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  • Violenza maschile e femminicidio
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di)

    M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014

    DILIGENZA DOVUTA E RESPONSABILITÀ DEGLI STATI DI ELIMINARE LA VIOLENZA SULLE DONNE: ELEMENTI DI RIFLESSIONE SU ALCUNI CASI PAESE (NEPAL, INDIA, AFGHANISTAN, ITALIA)


    Simona Lanzoni

    s.lanzoni@pangeaonlus.org
    Simona Lanzoni, laureata in Scienze Politiche indirizzo internazionale, è vicepresidente e direttrice dei progetti per la Fondazione Pangea onlus. Esperta sui temi relativi alle donne con uno sguardo internazionale, è impegnata nella cooperazione allo sviluppo e nella promozione dei diritti umani, il contrasto alla violenza e la promozione dell’empowerment economico femminile attraverso il microcredito. Ha lavorato in zone di pace, di conflitto e post conflitto. Ha vissuto cinque anni in Asia centrale tra Afghanistan, Nepal e India. È dal 2011 coordinatrice della Piattaforma CEDAW e nel 2012 è tra le promotrici della Convenzione NoMore. Ha insegnato in diversi master internazionali in università italiane su temi relativi all’empowerment femminile, al microcredito e ai diritti umani. Ha partecipato a conferenze di rilevanza nazionale e internazionale(ONU e non solo). Ha un blog su Ilfattoquotidiano.

    Questo articolo nasce dalle osservazioni fatte in 12 anni in diversi Paesi del mondo sul fenomeno della violenza maschile sulle donne e le bambine, e sulle risposte politiche e legislative di contrasto date nei diversi Stati.

    Tale analisi nasce dall’esperienza maturata durante il lavoro svolto con Fondazione Pangea (www.pangeaonlus.org), in Nepal, in India, in Afghanistan e in Italia,  dove realizziamo programmi volti al contrasto della violenza, la promozione dei diritti umani e dell’autodeterminazione delle donne, per favorire il loro l’empowerment personale ed economico, la loro partecipazione e il rafforzamento del loro ruolo decisionale nella famiglia come nella comunità in cui vivono.

    In tutti i Paesi di cui si parlerà, a nord o a sud dell’equatore, sono i comportamenti, le tradizioni, gli stereotipi e gli assunti culturali che determinano le relazioni e il linguaggio tra le persone e che “giustificano” discriminazioni e violenze, mantenendo di fatto uno sbilanciamento dei rapporti di potere tra il genere maschile e quello femminile.

    Centaura (Carla Cantatore) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    In tutte le Costituzioni del mondo gli Stati sono chiamati a tutelare il benessere della popolazione che vive sui propri territori e a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno godimento dei diritti; tale volontà è rafforzata ulteriormente dalla ratifica di trattati internazionali inerenti ai diversi diritti. Ciononostante è difficile trovare Stati che abbiano saputo rispondere al fenomeno della violenza con reali politiche-quadro sul lungo periodo, in grado di contrastarne le cause e gli effetti. 

    Pertanto l’ampiezza della fenomenologia sociale della violenza maschile sulle donne nel mondo è tale da richiedere il coinvolgimento e l’assunzione di responsabilità dello Stato e di tutte le sue articolazioni affinché agiscano in rete con le istituzioni locali, quelle non governative e del sociale privato.

    L’azione dello Stato è fondamentale affinché sia attore principale di cambiamento e di trasformazione culturale per riequilibrare quell’immaginario e quelle credenze, quei comportamenti, quei linguaggi stereotipati, che imperversano dalla famiglia al lavoro, dai mass media ai banchi di scuola, tra i rappresentanti delle istituzioni come tra la gente comune.

    Per questo motivo viene in aiuto l’elaborazione del diritto e l’esperienza di pratiche ad un livello sovranazionale come le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea; per favorire e tracciare una strada comune a tutti gli Stati.

    Nell’ambito dei diritti umani e del diritto internazionale per quel che riguarda il contrasto alla violenza, negli anni è stato elaborato il concetto di “due diligence” o “diligenza dovuta”. Tale principio afferma che la fenomenologia sociale della violenza maschile sulle donne, anche nelle relazioni affettive ed intime, non è più da considerarsi una questione privata. È dovere di uno Stato agire ai sensi del diritto internazionale compiendo al meglio delle sue possibilità e capacità la funzione di prevenzione, indagine, persecuzione, punizione, e risarcimento degli atti di violenza contro le donne.

    Per esempio nella Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne del 1993, art.4 (c), gli Stati membri delle Nazioni Unite sono esortati a «esercitare la dovuta diligenza per prevenire, indagare e, conformemente alla legislazione nazionale, punire gli atti di violenza contro le donne, sia che tali atti siano perpetrati dallo Stato o da individui.»

