al senso di appartenenza legato ai nuovi luoghi che si frequentano. Vediamo ora come tali dinamiche sono venute a crearsi e svilupparsi all’interno di piazza dell’Indipendenza per i filippini che vivono e/o lavorano a Firenze.

    Gli intervistati non sanno come mai, di preciso,  si ritrovano proprio in tale piazza, per loro fa parte di una pratica ormai diventata parte della routine settimanale, un’abitudine che si ha e che essendo piacevole viene portata avanti nel tempo. In realtà i primi filippini giunti a Firenze, inizialmente, come luogo di aggregazione non usavano piazza dell’Indipendenza, ma la scelta era ricaduta, come spesso avviene, nei luoghi più vicini alla stazione centrale e alle varie fermate degli autobus, come la Fortezza da Basso o giardini come Le Cascine o i pochi spazi verdi presenti nei dintorni della stazione di Santa Maria Novella. Dalle interviste somministrate si deduce che le motivazioni che hanno spinto i filippini in passato a scegliere determinati luoghi della città come luoghi di aggregazione sono dipese da vari fattori: la loro vicinanza alla stazione, la comodità a raggiungerli con mezzi pubblici o privati, la presenza o meno di lavori in corso all’interno di un luogo, liti e momenti di disaccordo con altri gruppi etnici che frequentavano lo stesso spazio e che non permettevano una serena e sicura fruizione di esso e la vicinanza del luogo a determinati servizi, quali bar o minimarket, dove comprare qualcosa o usufruire dei loro servizi igienici.

    Quindi, si cerca di combinare attività funzionali ed utili, come il fare la spesa, approfittando del tempo libero a disposizione con un momento piacevole quale ritrovare in piazza gli amici e per condividere dei momenti sereni. Inoltre, Divina Capalad, rappresentante filippina del Consiglio degli stranieri del Comune di Firenze sottolinea che i filippini che frequentano piazza dell’Indipendenza, scelgono proprio questa piazza, piuttosto che altre: Forse perché hanno vari punti di riferimento vicino: c’è il Consolato onorario delle filippine in v. Ridolfi, la chiesa di S. Barnaba vicino v. San Zanobi [18].

    Vediamo quindi come, per i filippini, una mappa informale dei luoghi di aggregazione [19] a Firenze, sia man mano venuta a costruirsi e  modificarsi, dalle prime catene migratorie ad oggi.

    Inoltre, dall’osservazione non partecipante si è indagato sul modo di relazionarsi dei filippini che si ritrovano in piazza dell’Indipendenza e che si suddividono in gruppi precisi. A prima vista c’è una netta divisione che vede da una parte la formazione di un gruppo di uomini che nei giorni festivi da lavoro, cresce man mano che le ore passano e diminuisce man mano che il buio avanza e vari gruppi, molto più piccoli, costituiti ognuno da 5-6 donne filippine. Vi è una divisione spaziale, che vede gli uomini sedersi e giocare  a carte, parlare, bere soprattutto vicino le panchine di pietra ai margini della piazza e le donne sedersi sia sul prato che sulle panchine di legno nel centro della piazza. Tale ripartizione dei due grandi gruppi: uomini e donne, sembra riproporre i codici di comportamento relativi ai rapporti di genere esistenti nelle Filippine che prevedono un certo “contegno” in pubblico [20]. I contatti in piazza, tra il gruppo degli uomini e quello delle donne sono molto rari e durante la giornata avvengono per motivi precisi: per esempio, ci sono uomini che si avvicinano singolarmente o in coppia alla panchina dove sono le donne filippine per prendere qualcosa da bere o da  mangiare e anche gli scambi di sguardi sono poco frequenti all’interno della piazza.

    Le pratiche

    Lo spazio abitato è l’effetto di pratiche, là dove per “pratiche” [21] si intendono sia delle azioni, sia l’uso, infatti l’uso è una forma di pratica, e le pratiche creano e trasformano lo spazio. La pratica è uno strano intreccio tra un’azione volontaria e un’abitudine ed è come un habitus [22], ovvero qualcosa che prendiamo a fare senza neanche rendercene conto, come buona parte del nostro agire quotidiano a fare esperienza. Questo avviene per buona parte delle pratiche quotidiane, una serie di attività che Mauss [23] chiama “tecniche del corpo”. Abitare, camminare, dormire sono per Mauss delle tecniche del corpo, ce ne sono alcune che ad un certo punto facciamo quasi automaticamente e l’esperienza dello spazio fa parte di queste tecniche, di questo habitus.

