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  • Sociologie des espaces et des liens sociaux
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.2 Mai-Août 2014

    IL POSTO DEL SILENZIO NELLA TEORIA SOCIALE: DA FORMA RELAZIONALE A STRUMENTO DI ESCLUSIONE


    Donatella Pacelli

    pacelli@lumsa.it
    Professore straordinario di Sociologia generale insegna nei corsi di Laurea del Dipartimento di Scienze Umane e in quelli del Dipartimento di Scienze economiche, politiche e delle lingue moderne della Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA) di Roma.

    1. Nell'ambito degli studi sociologici l'interesse per il rapporto tra silenzio, parola, immagine si inserisce in ambiti di riflessione che incrociano il lungo e controverso discorso sulla modernità. Le molteplici applicazioni del progetto moderno hanno infatti offerto elementi per analizzare non solo i cambiamenti strutturali che hanno investito le grandi configurazioni sociali ma anche le modifiche intervenute nella vita interoggettiva e nelle forme di relazione, rappresentazione e partecipazione. In questa prospettiva i passaggi epocali del progresso, dalla modernizzazione alla globalizzazione del mondo, con la complicità dei sistemi di comunicazione, sono stati visti come fattori corresponsabili della rottura di alcuni equilibri odelle deformazioni del significato di esperienze costitutive il dialogo e la convivenza.

    Tra queste alterazioni si inserisce la mancata sinergia tra silenzio e parola che finiscono per  escludersi a vicenda, provocando un impoverimento della vera comunicazione e delle possibilità di comprensione fra le persone. Altrettanto può dirsi in merito alla confusione creatasi tra l'immagine e la cultura dell'immagine, alimentata da logiche di spettacolarizzazione che irrompono fra parole vuote e silenzi escludenti.

    L'utilizzo di codici comunicativi diversi da quelli tradizionali, come l'espressività del volto, lo sguardo, il gesto, la parola detta o taciuta, da tempo hanno aperto importanti interrogativi in merito al senso che ha acquisito l'incontro con l'altro nell'epoca contemporanea. Tuttavia, se tali interrogativi pervadono la letteratura sull'impatto socio-culturale delle innovazioni tecnologiche, certo è che non riguardano in maniera esclusiva i nostri tempi. Molti dei cambiamenti osservabili negli attuali ambienti di vita si inseriscono infatti nel solco di quel processo di intellettualizzazione dell'esperienza, avviato dalla modernità, quale stato di crisi permanente [1] o del divenire perpetuo, che interferisce nella costruzione della intersoggettività e nella scelta delle modalità espressive. 

    Non si può tacere pertanto il contributo offerto da alcuni studiosi classici, i quali muovono da una prospettiva tesa a dare centralità al fattore umano nella ridefinizione delle forme della socialità nei contesti moderni. Da questo punto di vista risulta esemplare l'opera di Simmel e la svolta comunicativa che con lui avvia la riflessione sociologica. Le sue intuizioni sull’ambivalenza umana e sulla ambiguità espressa dalle esperienze relazionali - a partire dal ruolo cruciale dello sguardo - costituiscono infatti una chiave di lettura di grande interesse per cogliere il complesso rapporto fra l'umano e la cultura, fra la realtà e la sua rappresentazione. Tutti i rapporti fra gli uomini, sostiene l'autore, il loro comprendersi e il loro respingersi, la loro "intimità" e la loro "freddezza" poggiano sulla singolare forza espressiva dello sguardo. Nel guardarsi "non si può prendere senza dare", in quanto "l'occhio svela all'altro l'anima che cerca di svelarlo" [2].

    Nella prospettiva della complessità relazionale ogni forma di 'sociazione' è anche 'dissociazione', ciò vuol dire che l'interazione è costruita da una vasta gamma di indizi (silenzi, parole, immagini) attraverso cui i soggetti prefigurano il rapporto e si danno e si negano vicendevolmente. Per questo la comunicazione è sempre un dire e non dire, un susseguirsi di parole e silenzi che creano vicinanze e distanze sulla base di un'alterità immaginata e che rimane confinata ai frammenti che si possono cogliere.  Da qui una dinamica complessa, sostenuta dalla doppia istanza di apertura e di chiusura all'altro che fa della comunicazione un terreno fertile sia per l'incontro e l'inclusione, sia per l'esercizio del  potere e del controllo.