    Nella Raccomandazione Generale n.19 del Comitato per l'Eliminazione di Tutte le Forme di discriminazione contro le Donne (CEDAW) si riafferma che «Stati membri possono anche essere responsabili di atti privati se non riescono ad agire con la dovuta diligenza per prevenire le violazioni dei diritti o per indagare e punire gli atti di violenza.»

    Nell’art. 5 comma 2 della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011, si richiama all’obbligo degli organi statali: «Gli Stati membri adottano le necessarie misure legislative e di altra natura, ad esercitare la dovuta diligenza per prevenire, indagare, punire e fornire riparazione per gli atti di violenza oggetto di applicazione della presente Convenzione che vengono perpetrati da soggetti privati.»

    Storicamente, gli Stati si sono quasi sempre limitati a rispondere agli atti di violenza che si erano già verificati, utilizzando strumenti quali la fornitura di servizi di assistenza, la riforma della legislazione, l'accesso alla giustizia e il rafforzamento delle pene. Ma come giudicare quegli Stati che hanno emanato leggi e poi non ne hanno garantito o verificato l’applicazione tra i suoi rappresentanti nelle diverse articolazioni? [1]

    A diverse latitudini, troppo spesso gli Stati sono in ritardo nel dare le risposte o queste vengono date in maniera disomogenea: l’assenza di comprensione del fenomeno, la mancanza di volontà politica e di fondi, la finta inconsapevolezza degli Stati sul bisogno di prevenzione e di tutela delle donne e delle bambine maltrattate viene colmato  da realtà nate territorialmente su base volontaria e associativa.

    Queste realtà che si sono confrontate quotidianamente con chi dovrebbe garantire l’esercizio dei diritti uguali per tutti, (forze dell’ordine, apparato giudiziario, strutture sanitarie, servizi sociali etc.), nel tempo, per mancanza di risposte dalle istituzioni, hanno strutturato una metodologia di intervento ed hanno elaborato una analisi politica su questo fenomeno. Tale conoscenza è  oggi un sapere importante che dovrebbe essere ascoltato con molta attenzione nel mondo da ogni Paese.

    Il ruolo svolto dalle associazioni non governative però non esime lo Stato dalla “diligenza dovuta”: anche se parte delle funzioni di tutela sono eseguite da organizzazioni territoriali considerate attori non statali, gli obblighi di “diligenza dovuta” non possono essere delegati dallo Stato a nessuno. Infatti lo Stato detiene il monopolio legale della violenza e la responsabilità finale per l’adempimento degli obblighi di tutela e garanzia delle libertà e dei diritti di tutti gli esseri umani che vivono sul suo territorio.

    Yakin Ertürk, Relatrice speciale per l’Onu sulla violenza contro le donne dal 2003 al 2009, nel 2006 pubblicò un rapporto in cui sostanziava questo concetto creando un quadro di analisi standard per determinare quali azioni ogni Stato avrebbe potuto adottare per affrontare la violenza sulle donne nelle sue molteplici forme e per valutare il proprio operato di “diligenza dovuta” basandosi sui principi di Prevenzione, Protezione, Investigazione- Punizione e di Riparazione. [2]

    Gli standard di diligenza elaborati forniscono una sorta di "metro di misura" con cui valutare se uno Stato, “titolare dell’elaborazione ed esecuzione dei diritti per gli abitanti del suo territorio”, è negli obblighi che si è assunto. La “diligenza dovuta” vuole essere una linea guida che permette di valutare azioni e omissioni, che può diventare base normativa di valutazione dell’operato di uno Stato.

    L’elaborazione è poi stata ripresa e rafforzata dalla attuale Relatrice speciale ONU Rashida Manjoo affinché questi strumenti di valutazione dell’operato di uno Stato possano essere estesi  e consolidati negli obblighi.

    Nonostante la crescente popolarità dello strumento di “diligenza dovuta”, per promuovere una maggiore responsabilità degli Stati sulla violenza contro le donne, soprattutto da parte di attori non statali, il contenuto e la portata degli obblighi internazionali rimangono ancora per gli Stati qualcosa di difficile applicazione.

    Per sostanziare quanto affermato sino ad ora, farò degli esempi concreti relativamente alla “diligenza dovuta”in alcuni Stati: il Nepal, l’India, l’Afghanistan, l’Italia.

    In Nepal, piccolo paese rurale di circa 30milioni di abitanti, schiacciato tra la Cina e l’India,  si calcola che l’80% delle donne abbia subito almeno una volta nella vita una forma di violenza.

    Questioni di dote, accuse di stregoneria o malocchio, matrimoni forzati con minorenni, alcolismo o dipendenza dal gioco d’azzardo da parte degli uomini, difficoltà economiche per raccolti andati male, gravidanze inattese, nascita di figlie femmine… ogni scusa è buona per maltrattare e torturare quotidianamente a casa o nei campi di riso le donne. Oppure trafficarle come merce di scambio per due soldi, nel giro della prostituzione o per lavori umilianti che riducono in schiavitù.

