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  • Sociologie des espaces et des liens sociaux
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.2 Mai-Août 2014

    SICUREZZA: BENE COMUNE



    Maria Caterina Federici

    sociolo@unipg.it
    Professore Ordinario di Sociologia Generale, Università degli Studi di Perugia.

    Una nuova accezione paradigmatica del tema “Sicurezza” si rende necessaria tra la lettura normativa e sanzionatoria e quella tecnologica di controllo a fronte del cedimento della cultura iperedonista della libertà, una cultura adolescenziale che vorrebbe la libertà sciolta da ogni vincolo e che sembrava dominare il nostro tempo.

    Nell’epoca della libertà di massa è necessario ripensarne i confini per superarne l’illusione dell’autosufficienza. La visione narcisistica della libertà fondata sul desiderio anche solo immaginario, sciolto da ogni vincolo impatta pesantemente nel rapporto [1] con l’Altro da me, mostrando così i suoi limiti.

    La fiducia, potente collante sociale, è ai minimi storici [2]

    La definizione di “bene comune”, dimensione del limite presente a livello di comunità, impatta così con la definizione di sicurezza reale o percepita che si incentra sulle tradizioni simboliche e sulla logica dei sentimenti [3].

    Chi si occupa di sicurezza deve essere “realista” [4], occuparsi dei fenomeni reali con una concezione vagamente kantiana secondo la quale la verità coincide con ciò che è conoscibile in “condizioni epistemiche ideali”, concezione che subordina la realtà alla sua conoscibilità da parte dell’osservatore. Se non conosco il fatto, se non ho elementi concreti dell’avvenuto fatto, come posso mettere il contesto in sicurezza?

    Tuttavia si deve anche prevenire ed evitare che il fatto deviante avvenga o generi o accresca l’insicurezza o la pericolosità del male. Le migliori teorie scientifiche non sono soltanto strumenti di predizione ma anche strumenti di conoscenza.

    I fatti sociali dipendono in larga misura dalle nostre pratiche ma anche dalle costruzioni sociali [5]. A questo proposito si rimanda alla ricerca di Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli [6] che indaga i rapporti esistenti tra due mondi che, pur condividendo gli stessi spazi, la città, appaiono connotati da una radicale alterità: quella visibile dei cittadini e quella sotterranea dei “criminali” evidenziando una “clamorosa divergenza tra la realtà del crimine e la sua rappresentazione prevalente” nei media e nelle istituzioni che considerano il crimine come una “zona d’ombra”, un’area del sottosuolo estremo alla “normalità”, al “chiaro” della società legittima, minacciata dal “mondo delle tenebre”.

    In questo percorso intellettuale, la grande letteratura è stata, per certi aspetti, di descrizione e al tempo stesso di costruzione della realtà. Si pensi al Dickens di Grandi Speranze  e di Casa Desolata o al Flaubert di Madame Bovary o ancora al Tolstoj di Anna Karenina o ancora al Dostoevskij di Umiliati e offesi e al Dostoevskij di Memorie dal sottosuolo: «sono un uomo malato, un uomo cattivo».

    Ortega y Gasset sosteneva che i grandi scrittori del passato, non tanto raccontano o rappresentano ma realizzano l’epoca che vivono conferendo all’immaginazione uno statuto metodologico. Nell’Odissea, quando Ulisse scende nel mondo dei morti si imbatte nel fantasma di Agamennone, questi così definisce la moglie, che come noto lo aveva ucciso, con la complicità dell’amante Egisto: «Quel perfido mostro».

    Contrapposta a Penelope, modello di ogni virtù, Clitennestra è per i greci il prototipo dell’infamia femminile. E come tale la sua fama è giunta sino a noi, grazie al racconto dei suoi crimini messo in scena nell’Orestea, la trilogia (Agamennone, Coefore ed Eumenidi) [7] in cui Eschilo, nel 458 a.C., celebra la fine del mondo della vendetta e la nascita del diritto a riprova  dell’effetto “mediatico” della trasmissione di modelli negativi.