    Partire dalle spinte contrapposte che animano il rapporto interpersonale è importante non solo per riconoscere quanto sia solo apparente la contraddizione fra individuale e sociale e quanto il silenzio - pur appartenendo all'autoriflessione - riesca poi a gestire la capacità relazionale nella ribalta del sociale [3]. Tale premessa è utile anche a non chiudere il discorso in una analisi della società rappresentata dalle tecnologie della comunicazione, che si limita a ribadire come esse - per definizione - non contemplino il silenzio. Questa strada infatti porterebbe a perdere di vista tanto le situazioni che non riconoscono il labile confine tra silenzio, omissione, menzogna, quanto i casi in cui  il silenzio dei media si traduce in vero strumento di esclusione sociale.

    2. Nel cercare di rispondere all'interrogativo come è possibile costruire e mantenere la società, Simmel afferma: "Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti fisici e spirituali, della causazione reciproca di piacere e di sofferenza, dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e antagonistici...costituisce la meravigliosa indissolubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui i suoi elementi acquistano, perdono,  spostano incessantemente il loro equilibrio" [4]. Sulla base dell'idea che se l’aggregazione sociale umana è condizionata dal saper parlare, essa viene però plasmata “dal saper tacere", lo studioso tedesco invita a riflettere sui diversi significati che può assumere il silenzio nell'incontro con l'altro e con il mondo.

    A tal proposito, alla nota considerazione offerta dai teorici degli atti linguistici, secondo cui “un dire è un fare”, Simmel sembra aggiungere che un tacere non è un "non fare" e questo perché il silenzio è dentro la comunicazione e non fuori di essa.  Risponde all'esigenza di salvaguardare la sfera della propria intimità, spesso posta a rischio da una socievolezza mal declinata che va oltre le soglie fissate dal giusto equilibrio fra soggettività e oggettività. La mancata realizzazione di questo equilibrio mina le  basi del gioco democratico che sorregge la relazione e rende la comunicazione non coerente alla logica del riconoscimento e del rispetto reciproco [5].

    Il silenzio è il momento ineludibile di comunicazione intra-personale che precede la razionalizzazione della parola e favorisce la comprensione. Nel silenzio ascoltiamo noi stessi, ci chiariamo ciò che si desidera trasmettere e diamo all'altro la possibilità di parlare e farsi ascoltare. Ed è proprio in questo processo scandito da reciproci ascolti che l’utilizzo del silenzio rivela la sua forza comunicativa, e quindi la presenza di una ragione dialogica e non soggettocentrica che contempla parola e silenzio, diritto all’espressione e diritto all’ascolto [6].

    Ma il silenzio è codice di comunicazione anche quando diventa espressione del limite umano di tradurre in parole la sfera delle emozioni più intense che, in quanto tali, non trovano adeguata rappresentazione in altri linguaggi [7].

    Alcuni silenzi esprimono tensioni e conflitti o, al contrario, forme di accettazione e consenso, più o meno spontaneo. Basti pensare alla volontà di retrocedere dalla comunicazione per testimoniare l'insorgenza di un contrasto sul quale non si sa come intervenire, oppure per esprimere un rimprovero come nel caso del “non ti parlo più” dei bambini: una minaccia difficilmente mantenuta.

    Al tempo stesso il silenzio può essere utilizzato per comunicare approvazione (“chi tace acconsente”), per manifestare il rispetto dovuto a luoghi e persone, o per legittimare i diversi gradi di influenza reciproca che definiscono i rapporti di sovra e sotto ordinazione. In questi casi non è il rispetto spontaneo ad inibire il parlare ma l'arroganza del potere che cerca di costruire in tal modo  il consenso di cui non dispone.