    Gli italiani, durante il periodo di osservazione, non sono stati tra i frequentatori assidui e abitudinari di piazza dell’Indipendenza, erano presenti soprattutto la domenica mattina gli anziani e vari uomini autoctoni che leggevano un quotidiano seduti sulle panchine al sole. Sempre durante la domenica, soprattutto la mattina, sono state presenti in piazza anche persone di altre etnie, come molte donne dell’Est europeo e ragazzi albanesi, che durante la settimana frequentano comunque la piazza, ma più sporadicamente o per un tempo breve; è successo che badanti straniere vi portassero le datrici di lavoro anziane e che quindi, magari due badanti che si conoscevano si ritrovassero in piazza e si sedessero sulla stessa panchina insieme alle datrici di lavoro, cercando di ricavare un momento piacevole all’interno del momento del lavoro. Invece, per i filippini ritrovarsi in piazza dell’Indipendenza, il giovedì pomeriggio (spesso giorno libero di coloro che lavorano nei servizi alla persona) e la domenica è diventato ormai un’azione abitudinaria che si allontana momentaneamente  dalle pratiche della quotidianità per inventare e reinventarne delle altre da condividere con i propri connazionali.

    I filippini che si incontrano in piazza dell’Indipendenza sono soliti ripetere determinate azioni, si può dire che esse vengono ripartite in base al genere: il gruppo di uomini è solito giocare a carte sulle panchine di pietra o osservare coloro che giocano, restando per ore e ore in piedi (anche tutto il pomeriggio) e formando tanti piccoli gruppi, alcuni più vicini alle panchine ad osservare il gioco (dei filippini salgono su di esse per osservare le carte di entrambi i giocatori dall’alto), altri bevono birra o bevande del paese d’origine  mentre chiacchierano, altri uomini fumano, molto spesso sono al cellulare o giocano con i bambini più piccoli e raramente parlano o giocano a carte con le donne. I cibi e le bevande che vengono mangiati non sono mai panini, ma sempre prodotti di origine orientale preparati e portati da casa, di solito solo i ragazzi si recano al take away di cibi asiatici situati vicino la piazza. Sono di solito le donne filippine che quando arrivano in piazza (la Domenica anche alle 10 di mattina) portano con sé carrelli della spesa o borse frigo molto capienti e piene, insieme a buste molto grandi dalle quali estraggono thermos, vaschette in alluminio con zuppe o spaghetti orientali, bicchieri di plastica e spesso, quando viene aperta la confezione, si vede il fumo del cibo ancora caldo salire.

    Questa pratica ha un significato molto importante per i filippini poiché è per loro  un modo per continuare a portare avanti valori e tradizioni attraverso la condivisione materiale e simbolica di oggetti, cibi e pratiche che ricordano il paese d’origine e la condivisione del cibo del paese d’origine ha maggiore valore se esso è preparato da connazionali piuttosto che acquistato in un negozio. Spesso, tali cibi, a cui le vecchie generazioni sono legate e con i quali sono cresciute, non possono essere consumati durante la settimana per vari motivi, il primo è legato al fatto che le nuove generazioni (come è stato già detto l’immigrazione filippina in Italia è di vecchia data e in questo paese sono già nate e vi stanno crescendo le seconde generazioni) non sono abituate a mangiare i cibi del paese d’origine dei genitori. Un'altra motivazione per cui mangiare in piazza i piatti del paese d’origine per i filippini è una pratica carica di significati è legata al lavoro e ai nuovi stili di vita che contraggono il tempo libero a disposizione e quindi per velocità si preparano cibi veloci con ingredienti trovati al supermercato. Inoltre, le donne filippine che vivono a Firenze sono di solito inserite nel mondo del lavoro come collaboratrici domestiche, a volte vivono con il datore di lavoro, comunque, durante gli orari dei pasti devono preparare il pranzo e la cena con ingredienti italiani e di conseguenza, anche loro mangiano, durante le ore di lavoro, piatti tipici italiani.

