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  • Violenza maschile e femminicidio
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014

    LA LEGGE "SUL FEMMINICIDIO"



    Maria (Milli) Virgilio

    maria.virgilio@unibo.it
    Avvocata e docente universitaria in Bologna; è componente del gruppo di lavoro avente compiti di supporto scientifico alla Task force interministeriale sulla violenza contro le donne, istituito nell’ottobre 2013. Presidente dalla associazione GIUdIT- Giuriste d’Italia, è stata responsabile scientifica del progetto europeo Daphne III, LEXOP “Lex-operators all together for women victims of intimate partner violence”, di cui ha curato il Rapporto di ricerca edito da BUP Bologna. I temi della sua attività investono la libertà e i diritti fondamentali delle cittadine e dei cittadini e affrontano nell’ottica di genere la funzione e i limiti del diritto e del diritto penale in particolare. Le sue ultime pubblicazioni: Le persone che esercitano la prostituzione, in “I nuovi danni alla persona. I soggetti deboli”, Volume I, a cura di Paolo Cendon, Stefano Rossi, novembre 2013, Aracne, Roma; Il trattamento penale degli uomini violenti contro le donne. Profili giuridici (unitamente a Bruno Guazzaloca), in “Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento” (a cura di Alessandra Bozzoli, Maria Merelli, Maria Grazia Ruggerini, Ediesse, 2013). Ha curato il volume collettaneo Stalking nelle relazioni di intimità, Speciale ius17@unibo.it, Studi e materiali di diritto penale, Anno V, n. 2 - maggio-agosto 2012, Bononia University Press.



    Stop Femminicidio (Elisabetta Piu) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    1. Un primo passo?

    Come legge « sul femminicidio» viene comunemente identificata la prima parte del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni in legge 15 ottobre 2013, n. 119 recante: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» [1].

    È la parte - composta dai primi sei articoli (da art. 1 a 5 bis) su 19 - che costituisce il Capo I, intitolato “Prevenzione e contrasto della violenza di genere”, inserita in un testo normativo, che tratta anche altre materie, tra loro assai eterogenee [2], come già il titolo stesso indica.

    Il decreto era stato deliberato alla seduta dell’8 agosto 2013. Ma il testo è stato conosciuto solo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 191 del 16 agosto 2013. Il comunicato stampa subito diffuso (n. 19 dell’8 agosto) illustrava sinteticamente i contenuti del decreto, che prontamente veniva  denominato «sul femminicidio», alla stregua della espressa indicazione mediatica del Presidente del Consiglio.

    Il decreto provvisorio con forza di legge  è entrato in vigore il giorno dopo la pubblicazione, e cioè il 17 agosto [3], dando inizio al periodo dei sessanta giorni utili per la conversione in legge, pena la perdita di efficacia fin dall’inizio.

    Il testo governativo - benché criticatissimo sotto tutti i profili [4] - era stato tuttavia ritenuto meritevole della conversione, cioè emendabile [5], tanto che - al di là delle censure (sia sulla scelta incostituzionale del decreto governativo provvisorio con forza di legge sia sulle singole disposizioni) e al di là delle espressioni di voto in aula [6] - tutte le forze parlamentari hanno scelto la strada della presentazione in Commissione e in Assemblea di emendamenti a scopo migliorativo: ben 414, solo in prima battuta!

    L’acceleratissimo lavoro di conversione ha occupato solo uno dei due rami del Parlamento, la Camera dei Deputati (che il 9 ottobre ha approvato con modificazioni il ddl 1540C ), mentre il Senato è stato posto di fronte al fatto compiuto [7] e in data 11 ottobre ha dovuto approvare, senza poter modificare, pena la decadenza del decreto [8]. Convertito con numerosissime modificazioni in legge n. 119 del 2014, è stato pubblicato in Gazz.Uff. n. 242 del 15 ottobre 2013.

    Nonostante le modifiche, il testo finale è stato sottoposto a concordi e serrate critiche da parte dei tecnici (Pistorelli, 2013) e ha creato (e sta creando) notevoli incertezze interpretative negli operatori, ma - politicamente -  è stato positivamente accolto, ai livelli istituzionali, come  un primo effettivo passo verso una futura disciplina organica (articolata e finanziata) per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e come un primo adeguamento del nostro sistema giuridico agli obblighi internazionali (sia della Convenzione di Istanbul 11 maggio 2011 “Council of Europe Convention on preventing and combating violence against women and domestic violence”, ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 27 giugno 2013 [9]  sia della direttiva  2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato [10]), nonché come mantenimento di un impegno governativo e parlamentare assunto nei confronti delle donne sul tema della violenza di genere. Si è sviluppata una dinamica analoga a quella della legge n. 66 del 1996 “Norme contro la violenza sessuale”, nel senso che la determinazione legislatrice - coagulatasi sulla volontà di non potersi sottrarre a esercitare  un potere legislativo (ora “contro il femminicidio” allora contro la violenza sessuale) a prescindere dai contenuti - ha prevalso su ogni criterio di buona qualità legislativa, come la tempistica dimostra e le critiche tecniche attestano [11].

    2. La decretazione d’urgenza

    Prima di esaminare il contenuto del nuovo testo legislativo, non possiamo tacere qualche considerazione di metodo e di contesto.

    È difficile non condividere la censura che la scelta del  decreto legge [12] sia incostituzionale e abbia illegittimamente privato la collettività di un momento di confronto democratico; non sussistono infatti i requisiti previsti dalla Costituzione per emanare decreti con forza di legge, cioè le circostanze straordinarie di necessità e urgenza. A  giustificazione, il preambolo del decreto non porta alcun dato oggettivo, ma si limita a enunciare il “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne”. Ed è da questo che trae il “conseguente” “allarme sociale”, che - a sua volta - ha reso necessario “inasprire per finalità dissuasive, il trattamento punitivo per gli autori”.

    La natura strutturale stessa del fenomeno che si vuole contrastare si pone in contraddizione con la straordinarietà richiesta dalla Costituzione per i decreti-legge. E che la violenza di genere contro le donne sia “strutturale” lo affermano gli strumenti internazionali, a cominciare dalla Convenzione di Istanbul, appena ratificata dall’Italia, nel suo preambolo. Non è sostenibile quindi alcun carattere di emergenzialità in proposito.

