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  • Violenza maschile e femminicidio
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014

    FEMMINICIDIO, OVVERO UN OMICIDIO SENZA ALCUNA PASSIONE AMOROSA


    Elisabetta Rosi

    elisabettarosi@gmail.com
    Consigliere della Corte di Cassazione. Vicepresidente del Gruppo italiano dell’Associazione internazionale di diritto penale. Ha svolto in passato funzioni di pubblico ministero in diverse città italiane ed ha ricoperto il ruolo di esperto giuridico presso l’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia ed il Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. E’ stata anche assistente di studio presso la Corte costituzionale. È stata membro della delegazione italiana nei lavori del Comitato ad hoc per l’elaborazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale e dei Protocolli sul traffico di migranti e la tratta di esseri umani e membro del Primo Gruppo di Esperti sulla tratta degli esseri umani istituito presso la Commissione Europea (2003-2007). Ha partecipato e svolto relazioni in seminari e conferenze, anche internazionali, sui temi della criminalità. È autrice di ricerche e pubblicazioni scientifiche su vari temi di diritto penale e del processo penale, in particolare sui fenomeni collegati alla criminalità transnazionale, alla corruzione, al terrorismo, alla tutela delle vittime dei reati e sulle tematiche dell’immigrazione.



    Stop Femminicidio (Simona Sarti) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    «Donna, ti amo da (farti) morire, sei l’oggetto del mio amore e di conseguenza: «Tu non vivrai senza di me»

    1. La Convenzione di Istanbul: un cambio di prospettiva sul ruolo della repressione penale nel contrasto ai fenomeni di violenza sulle donne

    Sembra ormai un luogo comune sottolineare l’importanza della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica ed il rilievo internazionale che la tematica ha assunto sia quanto alle strategie proposte (prevenzione, protezione, punizione), che quanto agli obiettivi (eliminare ogni forma di violenza e sopraffazione  nelle relazioni di genere).

    La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica, aperta alla firma a Istanbul l’11 maggio 2011 (e che entrerà in vigore dopo dieci ratifiche), ratificata dall’Italia, rappresenta un indubbio passo avanti verso l’obiettivo di eliminare ogni forma di violenza e sopraffazione  nelle relazioni di genere.

    La scelta di indubbio rilievo dello strumento giuridico internazionale è stata quella di porre in priorità la tutela della vittima, rispetto all’esigenza di punizione del responsabile, tale tutela è considerata una vera e propria strategia per eliminare ogni forma di violenza nei confronti delle donne [1].

    La violenza su ogni singola donna, dopo la Convenzione di Istanbul, deve essere considerata in tutto il mondo come violenza contro le donne, perché in tanto si è potuta realizzare, in quanto non è stata sradicata la discriminazione sessuale nei confronti della donna stessa e l’atto di violenza costituisce proprio una riaffermazione di tale ingiusta sopraffazione dell’uomo nei confronti del genere femminile.

    Quale ruolo deve essere affidato alla sanzione penale per i reati di violenza contro le donne? Credo che debba essere ribadito anche in questo specifico e delicato ambito che il diritto penale deve svolgere un ruolo necessariamente sussidiario, quanto alla regolamentazione giuridica del vivere sociale [2]. Oggi in Italia è difficile sostenere e comprendere tale affermazione in presenza di una legislazione che ci ha abituati ad un diritto penale di “lotta”, contro nemici interni od esterni, più o meno reali o percepiti dalla collettività come tali: il terrorismo, le droghe, lo straniero; l’atteggiamento negli interventi legislativi che si sono susseguiti anche in tema di violenza contro le donne è proprio quello che richiama l’utilizzazione dello strumento penale per lottare contro “l’uomo-nemico”.

    Evidente è l’equivoco: il nemico da combattere non è l’uomo, il nemico è la discriminazione sessuale [3] nei confronti della donna.

    Per fronteggiare i fenomeni criminali contro le donne e, soprattutto per prevenirli, occorre porre le basi per interventi che mirino ad eliminare tale discriminazione sessuali, con azioni strutturali nelle politiche sociali, educative, di rappresentanza, piuttosto che mostrando i muscoli di severissime sanzioni penali per i reati di violenza e per il femminicidio [4] e facendo tintinnare le manette.