    Le filippine di solito trascorrono il tempo in piazza sedute sulle panchine di legno centrali, dove si riuniscono donne di varie età, che parlano, fumano, mangiano o osservano, spesso senza parlare, ciò che accade nella piazza. Più raramente le donne sono state viste giocare a carte, a volte è successo che si portassero degli sgabelli pieghevoli poiché l’arredo urbano pensato per sedersi in  piazza è scarso in confronto al numero di filippini che la frequentano. Osservando la piazza, si nota quindi questa divisione dello spazio al suo interno in tanti altri spazi sociali diversi per composizione (sia riguardo la quantità di persone che ne fanno parte sia il genere), omogenei per quanto riguarda l’età per i gruppi di uomini (solitamente sono adulti), meno per le donne (adolescenti, giovani madri, signore anziane). Questo grande spazio sociale rappresentato da piazza dell’Indipendenza è una sorta di contenitore che raccoglie diversi spazi sociali più piccoli che in realtà pongono una sorta di confini non visibili tra loro, che permettono più difficilmente la socializzazione tra un gruppo e l’altro, che come emergerà dalle interviste, inizialmente si sono costituiti in base alle amicizie, agli interessi in comune e al luogo di lavoro e alla lingua parlata (le Filippine, sono costituite da molte isole e da 17 regioni amministrative abitate da varie etnie che parlano lingue diverse), non sempre in relazione ai legami familiari (per esempio un intervistato, a registratore spento, mi ha confidato che sua cugina frequenta l’altra parte della piazza e che lui non la vedeva sempre poiché a lei piaceva giocare a carte, anche d’azzardo e bere, attività che all’intervistato non interessano) oltre che alle divisioni di genere.

    In piazza dell’Indipendenza si possono trovare anche i giovani adolescenti filippini, di solito arrivano in gruppo verso le ore più tarde del week end. Spesso i gruppi di ragazzi occupano una panchina e vi restano, non per più di un’ora, a parlare, scherzare e ridere, mangiare, osservati a distanza dai genitori, più raramente invece interagiscono con gli adulti. Rispetto ai loro genitori, gli adolescenti filippini frequentano molto meno e meno puntualmente la piazza, quando vi arrivano si siedono nelle panchine non situate nella zona frequentata dagli adulti, che li guardano da lontano. L’osservazione dei genitori filippini verso i figli in piazza è sempre costante e la piazza viene vissuta anche come uno spazio limitato dove i genitori possono esercitare un controllo sociale affinché vengano tramandati determinati valori e tradizioni. La piazza intergenerazionale quindi, diventa anche un luogo dove poter trasmettere ed affermare valori.

    Il significato della piazza per i migranti filippini

    Come ricorda Lefebvre (1976), «lo spazio sociale contiene oggetti molto diversi tra loro, naturali e sociali, reti e linee, canali di scambi materiali e d’informazione. Non è riducibile né ai singoli oggetti che contiene, né alla loro somma. Questi “oggetti” non sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni. In quanto oggetti possiedono particolarità conoscibili, hanno contorni e forme. Il lavoro sociale li modifica.» [24]

    Piazza dell’Indipendenza è vissuta dai filippini anche come luogo e momento di ritrovo e di scambio di informazioni sul lavoro, sul paese d’origine o sui parenti, pratiche che agiscono da collante fra persone che vivono in un paese straniero e che hanno lasciato parte della famiglia nel paese d’origine. Anche il sentimento della nostalgia, provocata dalla rievocazione di alcuni ricordi del paese o della famiglia d’origine, in piazza si trasforma in un mezzo attraverso il quale ci si può sentire più vicini a chi vive distante, infatti un intervistato afferma: Il ritrovo può avvenire anche a casa, ma vanno sempre in piazza per sentire la nostalgia, per sentire il profumo del nostro paese, perché quando si incontra un filippino non è nulla, però quando ci si incontra in piazza e si chiacchiera delle cose che sono successe nel nostro paese è divertente.

    Inoltre, i filippini spesso non si possono incontrare a casa, perché: Ora qui spesso non siamo proprietari di casa, viviamo con il datore di lavoro.

    Una delle motivazioni per cui i filippini preferiscono ritrovarsi in piazza, dipende anche dal fatto che il gruppo che la frequenta, anche se suddiviso al suo interno, è composto da moltissime persone (si può arrivare a un centinaio) e la piazza diventa l’unico luogo a cui possono accedere tante persone senza complicazioni. La piazza viene anche utilizzata come luogo di festa a livello familiare, amicale, di gruppo, infatti vi si festeggiano compleanni, feste nazionali come quella dell’Indipendenza filippina che si tiene in giugno; la piazza così  sembra quasi riacquistare una delle sue attività principali ai tempi del suo splendore in cui era luogo di ritrovo e di festa per gli autoctoni. Come fa intuire un altro intervistato, tali feste non solo riportano il pensiero dell’immigrato al paese d’origine, ma diventano anche un momento di svago e condivisione di pratiche usuali nel paese d’origine e che si attivano anche nel paese d’arrivo, per sentire meno quella “nostalgia” della quale si è parlato precedentemente e per parlare ancora la propria lingua. Le feste organizzate dai filippini in Italia rappresentano occasioni di rivendicazioni identitaria, per vivere e “reinventare” le tradizioni del paese di provenienza, consentendo anche alle nuove generazioni, nate e cresciute in Italia, di familiarizzare con esse.