    Clitennestra per i greci è il prototipo dell’infamia femminile, il simbolo del rancore causato dalla gelosia e insieme ella protezione materna nei confronti della prole. Figlia di Tindaro, re di Sparta, e Leda, Clitennestra sposa in seconde nozze Agamennone: proprio il re di Micene è l’assassino del suo primo marito e di suo figlio. Da Agamennone ha quattro figli: Elettra, Oreste, Crisotemi e Ifigenia. Quest’ultima viene sacrificata dal padre per propiziarsi gli dèi prima della partenza per la guerra di Troia. La principessa viene salvata da Artemide ma comunque sottratta alla madre: il rancore di Clitennestra la spinge a diventare l’amante di Egisto e a uccidere con lui Agamennone e la sua schiava Cassandra non appena i due fanno ritorno dalla guerra. Per vendicare la morte del padre, Oreste ed Elettra uccidono a loro volta la madre.

    Nell’Agamennone, Clitennestra uccide il marito con incredibile crudeltà. Questi, appena tornato da Troia, è immerso in un bagno ristoratore. La moglie si avvicina e «così ho fatto – racconta – una rete senza uscita, come per i pesci, gli avvolgo intorno. Lo colpisco due volte, in due gemiti gli si sciolgono le membra; e su lui caduto aggiungo un terzo colpo […] un violento getto di sangue mi colpisce con nero spruzzo di sanguigna rugiada. E io ne godo» [Eschilo 1891: vv. 1380-1393]. Per completare l’opera uccide Cassandra, la principessa troiana colpevole solo di essere stata assegnata come schiava di guerra ad Agamennone, che cosa allora normale, l’aveva portata con sé come concubina.

    Nelle Coefore torna in patria Oreste, il figlio che Clitennestra aveva allontanato dal palazzo e dal regno per evitare che potesse vendicare il padre. Dopo aver incontrato la sorella Elettra, Oreste concerta con lei il piano per uccidere la madre. Ma non appena lo realizza viene circondato dalle Erinni: esseri mostruosi, bestiali, che si accovacciano al suolo come cani, ringhiano, annusano il sangue. Sono le dee della vendetta: perché l’uccisione di Clitennestra non resti invendicata (Eumenidi) inseguono il matricida sino ad Atene dove la dea Atena risolverà il caso. Aten infatti, istituisce a questo scopo il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago. E questo assolve Oreste con la seguente, per noi incredibile, motivazione: «Non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio: la madre è la nutrice del germe in lei seminato. Il generatore è colui che la feconda» [Eschilo 1981: vv. 658-660]. Un principio suggerito da Apollo, che ottiene la maggioranza con il voto determinante di Atena e che – rafforzato dalle successive teorie di Aristotele sulla differenza tra i sessi – sarà destinato a sancire attraverso i millenni l’inferiorità e la subordinazione delle donne.

    Secondo l’interpretazione tradizionale, la sentenza che assolve Oreste segnerebbe la sconfitta della parte femminile, irrazionale del mondo, rappresentata dal fantasma di Clitennestra e le sue Erinni, e il trionfo di un diritto razionale, territorio degli uomini: Apollo, i giudici e in un certo senso anche Atena, la dea nata dalla testa del padre, che rifiuta le nozze. Per secoli, il diritto resterà prerogativa maschile. In Italia le donne sono state ammesse alla magistratura solo nel 1961, in linea con la tradizione mediterranea.

    Clitennestra è un’assassina. Ma il suo matrimonio altro non è stato che il susseguirsi di intollerabili violenze. Prima di partire per Troia, Agamennone aveva sacrificato agli dei, per propiziarseli, la figlia Ifigenia, sua e di Clitennestra. Clitennestra, prima di Agamennone, aveva avuto un altro marito, da cui aveva avuto un figlio: ambedue, marito e figlio neonato, uccisi da Agamennone che, vedendola, aveva deciso di farla sua (Euripide, Ifigenia in Aulide) [8].

    La riflessione contemporanea pone Clitennestra nel dibattito sulla natura del diritto: il diritto, nell’Orestea è “gendered”? Le Erinni sconfitte non vengono espulse dalla polis, scrive Paul Gewirtz sulla Harvard Law Review del 1988 [9]. Dopo aver rinunziato al loro lato sanguinario, trasformate in Eumenidi, trovano posto nel sistema giudiziario ateniese. All’interno del diritto, dunque, trova spazio anche la forza delle passioni.