    Peraltro, se tale discriminazione sessuale della donna esiste, non può essere sottaciuto che anche il diritto penale dei secoli scorsi, e naturalmente non solo il diritto penale italiano, ha le sue pesanti colpe.

    La legislazione penale del passato non ha fatto altro che confermare le diseguaglianze tra i sessi già presenti nella società. Per questo oggi anche la politica criminale deve fare la sua parte e la scienza penalistica non può defilarsi in nome della sussidiarietà.

    In particolare, in Italia, la responsabilità della scienza penalistica emerge con evidenza, a titolo di esempio, dall’esame della evoluzione normativa del delitto di omicidio per causa d’onore (abrogato con la legge 5 agosto 1981, n. 442), la cui eliminazione dal codice penale è stata conseguenza, e non causa, di un’evoluzione sociale che impose nei fatti la scomparsa della tutela penale dell’onore sessuale, che non tutelava la vita, “ma i valori feudali di una sessualità maschilista, sacrificando a tali interessi il bene della vita umana (e soprattutto di quella della donna)” [5].

    Nella storia della legislazione penale italiana relativa ai reati riconducibili ad atti di violenza e prevaricazione nei confronti delle donne va osservato, significativamente, che le modifiche sono sempre intervenute dopo i mutamenti sociali, in particolare quelli conseguenti al movimento femminista degli anni 1970 e seguenti. Si pensi ad esempio alla legge 15 febbraio 1996, n. 66, che ha ridisegnato il reato di violenza sessuale, prima incluso tra i delitti contro la morale pubblica ed il buon costume, all’interno dei delitti contro la libertà personale, intervenuto ben dopo significative conquiste del movimento femminista quali la legge sul divorzio (legge n. 898 del 1970, passata indenne al referendum nel 1974), la riforma del diritto di famiglia che sancì la parità tra i coniugi (1975) e la regolamentazione dell’interruzione volontaria della gravidanza (consentita con la legge n. 194 del 1978, anch’essa confermata a seguito di referendum nel 1981).

    Da ultimo, le ultime rilevanti modifiche sono intervenute per effetto degli adattamenti della normativa nazionale agli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali o ai contenuti degli  strumenti giuridici dell’Unione europea [6]. Peraltro il legislatore nazionale di questi ultimi due anni tende ad utilizzare la minaccia della sanzione penale con valore simbolico, quale via per assicurare la prevenzione generale, ossia per prevenire la commissione dei reati. O peggio, usa il valore simbolico della legge penale per rassicurare la collettività a fronte di non meglio precisati “allarmi sociali” che conseguirebbero dalla presa di consapevolezza della quotidianità e diffusività a tutti i livelli sociali, della violenza contro le donne [7].

    Ma come dimenticare che nei fatti di violenza contro le donne e, soprattutto nel femminicidio, la realtà ha dimostrato come la minaccia di una severa sanzione è del tutto irrilevante? Spesso ad un femminicidio segue il suicidio dell’esecutore materiale del delitto o la sua spontanea consegna alle forze dell’ordine e addirittura la confessione di quanto commesso.

    La prospettiva della sanzione penale è infatti l’ultimo dei problemi per l’autore delle condotte di aggressione contro le donne, anche perché la sanzione penale minacciata spesso non è effettiva, e soprattutto il processo penale che deve comminarla non viene celebrato in tempi ragionevoli.

    Il quotidiano stillicidio di omicidi di donne ha portato da qualche anno alla luce il fenomeno in tutta la sua gravità, dando sociale consapevolezza dell’inadeguatezza della risposta dello Stato nei confronti di una situazione che non può certamente essere affrontata unicamente mediante l’intervento penale.  Alcune ricerche sui casi di femminicidio in Italia nel 2004, dimostrano che nel 70% dei casi si erano verificati in precedenza altri comportamenti aggressivi, seppure non denunciati.