    Piazza Santa Maria Novella per i migranti somali

    L’osservazione non partecipante in piazza Santa Maria Novella è avvenuta nei mesi di dicembre 2008 e gennaio 2009.

    I somali presenti a Firenze all’epoca erano circa 700 e le donne erano solitamente inserite nel mondo del lavoro come collaboratrici domestiche presso delle famiglie o come badanti per persone anziane e spesso o vivevano col datore di lavoro o -ma soprattutto gli uomini- condividevano un appartamento insieme ad altri connazionali.

    Possedere o meno uno spazio privato, come la casa o una stanza per avere la possibilità di invitare ed incontrare amici e parenti, avere orari di lavoro che danno la possibilità di uscire e possedere il tempo libero del quale decidere autonomamente come utilizzare sono fattori molto importanti per permettere lo sviluppo di una propria identità ed esercitare la libertà personale, soprattutto per gli immigrati che spesso vivono lontano dalla propria famiglia  e hanno bisogno di ricreare nel paese d’arrivo degli affetti per sentire meno la distanza di quelli lasciati nel paese d’origine. A volte, alcune immigrate somale prendono in affitto una stanza per coprirsi da probabili perdite di lavoro e possono utilizzare la camera affittata anche per ospitare gli amici in uno spazio coperto, infatti, come viene riportato da un’intervistata somala appartenente ad un’associazione interculturale di Firenze: a volte le somale che fanno le badanti e vivono con la datrice di lavoro, prendono in affitto una stanza in un appartamento, in modo tale da mettervi i propri oggetti più preziosi; tale stanza è anche comoda talora ci fossero problemi con la datrice di lavoro e si viene licenziati o nel caso che quest’ultima morisse, infatti così, si avrebbe sempre un posti dove andare. Tale stanza può inoltre essere usata il giovedì pomeriggio o la domenica come luogo d’incontro con gli altri somali.

    La fruizione della piazza

    Durante il periodo d’osservazione è stato notato che a frequentare la piazza sono soprattutto gli uomini somali sia giovani che adulti (non è stata rilevata nessuna presenza di anziani o bambini somali) che si riuniscono soprattutto per parlare o per osservare chi passa per la piazza. Solitamente i gruppi che si formano sono più numerosi per quanto riguarda gli uomini, che si mettono in cerchio in piedi o si siedono uno accanto all’altro, sotto le arcate della chiesa con la schiena appoggiata al portone. Le donne somale invece, sono state viste riunirsi in piccoli gruppi, di 2-3 persone e  si siedono, come gli uomini somali, sotto l’arcata e parlano tra loro.

    Di mattina è più difficile incontrare in piazza Santa Maria Novella persone somale. La piazza si differenzia tra i flussi di persone che la attraversano e quelli che vi si stanziano per più tempo e dai giorni della settimana in cui tali flussi vengono in piazza. Per esempio, durante il week end la piazza è frequentata soprattutto da turisti italiani e stranieri, molti dei quali si soffermano pochi istanti davanti la chiesa, scattano una fotografia e poi o entrano nel museo della chiesa o nella chiesa stessa. La vita di piazza Santa Maria Novella è scandita dagli orari della chiesa antistante, al fatto che ci sia o meno la messa, se è un giorno di festa o feriale, se il museo della chiesa è aperto. In base a questi fattori, si regola la presenza e l’afflusso più o meno ampio dei turisti.

    Come piazza, viene scelta quella di Santa Maria Novella per retaggio di una pratica passata, come quella di pregare vicino la chiesa e quindi magari poi, restare a parlare con gli altri somali vicino al luogo di preghiera. L’incontro in tale piazza, probabilmente dipende anche dal luogo di lavoro e dalla sua vicinanza con la stazione e ad altri spazi dove vi sono fermate di autobus.