    L’unico presupposto accampato a sostegno della straordinaria necessità e urgenza è costituito da una indimostrata asserzione statistica e criminologica (un vago e ascientifico “susseguirsi di eventi”) che risulta anche contraddittoria con la portata del decreto, il quale contiene poi sia l’assegnazione al Ministro dell’interno del compito di elaborare annualmente (art 3) “un’analisi criminologica della violenza di genere” e sia la previsione di una raccolta strutturata dei dati del fenomeno inserita nel Piano straordinario (art. 5). Insomma il presupposto del decreto ne costituisce anche l’oggetto, e, per di più, deve ancora essere dimostrato!!!!!

    Né sussiste l’urgenza: la  gravità del fenomeno la conosciamo non da oggi, ma da anni, almeno dal 2006, anno di riferimento della indagine ISTAT: gli unici dati ufficiali raccolti.  

    È inoltre errata la prospettazione di aumenti e recrudescenze dei fatti di violenza denunciati. Non abbiamo i dati ufficiali per potere affermarlo perché invano chiediamo da anni che i dati vengano ufficialmente raccolti. Li aspettiamo dalla Direttiva Prodi Finocchiaro del 1997 e dal disegno di legge Pollastrini – Bindi n. 2169 del 2007! Anzi dalle raccolte non ufficiali risulta il contrario, cioè emergono dati stabili negli ultimi anni,  e pure in leggera diminuzione sia per le denunce (e querele) di violenze sessuali (purtroppo l’accorpamento in una unica fattispecie non consente di distinguere i fatti distupro da quelli di minore gravità) sia per gli assassini di donne da parte di uomini con cui sono in relazione di intimità (per comparare occorrerebbe selezionare i delitti secondo criteri omogenei). La sostanza della valutazione non è diversa se la focalizziamo sui delitti di stalking. È vero che è elevato il numero delle querele presentate per questo delitto: secondo i dati pubblicizzati nell’agosto 2013 dal Ministero dell’interno, sono 38.142 dall’entrata in vigore della legge 38/2009; nel 73% dei casi depositate da donne. Ma occorre  considerare che molti fascicoli aperti vengono poi archiviati: tra il 15 e il 30% per remissione di querela e tra il 30 e il 60% per infondatezza o mancanza degli elementi costitutivi previsti dalla legge. Così risulterebbe dalle valutazioni dei pubblici ministeri (Virgilio, 2013) .

    Dunque il tema della modifica legislativa doveva essere portato esclusivamente nella sede parlamentare e nella pienezza del potere parlamentare (non con i limiti di una legge di conversione).

    Tali rilievi sulla scelta del decreto legge potrebbero apparire inutili visto che la legge è ormai in vigore. Ma potrebbero pur sempre contribuire a sollevare incidenti di illegittimità costituzionale .

    3. Il linguaggio legislativo

    Passando alla analisi dei contenuti della legge occorre premettere che, contrariamente alla denominazione, nessuna norma si riferisce ai femminicidi/femicidi perchè nessuna delle norme si riferisce agli assassini di donne da parte di uomini con cui sono in relazione di intimità o prossimità. Peraltro la sola norma che si riferisce (anche) all’omicidio è la “circostanza aggravante” comune dell’art 61 codice penale; ma concerne tutti i delitti (non colposi) contro la vita e l’incolumità individuale, ivi compreso l’omicidio (art. 575 c.p.), e dunque  prescinde dal genere, comprendendo anche gli omicidi di donne nei confronti di uomini. Quindi la denominazione è ingiustificata, a meno di non voler sostenere che qualunque modifica della legge penale (sia sostanziale che processuale)  in materia di violenza  svolga di per sé funzione di prevenzione dei cd. femicidi/femminicidi.

    Uno specifico rilievo va rivolto al linguaggio utilizzato nel decreto, che appare spesso improprio. Le norme sono tutte neutre rispetto al genere, perfino quelle che si riferiscono alla donna in stato di gravidanza (“persona” in stato di gravidanza!?!?). Il vocabolario usato è oscillante e  incerto. Si alternano indifferentemente violenza di genere, donne e violenza domestica. Ma la violenza di genere è riferita non solo alle donne e dunque dovrebbe essere precisata quanto a destinatari, qualora si voglia intendere violenza di genere contro le donne. Violenza sessuale è abbinata alla violenza di genere e poi allo stalking: come se violenza sessuale e stalking non costituissero violenza di genere contro le donne. Quanto alla nozione di violenza domestica riprende sì la definizione di Istanbul, ma è stata caricata di un ulteriore requisito restrittivo: gli atti “non episodici”. Eppure il glossario legislativo sarebbe importante sia sul piano della certezza e chiarezza del diritto sia su quello del messaggio simbolico culturale connesso alla innovazione normativa: lo presuppone la Convenzione di Istanbul che esordisce proprio con una serie di “definizioni”.

    4. Le modifiche normative in materia penale e non

    I nodi della legge (nella parte che ci occupa) si articolano su livelli diversi, che richiedono considerazioni differenziate.

    Va premesso che l’intervento legislativo si sviluppa solo nella materia penale (e - ancora una volta - nella chiave della sicurezza pubblica [13]), perché l’iniziativa legislativa intrapresa dall’esecutivo ha scelto di muovere il suo (primo?) passo dalle norme di diritto penale, sostanziale e processuale.  Fanno eccezione le due norme programmatiche e di indirizzo sul «Piano d’azione», gli artt. 5 e 5 bis, che tuttavia sono ancora in attesa delle norme attuative necessarie, così come l’art. 4, che prevede la particolare normativa di “tutela per gli stranieri vittime di violenza domestica”, che anch’essa necessita di essere integrata con norme applicative per poter essere effettiva. Rinviamo pertanto alla loro lettura, sottolineando che l’art. 5 prevede il «Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere» [14], che in sede di conversione è stato ampliato e – finalmente – finanziato (anche se scarsamente: 10 milioni di euro per l’anno 2013), mentre la norma successiva (art. 5 bis) disciplina le «Azioni per i centri antiviolenza e le case-rifugio», finanziate con incremento di 10 milioni di euro per l’anno 2013, 7 milioni per il 2014 e 10 milioni a decorrere dall’anno 2015. Come già detto, questo filone di norme sarà rilevante solo quando la loro attuazione sarà stata implementata. Anche per questo, nel corso dei lavori parlamentari hanno preso parola soprattutto associazioni femminili e centri antiviolenza , sia per ottenere dal Parlamento quei finanziamenti che il Governo non aveva neppur minimamente previsto sia per rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati nella materia.

    Concentriamo dunque la nostra indagine sulle restanti tre norme (artt. 1, 2 e 3), che incidono con modifiche varie sulla normativa penale, prevalentemente su quella processuale.