    Purtroppo la raccolta della casistica dei reati commessi in danno delle donne nelle statistiche ufficiali (ISTAT) soffre di un gender blind nell’analisi dei dati. Ad esempio, in Italia, nel 1992 gli omicidi di donne rappresentavano il 15,3% degli omicidi totali, e nel 2006 erano saliti al 26,6% [8] . Nel 2002, di 223 vittime di "omicidio domestico" (cioè in famiglia o tra vicini di casa, o tra colleghi di lavoro), che sono circa un terzo del totale di omicidio volontario, il 30,9% è stato collegato con il coniuge o ex- coniuge o ex-partner (6,7%) [9]. Nel 2006-2009, le vittime di femminicidio in Italia risultano 439, nel solo 2006 sono state 181 (29,4%) [10].

    Occorre allora riflettere ed anche iniziare a considerare quale debba essere la considerazione giusta da assegnare alla donna che subisce le aggressioni, fino a pagarne il prezzo con la vita: non più vittima, collocata in posizione defilata nel backstage del processo penale, ma persona offesa da riportare nel proscenio non solo del processo penale, ma degli interventi di prevenzione di ulteriori atti di sopraffazione e violenza, interventi che sono tanto più efficaci quanto più destinati in via diretta e prioritaria a tutelare la donna.

    È ancora il diritto, in specie quello processuale, il responsabile della sottovalutazione nel processo penale del ruolo di quella che, in gergo tecnico, è indicata come la persona offesa dal reato, come del resto chiaramente indicato nella stessa Relazione illustrativa al Codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre 1989 [11]. E ciò vale, invero, per la persona offesa di un qualunque reato.

    Allora è necessario, e improcrastinabile, cambiare prospettiva e considerare lo strumento repressivo penale non come il principale strumento di contrasto al fenomeno della violenza contro le donne, ma come la indispensabile modalità repressiva delle condotte delittuose che si siano verificate nonostante le buone politiche sociali attivate, alle quali va invece affidato il ruolo di protagonista nel contrasto alla violenza di genere.

    Per costruire efficaci politiche sociali al fine di eliminare la violenza di genere è giunto il tempo di abbandonare l’analisi “sulla vittima”, per iniziare invece lo studio del fenomeno della violenza contro le donne “con la vittima”, ossia insieme alle associazioni non governative che  se ne occupano da tempo e che conoscono dall’interno le dinamiche connesse al fenomeno.

    La più grave colpa della sottovalutazione della vittima, e quindi del perpetuarsi della discriminazione sessuale della donna nei confronti dell’uomo aggressore, deve essere attribuita proprio alla perdurante carenza di strumenti ed interventi di tipo diverso dalla mera repressione penale, mezzi invece indispensabili, che sono stati correttamente individuati tra i contenuti della Convenzione di Istanbul, strumenti della cui implementazione è responsabile lo Stato, come la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha indicato con la sua giurisprudenza [12].

    2. Il femminicidio non è un omicidio passionale

    I femminicidi vengono sovente catalogati, in maniera semplicistica, soprattutto dagli organi di stampa, quali omicidi passionali. Di contro essi rappresentano spesso solo una sorta di inevitabile traguardo, purtroppo preannunciato, conseguente alla escalation di precedenti reati commessi in danno della donna, consistenti in atti di maltrattamento, violenza o stalking, posti in essere dal marito, dal partner o da un uomo, comunque legato in passato da una relazione interpersonale, più o meno duratura, con la vittima. L’evento di femminicidio rappresenta pertanto il fallimento concreto di quell’obiettivo condiviso dagli Stati parte della Convenzione di Istanbul, volto a sradicare la violenza contro le donne, tutelandone la dignità e la vita.

    Ma è in verità giunto il momento di bandire ogni riferimento al movente passionale in tutti i reati di violenza nei confronti delle donne.

    Innanzitutto va ricordato che per il diritto penale lo stato emotivo e passionale non ha alcuna rilevanza sotto il profilo di un giudizio di minore od attenuata responsabilità, né ai fini dell’imputabilità (come espressamente previsto dall’art. 90 del codice penale), né sotto altri profili, come la giurisprudenza di legittimità ha ormai da tempo chiarito [13] .

