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  • Sociologie des espaces et des liens sociaux
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.2 Mai-Août 2014

    LA CITTÀ DOLENTE: EPITAFFIO DELLO SPAZIO PUBBLICO


    Luigi D'Aponte

    luigi.daponte@yahoo.it
    Sociologo, Laureato in Sociologia indirizzo Antropologico e dello Sviluppo, Università degli Studi di Napoli Federico II.

    Alla memoria di Giovanni Persico,
    illuminato maestro che mi aprì le porte della città
    e al quale non ho fatto in tempo a dire grazie.

    «Salendo le scale ci ha spaventato il silenzio
    e qualcosa che pareva un'attesa.
    Abbiamo consacrato a nostri idoli le montagne intorno
    confidando nella loro protezione.
    I cartelli parlano di gite al mare, foto di discoteche
    e di comitive che brindano, a testimoniare l'ottimo servizio.
    Tavolini che sembrano aspettare altra gente
    in un altro momento.
    Oggi siamo partiti, nessuno ci ha chiesto dove saremmo andati
    perché quaggiù nessuno immagina chi siamo»
    "La città morta", Massimo Volume

    1. Le origini del male

    La città è stata definitivamente distrutta all'alba della surmodernità, deregolarizzata nei tempi, destrutturata nella forma, depoliticizzata nelle funzioni da quel "triple excès" di tempo, spazio ed individualismo che Marc Augé magistralmente colse e teorizzò già oltre vent'anni fa (cfr. Augé, 1992), esattamente nella stessa specifica epoca storica nella quale invece, in Italia, Amministratori pubblici ed Urbanisti s'interrogavano sulla necessità di superare il concetto di "Piano Urbanistico" come strumento e metodo processuale di regolamentazione generale delle città, per abbracciare quello di "Programma Complesso" fatto di procedure più rapide, interventi di pianificazione puntuali, "accordi" fra soggetti pubblici e privati [1]: dunque tempi e spazi diversi per la (ri)funzionalizzazione delle città e soprattutto meno istanze pubbliche e più interessi privati in gioco; il "triplo eccesso" diveniva così pratica istituzionalmente consolidata nella (dis)organizzazione dello spazio urbano, puntualmente incapace nel corso tempo, al di là dell'assunzione di nuove "parole d'ordine" e nuovi "claim" ("dai Piani ai Programmi"), di portare con sé tutti i positivi mutamenti urbanistici ipotizzati nei primi anni Novanta. Un fatto questo evidente a chiunque vivi ed osservi le città contemporanee: a fronte di un timido positivo mutamento d'approccio "integrato" all'analisi ed al governo delle città (che tiene dunque in maggior considerazione il carattere multiforme delle stesse in quanto spazi fisici, luoghi storico-identitari, contesti di scambio economico, aree di produzione culturale e interazione sociale), si è assistito nel corso degli ultimi due decenni al protrarsi di vecchie ed all'affermarsi di nuove criticità sintetizzabili in:

    - mancato ridimensionamento degli aspetti e dei tempi burocratici di attuazione degli interventi di governo del territorio;
    - allargamento eccessivo degli obiettivi della pianificazione urbanistica, chiamata a rispondere (sovente senza professionalità e strumenti idonei) anche ai  bisogni della dimensione economica, sociale e culturale;
    - ridimensionamento della spesa pubblica investita in politiche urbanistiche;
    - ridotto apporto di investimenti privati, incentrati poi, quasi esclusivamente, sull'edilizia residenziale;
    - totale inadeguatezza degli attuali strumenti di misurazione e valutazione della "qualità urbanistica" e più in generale di quella "della vita" nei contesti cittadini.  


    A pezzi ... - Foto: Luigi D'Aponte
    Sbaglia chi ritiene che le problematiche urbanistiche siano "affare" esclusivo di architetti ed ingegneri: significa (ancora) non vedere e non capire l'enorme impatto sociale e culturale che le scelte assunte nella/sulla città esercitano poi sull'esistenza (e la qualità di essa) di ogni individuo. Così come sbaglia chi analizza e interviene su tali temi secondo una logica "settoriale" e "localistica" nell'illusione che ancora esistano saperi e metodi univoci di approccio allo studio e alla programmazione della città, o che fenomeni e dinamiche che in essa si determinano non fuoriescano dai suoi stessi confini: dal 23 maggio 2007, per la prima volta nel corso della storia millenaria dell'umanità, la popolazione del mondo che vive nei contesti urbani ha superato quella rurale [2] e le previsioni, elaborate già oltre sei anni fa dal Programma delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (UN-Habitat), sono drammatiche: entro il 2050 oltre il 70% della popolazione mondiale sarà urbanizzata [3]. Tutto ciò significa che dibattere oggi di città equivale a dibattere del futuro del mondo; così come il graduale contemporaneo "liquefarsi", secondo l'accezione "baumiana" (cfr. Bauman, 2002), di spazi ed opportunità di vita, di scelta, di partecipazione e di libertà nei nostri contesti urbani attuali, altro non è che la rappresentazione in piccolo,  potremmo dire la simulazione "in vitro", di futuri e pesanti processi di ristrutturazione dei diritti di cittadinanza, il cui fine ultimo appare essere l'abbattimento dell'impalcatura di garanzie e protezioni sociali eretta dal Welfare State a tutela del benessere sociale, psicofisico ed economico proprio dei "cittadini" (cfr., Saraceno, 2004).

    Pesante e non meno indolore è stato (e continua ad essere) anche il colpo inferto alla città dall'azione esercitata dalla terza componente del "triple excès": la prepotente affermazione della figura dell'ego, dell'individuo, di un uomo autoreferenziale che si considera mondo in sé e per sé:

    «Come Tocqueville sospettava già da tempo l'individuo è il peggior nemico del cittadino. Il cittadino è una persona incline a ricercare il proprio benessere attraverso il benessere della città, mentre l'individuo tende a mostrarsi freddo, scettico o diffidente nei confronti di concetti quali "causa comune", "bene comune", "buona società" o "società giusta". Qual è il senso dell' "interesse comune" se non quello di consentire a ciascun individuo di soddisfare il proprio?» (Bauman, 2002, p. 24)

    Seppur pesantemente ferito, il Capitalismo, in quanto sistema economico e fondamento dell'organizzazione della società occidentale, sopravvisse all' "Orda d'oro" che, a cavallo del periodo 1968-77 ed attraverso l'azione congiunta (seppur non coordinata) della critica sociale (che conobbe il suo punto più alto) e dei movimenti politici (che raggiunsero invece il livello massimo di antagonismo), si era fatta portatrice di una domanda radicale di rinnovamento politico, istituzionale, economico e culturale in Italia così come in gran parte del resto del mondo (cfr., Balestrini, Moroni, 2008). Da quella esperienza "liminale" il sistema capitalistico e più nello specifico la rete globale del potere finanziario, fecero proprie due lezioni che andranno ad influenzare negli anni successivi l'agire socioculturale e politico anche nei contesti urbani:

    1. affermare su scala planetaria il modello dell' "homo oeconomicus", tutto incentrato sulla massimizzazione del benessere personale e la cura degli interessi privati, eretto a referente culturale globale dell'agire individuale, venduto come "rassicurante e vincente" rispetto all' "allarmante e perdente" modello collettivista;
    2. avviare un profondo processo di spoliticizzazione della piazza (e più in generale del contesto urbano) in quanto spazio morfologicamente destinato a produrre aggregazione sociale, a favorire l'integrazione delle individualità, a generare comunità, dunque luogo di confronto e diffusione di pratiche ed azioni politiche e partecipative (cfr. Lombardi Satriani, 1998).