    Innanzitutto soffermiamoci sulla scelta di Governo (e Parlamento) che - in questo “primo passo” -  hanno voluto muovere dal diritto penale. Occorreva invece interrogarsi sulla funzione sociale del diritto penale per verificarne l’idoneità e i limiti a normare la violenza di genere contro le donne (o, più chiaramente, la violenza maschile contro le donne). È certamente il diritto dotato della più forte carica simbolica, ma anche il più debole intrinsecamente quanto a capacità di incidere sui rapporti di potere. Lo è innanzitutto in generale per la sua caratteristica di esemplarità. E lo è ancor più nella specifica materia della violenza maschile contro le donne.

    La legge penale, nel distinguere lecito e illecito, non solo svolge una funzione sociale sul piano simbolico, ma adempie anche a una funzione sociale strumentale di prevenzione generale e speciale delle condotte illecite, che sposta radicalmente il fuoco dell'interesse dal piano generale e universale di tutte/i le/gli individue/i a quello della responsabilità personale del singolo soggetto.

    Regolare una certa materia tramite la penalizzazione di taluni comportamenti comporta necessariamente la criminalizzazione degli autori (alcuni autori). E, in questa materia, si criminalizza non un estraneo, ma - se è vero che la violenza viene prevalentemente da vicino - un individuo in posizione di prossimità, se non di intimità: il marito, il convivente, quell'individuo cui ci lega (o ci ha legato) una relazione. Per questo il diritto penale lancia un messaggio simbolico forte, idoneo a affermare e imporre valori (e soprattutto a vedere universalmente imposti alla generalità dei consociati i valori di chi quell'istanza ha proposto, peraltro con implicito riconoscimento politico delle/dei proponenti). Ma, contemporaneamente, il diritto penale rimanda alla concreta applicazione - pur sempre esemplare e non generalizzata - della norma precettiva a singoli individui e ai loro vissuti, così incidendo sulle relazioni intersoggettive, le cui vicende personali si intrecciano con le vicende processuali.

    D’altronde (spesso il legislatore non lo considera!) non solo il senso di messaggio e di simbolo, ma anche l’effettività della regola penale sono tutti affidati alla struttura stessa con cui la norma penale è configurata e impostata: contano il momento definitorio, l’entità della pena misurata in proporzione agli altri reati, la scelta degli istituti e degli strumenti processuali, che fissano e iscrivono nella norma scritta i contenuti e i limiti dell'intervento statale, realizzando così la penalizzazione sia in astratto sia - selettivamente - in concreto.

    Si aggiunga che la differenziazione tra i fatti meritevoli di pena e quelli penalmente irrilevanti (dunque la delimitazione della violenza penalmente sanzionata) è realizzata dall’ordinamento non soltanto attraverso il giudizio di tipicità, ma anche attraverso altri istituti. Alcuni incidono sulla punibilità in modo diretto (le cause di non punibilità); altri incidono in modo indiretto, impedendo la pronuncia di condanna. Per esempio, l’ambito di operatività della querela ci indica in quali casi il legislatore abbia affidato all’interesse privato, anziché a quello pubblico, lo jus puniendi, cioè il confine tra il punibile e il non punibile. È dunque la querela che viene a determinare - in concreto - la punibilità del fatto e segna così il confine delle condotte penalmente punite; in questi casi la meritevolezza della pena non è stabilita in via definitiva dal legislatore, ma è da questi delegata all’individuale apprezzamento del soggetto che ha subito l’offesa.

    Per tutte queste caratteristiche la c.d. primazia del diritto penale presenta - in tema di violenza maschile contro le donne - limiti negativi e criticità ardue. Solo nel 2001 l’intervento statale, fino a quel momento esclusivamente penale, riuscì a superare i confini penalistici e approdò alle «misure contro la violenza nelle relazioni familiari» (L. 4 aprile 2001 n. 154, subito ritoccata con L. 6/11/2003 n. 304) che, finalmente prevedendo gli ordini di protezione del giudice civile, ampliarono e migliorarono significativamente lo strumentario giuridico a disposizione (varcando le soglie del diritto penale, anche sulla scorta delle esperienze maturate dagli ordinamenti di altri paesi). Ma non si regolamentarono i centri e solo nel 2007 fu finanziato un «Piano antiviolenza».

    Da allora le modifiche normative in materia sono state realizzate quasi esclusivamente nella logica della sicurezza pubblica, intervenendo sul diritto penale, prevalentemente tramite l’inasprimento del trattamento sanzionatorio.

    Ora, nei tre articoli di diritto penale con cui inizia la nuova legge, possiamo distinguere tre filoni conduttori: il primo è quello ispirato all’inasprimento delle pene; il secondo comprende vari istituti di cd “tutela” (che vanno dalla audizione protetta con il vetrospecchio all’avviso alla parte offesa della prossima scarcerazione del violento); il terzo - che riteniamo il filone più significativo e più «forte» della modifica legislativa, nonché maggiormente espressivo della filosofia di fondo che lo ha ispirato - si esprime in un rafforzamento del potere pubblico a scapito della autodeterminazione delle donne e si articola in tre modifiche:
    1) la caratteristica di irrevocabilità attribuita (in taluni casi) alla querela per stalking;
    2) l’incremento dei poteri della polizia giudiziaria con l’attribuzione della nuova misura dell’allontanamento urgente nei casi di violenza domestica;
    3) l’estensione dell’ammonimento questorile, già previsto per lo stalking, alle condotte di violenza domestica.

    5. Inasprire il trattamento punitivo degli autori

    L’art. 1 contiene le norme più scopertamente repressive, appositamente previste per “inasprire” il trattamento degli autori. Il proposito dell’inasprimento è stato attuato attraverso la configurazione di varie aggravanti, così collocandosi in linea di discontinuità con altre recenti modifiche che erano invece intervenute sulle fattispecie base: la pena dello stalking era stata elevata da 4 a 5 anni dalla cd legge svuotacarceri [15]; quella dei maltrattamenti era stata elevata da 5 a 6 anni con la c.d. legge di Lanzarote [16].

    I delitti interessati alle modifiche sono quelli di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori, ma anche -più in generale- tutti i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale. Tra le circostanze considerate (minore età, donna/persona in stato di gravidanza, legami o relazione affettiva anche senza convivenza) si distingue quella della violenza cd. assistita (inflitta ai minori non destinatari diretti delle violenze, ma presenti alle stesse), complesso problema che richiederebbe ben altre coordinate azioni non solo di diritto penale e non certo attraverso la previsione di una aggravante (per aver “commesso il fatto in presenza di un minore degli anni diciotto”).