    Infatti se è invero normale collegare la passione ad una felice relazione amorosa, è, di contro, del tutto improprio accomunare tale significato positivo del termine ”passione” al concetto di movente solo perché l’omicidio è scaturito nell’ambito di una relazione sentimentale (connotata o meno dal requisito dell’attualità) tra vittima ed autore del reato, quasi che la sussistenza di un rapporto amoroso presente o passato tra  le persone debba condurre, inevitabilmente, a considerare che l’atto di violenza mortale sia stato mosso dalla passione e non già da forme anomale di comportamenti violenti, aggressivi e prevaricatori, che da tale sentimento hanno tratto solo lontana origine, anzi l’occasione, ed il cui motore va invece ricercato nella gelosia, nella rabbia, nell’odio, nella vendetta.

    In una relazione interpersonale quale quella sottesa alla fenomenologia criminale che culmina nel femminicidio, la donna si trova ad essere discriminata in quanto donna; non è un soggetto in posizione di parità con l’uomo, interlocutrice di pari grado con quello nel rapporto di coppia. La donna viene considerata dall’uomo, autore della violenza e dell’atto omicidiario quale presunto oggetto del proprio sentimento di amore.

    L’uomo con il femminicidio rivendica il ruolo di protagonista monopolistico della intrapresa relazione sentimentale, che pretende di imporre alla donna. In una relazione interpersonale, lontana da ogni corrispondenza di amorosi sensi, e “malata” per effetto della discriminazione sessuale, la donna è stata trasformata dall’uomo solo in un oggetto da amare, da volere tutto per sé, da possedere, in nome di un sentimento assoluto di possesso. L’uomo muove le labbra per dire «Ti amo da morire» ed estrinseca la propria volontà di sopraffazione nell’estremo gesto di soppressione fisica dell’oggetto “in tal modo amato”: «Tu non puoi vivere senza di me (che ti amo così tanto) e quindi non puoi andartene; o mia o di nessuno; tu non vivi senza di me e, quindi, muori».

    La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha analizzato in alcune decisioni le dinamiche della relazione interpersonale di tipo sentimentale in riferimento ai reati sessuali [14], per accertare i quali è essenziale verificare la mancanza di una libera determinazione della donna al rapporto sessuale con l’uomo.

    In tale contesto è stato sottolineato che di norma la relazione sessuale intercorre tra due persone poste allo stesso livello di dignità e capacità di autodeterminarsi, in particolare per ciò che concerne la esplicazione della propria libertà sessuale, mentre nel caso il rapporto sia asimmetrico, l’uomo finisce per abusare di una posizione di sovra-ordinazione, fino ad usare violenza e minaccia nei confronti della partner, la quale, per effetto di tale comportamento, da soggetto di una relazione sessuale, viene ridotta al rango di “oggetto” di un atto sessuale [15]. Tale patologia della relazione sentimentale può essere certamente frutto esclusivo delle caratteristiche di personalità dei due partners, ma si sviluppa anche in conseguenza dell’esistenza di un contesto sociale di discriminazione sessuale [16], contesto nel quale è normale percepire, e quindi  - in assenza di necessarie politiche sociali - perpetuare la “non-parità” tra i generi.

    Allo stato, purtroppo, va constatata non solo la scarsità di politiche sociali relative alla parità di genere ed alla eliminazione di ogni discriminazione sessuale, ma ancor più la mancanza di quelle azioni positive pubbliche per promuovere la pari opportunità tra uomini e donne, a tutti i livelli, azioni positive menzionate nel testo dell’art. 51 Cost. come modificato dalla legge costituzionale n. 1 del 2003 [17].

    Questa situazione è di certo frutto della incapacità da parte dello Stato di comprendere che la protezione della donna è innanzitutto una strategia di prevenzione di ulteriori, e sempre più gravi, reati e che la prima lotta contra la violenza usa l’arma della promozione della parità e del progresso della cultura di essa, anche attraverso l’incremento della partecipazione delle donne nelle istituzioni.

    La sottovalutazione di tale prospettiva è visibile anche dalla osservazione dei recenti interventi legislativi, reclamizzati come essenziali azioni dello Stato, con i quali si è fatto ancora ricorso alla minaccia di severe sanzioni penali, ma che risultano non solo poveri di risorse per fronteggiare le necessità di protezione delle donne vittime di violenza, ma anche privi di strumenti per attuare le necessarie politiche sociali di uguaglianza tra i sessi, politiche disegnate con estrema chiarezza nella Convenzione di Istanbul.