    In ogni caso, il silenzio colto dalla prospettiva simmeliana è molto eloquente. È un testo aperto da interpretare al fine di comprendere se e come gli attori individuali e collettivi sfruttano i potenziali di incontro espressi da tutte le forme di comunicazione e quali volontà mettono in campo per esprimere e proteggere al tempo stesso  la dimensione individuale e quella sociale di ciascun individuo.

    Un'altra tappa importante della svolta comunicativa, cui si è fatto riferimento, è segnata  dall'interazionismo simbolico attraverso il suo massimo esponente, Herbert Mead. Nella sua prospettiva però è il gesto, e non il silenzio, ad assumere un ruolo complice rispetto al linguaggio verbale, al fine di favorire strutture di significato memorizzabili e valutazioni comuni su temi di interesse collettivo. Estesa nelle forme e nei significati, la comunicazione dei gesti dà vita alla produzione di immagini collettive che aiutano l’individuo a vedersi come lo vedono gli altri eche fa nascere in ciascuno le risposte chieste alla comunità [8]. Secondo Mead esiste una correlazione stabile fra l’insorgenza dei significati utilizzati nel linguaggio comune e i comportamenti umani che alimentano i processi sociali. E per postulare questa correlazione affronta il problema non dal punto di vista dei molteplici significati taciti del linguaggio, bensì analizzando lo scambio di gesti che produce per gradi un consenso collettivo. Il linguaggio infatti si pone come chiave di lettura della fenomenologia sociale nel momento in cui si rende corresponsabile del processo di integrazione e cooperazione fra individui e fra gruppi e favorisce la realizzazione della democrazia perfetta [9].

    Al di fuori delle certezze del linguaggio culturalmente condiviso è quella dimensione del comunicare che, portando l’Io a guardarsi dentro, prima di costruire armonie sociali, fa emergere sentimenti e pensieri della sfera soggettiva. Questa sfera  - secondo Fromm - non trova riscontro nel simbolo immanente e per questo rimane ancorata ad un “linguaggio dimenticato” [10]. In questa prospettiva, il sistema culturale che orienta verso un’intesa affidata al riconoscimento del codice, non è un tramite per realizzare l’armonia universale, di cui parla Mead, ma l’emblema di una coercizione che agisce sotto varie forme.

    Creando la dipendenza dalle cose materiali, certe, misurabili, visibili, la cultura moderna ha stabilito il mito dell’acquisizione e ha reso la certezza un valore irrinunciabile. Per questo, da principio di saggezza la capacità di dubitare, ospitata dal silenzio, è divenuta sintomo di debolezza o di inferiorità e gli individui malcelano o tacciono le proprie perplessità, ancorandosi all’esistente e ai mezzi culturali che lo amplificano nella comunicazione [11]. La tendenza a non interrogarsi trova sostegno nel processo che ha trasformato la ragione in razionalità e la realtà in realismo, ma proprio in virtù di questo imperante realismo, l’uomo - sempre più assorbito da attività materiali - ha impoverito il suo linguaggio: «poteva disporre di una apposita parola per ogni tipo di automobile, ma soltanto della parola amore per esprimere i più svariati tipi di esperienza affettiva»  [12].

    In definitiva, per trasmettere le certezze dell’ordine sociale, il linguaggio ha lasciato progressivamente spazio al rumore della modernità ed è stato svuotato di ogni significato trascendente e critico verso la situazione esistente. Da qui il paradosso del progresso materiale che produce l’illusione di poter comprendere qualunque cosa  ma non riconosce  l'importanza del riso e del pianto, del sorriso e del silenzio, quali  mezzi per comunicare con noi stessi e con l'eterno umano che travalica le appartenenze culturali [13].

    3. Le diverse dimensioni del silenzio, la molteplicità dei significati che assume in contesti culturali differenti e i difficili equilibri che si stabiliscono fra questo e il linguaggio verbale o iconico, invitano a riflettere su quali siano le condizioni che gli permettono di mantenere la sua forza di codice comunicativo ad alta intensità.