    Il significato della piazza per i somali

    È bene ricordare che i luoghi storici, quindi anche le piazze, sono simboli pubblici per eccellenza e hanno la facoltà di collegare il passato con il presente, essi infatti, sono in continuo mutamento, dal punto di vista sia dell’importanza che del significato, nella misura in cui la storia viene letta e riletta, interpretata e reinterpretata attraverso i posteri che spesso rivisitano i simboli territoriali del passato. Piazza Santa Maria Novella ha una targa apposta sul muro di un edificio che si affaccia su di essa dove c’è scritto che tale spazio venne definito “La Mecca degli stranieri”, evidentemente la piazza in questione vive da tempo un processo di ridefinizione simbolica dovuta alla successione di etnie che si sono incontrate all’interno di essa e la popolazione somala è probabilmente una delle più rappresentative della piazza dal punto di vista quantitativo.

    Una delle persone somale intervistate opera una distinzione del motivo per cui i primi somali immigrati a Firenze si recavano in piazza SMN e come mai molti di essi vi si ritrovano oggi. La differenza dipende anche dalla motivazione dell’emigrazione, infatti coloro che sono arrivati in Italia, quindi nei primi anni ’90 vi giungevano per scappare dalla situazione tragica che la guerra portava e per i somali: piazza SMN rappresentava, fisicamente il luogo più vicino alla stazione e simbolicamente era uno spazio di riunione, dove si andava per  incontrarsi, scambiarsi informazioni e vedersi, c’erano bar dove prendere il the, si trovava vicino a luoghi dove fare la spesa.

    Piazza Santa Maria Novella rappresenterebbe per i somali che la vivono solo un luogo dove darsi appuntamento, visto la comodità nel raggiungerlo, grazie alla vicinanza del luogo alla stazione e alle fermate degli autobus e solo in un secondo momento, per varie vicissitudini legate alla casualità, essa è diventata luogo d’incontro di più persone che spesso vi restano sostandovi per molto tempo. Un ragazzo somalo che condivideva l’appartamento con “4-5-6-7-8 ragazzi” [25], alla ricerca lavoro, racconta la sua personale esperienza dell’andare in piazza e dice che: si ritrova in piazza con gli amici somali per parlare di problemi quale la ricerca di un lavoro e di un’abitazione, il reperimento di documenti e vi si reca “to loose the time” [26] (per perdere tempo).

    E spiega che un altro importante motivo per cui diversi somali con problemi di lavoro, di casa o di documenti si ritrovano in piazza è perché: Internet e il telefono sono delle “facilities” che non tutti i somali che vivono a Firenze hanno e che quindi per cercare lavoro spesso si recano in piazza per comunicare il proprio interesse verso un lavoro e nella speranza di trovare qualcuno che lo possa offrire o che abbia sentito di un lavoro.

    Un altro ragazzo somalo disoccupato ha raccontato la complessa modalità di reperire e scambiare informazioni riguardo i lavori presenti  in Italia o in altri paesi stranieri (non per forza europei) e a tale proposito racconta: l’importanza che ha l’incontrarsi in piazza per cercare lavoro attraverso il passaparola, dove le persone somale tra loro si scambiano non solo informazioni riguardo gli impieghi, ma anche se esiste o meno lavoro in determinate parti del mondo. L’intervistato racconta della sua disponibilità a spostarsi di paese, e del fatto che vengono scambiati indirizzi e-mail tra la persona che cerca lavoro e quella che già abita e lavora nel paese straniero (che magari è un amico di un amico, che non si conosce quindi direttamente) e che può fornire informazioni o dare una mano riguardo il reperimento di un lavoro in tale paese. Riguardo a questa pratica, l’intervistato dice di utilizzare gli internet point presenti in piazza per mettersi in contatto con persone somale che vivono in altri paesi stranieri o in altre città d’Italia e potrebbero dargli una mano nel trovare un lavoro. L’intervistato continua dicendo che posta e telefono cellulare, internet sono delle tecnologie che non tutti i somali che vivono in Italia possono permettersi, quindi se vai in piazza puoi sopperire a tale mancanza mettendoti in contatto con altre persone e reperire varie informazioni.

    La piazza diventa luogo dove mettere a conoscenza gli altri dei propri bisogni e cercare  delle risposte. Un’altra consuetudine utilizzata dai somali, che sfrutta la pratica del passaparola e cerca di attivare risorse per persone della propria comunità, anche se non conosciute direttamente, è legata alla sfera degli affetti. Infatti un intervistato spiega che: la piazza viene utilizzata dai somali che la frequentano per scambiare notizie su probabili lavori, su gli amici o i parenti che vivono in altre parti del mondo, foto, lettere. La particolarità di tale rito sta nel fatto che spesso tali informazioni o oggetti personali vengono dati in mano a persone che i somali non conoscono direttamente, ma che magari affermano di essere amici di amici o di parenti e ciò è sufficiente per fidarsi e per consegnare loro tali oggetti personali da portare ai parenti o ai conoscenti lontani.