    A rrobba mia! - Foto: Luigi D'Aponte
    Nel corso degli anni Ottanta si assiste così al graduale ma diffuso affermarsi di un processo che fu al tempo stesso di domesticazione sociale e privatizzazione del vissuto: eventi e luoghi che erano stati proscenio urbano della cittadinanza, dell'appartenenza, così come della rivendicazione di diritti, si svuotarono in termini fisici e culturali dinanzi alla "ritirata strategica" della maggioranza della popolazione che da quel momento in avanti abdicherà dal titolo di "cittadino" (e dal potere "sovrano" chiamato costituzionalmente ad esercitare anche e soprattutto all'interno della stessa città), per assumere quelli più individualizzati, privatistici ed economicamente determinati di "proprietario" (del proprio spazio abitativo), di "spettatore" (del surrogato di vita riflesso da un sistema televisivo ingigantitosi con l'avvento delle tv commerciali private), di "consumatore" (negli allora nascenti templi del consumo indotto, i supermercati, così come nella irrefrenabile corsa all'acquisto di prodotti tecnologici che invadevano per la prima volta il mercato italiano).

    Così come i rapporti sociali, anche le relazioni uomo/ambiente di vita cambiano radicalmente a partire dagli anni Ottanta venendo sempre più inglobate (e pesantemente influenzate) dalla sfera economica. È l'inizio di quella devastante deriva politico-culturale, i cui effetti nocivi l'Occidente sta conoscendo solo in anni recenti, che farà assumere al fattore economico (ed ancor più alla sua declinazione finanziaria) un'importanza ritenuta vitale e predominante su ogni altra componente della società, la quale verrà di conseguenza modificandosi per garantire al sistema economico di funzionare produttivamente ma secondo leggi e dinamiche proprie ed orientate esclusivamente alla generazione di profitto (cfr. Polanyi, 1944):

    «Il carattere selvaggio del liberismo non sta dunque tanto e solo nel grado di sfruttamento dell'uomo e della natura che esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura che scinda definitivamente i legami che l'uomo ha sempre sentito di avere con la società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre infine l'individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi. Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico» (ibid., p. 210).

    Il ventennio '80/'90 diviene così quello nel quale verrà consolidandosi la "mutazione antropologica" degli italiani che l'ultimo vero grande intellettuale di questo Paese, Pier Paolo Pasolini, aveva già previsto e descritto alla metà degli anni Settanta: «la cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell'esistenziale, nel concreto» (cfr.Pasolini, 1974), la vitale diversità che caratterizzava gli italiani a partire dalla propria classe d'appartenenza, dal contesto territoriale di provenienza, dall'espressività linguistica ad esse connessa, dal sistema valoriale e dai modelli esistenziali che ne derivavano, si tramuta in omologazione di massa fondata sui dettami della cultura della crescita economica e dell'affermazione individuale.

    Una perversa mutazione alla quale non sarà immune la città e più in generale il territorio italiano, seppur quanto accadde in quel ventennio, dal punto di vista urbanistico, rappresentò il culmine di un più antico degradante e devastante progetto di sfruttamento economico di suolo avviatosi con la ricostruzione del secondo dopoguerra, denunciato (ma non ascoltato) in "tempo reale" da un'altra "anima bella" italiana, Antonio Cederna, che così già si esprimeva nel 1956 sul tema:

    «I Vandali che ci interessano sono nostri contemporanei, divenuti legione dopo l'ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d'animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali e commerciali, privati affaristi, chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore a scoppio, retori ignorantissimi del progresso in scatola. Le meraviglie artistiche e naturali del "Paese dell'Arte" e del "Giardino d'Europa" gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo [...] Goti, Lanzichenecchi e Nazisti sono dei dilettanti a nostro confronto» (Cederna, 1956, p. 3).


    Contr(o)addizioni - Foto: Luigi D'Aponte

    È una città dunque che viene mutandosi di forma e sostanza quella degli ultimi due decenni del "Secolo breve" novecentesco: ai "vandali contemporanei" è così ascrivibile la colpa del deturpamento irreversibile delle sue armoniche forme, che altro non erano che l'espressione dell'identità culturale e storica collettiva delle diverse generazioni di "cittadini" succedutisi nel corso del tempo in quel luogo abitandolo, vivendolo e plasmandolo a loro immagine. E sempre a quel manipolo "specialistico" di vandali è ascrivibile l'invenzione ed imposizione di un nuovo e non meno devastante paradigma architettonico al quale si uniformerà acriticamente anche la pianificazione urbanistica: la città disegnata dalle Archistar. Con l'affermazione su vasta scala di tale modello un altro fondamentale tassello si aggiunge al più vasto processo di spoliticizzazione dei contesti urbani: da espressioni identitarie collettive le città vengono in tal modo tramutandosi in agglomerati di costruzioni che sono prevalentemente espressione delle biografie professionali e delle capacità tecnico-artistiche di poche decine di architetti di fama internazionale; quelle stesse costruzioni, inoltre, divengono nella maggior parte dei casi anche totem in vetro, ferro e cemento simbolicamente eretti nel cuore delle città (si assuma a riferimento il "30 St Mary Axe" di Londra) in totale voluto contrasto materico e dominio altimetrico sui circostanti edifici storici, e come rappresentazione architettonico-monumentale della potenza finanziaria dei gruppi economici globalizzati che ne sovvenzionano la costruzione (proprietaria del "30 St Mary Axe" è il gruppo assicurativo Swiss Re). Dentro tale egocentrico e monofunzionale (a vantaggio quasi esclusivo degli interessi finanziari ed immobiliari dei gruppi proprietari) disegno della città s'inseriscono poi maldestramente o interessatamente, a seconda del livello d'incapacità politica o di scarsa trasparenza ed onestà, gli amministratori pubblici, i quali abbandonando ogni seria analisi dei bisogni abitativi, aggregativi, sociali ed economici della cittadinanza, richiedono la formulazione di piani e programmi che anziché inglobare nella città già esistente tali "totem" li tramutano invece in "attrattori locali" intorno alle cui specifiche esigenze infrastrutturali e di servizi articolare la pianificazione urbanistica dell'intera area circostante. E le città finiscono così nel tempo per tramutarsi in contorno, addobbo, periferie dei totem del potere finanziario globale disseminati nei punti nevralgici del pianeta.