    Tra il 2004 e il 2010, durante il conflitto tra maoisti e monarchia, ho frequentato assiduamente questo Paese lavorando in quattro province in aree rurali con cinque centri donna con Fondazione Pangea. Ho incontrato moltissime sopravvissute, donne che avevano subito violenze atroci e spesso inenarrabili, consumate nelle risaie o in casa. Considerate alla stregua di animali, tra le storie più atroci che ho ascoltato c’erano quelle di alcune donne che avevano subito un trattamento simile, anche se in villaggi diversi: maltrattate verbalmente e abusate fisicamente e sessualmente dal marito, venivano poi denudate e legate ad un albero, riempite di sterco su tutto il corpo e lasciate in fin di vita sino a quando qualcuno nel villaggio non si accorgeva dei flebili gemiti e richiami d’aiuto. Anche per portare soccorso ci voleva coraggio perché aiutare e salvare una donna vuol dire rompere un tabù sociale.

    Paradosso della situazione era che spesso i centri donna non potevano agire per vie legali contro i maltrattanti perché le vittime sopravissute alla violenza non avevano alcun documento di identità. Lo Stato nepalese non riusciva ad assicurare la regolare registrazione alla anagrafe delle neonate femmine in tutti i suoi territori, con un certificato di nascita che ne attestasse l’esistenza e quindi la cittadinanza.

    In Nepal, una legge del ’76 riconosceva solo al padre la possibilità di iscrivere alla anagrafe i neonati maschi. Le femmine potevano essere iscritte dopo il compimento del diciottesimo anno di età, sempre e solo a seguito dell’iniziativa di un uomo, il padre o il fratello o il marito.

    Nel 2006 lo Stato ha provveduto a modificare tale legge per permettere l’iscrizione anche delle bambine sin dalla nascita, allargando la possibilità di riconoscerle anche da parte della madre. Nella pratica quasi tutto è rimasto come prima.

    Tutt’oggi sono ancora troppi i casi in cui gli stessi impiegati che dovrebbero rilasciare un certificato di nascita quando si presenta un genitore donna si rifiutano di procedere, perché le donne non sono considerate al pari degli uomini.

    Pertanto uno dei maggiori lavori dei centri donna con cui abbiamo lavorato era proprio quello di accompagnare le donne a fare le procedure per acquisire la cittadinanza, comprese coloro che avevano subito violenza.

    Dalla “complicità innocente” o dalla mancata diligenza di uno Stato che non assicura l’applicazione verso tutte e tutti del diritto di cittadinanza, inizia il circolo vizioso della discriminazione e della violenza sul genere femminile.

    Per esempio, la maggioranza delle donne e delle bambine non avendo alcun documento non possono accedere né ad un percorso di scolarizzazione né ai sussidi statali.

    Se si viene cedute in cambio di denaro dalla propria famiglia ciò non appare da nessuna parte, il Nepal è uno degli stati più colpiti dal traffico di esseri umani.

    In caso di assenza di documenti di identità un matrimonio non è registrato in ambito civile, ma si svolge solo a livello religioso, pertanto l’unione per lo Stato è inesistente e se il marito è violento, la donna non può denunciare i maltrattamenti subiti. Se il marito decide di lasciare la moglie, lei non può procedere e fare una causa di separazione né può chiedere l’affidamento dei figli.

    Oltretutto restare sole significa essere esposte all’onta nella comunità, ad accuse di stregoneria, di portare sfortuna, alla solitudine e a difficoltà economiche: tutti gli averi sono del marito e se lui abbandona la casa ci si ritrova senza più niente.

    Se il marito o il padre muore, una donna senza documenti di identità non può richiedere eredità né come vedova né come orfana.

    Superando le pianure del Nepal si arriva in India, un paese-continente in cui vivono oltre un miliardo di persone. Nel 2013 l’India è stata al centro dell’attenzione internazionale per una terribile violenza di gruppo consumatasi a dicembre 2012 a Delhi nei confronti di una studentessa indiana, accompagnata da un suo amico, picchiato a sangue anche lui. Lei dopo pochi giorni è morta a causa della ferocia con cui si sono accaniti  sei uomini sul suo giovane corpo in un autobus pubblico.

    Ciò ha scatenato l’indignazione collettiva nel Paese, amplificata dall’onta internazionale sui social media. Milioni di persone di ogni età sono scese in piazza per la prima volta nella storia, in tutta l’India, per manifestare contro la violenza maschile sulle donne. Queste manifestazioni sono lentamente scemate nell’arco di un mese. È stata istituita una Commissione speciale di giustizia composta da tre “saggi” [3], con il compito di   rivedere le leggi e indirizzare l’azione del parlamento e del governo per prevenire e tutelare la popolazione femminile dalla violenza. La Commissione  ha aperto una audizione popolare via internet raccogliendo i pareri di tutti coloro che volevano dare suggerimenti, oltre 80mila email in pochissimi giorni. Parallelamente nell’arco di una mese ha elaborato e presentato un perfetto vademecum estremamente all’avanguardia, al parlamento e al governo indiano.