    Se, per rispondere alla finalità di vivere l’altro come primo orizzonte di senso, le relazioni comunicative risultano in affanno nel valorizzare l'ampiezza espressiva dell'umano già a livello interpersonale, ancor più complesso e contraddittorio è il quadro che si delinea nella comunicazione mediata.  Nella conchiglia sonora dei media, all'interno della quale tutto rimbomba in un’eco infinita di rumori, il rapporto fra silenzi, parole ed immagini si presta ad ulteriori considerazioni. Ed il silenzio, come assenza di rumore, diventa sospensione involontaria della comunicazione, e quindi una disfunzione dei contesti di emissione [14], oppure una strategia tesa al controllo delle opinioni del contesto di fruizione [15].

    La società rappresentata sviluppa nuove forme di omissioni e di intrusioni. Il “viaggio dell’immaginazione” condotto attraverso l’immagine di luoghi e persone diffuse dagli audiovisivi e il “viaggio virtuale” in tempo reale che trascende distanze geografiche e sociali, arricchiscono e modificano l'esperienza comunicativa” [16]. In queste esperienze i confini fra la realtà e la sua rappresentazione si rendono sempre più porosi e la dialettica visibile/invisibile, più che favorire la percezione del reale, tende ad un salto dalla realtà. Si riproduce pertanto la condizione descritta dalla nota allegoria della caverna [17] e che ancora sorregge tanti dilemmi della cultura occidentale.

    Secondo Baudrillard l'interrogativo “La realtà esiste?” [18] trova il suo fondamento nel fatto che se «un tempo il mondo si è elevato verso la trascendenza, oggi è piombato nella realtà. Se un tempo vi è stata una trascendenza verso l’alto, oggi vi è una trascendenza verso il basso» [19]. In altri termini l’invisibile non è più richiamato per interpretare il visibile e tutto si confonde in una realtà predefinita.

    D’altro canto, le agende dell’informazione, con i frame interpretativi offerti e i criteri di scelta operati, innalzano confini di difficile comprensione fra ciò che può cadere sotto il cono di luce e ciò che è destinato a rimanere sotto il cono d’ombra [20].

    Il dibattito sull’apporto delle nuove tecnologie della comunicazione e dell'informazione rimodula il discorso e tende a riconoscere  - come sintetizza Ferrarotti -  che esse hanno creano uno spazio senza frontiere nel quale gli stessi termini centro e periferia hanno perso ogni riferimento: «il centro si è eclissato e la periferia si è espansa fino ad occupare tutto l’orizzonte disponibile» [21].

    Ma se la rivoluzione informatica sembra non aver completamente deluso le aspettative di democratizzazione, oltre che di unificazione del pianeta, sui media tradizionali gravano ancora  molte perplessità. Nel senso che la dimensione globale sembra essere quel prêt-à-porter ideologico di cui parla Mattelart per stigmatizzare l’astrazione di un pianeta che, reso accessibile dall’informazione, seguita a mostrare assenza di attenzione verso le persone [22]. La “mediasfera” che pure ha concorso ad azzerare i confini del mondo e a far crescere la consapevolezza di vivere in uno spazio unico, non coglie quindi pienamente la grande opportunità di condividere orizzonti di senso ed ascoltare le domande espresse dai numerosi alter che abitano il mondo globale.