    Thomas Hobbes indagava la natura umana nella sua concretezza, nella cupidigia e nell’invidia, nell’ostilità e nella paura, nella menzogna e nel tradimento, nella violenza e nel sopruso, sentimenti innati che si originano dal bisogno di prevalere sull’altro. Il Leviatano fu pubblicato nel 1651 un periodo storico in cui l’Europa, con la pace di Westfalia ha messo fine a decenni di guerre civili e religiose. L’opera esprime l’esigenza, avvertita a livello intellettuale e non soltanto, di un profondo rinnovamento delle istituzioni che venivano permeate da una Weltanschauung teologica e feudale. Hobbes è consapevole dell’esigenza di modificare i fondamenti della legittimazione ma, al tempo stesso, del “disordine” insito nella natura umana. Per operare tale mutamento, bisogna contrarre un patto tra gli esseri umani per rendere la vita più sicura e meno violenta. Questo patto si configura come l’origine dello Stato moderno e del legame sociale. Ma con questa operazione che garantirebbe la pace si riducono gli altri diritti.

    Il Leviatano, mostro barocco, si configura come una potenza minacciata dalle forze della storia. Lo Stato che si forma da questo contratto, può controllare e ritardare il conflitto ma non debellarlo per sempre. Dopo Hobbes, Rousseau, Kant e Hegel fino a Benjamin, Strauss, Bobbio e Schmitt. In questo clima di pensiero, Hobbes aveva immaginato che il disordine naturale potesse essere sostituito dalle certezze dell’ordine della legge creato dalla ragione, ma difficilmente, la storia dimostra, si può contenere la natura umana in forma legale, giuridica totalmente.

    Il diritto non può essere solo ragione, non può ignorare le emozioni. Come si legge in un numero speciale di Theoretical Criminology [10]: «per aver un dibattito più razionale sul crimine e la giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale». Le emozioni sono un tema importante, nell’attuale dibattito giuridico e sociologico [11]. Martha Craver Nussbaum, docente di “Etica e diritto” nell’Università di Chicago, è impegnata da anni in un’importante riflessione sulla possibilità dei (e i modi per) realizzare una società giusta, capace di garantire a tutti uguale libertà e dignità. A suo giudizio questo presuppone un’approfondita analisi della natura umana, pertanto negli ultimi anni il suo interesse si è appuntato sulle emozioni. L’attore sociale per essere compreso e per comprendere la relazione non può affidarsi soltanto alla ragione. È necessaria L’intelligenza delle emozioni, che nella costruzione della nostra vita spirituale e sociale svolgono un ruolo tutt’altro che secondario, che peraltro, a seconda del tipo di emozione e del tipo in cui essa è usata, può essere sia positivo, sia negativo. Alcune emozioni – si pensi al disgusto e alla vergogna – se usate come elemento di discriminazione di alcune minoranze, possono giocare un ruolo negativo. Altre emozioni, quali la compassione, la gratitudine e l’amore, invece, svolgono un ruolo positivo nella costruzione di un’etica sociale più giusta: tenerne conto aprirebbe la via a una concezione normativa dei rapporti nella quale gli esseri umani non sarebbero mezzi ma fini agenti.

    Violenza

    La vita sociale con il suo pulsare nasconde, nel chiaro, l’oscuro che sottende l’azione umana. E a volte questo irrompe nei comportamenti umani, con violenza o semplicemente con forza rivelando le paure, le contraddizioni, le ambivalenza che sottendono l’agire umano. La riflessione più antica dal Gorgia di Platone a Freud, passando per Hobbes ha riconosciuto come la violenza esiste e persiste nelle profondità della complessa natura umana, tanto che lo stesso Profeta della non violenza non poteva che riconoscere come «la vita stessa è impossibile senza un certo grado di violenza» [12].

    Nelle situazioni storiche in cui la violenza è stata “levatrice” di un passaggio storico-sociale finalizzato ad un fine superiore, essa è stata interpretata come forma di origine umana legata alla impotenza, alla rabbia, alla frustrazione profonda alimentata dalla disuguaglianza sociale, fino ad esprimere quello che Wolfang Sofsky [13] definisce “sollievo, entusiasmo” ove la parola gewalt, che in tedesco esprime il concetto di violenza e quello di autorità e potere. L’idea di Potestas, che diventa Violentia dei cittadini mentre la Violentia come resistenza anche illegittima si costituisce come una nuova  Potestas, risale alla filosofia medioevale.