    L’inasprimento delle pene non ha – purtroppo – alcun carattere innovativo, perché è ormai divenuto il consueto illusorio snodo degli interventi legislativi penali (anche) a contrasto della violenza di genere contro le donne. Infatti - in questo campo - è ormai storicamente e scientificamente assodato che  aumentare le pene non realizza alcuna funzione deterrente perché non scalfiscono l’aspettativa e il senso di impunità degli autori. Men che meno può aver effetti dissuasivi un aumento della pena che venga strutturata attraverso la configurazioni di aggravanti, cioè attraverso un elemento “accidentale “ del reato base.

    Eppure tale scelta non ha trovato nessun sostanziale contrasto in sede parlamentare, come risulta dalla lettura delle audizioni e dalla analisi degli emendamenti proposti. Si è trattato di una convinta condivisione oppure di una acritica assuefazione ad un modello di politica criminale, ormai dominante? In proposito, è interessante ricordare come nel 1996 - per la legge n. 66 contro la violenza sessuale (Virgilio, 1996 a e b) - era stato proprio l’aumento delle pene a rappresentare la chiave di volta dell’intervento pubblico statale, perché seppe determinare la trasversalità parlamentare indispensabile per raggiungere l’approvazione; eppure inizialmente e per lungo tempo - durante il ventennio dei lavori preparatori - l’innalzamento non era previsto e neppure ipotizzato. Allora l’istanza di penalità fu risolutiva e valse a far ritenere prioritaria (rispetto a ogni altra istanza o contenuto) la volontà di legiferare, raggiungendo comunque l’accordo su un testo. Fu in tale clima che si poté arrivare alla mediazione/compromesso sulla questione per tanti anni controversa - e discussa dentro e fuori il Parlamento - della procedibilità d’ufficio (rimase la affermazione formale come regola della procedibilità a querela sempre irrevocabile, come era già nel Codice penale 1930, ma furono talmente aumentati i casi di procedibilità d’ufficio che da eccezionali diventarono, in sostanza, la regola effettiva).

    6. Misure di protezione e di tutela

    Tra le modifiche dell’art. 2, ne troviamo due che hanno portata generale:
      - informazione alla parte offesa ( tutte e per tutti i reati) della possibilità di nominare un difensore e di fruire del patrocinio a spese dello stato (art. 101 c.p.p.)
     - sottrazione di alcune competenze penali del giudice di pace per alcuni reati di percosse e lesioni (art. 4 disp. comp. GdiP), quelli contri familiari, conviventi e affini
    Portata generale, anche se riferita a tutti i “delitti commessi con violenza alla persona [17]”,  hanno anche :
    - obbligo di immediata comunicazione alla parte offesa della revoca e sostituzione delle misure cautelari e, ancor prima, della relativa richiesta al giudice da parte del pubblico ministero o dell’imputato nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona (art. 299 c.p.p.)
    - obbligatorietà della comunicazione alla parte offesa dell’avviso della richiesta di archiviazione per infondatezza delle notizie di reato per i delitti commessi con violenza alla persona (art. 408 c.p.p.)

    In tutte queste disposizioni non vi è alcuna connotazione di genere e dunque non ineriscono alla materia. In proposito va rilevato che, tra gli obblighi internazionali che l’Italia deve adempiere, vi sono quelli relativi alla valorizzazione processuale delle vittime di reato ( di qualsiasi genere e per qualsiasi reato) e dei loro diritti , nonché della assistenza e protezione loro e dei loro familiari. Va anche aggiunto che gli obblighi di informazione e comunicazione mirano a soddisfare una esigenza assai sentita in materia e cioè a fornire alla donna che ha subito violenza l’opportunità di valutare personalmente il rischio della sua esposizione a pericolo, nei casi in cui, per esempio, cessi la permanenza in carcere del violento (o sia revocata la misura dell’allontanamento, ecc.). Per la verità tale esigenza di valutazione del rischio potrebbe essere realizzata anche per altra via, per esempio fornendo alla donna un operatore di riferimento con reperibilità telefonica, utile per ricevere comunicazioni processuali, ma anche per richiedere interventi d’urgenza [18].

    Delle restanti previsioni la maggior parte non ha caratteristiche di originalità, trattandosi di estensioni di istituti già previsti nell’ordinamento. Le elenchiamo:
    - estensione della comunicazione al Tribunale per i minorenni ai casi di maltrattamento e stalking in danno di minorenne (art. 609 decies c.p.)
    - estensione del numero dei reati per cui le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche hanno obbligo di fornire informazioni alla vittima sui centri antiviolenza (art. 11 legge Stalking)
    - estensione allo stalking della possibilità di disporre intercettazioni telefoniche (art. 266 c.p.p.)
    - estensione ad altri reati dell’allontanamento della casa familiare, nonché utilizzo del c.d. braccialetto elettronico (art. 282 bis c.p.p.)
    - estensione a maltrattamenti e stalking dell’obbligo di avvalersi dell’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria infantile quando la polizia giudiziaria deve assumere sommarie informazioni da persone minori (art. 351 c.p.p.)
    - estensione a maltrattamenti e stalking dell’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.p.)
    - estensione ai maltrattamenti delle modalità protette nell’incidente probatorio  (strutture specializzate di assistenza) già previste per la assunzione della prova che interessa un minorenne (art. 398 c.p.p.)
    - estensione a maltrattamenti e stalking del limite di una sola proroga delle indagini (art. 406 c.p.p.)
    - audizione dibattimentale protetta per il minore (con l’uso di un vetrospecchio unitamente ad un impianto citofonico), estesa anche nei casi di maltrattamenti (art. 498 c.p.p.)
    - audizione dibattimentale con modalità protetta estesa anche alla persona maggiorenne, se particolarmente vulnerabile: vetrospecchio, paravento (art. 498 c.p.p.)
    - priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza e nella trattazione, estesa ai processi per maltrattamenti, violenza sessuale e stalking (art. 132 bis Norme Att. c.p.p.)
    - estensione della ammissione al patrocinio a spese dello stato anche in deroga ai limiti di reddito ampliata ai casi di maltrattamento, lesioni aggravate e stalking (art. 76 T.U. spese di giustizia)
    In realtà l’unica disposizione con caratteristiche di originalità è quella che prevede:
    comunicazione alla parte offesa dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari per i delitti di maltrattamenti e stalking (art. 415 bis c.p.p.).

     Al di là dei numerosi problemi interpretativi ed applicativi [19] che le singole norme hanno creato, il filo conduttore tra queste disposizioni  è costituito dalla loro natura di disposizioni “speciali” o comunque particolari, nel senso di fare eccezione a regole generali di procedura penale. Trattasi prevalentemente di ampliamenti ed estensioni di strumenti già previsti per i cd. soggetti deboli: minori, disabili, anziani. Trattasi di ritocchi al sistema, di meri “aggiustamenti” processuali. L’unica norma originale - la comunicazione alla parte offesa dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari per i delitti di maltrattamenti e stalking - non è certo particolarmente incisiva nella pratica del processo.