    «Gli Archistar sono generalmente, magari in maniera inconsapevole, strumenti usati dal regime immobiliare quale copertura di operazioni francamente discutibili» (Campos Venuti, 2010, p. 54).

    2. Alterazioni dell'integrità strutturale e funzionale 

    Dalla introduttiva, breve e non esaustiva disamina delle "origini del male" che affligge la città contemporanea appare evidente quanto traumatico e non compiuto sia stato il passaggio dalla città industriale a quella post-industriale: un mutamento (ma forse sarebbe meglio parlare di un'alterazione) che si avvia nel corso degli anni '70 e ancora non può dichiararsi concluso. Così come già accaduto nel passato i cambiamenti di forma, così come quelli dei suoi tempi e delle sue funzioni, sono determinati principalmente dall' "economia della città", cioè dalla modalità prevalente di produzione di ricchezza: la città diviene così specchio riflettente del momento storico e del livello di benessere esperito dalla popolazione che la abita, ed in "tempi da lupi" come quelli attuali l'immagine che essa mostra è poco armonica ed ancor meno rassicurante. La precarizzazione del mercato del lavoro, tragicamente combinata con la radicale riduzione delle garanzie universalistiche del Welfare, ha incrementato a dismisura i rischi di vulnerabilità e marginalità socioeconomica di sempre più larghe fasce di cittadinanza, producendo come effetto immediato la graduale erosione delle classi medie e la polarizzazione del sistema sociale in conseguenza del significativo ampliamento delle classi più abbienti così come di quelle più povere. E la città contemporanea, per lo specifico della sua componente immobiliare, assume così oggi un ruolo fondamentale (e come è stato nel caso ad esempio della Spagna anche drammatico) per lo scenario economico locale, nazionale e globale: a fronte di un generalizzato crollo del potere d'acquisto delle famiglie, unitamente alla radicale riduzione della classe media ed alla pesante crisi economica vissuta dal sistema produttivo occidentale, nella quasi totalità delle città (seppur in misura diversificata) è oggi presente un surplus di costruito fatto non solo di abitazioni che non trovano acquirenti privati, ma anche di edificato per usi commerciali e produttivi che non trova investitori disponibili, se a questo aggiungiamo il blocco oramai quasi totale d'investimenti pubblici infrastrutturali si può facilmente ipotizzare quale può essere il devastante effetto domino che ne consegue: dal mercato immobiliare fermo deriva un comparto edile in crisi e dunque aziende in fallimento, che non possono più far fronte ai debiti contratti con le banche le quali in assenza di liquidità possono recuperare dai loro debitori solo la proprietà di immobili ingestibili o peggio ancora di progetti e cantieri aperti ma senza possibilità (e soprattutto l'utilità) di essere conclusi.

    Ne consegue, inevitabilmente, una crisi anche del sistema bancario e conseguente intervento a sostegno da parte delle autorità nazionali e sovranazionali per ricapitalizzare i bilanci degli istituti di credito (evento già accaduto nella già citata Spagna oltre che in Irlanda ed in parte in Italia). Ma azioni governative di questo tipo, soprattutto se ripetute nel tempo e per più istituti bancari, in un momento storico per la politica non certo dei più felici in termini di efficacia della propria azione di governance e di gradimento fra i cittadini elettori, produrrebbe ulteriori tensioni sociali mettendo definitivamente a rischio la coesione sociale nel suo complesso. A tale frammentario, articolato e fragilissimo scenario socioeconomico vanno aggiunte le tensioni determinate dai massicci mutamenti culturali che investono gli abitanti delle città contemporanee a seguito dei fenomeni innescati dal gigantesco movimento migratorio internazionale: cambiamenti di abitudini, stili di vita, vissuti e forme di fruizione della città e dello spazio pubblico che avvenendo, sia per gli "autoctoni" che per i nuovi cittadini, senza filtro alcuno per l'assenza di valide politiche nazionali d'accoglienza e di integrazione culturale, sono destinati inevitabilmente a produrre conflittualità interetnica e favorire veri e propri fenomeni di tribalizzazione degli spazi urbani:

    «In un mondo fatto di città, le città che noi abitiamo non sono più città. [...] Il loro equilibrio è precario perché sono di continuo attraversate da sempre nuove ipotesi di trasformazione, di sviluppo, di arricchimento, di dominio e di potenza; ipotesi nuove si incontrano con brandelli di ipotesi vecchie e quelle si sovrappongono confusamente a queste lasciando segni dolorosi sul corpo delle città e sulla sua popolazione.[...] Queste città producono ricchezza, ma questa ricchezza crea lacerazione, separazione, emarginazione, e discrimina i gruppi ed i cittadini più deboli. Questa ricchezza ingrassa nutrendosi di miseria e facendo sentire i suoi effetti negativi soprattutto negli angoli più bui della città. [...] Queste città non tendono alla giustizia sociale, all'equità, al rispetto dei diritti di cittadinanza. [...] Queste città hanno cambiato i propri ritmi e vivono disperatamente le loro giornate allucinate che sono tutte giocate sulla velocità, sull'informazione e sull'uso di una tecnologia che invade e sconvolge le nostre vite e crea alienazione e spaesamento.[...] L'istaurarsi di una crisi continua fa sentire pesantemente i suoi effetti su ogni singola persona, dentro interi pezzi di città, mette in pericolo la vita di imprese grandi e piccole e trasforma il modo di operare degli amministratori locali che, da mediatori, sono diventati procacciatori d'affari, operando nell'interesse e per conto delle holding finanziarie internazionali. È l'economia e non la politica a governare il mondo» (Persico, 2003?).