    Nonostante ciò, non può essere taciuta la forza inclusiva che qualsiasi esperienza di comunicazione, e quindi anche quella dei media, porta con sé. Lo stesso Luhmann, quando riflette sull’apporto che il sistema di comunicazione può offrire al sistema sociale, ipotizza processi di lungo corso il cui punto di forza è dato dalla comprensione di un alter, il quale, entrato nella condivisione dei temi, è messo anche nella possibilità di dare contributi. Evidentemente questo accade a certe condizioni che richiedono il superamento di barriere nello spazio fisico, sociale e culturale e un'attenzione mirata agli elementi che configurano un comune orizzonte di senso [23]. Il riferimento ai contenuti e a come si diffondono apre quindi ulteriori interrogativi. I terreni simbolici e tematici che esprimono l’etica socievole o “l’essenza dell’esserci” [24], e favoriscono il riconoscimento dell’altro e dei contributi che può dare, sono di grande interesse ma non immuni da contraddizioni. Ed anche l’utilizzo dei linguaggi più trasversali, come quelli dell’arte cinematografica, mentre sostengono una nuova progettualità e tentativi di trovare territori di condivisione [25], non sempre riescono a farsi vettore di processi culturali che remano contro l’esclusione [26]. Ciò in considerazione del fatto che le narrazioni mediali, a volte rimangono mute nei confronti dei fatti più delicati e controversi [27], più spesso non riescono ad affermare la piena parità di trattamento delle persone, ovvero il rispetto nei confronti dei più deboli [28]. Sono queste tutte aree di interesse che richiedono un ancoraggio al fattore antropologico e alle dinamiche descritte dalle teorie sulle spirali indotte dai media di prima generazione [29], ma non solo. L'indifferenza e la mancata partecipazione di minoranze che temono l'impopolarità e per ciò stesso rimangono in silenzio, pur costituendo una tesi suggestiva e mai smentita, non appare sufficiente a spiegare il fenomeno a fronte di processi globali che hanno ridisegnato i rapporti comunicativi.

    Ancora non sappiamo quanto le nuove tecnologie siano in grado di correggere l'effetto spirale che genera silenzio. Certo è che il web ha dato voce non solo a chi è dentro le reti di informazione ed è riuscito a fare emergere anche ciò che è fuori dal mondo globale. Tuttavia, come sottolinea il filosofo islandese Pekka Himanen, non è possibile delegare la libera espressione all'efficacia della rete, soprattutto laddove esistono sistemi democratici  i quali - a ben vedere - solo in parte risultano impegnati nel rimuovere barriere e nel controllare gli elementi che più minacciano la convivenza e la vera democrazia [30].

    4. La confusione che si è creata tra le immagini e la cultura dell’immagine, quale espressione utilizzata per rappresentare il mondo della contemporaneità e l'impoverimento del discorso della modernità, parte da lontano.  Se oggi l'immagine sembra essere un tratto dominante e ingombrante dei processi globali è perché si è imposta una "cultura dell’immagine" che ha reso squilibrato il rapporto tra il visibile e l’invisibile. Come è noto l’immagine non riproduce il reale ma è una sua interpretazione, e sono proprio gli artisti a dircelo, ricordandoci che loro compito non è rappresentare ciò che si vede ma ciò che non si vede: l’invisibile. Di conseguenza, tutte le arti nonché gli strumenti della comunicazione che usano le immagini hanno come funzione prima quella di far vedere ciò che superficialmente non emerge ed aiutare ad orientare lo sguardo su ciò che rischia indifferenza [31].

    Ma anche la sociologia contemporanea riconosce l'impenetrabilità del mondo e la possibilità di  avvicinarlo solo attraverso l’ambiente delle possibilità di vita definito dall’unità spazio-tempo percepibile e dall’orizzonte di senso condivisibile [32]. L'ambiente  ha una dimensione sociale-relazionale che produce società attraverso lo "stare insieme" ed una dimensione culturale e simbolica che riproduce la vita collettiva, orientandola normativamente attraverso valori e modelli di comportamento. 

    L’insoddisfazione per una esperienza umana che non sa andare e/o vedere oltre l’immagine e ne rimane prigioniera, si manifesta nella vita collettiva per quella complicità fra fenomeni sociali e processi culturali che tratteggia le contraddizioni dell’oggi. Ecco quindi che i contesti osservabili sono l’emblema della forza della comunicazione, ma denunciano i problemi dell’incomunicabilità fra gli uomini; esprimono il globale che avanza ma restituiscono differenze esacerbate; sono ascrivibili a processi di massificazione ma esaltano tratti individualistici; ricorrono all’efficacia dell’immagine ma cercano oltre.