    Certamente sono tutte norme “di favore”, quanto alla loro portata, che agevolano lo svolgimento processuale per la parte offesa, tuttavia presentano anche l’aspetto negativo comune di mettere in risalto la caratteristica  di chi viene avvantaggiato come soggetto bisognoso di tutela; dunque costituiscono e costruiscono uno statuto di “vittima”, che finisce per gravare a sfavore della destinataria del trattamento privilegiato.

    Si ripropone così la tensione tra uguaglianza e differenza di genere, insita nella contraddizione tra gli interventi legislativi consistenti in norme speciali e particolari a tutela di soggetti ritenuti deboli/vulnerabili (o più correttamente, «vittime con esigenze specifiche di protezione», come si esprime la Direttiva 2012/29/ UE) e - dall’altra - le istanze egualitarie che quella specialità vorrebbero rifiutare, rifuggendo da ogni eccezione discriminatoria, anche di favore (in forza di norme di “tutela”), in nome di un riconoscimento di responsabilità soggettiva piena della cittadina donna. In effetti l’affermazione del principio che «le donne sono persone» comporterebbe che le condotte violente, nella misura in cui siano rilevanti per il diritto penale [20], debbano essere trattate come tutti gli altri reati, senza differenze (Pitch, 1984, p. 112; Virgilio, 1983), garantendo lo stesso trattamento processuale degli altri reati.

    In conclusione, le “innovazioni” dell’art.2 si prospettano, rispetto all’ambizioso obiettivo proclamato della prevenzione del «femminicidio», come strumento giuridico del tutto indiretto e mediato. 

    7. La tutela anticipata e rafforzata

    Restano da esaminare - a nostro parere-  le misure più significative in cui l’intervento del potere statale attuatosi tramite la legge n. 119/2013 esprime la sua forza. Tuttavia, come vedremo, tali istituti possono comprimere la volontà della donna che ha subito violenza di genere; sopravanzano il suo consenso, il suo parere e, in sintesi, la sua autonomia: o ne prescindono o la travalicano, realizzando una limitazione dell’autodeterminazione delle donne.

    Ci riferiamo all’ammonimento del questore per i casi di «violenza domestica» (art. 3 L. n. 119/2013), alla nuova norma dell’art. 384-bis. Allontanamento d’urgenza della casa familiare attribuita alla competenza della polizia giudiziaria e infine - è la spia più indicativa -  alla irrevocabilità ora sancita per la querela di stalking (nei casi più gravi).

    L’ammonimento del questore si riferisce ai casi di «violenza domestica» (art. 3 L. n. 119/2013) segnalati (in forma non anonima) alle forze dell’ordine, con un duplice requisito. Devono essere fatti specificamente riconducibili ai reati di cui agli artt. 581 nonché 582 2° comma consumato o tentato (percosse e lesioni personali lievissime cioè quelle perseguibili a querela di parte).

    Inoltre il fatto deve essere collocabile “nell’ambito di violenza domestica”; di cui viene fornita la definizione: “Ai fini del presente articolo si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Tale definizione è ripresa da quella della Convenzione di Istanbul , ma è assai più restrittiva (perché comprende soli gli atti gravi ovvero non episodici).

    Inoltre la “misura di prevenzione” è corredata da una serie di disposizioni in parte riprese dallo stalking e in parte ampliate (sospensione patente, informazione all’autore sui servizi disponibili sul territorio, ecc.).

    La norma, per come è strutturata, pare riguardare soprattutto i posti di polizia presso i Pronto Soccorso sanitario/ospedalieri, i cui operatori nei singoli fatti di percosse o lesioni potrebbero intuire la emersione di una relazione connotata da violenza.

    Ci preoccupa il fatto che l’ammonimento possa essere disposto «anche in assenza di querela» - cioè prescindendo da una manifestazione della donna di voler perseguire l’autore della violenza - e «sentite le persone informate dei fatti», e dunque senza l’obbligo di sentire la donna che ha subito le condotte di violenza domestica (salvo interpretazioni oltremodo estensive).

    L’istituto è ripreso dall’ammonimento per stalking che - alla luce dei bilanci ormai possibili dal febbraio 2009 - ha dato buona prova, soprattutto nei casi meno pericolosi, quelli posti in essere da soggetti non irriducibili [21].

    Non dissimile - ancor più accentuatamente - quanto a scarso rispetto dell’autodeterminazione femminile, è la disposizione inserita nell’art. 2 della legge di modifica, la nuova norma dell’art. 384-bis. Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare.

    Qui sono gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria a veder ampliato il ventaglio delle misure in loro facoltà e possono disporre l’allontanamento urgente del violento. Si applica “nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’articolo 282 - bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possa essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa”. Nei casi di reato procedibile d’ufficio gli operatori potranno prescindere da ogni manifestazione di volontà (anche contraria) della donna; solo nei casi di reati procedibili a querela, dovranno chiedere alla donna una dichiarazione (anche solo) orale di querela, dunque necessariamente dovranno sentirla e consultarla [22].

    La misura “precautelare” si allaccia per il suo contenuto alle misure cautelari civili e penali introdotte nel 2001 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), ma allora assegnate alla competenza del giudice (civile e penale).  Ora la opzione ha inciso sui poteri di polizia, dotandoli di uno strumento di tutela anticipata, che mira a operare con immediatezza e nel primo impatto con la emersione di violenza. Infatti nel contrasto della violenza maschile contro le donne è decisivo – sovente - il primo approccio e occorre un intervento pronto ed immediato. A tal fine in altri paesi (vedi Regno Unito e Austria) si è provveduto a dotare le forze dell’ordine di notevoli poteri di intervento in fase iniziale. Evidentemente a queste esperienze si è ispirata la innovazione nostrana.