    Già Tacito aveva evidenziato come nihil in vulgus modicum [Tacito 1990: v. 29] le folle non hanno senso della misura, aprendo le riflessioni sulle dinamiche della folla che hanno avuto il loro momento topico con gli studi di Le Bon, Taine, Tarde, Sighele [14] tra gli altri che tendono a spiegare il comportamento collettivo come una sorta di epidemia psichica sulla base della quale gli individui tendono a imitare il comportamento degli altri per una suggestione rafforzata dalla numerosità dei comportamenti messi in essere. Sentimenti, impulsi, istinti si esprimono all’interno di una trama di significati che sfuggono al controllo sociale e sovente individuale.

    I nostri sentimenti, i nostri impulsi, i nostri istinti si scontrano con la resistenza che gli altri oppongono, con le aspettative degli altri con la realtà del mondo così come è, ed anche con la materialità del nostro corpo, con gli usi, i costumi, le norme della comunità in cui viviamo. I codici culturali del gruppo cui apparteniamo, ci spingono all’uniformità. Le azioni umane sono connotate da coloriture non logiche, non razionali, affettive: tenerezza, invidia, amore, gelosia, devozione, rabbia che si “sentono”, si vivono più di quello che si pensa e si dice [15].

    Da un lato Cartesio che ha tentato di dimostrare che la forza nell’essere umano sta nel vincere le emozioni e fermare i gesti che le accompagnano, dall’altro Nietsche che sostenne che le emozioni non si possono controllare perché radici del nostro agire, e Hume, che aveva scritto che la ragione è e deve essere schiava delle passioni. Allo stesso titolo concettuale Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov introduce il relativismo postmoderno per il quale l’esistere non ha un unico significato, bensì il senso che ciascuno è capace di dargli.

    La violenza esercita un fascino mediatico immenso: dalle cannonate di Bava Beccarsi, alla strage della Scuola di Colombine fino al G8 di Genova e agli Indignados di Roma contaminati dagli anarchici, la violenza tocca le corde dell’emotività più profonda, impaurisce ed esalta, attira l’attenzione e a volte “contamina” nell’imitazione [16] nella ripetizione-imitazione. La violenza, definita irrazionale a fronte di una presunta razionalità dell’essere umano, si esprime come un impulso individuale o sociale a distruggere, oltre la sfera del bene e del male, come un mezzo più che come un fine.

    La violenza strumentalizza il destinatario: lo opprime, lo uccide, lo piega, lo emargina negandogli il valore di persona, valore che è alla base della convivenza sociale [17]. La forma dialettica della tragedia fu utilizzata anche da Dostoevskij che, portando alle sue estreme conseguenze le ragioni della negatività, della violenza, ne dimostra le conseguenze distruttive e autodistruttive.

    Ne I fratelli Karamazov, in  Delitto e castigo, ne  I ricordi della casa dei morti, affrontando i temi legati alle azioni umane violente, più mostruose, in cui l’essere umano rinuncia alla sua libertà in cambio della soddisfazione dei bisogni più elementari e dei bassi istinti. Nella sia produzione culturale, la questione penale ha un ruolo importante come dimostra nell’analisi di alcune figure criminali e affrontando i problemi della colpa e della responsabilità.

    Dostoevskij non fu un criminologo ma senz’altro un criminalista, che pose al centro della sua riflessione una ferma opposizione alle teorie ottocentesche tese a deresponsabilizzare il reo e a valutare un delitto in relazione alla sua pericolosità per l’ordine sociale. Dostoevskij difende la teoria classica della retribuzione penale che vede nell’opera del delinquente un mix di cattiva volontà rivolta al male e di diversi elementi imprevedibili e casuali.

    La responsabilità dell’umano agire e la volontà nel compiere un’azione deviante, l’accettazione della sofferenza che ne consegue, sono già parte della punizione. Così in Delitto e Castigo, Raskolnikov rappresenta l’uccisione dell’usuraio come il gesto eroico di un uomo superiore che vuole cancellare un’ingiustizia sociale. Tuttavia il peso della colpa, lo porterà al delirio e alla malattia, alla confessione  e di conseguenza, al carcere e alla deportazione in Siberia, e poi alla “nuova vita” con Sonja.