    Secondo quanto postula la sociologia della conoscenza, riportare l’attenzione sull’importanza di conoscere i fattori maggiormente condizionanti dei diversi contesti di vita, se non porta alla  soluzione dei problemi sociali, sicuramente offre una chance in più per dialogare con il condizionamento stesso e per ritrovare spazi di incontro oltre i modelli culturali. Se accettiamo questa prospettiva anche il discorso sul condizionamento della cultura delle immagini e dei suoi canali si pone nei termini: immagini vs cultura dell’immagine. È questa infatti ad aver strumentalizzato il silenzio e ridefinito la temporalità, fissandola alla sincronia dell’immagine spaziale che chiude il mondo nel tempo della “diretta televisiva”. 

    Veicolo principale della cultura delle immagini e del presente è quindi la televisione che ha progressivamente portato gli imperativi dei sistemi audiovisivi ad ogni tipo di prodotto informativo.

    Le conseguenze dell'utilizzo di immagini provocatorie o drammatiche, ma comunque spettacolari, sono state ampiamente dibattute: gli spettatori vivono spesso inconsapevolmente l’annullamento del confine tra vedere e comprendere o la sovrapposizione fra i due processi [33]. Tutto ciò anche in considerazione della facoltà di immagazzinare contenuti che passa per la “memoria spaziale” ed esalta per ciò stesso il ruolo delle immagini.

    Con delle considerazioni che anticipano sorprendentemente le analisi sulla comunicazione visiva (o tele-visiva), già Guyau intuiva la forza dell’impatto culturale prodotto da caratteristiche quantitative e qualitative attribuibili all’immagine, in virtù del rapporto che si instaura fra queste e l’universo emotivo e cognitivo di chi le riceve. Parla pertanto dell’intensità delle immagini rappresentate e delle differenze fra le stesse; della rapidità di successione di queste immagini e del tempo necessario per la concezione dei loro rapporti; dell’attenzione data alle immagini e delle emozioni di piacere o di pena che suscitano in rapporto anche alla nostra attesa e/o previsione [34].

    Questo continuum ha risvolti interessanti per lo studio di diverse forme di comunicazione, accomunate da una rincorsa al medesimo stile di rappresentazione e dalla convergenza mostrata nel chiudere la realtà nelle immagini disponibili. Ciò determina una sorta di mimetismo mediatico che concorre a far percepire i media come un sistema chiuso nei confini della propria autoreferenzialità. Il problema non è certo di poco conto se pensiamo che i mezzi di comunicazione esistono in funzione delle interrelazioni con il mondo che abitano, degli input che da questo provengono e della loro capacità di rispondere alle domande di senso dell’ambiente. Sono quindi -  per dirlo con Luhmann - non un sistema chiuso bensì aperto alla realtà che “parla a noi di noi” [35]. Tuttavia, nella società della comunicazione e della divulgazione generalizzata è possibile rintracciare scarti conoscitivi, coni d’ombra e mancanza di pari trattamento mediatico.

    Sembra quindi che il sistema dei media non sempre riesca a utilizzare la trasversalità dei suoi strumenti per favorire accesso, inclusione e pari visibilità. Lasciando in silenzio temi, problemi e persone, ancora malcela logiche autoriferite e asseconda processi di formazione dell’opinione, solo parzialmente resi più liberi dalle nuove tecnologie.  Al tempo stesso, solo in maniera frammentaria attraversa altri mondi in una prospettiva realmente orientata a rimuovere stereotipi, pregiudizi ed implementare la coscienza dell’unità del genere umano.

    Le interferenze e le complicità fra la logica del “purché se ne parli” e la cultura del “tele-vedere” fanno luce su alcuni limiti del sistema mediale, ed invitano a riflettere sulla sua capacità di creare un ambiente di dialogo con i vari alter del mondo contemporaneo.