    E la consegna avviene in questo modo: le persone vanno in piazza, chiedono se c’è qualcuno che sa se c’è lavoro o se qualche persona che conoscono  deve andare in un paese straniero e se la trovano le danno lettere o foto da consegnare a parenti o amici che vivono nello stesso paese e sottolinea che il concetto di famiglia in Somalia è un concetto allargato, esiste un legame fiduciario che porta all’inclusione di molte persone, non solo i parenti stretti.

    Vediamo quindi come si attivano facilmente delle catene di auto-aiuto basate sulla fiducia e non per forza su un legame di parentela stretta o di conoscenza diretta, come ha detto un intervistato, il concetto di famiglia in Somalia è allargato a più persone, non alla cerchia più stretta dei parenti di sangue ed usano tale pratica per comunicare con i parenti che vivono in varie parti del mondo, consegnando loro lettere, ma anche degli effetti personali, come foto, che possano ricordare la persona lontana o far vedere i posti che frequenta, cercando così di accorciare le distanze fisiche senza spendere. Queste dinamiche che avvengono in piazza SMN messe in moto dalla “forza dei legami deboli” [27], per la loro importanza a livello sia materiale che simbolico, riescono ad attirare non solo somali che vivono a Firenze, ma anche quelli che vivono in altre città della Toscana, infatti un intervistato dice: a frequentare la piazza si SMN non sono soltanto i somali che vivono a Firenze,  ma spesso, arrivano in treno anche persone somale che vivono a Bologna, Pisa, Lucca, Siena, Arezzo, soprattutto nelle Domeniche estive e vanno direttamente in piazza sapendo che esso è un luogo di ritrovo per tale comunità.

    Questa dimensione metropolitana della piazza, vissuta da somali provenienti da diverse parti della Toscana viene allargata a livello nazionale attraverso una riscoperta di una pratica che in passato ha rappresentato una delle attività più presenti nella piazza italiana: quella del mercato. L’uso commerciale della piazza avviene oggi in scala ridotta, infatti può capitare di vedere donne somale sedute sugli scalini del sagrato della chiesa di Santa Maria Novella con valigie all’interno delle quali ci sono prodotti tipici del paese d’origine, in vendita per i connazionali che frequentano la piazza. Vediamo così come tale pratica riesce a mettere in relazione il locale con il globale, come tale azione attivata in una situazione micro, sia strettamente legata a fenomeni macro, come quello dell’immigrazione e del commercio di prodotti lontani.

    Se è vero che filippini e somali sono soliti ritrovarsi in piazza, pratica ormai desueta per gli autoctoni, in seguito ad un’osservazione più approfondita si è compreso che le dinamiche e le varie pratiche, esternamente simili, hanno in realtà significati molto diversi e carichi di simbolismi.

    Costruzione di uno spazio urbano: tra dinamiche bottom-up e top-down

    Vediamo allora come gli spazi pubblici, in quanto no man’s land, diano una certa libertà di espressione da parte di chi li frequenta, cercando spontaneamente di rispondere alle domande di città di cui ogni cittadino si fa portatore.

    Se da una parte vediamo gli spazi pubblici per eccellenza –come le piazze- non più vissute dagli autoctoni ma mantenute vive grazie alla frequentazione da parte dei migranti dall’altra parte stiamo assistendo ad un altro fenomeno: al recupero di spazi interstiziali della città da parte di una parte della popolazione che vive quotidianamente tali spazi dotandoli di nuovi significati. Quindi se da un lato spazi pubblici come le piazze, disegnate dagli architetti ed urbanisti vengono prima abbandonate dagli autoctoni e poi rivissute dai migranti, adesso spazi non considerati nella cartografia  ortodossa -spesso situati nel centro città- si trovano al centro dei rapporti sociali dei migranti. Spazi interstiziali che nascono come “scarto” della pianificazione moderna dove ogni spazio della città è dotato di una particolare funzione, tali spazi restano esclusi da tale logica e invece di restare vuoti e senza significato, diventano spazi fondamentali per i gruppi che li frequentano, acquisendo un nuovo significato attraverso le pratiche che vengono svolte al loro interno. Attraverso quindi le pratiche di tipo bottom-up, vediamo come gli spazi della città vengano riscritti con processi di ri-significazione continui e come con una procedura retorica avvenga una ri-semantizzazione costante, a volte individuale a volte collettiva, degli spazi urbani.