    Tuttavia l’ esercizio del potere pubblico a prescindere dalla (contro la) volontà della donna suscita notevoli perplessità, che si aggiungono a quelle complessive su queste riforme. Infatti l’insieme delle due modifiche su ammonimento e allontanamento d’urgenza, considerate in connessione con l’ampliamento dell’arresto obbligatorio in flagranza, ha finito per mettere in difficoltà gli stessi operatori di polizia soprattutto quando si trovino a trattare casi di violenze “non episodiche”, che in realtà sono poi casi di maltrattamenti (procedibili di ufficio). Devono quindi scegliere in un ventaglio di misure che si caratterizzano come ben diverse tra loro: l’ammonimento, l’allontanamento dalla casa e l’arresto in flagranza (ora obbligatorio, e non più facoltativo). Sono stati cioè onerati di una competenza a procedere che avrebbe imposto almeno contestualmente di incrementare la formazione degli operatori,  mentre nulla è effettivamente previsto in merito dalla legge, tranne un generico impegno. Né si sono - preventivamente - rafforzati (con tutti i necessari finanziamenti) tutta la gamma dei servizi di sostegno indispensabili, a cominciare dai centri antiviolenza.

    Ma la previsione normativa in cui più accentuata è la prevalenza del potere statale rispetto all’autodeterminazione femminile è sicuramente quella - per molte/i inaccettabile -  che si riferisce all’irrevocabilità della querela per stalking. Nel decreto legge, tra le modifiche apportate all’art. 612 bis del Codice penale (atti persecutori), era previsto che la querela fosse sempre irrevocabile. Ora, con la legge di conversione e dopo un serrato dibattito sul punto, la disposizione è stata mitigata attraverso due correttivi . In forza del primo, la querela per stalking è «comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’art. 612, secondo comma », dunque solo per i fatti più gravi. Grazie al secondo, «la remissione della querela può essere soltanto processuale», cioè resa dinanzi al giudice, evidentemente ritenuto il solo idoneo a verificare la volontarietà della remissione (come non condizionata da minacce, pressioni, ricatti).

    L’irrevocabilità è evidentemente ripresa dalla analoga previsione  - unica nell’ordinamento penale - prevista sin dal 1930 per la violenza sessuale. Ma  - attenzione -  per la violenza sessuale la effettiva regola è quella della procedibilità  d’ufficio (la procedibilità a querela è ormai dal 1996 quasi una eccezione!)  Invece lo stalking è perseguibile  - di regola, tranne pochissime eccezioni – a querela. Quindi la norma è fortemente innovativa, nella misura in cui assume una portata ben più ampia e sostanziale rispetto alla violenza sessuale. Eppure la innovazione della irrevocabilità della querela per i casi più gravi di atti persecutori rischia di essere controproducente, perché introduce un elemento di rigidità in una fattispecie che sinora ha legato la sua fortuna (quanto a numero delle denunce [23]) proprio alla duttilità e leggerezza (censurabili giuridicamente e costituzionalmente per indeterminatezza - ma questo è un altro discorso, Guerini 1013), con cui il legislatore nel 2009 aveva voluto strutturarla e caratterizzarla: previo ammonimento questorile, pena massima di quattro anni, procedibilità a querela per un reato considerato cd. sentinella e di ben diversa gravità dalla violenza sessuale (e dai maltrattamenti).

    Siamo certe che le donne continueranno a querelare  gli atti persecutori anche quando sapranno che il susseguente procedimento penale non sarà più nella loro disponibilità e non saranno più libere di ritirarsi?

    La nostra valutazione è che sarà inevitabilmente frenato questo tipo di emersione (pubblica) di fatti violenti, che - si noti - nella effettività va ben oltre gli atti persecutori, visto che spesso le donne nominano e denunciano come stalking (cioè come violenza di natura psicologica, secondo la configurazione dell’art.612-bis) anche altri fatti,  ben più lesivi, perpetrati con violenza di natura fisica o sessuale. Ne consegue che la funzione della fattispecie va ben oltre gli atti di minaccia e molestia (in cui per legge si sostanziano gli atti persecutori), per portare ad emersione anche altri reati ben più gravi, come maltrattamenti e violenze sessuali. Insomma il dettato normativo della nuova legge potrebbe ostacolare l’emersione della violenza non solo per gli atti persecutori, ma anche per gli altri delitti.

    È ben vero che la revocabilità può aumentare le pressioni o, meglio, la durata delle stesse; ma sarebbero comunque pressioni non dissimili da quelle cui la vittima è esposta prima di presentare la querela (rilievo analogo svolse in tema di violenza sessuale la sen. Ersilia Salvato, che sintetizzava: «la querela irrevocabile è un non senso», Lavori Sen. 14 febbraio 1996, p. 866).

    Comunque è la struttura stessa del reato che determina la esposizione della vittima a ricatti e pressioni e che vede la donna arbitra e responsabile di nominare l'atto come violento o meno («l’offeso è l’unico giudice competente della speciale sua posizione», scriveva Carrara - §1554-1557 - che si pronunciava per «la perseguibilità ad azione privata»): basterà che il violento, e quanti/e con lui solidarizzano, inducano la donna -o la parte offesa- a dichiarare che essa era, in qualche modo, consenziente, che in tal modo verrà meno la tipicità stessa della fattispecie di reato. E per questo motivo non c'è regime di irrevocabilità che valga a sottrarre totalmente la donna a intimidazioni e ricatti.

    Quanto ai turpi accomodamenti (da cui si vorrebbe tener esente la donna che ha subito violenza) sono per fortuna passati i tempi in cui la donna, parte lesa che si costituiva parte civile, era aspramente criticata se chiedeva una monetizzazione del risarcimento danni, e non una simbolica lira. Si replicò che è pur vero che il denaro - posta comunque l’irreparabilità del danno da violenza - può contribuire a offrire le opportunità per una reintegrazione di sé; e inoltre costituisce un’indubbia sanzione per chi viene condannato (con esclusione ovviamente dei casi in cui il condannato non sia solvibile per i quali occorrerebbe prevedere appositi fondi pubblici di solidarietà, o simili).

    E perché definire negativamente come strumentale la strategia femminile in cui l'istanza punitiva (che esterni e riferisca una violenza effettivamente subita) non tende a perseguire la punizione del colpevole da parte dello Stato, ma a conseguire delle utilità concrete e immediate, per esempio a inabilitare o allontanare il soggetto violento o a indurlo a mantenere i propri impegni economici?

    Né vale dire che la irrevocabilità graverebbe su donne che avevano già deciso di querelare: la soggettività dei vissuti è tale che anche al dibattimento una donna potrebbe veder un vantaggio a rinunciare alla sua pretesa punitiva, reputandola non più attuale per sé.
    Si aggiunga che la irrevocabilità della querela per atti persecutori (gravi) non costituisce affatto applicazione della  Convenzione di Istanbul. Al contrario! Quando - all’art. 55 - la Convenzione tratta il tema della procedibilità ex parte e ex officio si riferisce ad alcuni reati espressamente indicati, formulando due specifiche eccezioni: proprio lo stalking e le molestie sessuali.