    A settembre 2013 la corte suprema indiana ha pronunciato il suo verdetto, i 4 stupratori adulti sono stati tutti condannati alla pena capitale, l’impiccagione [4], mentre il minorenne stupratore ha ricevuto tre anni di prigione.

    Il verdetto della pena capitale  va assolutamente contro quanto raccomandato dalla “Commissione Verma” e quanto chiesto dalle associazioni di donne che si occupano di contrasto alla violenza da decenni, mentre corrisponde esattamente all’emotività dell’opinione pubblica. Infatti le persone in strada se intervistate inveivano contro gli stupratori e ne chiedevano l’impiccagione.

    Con tale verdetto lo Stato indiano ha placato gli animi dell’opinione pubblica, ha assunto alcune delle raccomandazioni della Commissione Verma e si è ben guardato dall’intervenire sulla violenza domestica, altrimenti, come dicono alcune indiane, “l’80% dei mariti sarebbe in prigione”.

    Il caso indiano è stato esemplare, in queste situazioni infatti gli Stati devono scegliere se:

    1. negare l’evidenza attraverso l’uso indiscriminato del monopolio della violenza,
    2. rispondere aumentando l’esercizio legale del monopolio della violenza,
    3. non farsi prendere dall’emotività popolare e risponde in maniera ragionata a problemi radicati sul lungo periodo lasciando alla piazza la parte più “dimostrativa”.

    Generalmente l’evidenza, come è successo in India, ci dice che i Governi dei Paesi preferiscono rispondere nel breve termine per assicurarsi e fidelizzare i voti. Lo fanno semplicemente aumentando le pene previste per i maltrattanti, sino ad arrivare alla pena di morte, (monopolio legale dell’esercizio della violenza); e a volte includendo “servizi rosa” accessori, tipici della segregazione dei generi, rispolverati per “garantire una protezione ad hoc”, piuttosto che favorire l’eguaglianza e i diritti umani per tutti. Questo approccio securitario è a costo zero e si realizza in poco tempo.

    Ciò permette ai governi degli Stati di aggirare il problema e non studiare reali politiche di contrasto alla violenza, in particolare di prevenzione, formazione degli operatori e tutela delle donne che subiscono violenza, perché troppo costose e complesse.

    Inoltre delle politiche quadro serie necessitano di una visione di lungo periodo, perché richiedono cambiamenti di tipo culturali e di rispetto dei generi, e quindi una capacità di mettere le forze di governo e opposizione insieme in maniera trasversale e intelligente, senza dover contrattare sui voti ma per il bene della popolazione nella sua interezza.

    L’India ci insegna su più fronti come il boomerang della violenza colpisce l’incapacità dello Stato e ricade sulle sue cittadine e cittadini. Il caso di Delhi non sembra aver aumentato né la consapevolezza né l’impegno dei politici sul fenomeno, e la pena di morte non è stata assolutamente un deterrente per evitare nuove violenze, che dal dicembre 2012 si sono susseguite purtroppo a centinaia.

    Le attiviste delle associazioni indiane hanno rilevato infatti che nell’ultimo anno gli uomini abusanti, in risposta alla pena capitale, per non lasciare le proprie vittime “vive e capaci di testimoniare”, le hanno uccise, oppure si sono orientati verso “target” vulnerabili della società femminile, che sono meno capaci di difendersi o di ricevere protezione:in particolare le bambine/minorenni, le disabili, le donne di casta bassa o appartenenti a minoranze etniche, che già per appartenenza a gruppi socialmente esclusi, difficilmente hanno la possibilità di far valere appieno dei loro diritti.

    Inoltre le attiviste hanno ribadito che l’indignazione di massa per il caso di Delhi è stato un fatto eccezionale, ma non sufficiente per fermare il ripetersi di situazioni simili, e purtroppo l’opinione pubblica non è stata più capace di mobilitarsi a tal punto da richiamare lo Stato indiano alle sue responsabilità e mancanza di volontà politica nell’affrontare il fenomeno.

    Un esempio per tutti è un caso simile a quello del 2012 che è accaduto nei pressi di Calcutta nel giugno 2013. Una studentessa universitaria di 20 anni, è stata rapita, violentata e uccisa a Kamduni, a circa 20 km da Calcutta, da un gruppo di nove uomini. La ragazza, dopo essere stata violentata, è stata squartata sino all’ombelico e gettato il suo corpo per strada, in un campo. Otto dei nove imputati sono stati arrestati.