    Da un lato sembra resistere l’utopia di una città che attrae e comunica proprietà stabili ed elementi riconoscibili che la caratterizzano e la rendono riconoscibile sia al suo interno che al suo esterno senza tenere conto alle trasformazioni che il tempo può apportare, trascendendo le individualità e la quotidianità che a loro volta la compongono. Dall’altra parte si trovano le pratiche quotidiane individuali e collettive che “scrivono il testo urbano senza poterlo leggere” [28], attraversamenti e incroci di una storia molteplice  che non si lascia mai totalizzare dallo sguardo del potere, costituendo una costante estraneità rispetto al testo urbano e producendo uno spazio altro, non geografico e non geometrico, vissuto prima di tutto con il corpo. De Certeau (2001) evidenzia bene come le pratiche della città “dal basso” ritornano sempre poiché riemergono da un fondo non cosciente dell’individuo in continuo conflitto con una sistemazione razionale della città che non potrà mai controllarle totalmente.

    De Certeau (2001) ricorda come occorra invertire la logica del ragionamento: non c’è prima la città-concetto e solo in un secondo momento quella dei suoi residui individuali, degli scarti inutili perché non funzionali, ma semmai il contrario dove la città-nome è l’esito di un’operazione, di un processo lento e continuo, che non conosce sosta. Questa visione della città che dovrebbe essere la base per concepire e costruire lo spazio urbano non viene spesso presa in considerazione da chi si occupa di amministrare la città e da parte degli architetti sempre più autoreferenziali (senza andare a scomodare nomi famosi di archistar [29]) e operanti nei contesti urbani che sembrano non interessarsi delle relazioni spaziali già esistenti e nei quali vanno ad intervenire.

    La nascita di alcune pratiche piuttosto che di altre all’interno di uno spazio urbano sono strettamente legate alla forma e al tipo di spazio che rende potenzialmente possibili determinati comportamenti e impossibili tanti altri. Tale spazio è pensato dalle istituzioni locali in relazione al cittadino-modello che in esso hanno immaginato, infatti ogni spazio urbano costruisce l’immagine dei propri cittadini, prefigurando comportamenti reali, suggerendo possibili suoi usi, scongiurandone altri. Il problema che si pone a questo livello sarà quello di vedere se e fino a che punto poi i cittadini empirici si sovrappongono a quelli modello. Ciò non avviene per esempio negli spazi urbani interstiziali, definiti in tal modo proprio perché frequentatori non previsti dagli architetti che hanno progettato tale spazio, fanno un uso inaspettato di esso, e non seguendo i codici urbani previsti inizialmente ne fanno quindi un uso “inappropriato” e di conseguenza lo spazio prende la definizione di “interstiziale” anche se chi frequenta tale spazio non lo percepisce e vive come tale.

    Questo atto di ri-semantizzazione dell’uso dello spazio avviene quindi grazie ad una dinamica di continua appropriazione e riappropriazione dello spazio, in un processo continuo di de-costruzione e ri-costruzione di senso di tale luogo.

    Lo spazio interstiziale: interstiziale per chi?

    Gli occhi con i quali guardiamo la città ci dicono molto su come vediamo ed interpretiamo i suoi spazi. La stessa definizione di spazio interstiziale come spazio “vuoto” ci fa intuire che essa nasce da una prospettiva top-down, strettamente legata ad una visione funzionalista dello spazio, osservato dall’alto, con distanza, non vissuto, interpretato come luogo di una “città-concetto” [30] che nella realtà quotidiana non esiste. Tale prospettiva viene allora sposata da architetti, urbanisti, amministratori locali e da chi non frequenta tale spazio dai quali viene definito come “vuoto” poiché al suo interno manca di arredo urbano standard, non viene quindi visto come accogliente ed accessibile o non risponde alle regole del sistema economico di tipo funzionalista, perdendo quindi ogni interesse agli occhi dei possibili cittadini-consumatori. Invece, per coloro che vivono tale spazio e che quindi lo vedono da vicino, “dal basso”, esso ha tutte le caratteristiche di un luogo “pieno”, poiché pieno di potenzialità, denso di pratiche e di senso sociale grazie al tessuto relazionale nato al suo interno. Chi ha questa prospettiva di solito è chi fruisce dello spazio, poiché la sua visione dal basso è libera da ogni condizionamento che una visione dall’alto implica, mentre una visione dall’interno, da dentro lo spazio porta ad un’autopercezione e autocoscienza dell’essere nello spazio molto bassa poiché spontanea e dettata da bisogni e necessità primari, come quelli del socializzare che non prevedono troppi riflessioni di tipo razionali e d’interesse.