    Con i media si ripropone quindi il quesito dei significati che possono assumere parole, silenzi e immagini nel veicolare fatti e processi dei nostri come di altri universi.Essi offrono testimonianza di quanto la parola possa essere potente e creatrice di significato, ma anche debole, vuota e inutilmente arrogante. Ancor più appaiono esemplari nel dimostrare come l’immagine possa orientare lo sguardo sui frammenti ed aprire alla comprensione dell’invisibile oppure alimentare miopia verso problemi e persone fuori dai riflettori degli interessi dominanti.

    Al fine di contrastare le insidie della cultura “della superficie delle cose e dei luoghi comuni”, può essere importante non dimenticare il linguaggio del silenzio, quando è anche rispetto e ascolto. È questa una strada che possono percorrere anche i media di prima o seconda generazione, laddove riescono a farsi interpreti del bisogno di abbattere la cultura della distanza che agisce tra persone, tra linguaggi, tra sistemi di comunicazione. 

    Se, per Moscovici, i nuovi media hanno interrotto le spirali del silenzio dei mezzi tradizionali e permesso ad alcune minoranze di entrare nel dibattito pubblico [36], per altri molta è ancora la strada da percorrere per correggere l'enfasi posta dai media «sulla comunicazione-rivelazione e sulla rappresentazione-spettacolo» che rema contro l'inclusione.  La società rappresentata infatti può modificare il senso e il ruolo del silenzio anche «attraverso gruppi a forte carica emozionale, esclusivi ed escludenti» [37]. Rimane quindi aperta la questione di come dare volto e ascolto a chi non ha un'immagine da difendere.

    Possiamo concludere con Luhmann, che i sistemi di comunicazione, individuali o collettivi, e quindi tanto le persone quanto i media istituzionali, riescono a dare un contributo al sistema mondo solo nella misura in cui si orientano sui vari alter, pensandoli  parte integrante di un processo non chiuso nella sua autoreferenzialità e per ciò stesso non escludente [38].

    La via è quindi quella della comprensione che se per un verso definisce gli obiettivi della comunicazione come processo circolare, per l'altro non lascia muta la società davanti ai problemi del mondo.

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    Note

    [1] G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, (a cura di C. Mongardini), Bulzoni, Roma, 1976.

    [2] G. Simmel, Excursus sulla sociologia dei sensi, in Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1998,  p.551.

    [3] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969.

    [4] G. Simmel, Il problema della sociologia  in Sociologia, cit., pp.20-21.

    [5] G. Simmel, Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, Milano, Feltrinelli, 1983.

    [6] J. Habermas, Un'altra via d'uscita dalla filosofia del soggetto. La ragione comunicativa contro la ragione soggettocentrica  in Il discorso filosofico della modernità, Roma, Laterza, 1987, pp. 297-335.

    [7] È quanto denuncia l’ineffabilità dantesca nell’ultima cantica della Divina Commedia, quando accosta l’inesprimibile immensità dell’Empireo: «O quanto è corto il dire e come è fioco al mio concetto!» (Paradiso XXXIII, pp. 121-123).

    [8]G.H. Mead, Mente , sé e società, Firenze, Barbera, 1966 (ed. or. 1934).

    [9] Ibidem, pp.98-151.

    [10] E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Milano, Bompiani, 1962 (ed. or. 1951).

    [11] «Se è vero – scrive Fromm – che la capacità di dubitare è il principio della saggezza, tale verità è una triste considerazione sulla saggezza dell’uomo moderno. Quali che siano meriti della nostra cultura è certo che abbiamo perso la facoltà di dubitare. Si presume che tutto sia noto, se non proprio a noi stessi, almeno ad alcuni specialisti incaricati di sapere ciò che è a noi sconosciuto. Infatti, l’essere perplessi è una sensazione sgradevole, un segno di inferiorità intellettuale. Perfino i bambini si meravigliano di rado, o per lo meno cercano di non darlo a vedere» (Ibidem, p.8).

    [12] Ibidem.