    Questo Paese ed il mondo non hanno bisogno di legislazioni simboliche, ma di azioni effettive e concrete nella società,  nella scuola, nelle famiglie volte a sradicare ogni discriminazione sessuale, riallineando al primo piano la posizione della donna nella società, a partire dal ruolo di essa nelle istituzioni.

    Sostengo da tempo l’idea che laddove nelle istituzioni vi sia un maggiore empowerment delle donne, possono essere messe in campo iniziative pubbliche migliori, e non solo in tema di eliminazione della violenza contro le donne.

    Confido che un ruolo attivo delle donne della politica possa davvero contribuire a migliorare la condizione della donna in Italia e ovunque nel mondo e continuerò a lottare per questo obiettivo come giurista, come cittadina e come donna.

    Note

    [1] La strategia proposta dallo strumento giuridico internazionale vede nella prevenzione e soprattutto nella protezione delle vittime, la chiave di volta del contrasto al fenomeno della violenza contro le donne, in coerenza con l'approccio "olistico" che il Consiglio d'Europa ha scelto per contrastare un fenomeno che è ormai considerato strutturale e che è, a ragione, ritenuto lesivo dei diritti umani.
    La Prima parte della Convenzione, si concentra sugli strumenti di base indispensabili per l’efficacia dell’azione di ciascuno degli Stati aderenti alla Convenzione, per rendere operativa tale strategia, che possono essere così sintetizzati: stanziamento di risorse, riconoscimento del ruolo delle Organizzazioni non governative, istituzione di un organismo nazionale di coordinamento delle politiche e delle misure per contrastare la violenza nei confronti delle donne, obbligo di raccolta dei dati. Si tratta di porre in essere politiche di sensibilizzazione, di rendere concreto il programma educativo dei bambini e dei giovani basata sul rispetto delle differenze tra i sessi, di formare le varie figure professionali coinvolte, di sviluppare programmi per “trattare” autori di comportamenti violenti, di curare che il settore dei mass-media e delle tecnologie dell’informazione siano rispettosi di contenuti “gender-oriented”.
    La Seconda parte della Convenzione riguarda il tema della protezione e sostegno alle vittime (artt.18-28) e sviluppa gli ambiti dell’informazione alla vittima e del supporto alla stessa, ivi incluse le case-rifugio, con particolare riferimento alle vittime di violenza sessuale (inclusi i bambini). La nuova strategia proposta dalla Convenzione ritiene che la protezione della donna vittima di violenza sia l’obiettivo da privilegiare, non solo perché i reati di violenza contro le donne incidono sulla dignità della persona umana, sulla sua libertà e sulla sua personale incolumità, ma anche perché tale protezione rappresenta uno strumento di straordinaria potenza per prevenire in concreto che vengano commessi in danno della stessa vittima reati gravissimi (i femmminicidi). Non v’è infatti alcun dubbio che un’efficace azione di protezione delle vittime di quelle offese che vengano a manifestarsi nella fase iniziale di “criticità” di un rapporto interpersonale uomo-donna (stalking, maltrattamenti, lesioni personali, violenze sessuali …) potrebbe contribuire  ad inibire il protrarsi dei comportamenti di molestie, sopraffazione, che caratterizzano le violenze contro le donne, comportamenti che si manifestano in un crescendo che spesso sfocia nella tragedia dell’omicidio della donna (ed anche, sovente, può coinvolgere direttamente gli stessi figli). Un’efficace azione di protezione dovrebbe vedere al primo posto l’intervento dei servizi sociali e di sostegno alle vittime. Inoltre un’efficace azione di protezione delle vittime potrebbe facilitare l’emersione di molte situazioni che restano tutt’oggi “invisibili”, o che sono presentati dalle stesse donne quale il risultato di incidenti domestici od occasionali, per occultare la situazione di violenza subìta (e a tale proposito non può essere dimenticato l’importante ruolo nell’individuazione delle donne vittime di abusi svolto dai presidi sanitari).
     La Terza parte della Convenzione riguarda l’obbligo di prosecution per lo Stato firmatario, attraverso l’introduzione dei reati previsti dalla Convenzione stessa, in riferimento a quelle condotte che ledono la dignità, la salute fisica e psicologica, e mettono in pericolo la stessa vita della donna. Sono inclusi la violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica, la violenza sessuale, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali. Forte e senza possibili fraintendimenti è la prescrizione per gli Stati di bandire ogni possibile valutazione delle c.d. “cause d’onore”, quale scusante delle condotte delittuose. Inoltre si impone agli Stati di agevolare il percorso risarcitorio delle vittime e di tenere conto delle dinamiche di violenza intra-familiare nelle questioni relative alla determinazione dei diritti di custodia e visita dei figli minori.  