    Stairway to nowhere - Foto: Luigi D'Aponte

    Una tendenza (malsana) incrementatasi nel nostro Paese prevalentemente nel corso degli ultimi vent'anni, ha fatto si che ogni spazio ed attività di utilità pubblica abbandonati dalla politica divenissero immediatamente d' "interesse" (e nei fatti di proprietà) del mercato e della speculazione privatistica. Sulla base di tale tendenza si è dunque determinata la graduale nefasta mutazione dalla "città del benessere" alla "città del ben apparire":

    - gli abitanti della città industriale si conquistarono con il lavoro, con le lotte e con il sostegno istituzionale delle forze politiche quel complesso di diritti civili, politici e sociali che incarnano il fondamento della cittadinanza e la base sulla quale erigere una società (e di conseguenza una città) tendenzialmente equa e che miri a garantire le migliori condizioni di vita possibili a tutti i suoi cittadini;
    - nella città post-industriale invece, agli effetti prodotti dal pesante processo di ristrutturazione e graduale riduzione dei diritti di cittadinanza, già qui precedentemente descritto, si sommarono quelli indotti dal:
    a) processo di "gentrificazione" (cfr., Glass, 1964), quale complesso di interventi congiunti di tipo strutturale, urbanistico, economico e socioculturale per il tramite dei quali interi quartieri ed aree delle città, in prevalenza abitati e vissuti da ceti sociali a basso reddito, vengono sottoposti ad azioni di riqualificazione il cui obiettivo prevalente è quello di determinare un innalzamento dei valori immobiliari con conseguente espulsione del nucleo originario di abitanti e loro sostituzione con ceti ricchi.
    b) processo di "vetrinizzazione della città", diretta conseguenza del ben più ampio fenomeno di "vetrinizzazione sociale" (cfr., Codeluppi, 2007): ogni aspetto dell'esistenza umana, dalla fisicità del corpo all'immaterialità dei sentimenti, così come dai contesti urbani al loro genius loci, finanche l'atto della nascita e della morte, viene oggi spettacolarizzato ed esposto alla pubblica condi/visione. Un processo che cancella di fatto il "privato" degli individui, sempre più ossessivamente alla ricerca di un proscenio visuale (prevalentemente allestito per il tramite degli strumenti tecnologici a disposizione) attraverso il quale mostrare anche il più intimo aspetto del sé ad una platea di "contatti" voyeur ed al fine di ottenere da questi un presunto consenso ed un ancora più discutibile riconoscimento personale oramai smarrito nei luoghi del reale quotidiano. Un processo di vetrinizzazione al quale non viene certo sottratta la città che assume il ruolo di luogo cardine per la socializzazione e diffusione di tali pratiche "esibizionistiche": che si tratti delle eleganti strade del Centro Storico o degli enormi Centri Commerciali delle periferie, l'elemento fisico predominante diviene proprio la vetrina, barriera fisica che rende impossibile all'osservatore ogni "contatto" con ciò che essa mostra favorendo così l'affermarsi del principio dell' apparire su quello dell'essere, della forma rispetto alla sostanza delle cose. Nel nome di discutibili, sul piano morale e dell' efficacia economica, strategie di marketing territoriale, intere città (ma il fenomeno si estende oggi anche a piccoli borghi) sono state "vetrinizzate" assieme al loro patrimonio culturale materiale e immateriale. Inquietante è, fra i tanti possibili, l'esempio di Venezia: quotidianamente stuprata, nel suo delicatissimo equilibrio di città lagunare che incarna «il più prodigioso avvenimento urbanistico esistente sulla Terra» (cfr., Le Corbusier, 1962) [4], da volgari e abnormi navi da crociera che altro non fanno che offrire ai crocieristi, sempre meno turisti e sempre più spettatori, un immagine della città come di un gigantesco "shopping mall": la nave e la sua andatura lenta sono il "tapis roulant" lungo i cui corrimani si attaccano ed affacciano i turisti/spettatori; la visione della città è sempre laterale e bidimensionale esattamente come accade per le merci esposte nelle vetrine che si susseguono in una galleria commerciale; è inoltre una città immobilizzata, sempre in posa, che ben si presta quindi alle immancabili "foto ricordo" di rito. Osservata secondo tale prospettiva ogni città vetrinizzata, rispondendo a logiche esclusivamente commerciali, mostra di se solo ciò che ritiene bello e desiderabile, impedendo la reale fruizione dello spazio, l'interazione non-commerciale con chi la abita, l'inevitabile confronto con le problematicità del suo quotidiano urbano (traffico, code, rifiuti, microcriminalità, ecc.).

    Gentrificazione e vetrinizzazione sono dunque validi esempi di rappresentazione spaziale dell'applicazione sistematica dei principi neoliberisti allo sfruttamento economico-finanziario della città contemporanea ed alla depoliticizzazione dello spazio pubblico: il cittadino viene gradualmente perdendo i suoi diritti civili, politici e sociali allentando sempre più anche i legami culturali e d'appartenenza con i luoghi storici / simbolici della città che vive ed abita; su questo spazio pubblico sempre più destrutturato e orfano di luoghi, funzioni e riferimenti, interviene il mercato che offre all'individuo, mai in maniera gratuita e sempre a pagamento, la possibilità di divenire un "performer", un protagonista, che mette in scena e a nudo ogni singolo aspetto della sua vita professionale e personale dinanzi ad una "audience diffusa" (cfr., Abercrombie, Longhurst, 1998) e costantemente connessa attraverso tecnologie e social network. E poi nelle vetrine della città antica (frutto della gentrificazione) o dei giganteschi centri commerciali periferici che l'individuo/performer trova ed insegue il riflesso della vita affascinante, attraente e desiderabile che vorrebbe per sé e che crede di poter conquistare attraverso l'acquisto e l'utilizzo delle merci esposte.

    Disgregatasi la rappresentanza politica, ridotti all'osso i diritti di cittadinanza, polverizzati gli spazi e gli eventi pubblici, smaterializzato il lavoro, destrutturati i sistemi valoriali tradizionali e atomizzata la vita sociale, al cittadino contemporaneo sembra non restare che un unico obbligo sociale: quello del curare e promuovere al meglio la sua immagine esteriore, il suo abito da scena, scegliendo fra le infinite vantaggiose opportunità offerte dal mercato.

    «Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa e come strumento d'unificazione. È il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l'unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata [...] Lo spettacolo è una visione del mondo che si è oggettivata [...] La prima fase del dominio dell'economia sulla vita sociale aveva comportato una evidente degradazione dall' "essere" in "avere". La fase presente dell'occupazione totale della vita sociale da parte dell'economia, conduce ad uno slittamento dall' "avere" al "sembrare". Nello stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale: solo per il fatto che "non è", le è permesso di apparire» (Debord,1967, p. 6-10).

    Ma esiste ancora un'altra alterazione dell'integrità strutturale e funzionale della città contemporanea sulla quale è opportuno soffermarsi, anche perché quella maggiormente percepita dalle persone: la paura dello spazio urbano.