    Ma nelle analisi di Dostoevskij il delitto è l’affermazione di un diritto, il “diritto delle tigri e dei coccodrilli” di cui scrive ne L’idiota, il diritto che sancisce la supremazia del più forte. In ciò Dostoevskij si distanzia dalla “Scuola Criminologia Italiana” di Lombroso, Garofano e Ferri. Se da un lato Dostoevskij pone alla base il concetto di imputabilità in base alla responsabilità morale che ha come suo presupposto il libero arbitrio, concetto filosofico e religioso, la “Scuola Criminologia Italiana”, pone alla base i determinismo con “L’uomo delinquente”  di Cesare Lombroso, La Criminologia  di Raffaele Garofani introduce la pericolosità del delinquente. Enrico Ferri in Studi sulla criminalità, inserì questi paradigmi in un sistema di leggi, valorizzando l’elemento individuale, naturale e sociale nella classificazione dei tipi delinquenti.

    L’analisi sociologica deve individuare come possono essere declinati libertà, solidarietà, uguaglianza, in una situazione sociale nella quale il ruolo centrale, quello del principe, è vacante, mentre la sala del trono è spazzata da correnti d’aria e invasa da bande di speculatori e paparazzi. Le analisi della società contemporanea si occupano delle organizzazioni militari di corrotti, mercanti di morte, trafficanti di uomini, e in genere tutti coloro che sono spinti ad agire dal residuo dell’avidità e della brama di potere pongono di fronte al problema, alla responsabilità del bene comune e della giustizia e di impostare la vita sociale al pari di questi nobili principi.

    Naturalmente da ciò non scaturisce automaticamente la sicurezza ma ne deriva una domanda: il desiderio di giustizia e di bene comune sono soltanto personali moti dell’animo di alcuni oppure manifestazioni logiche di governo sociale?

    Note

    [1] M. MAGATTI, C. GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo unitevi, Feltrinelli, Milano 2014.

    [2] G. DE RITA, A. GALDO, Il popolo e gli dei, Laterza, Bari 2014.

    [3] Cfd. M.C. FEDERICI (2006), Dove fondano le libertà dell’uomo,  Borla, Roma; N. Chomsky (2004), Il bene comune,  Edizioni Piemme, Casale Monferrato.
    [4] H. PUTMAN (1993), La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano.

    [5] J. ELSTER (1993), Come si studia la società, Il Mulino, Bologna; J. Baudrillard (1998), L’altro visto da sé, Costa e Nolan, Genova.

    [6] Cfr. A. DAL LAGO, E. Quadrelli (2010), La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano.

    [7] ESCHILO (1981), Orestea, Agamennone Coefore Eumenidi, Garzanti, Milano.

    [8] EURIPIDE (2005), Ifigenia in Aulide, Dante Alighieri, Roma.

    [9] Cfr. P. GEWIRTZ (1988), Aeschylus’ Law, in “Harvard Law Review”, n. 101, 1998, pp. 1042-1055.

    [10] W. DE HANN, I. LOADER (2002), On the Emotions of Crime, Punishment and Social Control, in “Theoretical Criminology”, n. 6, pp. 243-253.

    [11] M.C. NUSSBAUM (2009), L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna.

    [12] M. GANDHI (2010), La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma.

    [13] W. SOFSKY, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino.

    [14] Cfr. S. CURTI, E. MORONI (2911), La folla. Continuità e attualità del dibattito italofrancese, OGE, Collana CRISU, Milano.

    [15] M.C. FEDERICI (2006), Dove fondano le libertà dell’uomo, op. cit.

    [16] G. TARDE (1890),  Lois de l’imitation,  Alcan, Paris; Id. (1895),  La logique sociale, Alcan, Paris; Id. (2010), Il tipo criminale, a cura di S. Curti, Ombre corte, Verona e anche S. Curti, E. Moroni (2011) (a cura di) La folla. Continuità e attualità del dibattito italo-francese, op. cit.; M. Fabiano (2010), L’immagine dell’altro. Le origini della sociologia criminale in Italia, in “Quaderni di Storia del Pensiero Sociologico”, Edizioni Universitarie di Lettere, Economia, Diritto, Milano.

    [17] H. ARENDT (2002),  Sulla violenza,  Guanda, Parma.

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