    [2] È stato sottolineato che “la società non progredisce per effetto del diritto penale o delle trasformazioni del diritto penale applicato (l’esecuzione delle pene), ma se mai accanto ad esso e talora nonostante esso, perché il diritto penale è solo la punta dell’iceberg di una realtà sociale e normativa molto più vasta, che esso esprime e tutela, senza potere sostituire o neutralizzare i meccanismi cinetici della realtà sociale che si sviluppano in modo ampiamente autonomo, ma sapendo piuttosto solo accompagnarli, nelle loro forze dinamiche indipendenti” (Vedi M. Donini, Omicidio e causa d’onore dal Codice Zanardelli al Codice Rocco,  relazione presentata all’International Symposium “Issue of Custom and Honor Killing: Viewpoint of Sociology and Law”, Diyarbakir (Turkey),  26-27 September 2003, (Hakeri, Yildrim, Erpolat, Zeytin), pp. 245-273).

    [3] L’Italia ha ratificato nel 1985 la Convenzione CEDAW (Convention on the Elimination of Discriminations Against Women)

    [4] La scienza giuridica, ancora oggi, è contraria ad utilizzare il termine “femminicidio”, che peraltro è oramai comunemente usato sia nel dibattito politico, sia in ambito internazionale; secondo il significato ormai accreditato, tale neologismo concettualizza la tragedia finale di una serie di comportamenti precedenti consistenti in ogni forma di discriminazione e di violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica, strutturale, culturale, compresa la violenza perpetrata o tollerata dallo Stato o dai suoi funzionari) compiute in danno di una donna solo a ragione del suo essere donna. In Italia il termine viene impiegato in riferimento agli omicidi di donne perpetrati con estrema violenza, in connessione ad un relazione interpersonale che lega, o ha comunque posto in correlazione, una donna con l’autore del crimine.

    [5] Cfr. il già citato M. Donini, Omicidio e causa d’onore dal Codice Zanardelli al Codice Rocco.

    [6] Ci si riferisce alla legge 1 ottobre 2012 n. 172 di ratifica della Convenzione di Lanarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento sessuale, che ha modificato, tra gli altri, il reato di maltrattamenti in famiglia; alla legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 27 giugno 2013, n. 77.

    [7] Si pensi al decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (convertito in legge n. 119 del 15 ottobre 2013), recante misure urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere.

    [8] Dati del Ministero dell’Interno.

    [9] Dati raccolti da Eures, Economic and social Researches, www.eures.it/omicidi_dom_2000.pdf

    [10] Dati raccolti dalla stampa e dai mass-media, in “Il costo di essere donna. Indagine sul femmicidio in Italia”. a cura di: Adolfi Laura, Breveglieri Agnese, Giusti Sara, Karadole Cristina, Ottaviani Elisa, Venneri Virginia, Verucci Cinzia, Anna Pramstrahler, in www.casadonne.it