    Il connubio paura-città è di vecchia data ed ha fortemente influenzato le mutazioni che la stessa città ha subito nel corso di migliaia di anni: mentre le mura di cinta hanno per lungo tempo rappresentato la barriera eretta a difesa di ogni forma di pericolo "esterno", dalla Rivoluzione Industriale in poi i pericoli iniziano a provenire anche dall' "interno" e sono diretta emanazione della massiccia e indisciplinata urbanizzazione e relativo sovraffollamento: problemi igienici, sommosse popolari, crimini. Dunque il dinamismo economico, sociale e culturale della città industriale così come favorì l'affermarsi delle libertà e dei diritti individuali, gettò le basi anche di un sentimento di insicurezza generalizzato (cfr., Acierno, 2003). Nella città post-industriale la paura e la condizione di malessere che ad essa si accompagna ha raggiunto livelli ancor più elevati, determinati da quei processi di riduzione delle tutele sociali, di precarizzazione del lavoro, di destrutturazione delle relazioni comunitarie e di vicinato che hanno favorito un'atomizzazione sociale che produce a sua volta negli individui sentimenti di solitudine, abbandono e totale impotenza dinanzi ai rischi reali o presunti che uno spazio urbano, svuotato di abitanti, funzioni politiche ed occasioni di socializzazione, può manifestare. Dinanzi a tale deriva allarmistica la risposta della politica è stata nauseante e devastante: l'insicurezza sociale è così divenuta l'ennesimo strumento da sfruttare per il mantenimento del potere, alimentando il disgustoso teatrino mediatico della manipolazione e dell'orientamento del consenso elettorale. Discutibile è stata anche la risposta offerta dalla maggioranza degli "specialisti della città" ai quali si deve l'affermarsi, nel corso degli ultimi decenni, di una vera e propria "urbanistica difensiva" che ha militarizzato gli spazi urbani attraverso telecamere, blindature, grate, vigilantes e zone interdette anche alle più semplici forme d'interazione e socializzazione fra le persone. Le nostre città divengono così lo scenario fisico dentro il quale dare forma a quella che è a tutti gli effetti una "frustrazione sicuritaria" (cfr. Castel, 2004) che distorce la portata reale dei pericoli esistenti e fa accrescere oltre ogni livello tollerabile la domanda di sicurezza sociale, alla quale risponde deficitariamente lo Stato che lascia così campo libero, ancora una volta, al mercato per permettere di speculare economicamente anche sulla paura delle persone: svanite le reti tradizionali ed istituzionali di protezione «è la proprietà che protegge» (Castel, 2004, p. 13).

    «Allorché dominano i legami intessuti attorno alla famiglia, al lignaggio e ai gruppi di prossimità, e allorché l'individuo è definito dal posto che occupa in un ordine gerarchico, la sicurezza, nelle sue linee essenziali, è garantita sulla base dell'appartenenza diretta a una comunità e dipende dalla forza di questi legami comunitari. Si può parlare allora di "protezioni ravvicinate". [...] Con l'avvento della modernità, lo statuto dell'individuo cambia radicalmente. L'individuo viene riconosciuto di per se stesso, indipendentemente dalla sua inscrizione in ambiti collettivi. Ma non è, per ciò stesso, garantito nella sua indipendenza. Al contrario. [...] Una società di individui non [ è ] più una società ma uno stato di natura, cioè uno stato senza legge, senza diritto, senza costituzione politica e senza istituzioni sociali, in preda a una concorrenza sfrenata degli individui tra di loro. [...] Questa sarebbe di fatto una società d' "insicurezza totale". Liberati da ogni regolazione collettiva, gli individui vivono sotto il segno della minaccia permanente poiché non possiedono in se stessi il potere di proteggere e di proteggersi [...] Il bisogno di essere protetto [diviene allora] l'imperativo categorico da assumere a qualunque prezzo per poter vivere in società [...]. Questa società sarà fondamentalmente una società di sicurezza [...] È in ogni caso significativo che la domanda di sicurezza si traduca immediatamente in una domanda d'autorità, la quale, una volta in preda agli eccessi dell'entusiasmo, può minacciare la democrazia. Un governo democratico si trova, qui, in una situazione sfavorevole. Da esso si pretende che garantisca la sicurezza, e lo si condanna rimproverandogli il suo lassismo se fallisce in questo compito. Ma il sovrappiù di autorità che si esige da uno Stato di diritto può davvero esercitarsi in un quadro democratico?» (Castel, 2004, pp. 8-22)


    Stop al panico - Foto: Luigi D'Aponte

    3. Terapia transdisciplinare: per una città socialmente sostenibile

    «Al congresso sono tanti
    dotti, medici e sapienti,
    per parlare, giudicare,
    valutare e provvedere.
    [...]
    Ma dopo quanto avete detto,
    io non posso più stare zitto
    e perciò prima che mi possiate fermare
    devo urlare e gridare, io [la] devo avvisare,
    di alzarsi e scappare anche se si sente male,
    se si vuole salvare, deve subito scappare»
    "Dotti, Medici e Sapienti", Eugenio Bennato

    Come sarà la città del dopo crisi? In quale scenario urbano sarà ambientato questo nostro dopoguerra? Ma soprattutto chi e come parteciperà al disegno del profilo della città prossima ventura? Come Lewis Mumford ci ha magistralmente insegnato:

    «Le città sono un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli uomini» (Mumford, 1938, p. 72)

    Stando dunque alle analisi dello storico, urbanista e sociologo statunitense, e tenuto conto della qualità culturale, morale ed economica della vita dell'uomo medio contemporaneo, ci sarebbe ben poco da stare allegri rispetto allo stampo che essa potrebbe imprimere sulla città che verrà. E forse è veramente e realisticamente così; e la rappresentazione simbolicamente più potente di questo scenario socio urbano di là da venire è forse in realtà stata prodotta già 65 anni fa dal maestro Roberto Rossellini, nella celebre carrellata di "Germania Anno Zero" che accompagna la solitaria passeggiata del piccolo Edmund fra le macerie di una Berlino rasa al suolo: l'uomo post-contemporaneo si muoverà anch'egli solitario e con passo incerto come il giovane Edmund, affaticato da una esistenza dove l'insicurezza e la precarietà saranno divenute il quotidiano di tutti, dove l'incontro/incrocio con l'altro non arricchirà ma impaurirà sempre più, dove la sistematica disintegrazione della politica, dello Stato e di tutto ciò che attiene alla sfera del "pubblico" avrà tramutato il popolo in una moltitudine forzatamente multirazziale animata esclusivamente dallo scontro ego-centrico che avrà nel frattempo reso antiquato quello etno-centrico. E sullo sfondo le macerie saranno più morali che fisiche, più culturali che strutturali, più sociali che estetiche.

    «La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l'esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine» (Augé, 2003, p. 8).