    La famiglia della vittima e gli abitanti del villaggio all’inizio hanno fermamente chiesto giustizia per la vittima e hanno rifiutato qualsiasi “risarcimento” da parte del governo. Con loro si sono unite alla richiesta tutte le associazioni di donne che lavorano per contrastare la violenza. Sono state molte le manifestazioni a Calcutta ma lo sdegno della popolazione non ha generato le risposte politiche desiderate.

    A giugno le attiviste delle organizzazioni hanno chiesto una audizione alla governatrice della regione, come risposta hanno sempre ricevuto polizia che ha loro impedito di manifestare pacificamente e in silenzio sotto il palazzo governativo. Alcune manifestanti sono state messe in prigione per qualche ora. Per di più a contrastare la manifestazione pacifica sono state mandate delle poliziotte, aizzate dai loro colleghi, affinché dimostrassero di essere poliziotte prima che donne.

    Il caso di stupro Kamduni ci rivela molto sulla diligenza con cui dovrebbero operare i rappresentanti politici di uno Stato.

    Raccontano le attiviste che il principale imputato è stato coperto da alcuni leader politici. Il 10 settembre 2013 c’è stata una audizione alla Corte di Calcutta. Gli abitanti del villaggio di Kamdumi e le associazioni per la difesa dei diritti e delle donne hanno manifestato pacificamente di fronte al palazzo di giustizia per chiedere di portare prove adeguate e per velocizzare il processo. Tuttavia, senza alcuna ragione, la polizia ha iniziato a caricare le persone con il bastone, molti dei manifestanti sono stati feriti gravemente, tra essi c’era lo zio della vittima che è morto dopo tre giorni, lui era uno dei principali testimoni del caso. Nel frattempo, le donne del villaggio hanno costituito un gruppo informale per continuare la protesta, hanno rivolto un appello alla Corte Suprema dell'India perché intervenisse: richiesta respinta. Dopo regolari minacce alle donne del villaggio e ai familiari della vittima da parte di esponenti politici, la famiglia ha fatto “il voltafaccia” alle attiviste per i diritti umani e il contrasto della violenza. Ciononostante le attiviste continuano a essere presenti e chiedere giustizia per la vittima.

    A Calcutta anche se il governo è rappresentato da una donna, è sordo alle richieste di giustizia. Lo Stato del West Bengala è la regione con il più alto tasso di denunce di donne per violenza in India, la sua governatrice continua a dire che i dati non corrispondono a verità e servono solo per screditare il suo partito.

    La responsabilità politica di una parte dell’establishment è parte di uno stesso mosaico di responsabilità. Lo Stato quando c’è deve rispondere in tutte le sue sfaccettature del prisma, a partire dai suoi rappresentanti politici, che spesso sono troppo occupati a far parlare di sé in prospettiva delle prossime elezioni.

    Eppure diritti e doveri non sono solo qualcosa che ricade sui cittadini e le cittadine di un paese, ma questi devono essere in una relazione di reciprocità con lo Stato moderno, e quindi con i suoi rappresentanti. Pertanto se uno Stato non è in grado di rispondere ai propri doveri, alle proprie responsabilità, mantiene solo un uso illegittimo del monopolio della violenza a favore di pochi che compongono “la casta del potere politico ed economico” e nient’altro.

    Il Paese simbolo dell’asimmetria che nasce dalla discriminazione nella relazione tra Stato-uomini e Stato-donne all’interno delle Istituzioni che garantiscono la tutela dei diritti è l’Afghanistan.

    Qui la situazione è lontana da ogni tipo di immaginazione. Non voglio riferirmi a dati ufficiali di questo Paese che comunque peccano di grande relativismo, ma voglio partire dalla memoria dei racconti di centinaia di donne che ho conosciuto dal 1999 ad oggi, per affermare di non aver mai incontrato una donna che non avesse sperimentato almeno una forma di violenza, in famiglia o nella società circostante, in quasi totale assenza di un sistema di giustizia uguale per tutti. Pertanto oserei dire che tutte le donne e le bambine in Afghanistan vivono una forma di violenza permanente. L’assenza dello Stato sino a quanto e sino a quando è giustificata da un percorso storico di guerra che distrugge le strutture sociali e le istituzioni statali? In Afghanistan, malgrado lo sforzo di ricostruire una giustizia, tramite progetti di cooperazione multilaterale e bilaterale a cui ha partecipato anche l’Italia, non si è mai raggiunto un livello minimo che permetta di dire che siamo sulla buona strada.

    I problemi sono molteplici e sono soprattutto riconducibili a una cultura patriarcale pervasiva che necessita di decenni e generazioni per essere trasformata nella mente degli uomini e delle donne. Inoltre la struttura tradizionale della giustizia, si scontra fortemente con la giustizia che si basa sui “diritti umani” che, come sostengono molti locali, è stata “importata dagli occidentali”.