    [11] Il nostro sistema processuale non ha considerato importante il ruolo della persona offesa dal reato nel processo penale, se non in quanto testimone e quindi “prova d’accusa”. Peraltro devono essere recepiti nell’ordinamento italiano alcuni strumenti giuridici dell’Unione europea che sono indispensabili per un’efficace azione di contrasto contro il fenomeno della violenza alle donne. Ci si riferisce innanzitutto all’attuazione della Direttiva dell’Unione europea n. 29 del 25 ottobre 2012, sulla posizione della vittima nel procedimento penale, che istituisce norme minime comuni in materia di diritti di informazione ed assistenza linguistica, diritti di protezione delle vittime dei reati e di partecipazione al procedimento penale e che contiene particolari disposizioni per le vittime della violenza nella c.d. close relationship. Tale intervento è necessario in quanto il sistema processuale penale italiano deve fare i conti con il problema, ormai sistemico, dei tempi di durata dei processi penali  “non ragionevoli” non solo avuto riguardo agli imputati, ma anche in riferimento alle vittime. Deve anche tenersi conto della Direttiva n. 99 del 13 dicembre 2011, sull’ordine di protezione europeo adottato a favore di vittime o potenziali vittime di reati, della Direttiva n. 36 del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI) e della Direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile (che sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI) in scadenza a dicembre 2013; del resto anche l’importante Direttiva n. 80 del 29 aprile 2004, sull’indennizzo delle vittime da reato intenzionale violento - introdotta con ritardo nel nostro ordinamento, solo a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia – è stata recepita parzialmente dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 204.

    [12] Si veda la recente sentenza della Corte EDU del 26 marzo 2013 (Valiuliene c. Lituania), che ha ravvisato nella violenza domestica un caso di responsabilità per violazione dell’art. 3 CEDU (obbligo di proteggere le persone sottoposte alla giurisdizione dai maltrattamenti altrui).

    [13] Così sez. 1, n. 37020 del 26/10/2006, dep. 9/11/2006, Ecelestino, Rv. 235250 (“La gelosia quale stato passionale, in soggetti normali, si manifesta come idea generica portatrice di inquietudine, non diminuisce e tanto meno esclude la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che essa derivi da un vero e proprio squilibrio psichico il quale deve presupporre uno stato delirante tale da incidere sui processi di determinazione e di auto-inibizione.”) Si veda anche SSUU, n. 9163 del 25/1/2005, dep. 8/3/2005, Raso, Rv. 230317 (“Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità")

    [14] La giurisprudenza della Corte di cassazione ha fornito un essenziale contributo all’elaborazione del diritto applicato, ossia del diritto vivente, in relazione ai reati che vedono le donne vittime di violenza di genere; la giurisprudenza di legittimità è infatti ormai particolarmente sensibile alla tutela della vittima di tali reati e non ha mancato di evidenziare gli elementi di criticità della legislazione vigente e dell’applicazione di essa, dovendo sempre tenere conto del rispetto dei principi del giusto processo. Ci si riferisce all’ampia elaborazione in materia di giudizio di attendibilità della testimonianza della persona offesa vittima di reati sessuali, in riferimento alla quale la giurisprudenza della Corte ritiene ormai concordemente che non sia necessario applicare quelle regole probatorie che richiedono la presenza di riscontri esterni   e che, di contro, il giudice possa trarre il proprio convincimento circa la colpevolezza dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che siano state sottoposte a vaglio positivo circa la loro attendibilità.  L’attendibilità deve essere valutata in senso globale, tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo. 

    [15] In tal senso si veda Cass. Sez. 3, n. 44978 del 22/10/2010, dep. 22/12/2010, C., in Dir.pen e processo 2011, p.736 e ss. con nota di F. Macrì,  Le relazioni sessuali con minorati psichici tra liceità ed abuso.

    [16] La Corte di cassazione ha stigmatizzato ogni comportamento che possa manifestare un erroneo concetto di sovraordinazione maschile. In particolare  è stata negata rilevanza ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, alla eventuale convinzione di superiorità della figura maschile all’interno della famiglia che possa avere animato il marito ad agire con “atteggiamenti padronali" nei confronti della moglie, neppure quando tali atteggiamenti siano conseguenti allo specifico credo religioso professato dall’imputato (Vedi Cass. Sez. 6, n. 26153 del 26/4/2011, dep. 5/7/2011, C., Rv. 250430, in Cass pen. 2012, pag.2960, F. Piqué, La subcultura del marito non elide l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti né esclude l’imputabilità del reo e Cass. Sez. 6, n. 32824 del 26/3/2009, dep. 12/8/2009, D., Rv. 245185. Si veda anche Cass. Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008, dep. 16/12/2008, F.A., Rv. 242229, in Giur. It. 2012, p. 416, F. Pavesi, Sull’esimente culturale dei reati contro la persona).

    [17] Articolo il cui primo comma così recita: «Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.»

     



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