    [13]Se non comprendiamo il linguaggio in cui si esprime il mondo interiore (quello dei sogni e dei miti)" va perduto  gran parte di ciò che sappiamo e di ciò che diciamo a noi stessi in quelle ore in cui non siamo alle prese con il mondo esterno"(Ibidem, pp. 13-14).

    [14] D. Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, Milano, Feltrinelli, 2003

    [15] E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Roma, Meltemi, 2004.

    [16] J. Urry, Connections, in “Enviroment and Planning: Society and Space”, 22, 2004, pp. 27-38.

    [17] È questa una metafora della primigenia condizione umana, tanto efficace da trovare ancor oggi una sua declinazione anche informatica, come nel caso della saga cinematografica di Matrix.

    [18] J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, Firenze, Le Monnier, 2005, pp.1-2.

    [19] Ibidem.

    [20] Per questo aspetto si rimanda al nostro Il senso del limite. Per un nuovo approccio di sociologia critica, Roma, Carocci, 2013. In particolare cfr. il paragrafo 4.3 Fatti ed eventi del mondo contemporaneo, pp.147-159.

    [21] F. Ferrarotti, La perfezione del nulla. Promesse e problemi della rivoluzione digitale,  Roma-Bari, Laterza, 1997.

    [22] A. Mattelart, La comunicazione mondo, Milano, Il Saggiatore, 1990.

    [23] N. Luhmann, Sistemi sociali, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 275. «Il processo dell’evoluzione socio-culturale va inteso come trasformazione e ampliamento delle chances di incontro, come consolidamento di aspettative, attorno alle quali la società... si forma» (p. 276). O, come dice Gili, degli elementi che garantiscono relazioni fondate su fiducia e credibilità reciproca (G. Gili, La credibilità. Quando e perché la comunicazione ha successo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005).

    [24]  Cfr. fra gli altri, F. Crespi (a cura di), Etica e scienze sociali, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.

    [25] Secondo alcuni si inserisce tra gli esperimenti riusciti la produzione cinematografica che adatta particolari contenuti culturali agli ampi mercati sorti con la globalizzazione.

    [26] D. Pacelli, Comunicazione e inclusione. Un connubio dagli esiti incerti, in “In-formazione”, 5, 5, 2012.

    [27] Già McLuhan riconosceva come, pur essendo liberi da censura, i media finiscono per rimanere in silenzio davanti a molti temi dell’attualità (Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967).

    [28] Segnali di cambiamento in merito provengono dagli impegni assunti, in Italia come in altri Paesi, con l’introduzione di codici deontologici quali la Carta di Treviso, la Carta di Roma e la Carta di Trieste per tutelare rispettivamente i minori, i migranti e le persone malate.

    [29] E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio,  Roma, Meltemi, 2004.

    [30] P. Himanen, L'etica hacher e lo spirito dell'informazione, Milano, Feltrinelli 2003.

    [31] Cfr. G. Ravasi , La parola, la scrittura, l'immagine, l'invisibile, in Lezioni d'autore 6 (a cura di E. Lonero e D. Pacelli), Roma, Aracne, 2009. 

    [32] N. Luhmann, Sistemi sociali, cit.

    [33] G. Sartori, Homo videns, Bari, Laterza, 2000 e J. Ramonet, La tyrannie de la communication, Paris, Galilée, 1999.

    [34] J. M. Guyau, La genesi dell’idea di tempo, Roma, Bulzoni, 1994,  pp. 43-44.

    [35] «Ciò che sappiamo della nostra società, scrive l'autore, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media». Il sistema mediale si mantiene aperto, anche se chiuso nella sua logica organizzativa in quanto tratta temi «che si prestano all’accoppiamento strutturale con altri ambiti della società» (N. Luhmann, La realtà dei mass media, Milano, FrancoAngeli, 2000, p. 15 e p. 29).

    [36] S. Moscovici, Psicologia delle minoranze attive, Bologna, Il Mulino, 1981.

    [37] C. Mongardini, Lezioni di sociologia della comunicazione, Roma, Bulzoni, 1998, p. 225.

    [38] N. Luhmann, Sistemi sociali, op. cit.

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