    Monnezze - Foto: Luigi D'Aponte

    "Le città sono un prodotto del tempo", soprattutto di quello che precede la loro edificazione, sono figlie del tempo della loro progettazione, ed ancor prima di quello nel quale il pensiero ne plasma l'ideale forma e sostanza. Le città sono dunque il prodotto di un'idea. Ed è questa la causa prima alla base della crisi della città contemporanea e di quella futura che bisognerebbe già ora inventare: il deficit di pensiero. Il silenziamento della creatività. L'esilio degli ideali. L' archiviazione del coraggio. A città e società odierne manca dunque una radicale e libera analisi e critica sociale, che deve essere concretamente, definitivamente ed istituzionalmente riconosciuta come disciplina il cui contributo analitico ed operativo, al pari di quello dell' Architettura, dell' Ingegneria e delle Scienze della Terra, è indispensabile per garantire il miglior disegno e governo possibile dei contesti territoriali e delle dinamiche umane che in essi si determinano. È necessaria una figura che sia innanzitutto in grado di riconnettere e far dialogare gli "specialisti dell'edificato" con i cittadini che quei "costruiti" dovranno abitare, vivere, frequentare. Così come è necessario ritessere i legami emozionali, identitari e storico-culturali (in parte drammaticamente oggi recisi) fra gli abitanti ed i contesti di appartenenza. La città ha bisogno di ritrovare le sue storie, le infinite narrazioni che da migliaia di anni l'attraversano, modificano, caratterizzano. Qualcuno deve favorire la (ri)costruzione di un "comune, condiviso e partecipato" discorso sulla città, il suo territorio, le comunità che la rendono vitale.

    C'è dunque bisogno di un sociologo per la città

    Un sociologo per la città: dove “per” ha significato di preposizione indicante il moto attraverso lo spazio, un invito a ripartire “dal basso”, a mettere in movimento i piedi sull’asfalto delle strade, ad osservare i contesti territoriali ad altezza d’occhio, a superare l’idea della “città di carta” interpretata quasi unicamente attraverso la visione “dall’alto” (e sovente distante dal reale) di disegni, progetti, cartografie e tabelle di dati socio-economici e demografici.

    «Il camminare riguarda l'essere all'aperto, in un luogo pubblico, e anche nelle città più antiche lo spazio pubblico è abbandonato ed eroso, eclissato dalle tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa, e in molti luoghi è oscurato dalla paura [...] Quello che un tempo era lo spazio pubblico ora è destinato a dare accoglienza e protezione alle automobili, i centri commerciali sostituiscono le vie principali, le strade non hanno marciapiede; negli edifici si entra dai garage; i municipi non hanno una piazza e ovunque muri, barriere, cancelli. La paura ha generato uno stile di architettura e di disegno urbano dove essere un pedone per molte "comunità cintate", vuol dire essere una persona sospetta. [...] E quando lo spazio pubblico scompare, altrettanto avviene al corpo [...] Muoversi a piedi è un modo per conservare un baluardo contro questa erosione della mente, del corpo, del paesaggio e della città» (Solnit, 2000, pp. 11-12).

    Un sociologo per la città: dove “per” assume anche significato di preposizione indicante il vantaggio che può maturare a favore dei contesti urbani, quando l’analisi e l’organizzazione del territorio si arricchiscono del contributo di una “ricerca azione” di matrice sociologica in grado, nel contempo, di leggere e decodificare le molteplici dinamiche umane/urbane nel loro sempre più articolato e polverizzato contemporaneo manifestarsi, e di favorire e accompagnare reali processi decisionali partecipati da parte dei cittadini e di tutti coloro che quei contesti vivranno e influenzeranno con il loro agire.

    «Noi siamo carne e geografia. Lo spazio è una condizione necessaria alla costruzione della nostra identità e quanto più veniamo allontanati dalla diretta manipolazione di esso tanto più la nostra identità si fa scialba, perde interesse anche per noi stessi. La bellezza del mondo serve a costituire la varietà degli umani, la sostanzia di colori, odori, memorie, sogni e nuvole [...]. Così è vero che uno può crescere in un paesaggio virtuale, abituare le sue metafore alle reti informatiche, diffondersi dalla tastiera del computer nel vasto mondo dei contatti, ma il suo corpo, anche se diventerà sottile ed efficace, perderà la goffaggine e la terrestrità che ci consente di essere cugini delle lucertole e parenti dell'argilla» (La Cecla, 1988, p. 128).

    Un sociologo x la città: dove “x” assume valore di incognita, simbolica divisione grafica e semantica che vuol tenere distinti e distanti due concetti, due soggetti, “sociologo” e “città”, quasi che il primo non possa/sappia occuparsi degli aspetti funzionali e formali della seconda, e che questa necessiti del contributo dell’altro esclusivamente in presenza di disfunzioni nell’assolvimento dei ruoli e nella condotta degli individui che la abitano. Una distanza eretta nel tempo da una divisione disciplinare del sapere e dei relativi campi d’azione (e di potere) che proprio sui temi urbanistici manifesta oggi la sua inadeguatezza nell’ offrire efficaci soluzioni ai problemi posti dalla complessità del contemporaneo: le singole (e soventi “singolari”) risposte offerte dal sociologo, dall’architetto, dall’ingegnere, dall’economista o dagli scienziati della Terra alle molteplici domande di vivibilità/fruibilità/sostenibilità che il territorio pone, non servono più se ancora formulate cercando unicamente nella propria “casa d’origine” disciplinare i concetti e gli strumenti idonei per elaborarle. Il “governo” delle trasformazioni del territorio ha invece bisogno di una nuova “cassetta degli attrezzi”: basata su schemi e modalità d’intervento transdisciplinari, che evolvino il principio stesso di interdisciplinarietà e superino le frontiere troppo spesso artificiali che dividono quei saperi che a vario titolo e con pari dignità alimentano e danno vita a quello spazio comune di studio ed intervento chiamato Urbanistica.

    «La cultura dei progettisti e quella degli utenti non si possono collocare su due punti diversi di un ideale continuum [...]. Al contrario, si tratta di due concezioni diverse, di due modi radicalmente diversi di concepire e valutare la casa, il quartiere, lo spazio; forse il mondo. Il singolo alloggio, il palazzo, il quartiere stanno di fronte al progettista, oggettivati in pianta, in sezione, in assonometria, statici e reificati. Per l'utente invece essi sono una sorta di sfera all'interno della quale egli si muove e che in un certo modo si muove con lui, si modifica nel corso del tempo e a causa dei suoi spostamenti. Più semplicemente: per i progettisti lo spazio è astratto, per gli utenti è eminentemente concreto [...] Lo spazio è per il progettista una realtà data, statica, definitiva, egli può concepire di stabilire in essa un ordine la cui logica è chiara solo ad una lettura globale e simultanea: una lettura come la consente la pianta o l'aerofotografia. Ma per l'utente la sola lettura possibile è quella diacronica, di percorso: alla sua quota ciò che nella lettura globale appare come ordine, si rivela insopportabile monotonia, piatta ripetizione, anonimato. Lo spazio ordinato, alla quota di un metro e settanta dal suolo diventa uno spazio privo di senso. [...] Se per il progettista lo spazio costruito è lo spazio delle funzioni, per l'utente è lo spazio delle relazioni» (Signorelli, 1996, pp. 63-66).