    8. Linee emergenti di politica criminale

    Anche a voler intendere questo “primo passo” (sia pur tutto di diritto penale) come davvero proiettato verso una futura azione legislativa organica, articolata e finanziata, che spazi effettivamente a tutto campo dalla prevenzione (a livello culturale nelle scuole, nelle professioni, ecc.) fino alla raccolta ufficiale dei dati (sul sommerso e sull’emerso), dobbiamo domandarci a quale filosofia sia ispirata la modifica e quali linee di politica criminale siano state tracciate.

    Qual è il valore e la portata che dobbiamo attribuire al mutamento normativo prodotto dal decreto governativo soprannominato “sul/contro il femminicidio” e fortemente voluto dal Parlamento con la prospettiva di aprire orizzonti nuovi?

    L’obiettivo prospettato è evidentemente quello di incrementare e favorire il ricorso alle istituzioni e, in particolare, al potere giudiziario da parte di chi ha subito violenza. L’intento è agevolare le emersioni (presentare una denuncia o una querela, ma anche rivolgersi ai servizi pubblici o ai centri antiviolenza privati). Al contempo si vogliono limitare le remissioni di querela (ma anche le regressioni e rinunzie all’iniziativa processuale intrapresa, e ancora le negoziazioni e “strumentalizzazioni”).

    Tuttavia le misure (penali) previste, per come sono state strutturate, - benché finalizzate a far emergere il più possibile il sommerso di violenza maschile contro le donne e a porvi fine - possono entrare in frizione con i percorsi di autonomia femminile. In più punti - lo abbiamo visto - incidono sulla volontà della vittima, acuendo il conflitto con il maltrattante, visto che questi viene ammonito, allontanato, denunciato, arrestato.  Sostanzialmente, alla donna che esterna di aver subito violenza si finisce per imporre se e quando recidere la relazione violenta.

    Quale è il senso di caricare lo Stato dell’onere di “proteggere la donna” con una tutela anticipata e rafforzata che potrebbe essere esercitata “anche contro lei stessa”? L’opzione governativa (e poi parlamentare) è che la riluttanza delle donne a denunciare e querelare e  - ancor più - la loro eventuale titubanza a proseguire nel conflitto giudiziario con le loro sopravvenute rinunce e ritrattazioni  non debba essere affrontata e trattata con azioni di sostegno alle donne stesse e col rispetto dei loro “tempi”, bensì forzandole  con una sorta di decisionismo istituzionale: non con loro, ma anche contro di loro.

    Si è attribuita priorità alle logiche istituzionali repressive rispetto alla libertà femminile e ai suoi impervi tracciati. Si è ridotta l’autodeterminazione della donna a tutto vantaggio di una logica di irrigidimento, che non ammette e non tollera tentennamenti. Ha insomma prevalso una linea interventista, agita attraverso gli strumenti della penalità. E questa non può non recare con sé, inevitabilmente, il prevalere di uno spirito di efficientismo ed economia delle attività investigative, processuali e di polizia giudiziaria, che non sopportano - diciamolo… -  perdite di tempo [24]; così gli operatori della legge (tutti, non solo forze dell’ordine, ma anche magistrati e - nota bene! - avvocati) sono salvaguardati dalla legge contro sprechi di energia lavorativa e assecondati nell’evitare investigazioni, indagini, processi e mandati professionali che non diano garanzie di realizzare senza indugi la finalità propria.

    Eppure le donne possono avere una elaborazione della violenza subita, e quindi una maturazione della scelta di promuovere l’iniziativa punitiva, che non può non seguire i tempi ed i percorsi soggettivi della propria individualità. D'altronde deve essere libera, la donna, di valutare le sue relazioni e per esempio decidere di recidere oppure di riprendere una convivenza che aveva deciso di troncare. Inoltre, nel tempo, può maturare un senso di estraneità rispetto alla iniziativa punitiva pur precedentemente assunta e può venir meno nel sentire della parte lesa ogni identificazione nel processo penale a suo tempo promosso e ora in corso.

    A ben vedere, peraltro, le eventuali iniziative pubbliche di ammonire, allontanare, arrestare (così come la procedibilità d’ufficio stessa) presuppongono non un’incertezza bisognosa di solidarietà per risolversi, ma una determinazione in senso negativa che deve essere superata: altre donne e altri uomini determinino di denunciare, in nome di tutte le cittadine e i cittadini, ciò che quella donna non ha voluto denunciare. È chiaro infatti che, in presenza di una qualunque volontà punitiva dell’interessata, la differenza - in concreto - tra le due iniziative (pubblica e individuale privata) viene meno; e dunque la diversità tra i due modelli di intervento incide in concreto sul novero delle violenze che le donne intendono «non» denunciare e non far emergere.

    Chi subisce può proporsi, appunto ( o anche) tramite l’istanza di punizione, di troncare un vissuto di violenza. Quando invece decide di continuare la relazione che aveva determinato di recidere, si frappone l'ostacolo di un processo divenuto insostenibile.

    In tali casi la calunnia e la falsa testimonianza vengono a costituire l'altro polo dell’irrevocabilità della querela. Ed è sicuramente molto più dignitosa una figura di donna che proceduralmente dichiara di voler rinunziare a una iniziativa punitiva precedentemente assunta che non una donna che si presenti in tribunale a rischiare la calunnia edulcorando, smussando, sminuendo la violenza subita.

    Quindi l’obiettivo di far emergere il più possibile il sommerso di violenza (favorendo le denunce/querele e limitando le rinunzie) non può essere spinto fino a soffocare i percorsi di autonomia femminile. Soprattutto nell’antitesi tra autodeterminazione e ingerenza statale non possiamo correre il rischio di veder strumentalizzata quella donna in quel processo per una pretesa crescita della forza delle altre donne.

    Del resto è indubbio che affidare ad altri il peso di assumere o coltivare le iniziative processuali contrasta palesemente con la valorizzazione del bene universale “persona” che, per definizione, è postulata libera e capace di decidere per sé di iniziare o proseguire o interrompere una azione processuale per le violenze da lei subite.

    Quindi le iniziative legislative di riforma in materia dovrebbero essere improntate a grande cautela. E tramite la legge penale non ci si possono certo proporre ambiziosi traguardi di libertà femminile (“contro il femminicidio”).