    La “giustizia tradizionale” comunemente utilizzata da tutti a livello locale, si basa su un codice d’onore, sulla religione e sulla trasmissione orale, non su una pena certa e uguale per tutti.  Viene gestita dagli anziani o dalle figure religiose dei villaggi, uomini a cui le donne e le bambine molto difficilmente si rivolgono e raccontano certe cose.

    Un esempio di come la cultura tradizionale inficia l’interpretazione della giustizia ripone sulla convinzione che le donne e le bambine prima di essere persone sono proprietà della famiglia quindi la violenza domestica per molti “non esiste”.

    Pertanto il sistema giudiziario afgano esistente, fondato sui diritti umani come noi conosciamo, è fragile e lo testimonia la sua stessa composizione tra i generi: ci sono circa 20.000 giudici per oltre 25milioni di abitanti e le magistrate donne non arrivano neanche a 200. La dislocazione nel territorio afghano delle donne magistrato la dice lunga sulla situazione di discriminazione e violenza vissuta da tutte: le magistrate sono presenti in cinque province su 34 e sono così suddivise:  10 a Balk, 5 a Herat, 2 a Takhar e Baghlan, tutte le altre 17 a Kabul.

    In questo Paese lo Stato non è in grado di tutelare i suoi cittadini, né le sue strutture. Nell’ultimo anno, il 2013, le forze anti governative, hanno preso di mira il settore giudiziario. A giugno 2013 hanno sfoderato un attacco kamikaze alla corte suprema a Kabul facendo una ventina di morti. Nell’arco dei primi sei mesi del 2013 sono stati riportati dall’agenzia UNAMA almeno 57 morti e 145 feriti che includono giudici, prefetti, personale legale e religioso che lavora nella risoluzione delle dispute.

    Al di là della struttura giuridica anche le forze di polizia e quelle carcerarie non sono assolutamente in grado di accogliere una donna o una bambina che subisce violenza, anzi spesso diventano parte attiva della violenza inflitta alle donne.

    Come si può in una situazione come questa parlare di “diligenza” dello Stato? Come può una Stato come questo tutelare le donne e le bambine dalla violenza domestica?

    Sono le donne stesse che devono trovare una soluzione ma gli ostacoli e le conseguenze da superare sono ancora troppe. Mancano servizi e centri che le possano accoglierle, nel 2011 l’Unicef rilevava l’esistenza di soli 14 centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale in cui potevano andare le donne e al loro interno il 40% era sotto i 18 anni.

    Ci vuole inoltre una forza ed una determinazione emotiva enorme per abbandonare la famiglia in cui si è, perché questo gesto diventa un tradimento quasi impossibile anche solo da pensare, e l’idea di affrontare l’onta sociale e familiare, e l’isolamento dalla comunità in cui si vive, è spesso una montagna troppo alta da scalare. Quindi troppo spesso rimane il suicidio, l’auto immolazione, pur di non vivere l’atroce quotidianità; oppure semplicemente sopportare, come un pozzo senza fondo, convinte che nessuno potrà salvarle, mentre i “maledetti legami di sangue” come cappi al collo, le annullano lentamente.

    Ecco perché in questo Paese, la giustizia e la tutela di donne e bambine troppo spesso è lasciata agli atti eroici di qualche donna che paga il suo impegno con la vita o con la solitudine. Penso alla procuratrice di Herat, Maria Bashir, che malgrado le minacce e gli attentati subiti, continua nella sua lotta alla violenza e da sola riesce a seguire il 70% delle denuncie ricevute da donne e bambine nella sua provincia [5].

    O alla poliziotta Malalai Kakar, a capo della squadra contro i crimini sulle donne a Kandahar, freddata mentre andava a lavoro ormai anni orsono, e come lei tantissime altre.  

    Per fortuna le donne straordinarie si trovano in tutto il mondo, anche in Italia.

    Dal 2008 con Fondazione Pangea abbiamo cominciato a conoscere la realtà di casa nostra e di tanti centri antiviolenza che lavorano instancabilmente per garantire e tutelare le donne che hanno subito violenza e i loro figli/e che vi hanno assistito. Non è banale dire che “tutto il mondo è paese”: cambiano gli ambienti, la disponibilità di elettricità e di acqua potabile, possiamo muoverci più o meno liberamente, possiamo avere più o meno leggi a nostra disposizione, ma la violenza fatta dagli uomini sulle donne è la stessa.

    L’elemento principale che salta agli occhi è la mancanza e la disomogeneità dei servizi che lo Stato italiano offre sul territorio, sia per quantità che per qualità.

    Non essendo ancora un tema centrale nelle politiche dello Stato italiano, il contrasto al fenomeno della violenza maschile sulle donne, troppo spesso si scontra con il fare e la mentalità di molti operatori, per fortuna non tutti, che sottovalutano  il fenomeno e si rendono “complici per indolenza e inconsapevolezza” di atti di tutela che non vengono compiuti verso le donne.