    Qualsiasi progetto di governo della città che passi attraverso un “piano urbanistico” o un "programma complesso", non può e non deve essere considerato come un monolitico punto conclusivo nel governo delle trasformazioni spaziali, taumaturgicamente in grado di prevedere e risolvere ogni problematica scaturente dalla naturale e vitale dinamicità dei contesti territoriali. Piani e Programmi sono invece da interpretarsi ed attuarsi in quanto strumenti “ricetrasmittenti”: per un verso in grado di guidare l’agire territoriale dei singoli e della collettività trasmettendo loro un ventaglio condiviso di procedimenti da seguire (“normare” il territorio); per un altro verso, fin dal primo giorno della loro attuazione e per il tramite del costante monitoraggio delle “risposte” del territorio e delle comunità, devono essere strumento di verifica sia della funzionalità del complesso normativo adottato, sia della credibilità dei pianificatori e dei decisori politico-istituzionali che quel sistema di regole, con le proprie valutazioni ed i propri principi, hanno generato (“ascoltare” il territorio). “Normare ed ascoltare” divengono così due facce di una stessa medaglia, due dimensioni interdipendenti senza le quali nessun azione pianificatoria è realisticamente ed efficacemente attuabile. Ma per tenere insieme queste due dimensioni è necessaria una loro elaborazione sinergica attraverso una terza dimensione: quella del “(ri)progettare” il piano/programma, la sua condivisione ed il suo futuro consenso. “(Ri)Progettare”, “Normare”, “Ascoltare”, divengono così tre fasi/azioni che interrelate fra loro danno vita ad un procedimento circolare, un vero e proprio “circolo ermeneutico” fondativo di un atto pianificatorio urbanistico interpretativo, organizzativo e partecipato; per almeno due di queste tre fasi/azioni, il contributo e la presenza attiva e costante nell’équipe dei pianificatori di professionisti di matrice sociologica/antropologica diviene indispensabile.

    Lasciando la fase “tecnico-normativa”, quella cioè della traduzione dei principi e degli indirizzi in regole, indici, misure e vincoli, prevalentemente alla competenza, all’analisi ed agli strumenti delle altre discipline coinvolte nel discorso urbanistico (di matrice architettonica, ingegneristica, giuridica e delle scienze della Terra), risulta evidente che il contributo socio antropologico può e deve trovare ampi ambiti d’intervento:

    - nella fase delle diverse analisi preliminari ai piani/programmi;
    - nella costruzione dei principi guida che ispireranno la loro articolazione;
    - nel coinvolgimento attivo di stakeholders e cittadinanza;
    - in buone prassi comunicative di quanto dal piano/programma disposto;
    - in efficaci strumenti di monitoraggio delle dinamiche e dei fenomeni socioeconomici e culturali che nel corso del tempo intervengono dinamicamente nei contesti spaziali, imponendo una ridefinizione e conseguente riprogettazione del sistema di regole sul quale si fonda e articola il governo di un territorio.

    Seguendo dunque una schematizzazione per raggruppamenti disciplinari dei diversi saperi che concorrono a costituire l’ossatura del discorso e dell’azione urbanistica, si possono individuare e descrivere sinteticamente i potenziali diversi apporti che le scienze sociali sono in grado di offrire:

    1. Area della pianificazione e progettazione urbanistica: il contributo delle scienze sociali può assumere taglio “macro” in quanto concorre a delineare scenari evolutivi futuri e linee tendenziali di fenomeni fortemente influenzanti le dinamiche urbane (ad. es.: popolazione, flussi migratori, trasformazioni economiche, mutamenti socioculturali, ecc.). Ma fondamentale diviene anche il loro contributo nella co-gestione di altre quattro specifiche attività, che potremmo definire “partecipate”, afferenti tale area: la risoluzione/mediazione di conflittualità (reali o potenziali) fra portatori d’interessi diversi; l’individuazione partecipata degli obiettivi del piano/programma con coinvolgimento degli stakeholders locali; la comunicazione pubblica, a favore della cittadinanza, del piano/programma elaborato; l’analisi e l’interpretazione, a seguito della loro entrata in vigore, del livello di accettazione/condivisione pubblica dei vincoli normativi imposti al territorio. 

    2.  Area delle politiche urbane: il contributo qui può scindersi in più forme d’intervento: un primo caso si pone ad un livello che potremmo definire di “microscala” adottando strumenti d’indagine di carattere prettamente etnoantropologico, al fine di coadiuvare l’individuazione di nuove adeguate risposte a bisogni e criticità emergenti da contesti territoriali e/o comunità umane che per loro specificità o dimensioni quantitativamente ridotte sfuggono al ventaglio normativo standard del governo del territorio. Pensiamo ad esempio alle comunità rom e l’utilizzo degli spazi periurbani degradati, oppure alla domanda di vivibilità (troppo spesso silenziata) emergente dalle fasce più deboli della cittadinanza (anziani e ragazzi) e per la quale la risposta più adeguata va al di là della quantificazione matematica di standard e servizi destinati all’area, ma è più da rintracciare in interventi fortemente localizzati (fondati sul reale vissuto delle persone) ed a piccola scala come possono essere piazze ed aree verdi di ridotte dimensioni, spazi pubblici condominiali, marciapiedi, ecc. Altro campo d’intervento è quello ascrivibile all’area delle politiche per la sicurezza urbana, dove l’apporto delle discipline sociologiche ed antropologiche è fondamentale ed incarna uno dei campi più fertili dentro la quale si è venuta e può ancor più venirsi realizzando una modalità d’intervento di carattere transdisciplinare. Liminare a tale campo d’intervento diviene così anche la promozione dell’integrazione delle politiche sociali con quelle urbane, sfruttando in maniera funzionale lo strumento rappresentato dalla legge quadro 328/2000 la cui finalità, la costruzione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali, è più facilmente perseguibile laddove il contesto territoriale appare già opportunamente gestito e valorizzato in ogni suo elemento costitutivo, al fine di poter ipotizzare una più stretta sinergia fra Piani e Programmi Urbanistici e Piani Sociali.

    3. Area delle azioni di sviluppo locale: un tempo storico accelerato quale è il nostro, al quale si accompagna una economia di mercato sempre più volatile, hanno radicalmente mutato tempi e modi delle politiche di sviluppo adottate dagli organismi governativi per favorire la crescita produttiva dei propri paesi. Di pari passo, la pianificazione territoriale si è andata sempre più arricchendo di ulteriori dimensioni che affiancandosi alla funzione di controllo dell’uso del suolo, hanno individuato nuove finalità più strettamente connesse alla programmazione ed allo sviluppo socioeconomico d’area. Appare così oggi abbastanza consolidata l’idea che per sostenere tali sfide ed incentivare le occasioni di crescita e sviluppo è necessario disporre di contesti territoriali ben organizzati in termini infrastrutturali e tecnologici, competitivi sul fronte formativo, con un adeguato sistema di servizi ed un apparato burocratico che favorisca e non ostacoli l’implementazione di iniziative economiche. Bisogna dunque saper progettare una attenta valutazione delle risorse (economiche, umane, culturali) e dei bisogni locali al fine di coglierne le specificità, tramutarle in patrimonio e promuoverle attraverso una scientifica e razionale opera di valorizzazione. Ma ogni azione di sviluppo locale è tale ed ha possibilità di svilupparsi solo se quel patrimonio è riconosciuto dalla comunità locale e quest’ultima è posta nelle condizioni di partecipare alla sua tutela ed alla sua gestione economica. E’ evidente che la complessità di tali tipi d’intervento richiede professionalità che siano in grado di dialogare con le comunità coinvolte ed in possesso di strumenti d’indagine capaci di cogliere anche gli aspetti intangibili del patrimonio di un luogo.