    Bibliografia

    Guerini Tommaso
    2013    Il delitto di atti persecutori, tra carenza di determinatezza e marketing penale, in Stalking nelle relazioni di intimità, a cura di M. Virgilio, Ius17@unibo.it, n. 2/2012, BUP, Bologna.
    Pistorelli Luca
    2013
    Prime note sulla legge di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 93 del 2013, in materia tra l’altro di «violenza di genere» e di reati che coinvolgano minori.
    Relazione a cura dell'Ufficio del Massimario della Corte Suprema di cassazione, in www.penalecontemporaneo.it.
    Pitch Tamar
    1984 La nuova legge sulla violenza sessuale. Alcune considerazioni, in Dei delitti e delle pene, n. 2, p. 317.
    Virgilio Maria
    1983    Riforme penali, processi e violenza sessuale, in Pol. dir., p. 481.
    1996a Il cammino verso la riforma, in Commentario delle “Norme contro la violenza sessuale” a cura di Cadoppi A., Cedam, Padova, p. 481.
    1996b Corpo di donna e legge penale. Ancora sulla legge contro la violenza sessuale?, in Dem. Dir., n. 1, p. 157.
    2013a Daphne III LEXOP Report Research 2013, LEXOP, Lex-operators All Together for women victims of intimate partner violence, (a cura di), Bononia University Press, febbraio 2013.
    2013b Stalking nelle relazioni di intimità (a cura di), Ius17@unibo.it, n. 2/2012, BUP, Bologna.

    Note

    [1] Per un esame della legge dal particolare profilo dell’autodeterminazione femminile rinviamo al nostro contributo di prossima pubblicazione “Legislazioni a contrasto della violenza maschile contro le donne e autodeterminazione femminile” in “Diritto e genere. Analisi interdisciplinare e comparata”, a cura di S. Scarponi, Cedam, Padova 2014, ora nel sito mariavirgilio.wordpress.com.

    [2] Il contrasto con il principio della omogeneità, sancito dalla L. n. 400/1988 e costituzionalizzato dalla Corte Costituzionale, ha suscitato vibrate proteste parlamentari (Sen. Finocchiaro e Sen. Giannini)

    [3] Solo l’arresto obbligatorio in flagranza per maltrattamenti e atti persecutori (art. 2, c. 1, c) sarebbe entrato in vigore dalla data di conversione (art. 2, c. 4).

    [4] I lavori parlamentari di commissione (comprese le audizioni) e di assemblea sono consultabili al sito del Parlamento.

    [5] Nessuno alla Camera  ha proposto la non conversione totale e solo un emendamento ha proposto la soppressione dell’intero capo contro la violenza di genere (è quello n. 1.66 presentato dai deputati del Movimento 5 Stelle); mentre al Senato il Movimento 5 Stelle ha posto una pregiudiziale di incostituzionalità, bocciata alla votazione.

    [6] Anche chi alla votazione finale si è astenuto ha poi rivendicato di aver partecipato fattivamente al lavoro di miglioramento.

    [7] Sen. Schifani, Capogruppo PdL: “Non si verifichi più”.

    [8] Salvo poi dichiarare che il testo definitivo era censurabile e da ulteriormente migliorare: «Malgrado ci siano degli errori»; «provvederemo ad inserire delle modifiche nel testo che stiamo esaminando sulla stessa materia in Commissione». Così il Presidente della Commissione Giustizia al Senato (www.repubblica.it, 11 ottobre 2013)

    [9] La traduzione italiana è inesatta e fuorviante in più punti a cominciare dal titolo che correttamente dovrebbe essere «per prevenire e contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica».

    [10] Il recepimento da parte degli Stati membri dell’Unione Europea è previsto entro il 16 novembre 2015.

    [11] Non trattiamo l’argomento politico - perché squisitamente tale - che il decreto “doveva” essere convertito perché il Governo Letta in carica non poteva patire smentite.

    [12] I successivi rilievi riprendono il testo depositato alla audizione 11 settembre 2013 dinanzi alla Camera - Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia resa dalla sottoscritta quale presidente dell’associazione GIUdIT - Giuriste d’Italia.

    [13] Il titolo del decreto dice solo “sicurezza” , ma poi preambolo e articolato chiariscono che è alla sicurezza pubblica e di polizia che il Governo si riferisce; del resto basta leggere i titoli delle ultime leggi in materia: Legge 23 aprile 2009, n. 38, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori; Legge 15 luglio 2009, n. 94, Disposizioni in materia di sicurezza pubblica; Legge 17 dicembre 2010, n. 217, conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 12 novembre 2010 n. 187 recante Misure urgenti in materia di sicurezza; Decreto legge 16 agosto 2013 n. 93 recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province.

    [14] Formula criticabile, dato che la violenza sessuale è certamente già compresa nella violenza “di genere”.

    [15] La L. 9 agosto 2013 n. 94 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1 luglio 2013 n. 78, recante disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena», ha aumentato le pene per il reato di stalking, così consentendo l’applicazione anche a tale reato della custodia cautelare in carcere (pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni)

    [16] Legge Lanzarote 1 ottobre 2012, n. 172. Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonchè norme di adeguamento dell'ordinamento interno.

    [17] La dizione ampia comprenderebbe, per esempio, anche rapina e resistenza a pubblico ufficiale., ma una prima pronuncia ha ristretto la portata alle sole fattispecie in cui la violenza verta su un pregresso rapporto relazionale.

    [18] È quanto emerge dal confronto tra operatori svoltosi nell’ambito del progetto Europeo Daphne Lexop “Lex-operators all together for women victims of intimate partner violence” (Virgilio, 2013a).

    [19] Peraltro gli oneri informativi e comunicativi sono stati posti a carico degli uffici giudiziari.

    [20] Sulla rilevanza della violenza ai fini del diritto penale rinviamo al nostro schema nella Appendice 5 del volume «Stalking nelle relazioni di intimità», 2013, p. 166.

    [21] Vedi oltre sulla irrevocabilità della querelaVirgilio, 2013b

    [22] All’art. 2 è prevista l’estensione della possibilità di giudizio direttissimo alla persona allontanata d’urgenza dalla casa familiare ex art. 384 bis c.p.p. (art. 449 c.p.p.).

    [23] Sono invece meno positivi gli esiti processuali, se è vero che i magistrati procuratori intervistati (Virgilio, 2013b) quantificano nel 20-30% i casi di remissione della querela e abbandono dell’iniziativa punitiva e tra il 30-60% le archiviazioni per carenza degli elementi del fatto tipico. Pochi sarebbero dunque i casi che arrivano a sentenza.

    [24] È esattamente l’espressione usata nella sentenza COE 9/6/2009 Opuz c. Turchia, ove esplicitamente al punto 29 il Capo del Servizio giuridico e dell’ordine pubblico turco lamenta che le denuncianti facessero «perdere il loro tempo» alle forze dell’ordine.

     



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