    Accade quindi che e le forze dell’ordine, polizia e carabinieri, spesso sottovalutano la richiesta di aiuto che viene fatta loro, non a caso molti casi di omicidio di donne vittime di violenza erano donne che già avevano sporto denunciato per abusi subiti [6].

    Accade che le donne non riescono a farsi medicare e refertare le ferite per dimostrare la violenza come dovrebbe essere fatto nei pronti soccorsi.

    Accade che le poche donne che arrivano al processo devono prima di tutto difendersi da pregiudizi e stereotipi anche dei magistrati e degli avvocati che giustificano le violenze come raptus o follia.

    Accade che i servizi sociali troppo spesso obbligano la donna e i figli ad una mediazione e ad incontri protetti con un padre–marito violento senza tener conto dell’enorme rischio a cui si costringe la donna e i figli, per la trasmissione intergenerazionale dei modelli violenti, e il rischio di vita come il caso di San Donato Milanese del 2010 e  i fratelli di di Padova del 2013 [7].

    Queste sono solo alcune delle più eclatanti mancanze da parte degli operatori dello Stato italiano nel garantire che i diritti siano applicati e le pene siano certe. Il risultato è una fortissima sfiducia verso le istituzioni dello Stato da parte delle donne.

    Dove è la  “diligenza” con cui dovrebbe agire lo Stato Italiano e quindi tutti coloro che lavorano nei distretti di polizia, nei carabinieri, nei pronto soccorsi, nei servizi sociali, tra i medici di base, nella magistratura e tra il personale dei tribunali che lo rappresentano? Perché ci si muove solo davanti alla parola femminicidio?

    Sicuramente una formazione per gli operatori, non solo dei quadri ma di tutto il personale che si trova a confrontarsi direttamente con il pubblico, sul tema della diversità di genere come ricchezza di una società e sulla violenza nella sua specificità, permetterebbe di aiutare e trasformare quel substrato culturale maschilista e retrogrado, in uomini e donne. Tale subcultura si alimenta di stereotipi attraverso i mass media, le pubblicità, internet, i cattivi esempi dei politici, le politiche a vari livelli che non garantiscono pari diritti e che non tutelano, ma anzi contribuiscono a fare  dell’Italia un paese non al passo con i tempi.

    Detto ciò non si può non parlare delle perplessità che suscita il fare dei politici in Italia sul tema. Certamente non si può pretendere che tutti i politici siano a conoscenza del fenomeno, ma ci si aspettava un maggiore rigore, serietà e attenzione al fenomeno da parte loro, piuttosto di vedere utilizzare il tema della violenza e il termine “femminicidio” come uno dei tanti argomenti di contrattazione tra partiti, per rispondere all’onda emotiva nutrita dai media che hanno continuato a sbattere in prima pagina notizie splatter sulle vittime di violenza che sono state uccise.

    Inoltre il feminicidio viene inteso erroneamente solo come omicidio di genere, mentre in realtà, all’origine la parola è stata coniata dall’accademica Diana Russel per intendere tutti gli atti di violenza maschile sulle donne, nelle diverse forme che questa si compie, in quanto appartenenti al genere femminile.

    Ciò spiega il poco ascolto che è stato dato alle associazioni di donne e alle organizzazioni no profit che hanno una esperienza decennale a livello nazionale e internazionale sul problema; e la mancanza permanente di finanziamenti sicuri e duraturi nel tempo alle strutture esistenti in grado di garantire una specifica operatività di genere per permettere alle donne di uscire dalla violenza.

    Pertanto il lavoro da fare per chi lavora nel mondo no profit su questo tema è doppio:
    - di sostegno alle realtà territoriali, come i centri antiviolenza, che stentano a dare risposte a tutte le richieste per mancanza di soldi, di servizi, di qualità nei servizi;
    - di sensibilizzazione e indirizzamento dei politici e delle Istituzioni, affinché vi siano proposte di legge e politiche con una reale visione sul lungo termine, concertata con le associazioni e le reti e le istituzioni territoriali.

    Ciò ci ha spinto come Pangea a sostenere dal 2008 diversi centri antiviolenza in diverse parti d’Italia, (Milano, Caserta, Latina, Viterbo, L’Aquila) per alcuni anni. Nell’ultimo periodo ci siamo concentrati nel supporto di progetti di uscita dalla violenza e di recupero della relazione affettiva per donne (che l’hanno subita) e i loro figli (che vi hanno assistito) a Latina e in provincia di Caserta.

    Contemporaneamente dal 2008 abbiamo iniziato un lavoro di “advocacy”-sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle diverse istituzioni sui temi del fenomeno della violenza, degli stereotipi e delle discriminazioni di genere, ispirandoci ed utilizzando assieme ad altre associazioni l’eredità dell’Onu.

    Nel 2009 abbiamo promosso assieme ad alcune associazioni la Piattaforma “Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW” che coordiniamo dal 2011, per far conoscere al più vasto pubblico possibile cosa è la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne dell’ONU.