    4. Area della storia e della tutela del territorio: almeno metà dei processi alla base della costruzione dell’identità individuale sono influenzati dal modo in cui questa è in relazione con gli elementi caratterizzanti l’identità collettiva, che a sua volta influenza e s’influenza dell’ identità dei luoghi. Ogni spazio ha la sua storia, ogni luogo la sua identità, conoscerla è preambolo indispensabile di qualunque intervento o politica territoriale. Ma a stratificarsi nel corso del tempo, sostanziando così l’identità di un luogo e delle persone che lo abitano, non sono solo gli elementi materiali (edifici, strade, piazze, mura, ecc.), sono anche gli elementi immateriali, un insieme di ritualità del quotidiano, simbologie urbane, memorie di comunità, tradizioni popolari che contribuiscono anch’esse a delineare il volto del territorio, a renderlo allo stesso tempo unico ma riconoscibile a se stesso ed al contesto a lui straniero. E’ facile allora comprendere che se lo studio della componente materiale dell’identità dei luoghi è naturalmente demandata ai metodi d’indagine storico-architettonici, quello della sua componente immateriale è necessariamente da ascriversi alle discipline demo antropologiche, in grado di documentare non già la semplice presenza/sopravvivenza di rituali, ma come questi, modificatisi nel tempo, sussistano e alimentino il vissuto collettivo e urbanizzato delle persone.    

    5. Area delle discipline della Terra afferenti l’Urbanistica: il contributo che le Scienze Sociali possono offrire a questa specifica area di studi della città è strettamente connesso alla tematica della prevenzione, per lo specifico di due possibili campi d’intervento: un primo, legato alla costruzione condivisa di efficaci strumenti e campagne comunicative rivolte ai territori ed alle comunità interessati da problematiche afferenti l’area dei rischi naturali (idrogeografici, vulcanici, sismici, ecc.); un secondo ambito è invece connesso ad indagini finalizzate allo studio, sempre in aree a rischio, del livello di percezione del rischio stesso e delle cause ostative o facilitanti l’assunzione di comportamenti e scelte (individuali e collettive) adeguate ad affrontare le criticità esistenti.

    In un contesto qual è quello dello spazio urbano contemporaneo, caratterizzato dal molteplice, simultaneo, diversificato e sovente imprevedibile manifestarsi di eventi, movimenti e fenomeni, la presenza all’interno delle équipe di pianificazione di professionisti provenienti dall’area della ricerca sociale applicata al territorio assume dunque particolare rilevanza per:

    - i contributi empirici e la costruzione di strumenti operativi ed attività di supporto alle diverse fasi ed aree disciplinari della ricerca e dell’analisi urbana;
    - la capacità analitica, propria dei metodi delle scienze sociali, in grado di poter rilevare ed interpretare le relazioni sussistenti fra criticità e/o risorse territoriali di carattere macro e micro;
    - l’attitudine degli scienziati sociali a poter ricoprire, a partire dal proprio bagaglio di competenze di ambito comunicativo, il ruolo di “mediatore” e “facilitatore” della comunicazione e dell’ascolto fra i diversi saperi e le diverse professionalità coinvolte nell’azione pianificatoria, e fra queste e le comunità ed i territori alle quali tale azione è indirizzata.

    Fine ultimo è la ricostruzione di senso della città, a partire da una rinnovata capacità di lettura delle storie impresse sulla sua pelle di terra, asfalto, cemento o acqua e di ascolto delle idee e dei bisogni di coloro i quali la città abitano e rendono organismo vivo ed in continua mutazione. Ridare “senso” alla città è ridare “senso” alle nostre esistenze, che su quelle relazioni quotidiane con i luoghi a noi familiari, fatte di gesti semplici, quasi meccanici, apparentemente scontati, vengono costruendo la base del nostro profondo rapporto con il mondo.

    «Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie,
    ma la risposta che dà ad una tua domanda»
    (Calvino,1972, p. 44)

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    United Nations Human Settlements Programme, 2008, State of the World Cities 2008/2009 - Harmonious cities, Earthscan, London.

    Note

    [1] «[Noti] sotto il nome di programmi integrati o complessi questi strumenti cercano di porre rimedio alla distanza tra i tempi della pianificazione urbanistica tradizionale e l'urgenza del problema del degrado crescente dell'ambiente urbano. Nascono, perciò, su basi opposte a quelle dei piani tradizionali, con connotati del tutto diversi: durata relativamente breve rispetto al periodo medio-lungo del piano; previsioni realisticamente fattibili, disponibilità di risorse finanziarie certe, di provenienza sia pubblica che privata; ricorso al consenso delle varie parti in gioco invece dell'imposizione nei confronti delle proprietà ricadenti all'interno del perimetro dello strumento urbanistico» (Forgione, 2008, p. 30).

    [2] North Caroline State University, 2007, Mayday 23: world population becomes more urban than rural, Science Daily, 25 maggio 2007,
    https://www.sciencedaily.com/releases/2007/05/070525000642.htm
    https://www.sciencedaily.com/releases/2007/05/070525000642.htm.

    [3] United Nations Human Settlements Programme, 2008, State of the World Cities 2008/2009 - Harmonious cities, Earthscan, London.

    [4] «L'autorità deve dichiarare Venezia "città sacra" [...] Organizzate il turismo, ma un turismo adorabile, ammirevole, umano, fraterno, per la gente semplice come per i miliardari (la gente semplice e i miliardari hanno sempre le stesse dimensioni: gli occhi a 1,60 metri dal suolo e passano tutti attraverso porte alte 2 metri) [...] Non avete il diritto di alterare il profilo di Venezia. Non avete il diritto di aprire la porta del disordine architettonico e urbanistico. [...] Lì voi avete un tesoro alla scala umana che sarebbe atrocemente criminale trasgredire, saccheggiare! E viene fatto così in fretta! [...] Io sono angosciato nel pensare che Venezia potrebbe, a causa dell'invasione della dismisura, divenire un'atroce palude». 24 settembre 1962, lettera di Le Corbusier indirizzata all'Amministrazione Comunale di Venezia (Petrilli, 2006, p. 185).

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