    Nella costruzione di una città la maggior parte delle volte si tiene conto solo della prospettiva dall’alto che non cerca quasi mai il punto di vista dal basso, di coloro che un domani dovrebbero vivere lo spazio urbano dotandolo di senso, trasformandolo da spazio vuoto in spazio pieno. Se pensiamo che le città vengono costruite prima di tutto per i loro abitanti, paradossale pare tale prospettiva esclusiva e non inclusiva che sembra però portare ad una moltiplicazione di spazi interstiziali piuttosto che ad una loro diminuzione. Tali spazi diventano luoghi di costruzione identitaria per molti migranti, poiché sono luoghi dai confini più porosi, modellabili e attraversabili rispetto ad altri spazi della città, sembrano essere veri e propri luoghi postmoderni, più aperti al cambiamento. Sono forse i luoghi del futuro, sui quali oggi sarebbe utile investire?

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    Note

    [1] Harvey D, The condition of postmodernity, Blackwell, Oxford, 1990, trad.it., La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1997.

    [2] Su tali temi si consulti: Augé M. (1992), Non-liuex, Paris: Seuil, Desideri P. , Ilardi M. (1997), Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Genova-Milano: Costa&Nolan, Innerarity D. (2008), Il nuovo spazio pubblico, Roma: Meltemi.

    [3] Bauman Z. (2005), Globalizzazione e glocalizzazione, Roma: Armando Editore.

    [4] Gasparini G. (1998), Sociologia degli interstizi, Milano: Bruno Mondadori; Berger A.(2007), Drosscape: wasting land urban America, New York: Princeton Architectural Press.

    [5] Colombo E., Semi G., a cura di (2007), Multiculturalismo quotidiano, Milano: Franco Angeli.

    [6] La Cecla. F. (2000), Le culture dell’abitare. Firenze:  Edizioni Polistampa.

    [7] Appadurai A., Modernity at large. Cultural dimension of globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1996, pp. 48-49.

    [8] Neologismo coniato da Didier Urbain secondo il quale “paesarsi” significa: portare con sé una parte del proprio paese, trapiantare i segni, le usanze, i valori e i sogni in uno spazio vuoto o considerato come tale, in Urbain J.D. (2003), L’idiota in viaggio, Roma: Aporie.

    [9] Si veda la letteratura di Castells, riguardo la questione della nascita della città dell’informazione e delle reti

    [10] Magnier A., Russo P. (2002), Sociologia dei sistemi urbani, Bologna: Il Mulino.

    [11] Sayad A. (2002), La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano: Cortina.

    [12] Mela A. (2000),  Sociologia delle città, Roma: Carocci Editore.

    [13] Magnier A., Russo P. (2002), Sociologia dei sistemi urbani, Bologna: Il Mulino.

    [14] Simmel G. (1891),  Sociologia, Milano Edizioni di Comunità.

    [15] Lynch K., (2006), L’immagine della città, Venezia: Marsilio.

    [16] Bauman Z. (2005), Globalizzazione e glocalizzazione, Roma: Armando Editore.

    [17] De Certeau M., (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro.

    [18] Parole testuali dell’intervistato.

    [19] Favaro G. (1993), Le immigrate filippine in Italia, in Favaro G., Omenetto C., Donne filippine in Italia. Una storia per immagini e parole, Milano: Angelo Guerini e Associati.

    [20] Greco M. (2004), Complessità e problematicità di una immigrazione silente: i filippini a Napoli, in Adolescenti e donne nell’immigrazione: problematiche e conflitti, Torino: L’Harmattan Italia.

    [21] De Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro.

    [22]  Bourdieu P. (1983), La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna: il Mulino.

    [23] Mauss M., Durkheim E. (1991), Le origini dei poteri magici, Torino, Bollati Boringhieri.

    [24] Lefebvre H. (1976), La produzione dello spazio, Milano: Moizzi Editore.

    [25] Parole testuali dell’intervistato.

    [26] Parole testuali dell’intervistato.

    [27] Granovetter M. (2002), La forza dei legami deboli e altri saggi, Napoli: Liguori Editore.

    [28] De Certeau M., (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro.

    [29] La Cecla, (2008), Contro l’architettura, Torino: Bollati Boringhieri.

    [30] De Certeau M., (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro.

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