    La CEDAW [8] è il trattato internazionale più completo sui diritti delle donne che fa parte dei principali pilastri del diritto internazionale delle Nazioni Unite. È stata ratificata dall’Italia nel 1985 impegnandosi quindi a rimuovere gli ostacoli che non permettono il godimento dei diritti umani in maniera paritaria tra uomini e donne.

    Per evidenziare alle Istituzioni italiane le difficoltà e le discriminazioni che ancora oggi vivono le donne sul nostro territorio in ogni ambito, abbiamo redatto in rete con altre associazioni un rapporto “ombra”, sui principali ostacoli e discriminazioni che le donne affrontano ogni giorno in Italia. Tale rapporto lo abbiamo presentato al Comitato CEDAW alle Nazioni Unite nel luglio 2011. In seguito abbiamo lavorato e presentato una sintesi di tale rapporto al Parlamento italiano a gennaio 2012. Il grosso lavoro è stato quello di tessere la rete con le associazioni di donne e in generale con le associazioni sui diritti umani e il terzo settore in Italia, e portare alla luce sui mass media questo tema. Il Comitato CEDAW ha rivolto delle raccomandazioni ben precise all’Italia nel 2011, indicando come punti più dolenti, su cui si è particolarmente inadeguati nel dare risposte, la violenza sulle donne e gli stereotipi di genere.

    Nel gennaio 2012 l’Italia ha ospitato la missione dell’attuale Relatrice Speciale dell’Onu sulla violenza per monitorare il lavoro che svolge lo stato italiano per contrastare il fenomeno della violenza maschile sulle donne. Le organizzazioni di donne hanno facilitato gli incontri della Relatrice Speciale con le realtà territoriali non governative.

    A giugno 2012,durante la XX sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU a Ginevra, la Relatrice Speciale Manjoo ha presentato il Rapporto-Italia e le sue raccomandazioni per migliorare la situazione.

    Contemporaneamente Pangea a Ginevra ha organizzato un “panel event” per la piattaforma CEDAW, una conferenza di approfondimento sulla situazione Italiana, per amplificare il valore delle raccomandazioni della relatrice speciale, e soprattutto per portare all’evidenza dei mass media italiani il ritardo estremo con cui ci si muove in Italia rispetto agli standard internazionali e alla “Diligenza dovuta”.

    Con le associazioni della piattaforma CEDAW è stato avviato un lavoro di osservatorio sulle istituzioni per verificare l’applicazione delle raccomandazioni che i membri del Comitato delle Nazioni Unite ha fatto all’Italia.

    Per focalizzarci maggiormente sul tema della violenza abbiamo unito le nostre forze con altre associazioni storiche, in particolare con l’UDI, che lavora sul tema della violenza sin da quando se ne parla in Italia negli anni ‘70, e abbiamo promosso la Convenzione NoMore - contro la violenza maschile sulle donne - femminicidio a Ottobre del 2012.

    La Convenzione NoMore è una piattaforma che vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno della violenza e fare pressione verso le Istituzioni nazionali (Parlamento e Governo) e quelle locali (Regioni, Province e Comuni) affinché:
    • si confrontino con le associazioni per aprire un dialogo sulle azioni necessarie a porre fine alla violenza;
    • siano poste in essere politiche adeguate e rispettose della dignità e dei diritti umani delle donne e affinché tutti gli operatori pubblici (sistema giuridico, forze dell’ordine, sistema sanitario pubblico, sistema scolastico ed universitario, servizi sociali territoriali compresi i piani di zona), lavorino per un reale contrasto alla violenza verso ogni cittadino e cittadina con la responsabilità dovuta a chi rappresenta lo Stato.

    Qualcosa grazie a tutto questo lavoro si è mossa.

    Come Pangea abbiamo dal 2011 esercitato un lavoro di pressione sulle Istituzioni parlamentari e governative, affinché si ratificasse la Convenzione di Istanbul del 2011 del Consiglio d'Europa, lo strumento di diritto internazionale più avanzato in materia di contrasto di violenza di genere che era tra le principali raccomandazioni della CEDAW e della Relatrice Speciale dell’ONU. Come noi anche altre associazioni si sono date da fare e i diversi sforzi hanno dato il risultato sperato!A giugno 2013 il parlamento ha definitivamente ratificato la Convenzione di Istanbul.

    Malgrado il riconoscimento delle dimensioni preoccupanti del fenomeno attraverso la ratifica della Convenzione di Istanbul, le politiche attuate dallo Stato Italiano e le misure messe in atto non sono a oggi ancora sufficienti ad affrontarlo e risolverlo.

    La ratifica non basta, tra i meccanismi che renderebbero efficace ed effettivo l'intervento dello Stato italiano c’è l’attuazione di alcune direttive europee che permetterebbero di adeguare l'ordinamento interno italiano immediatamente.

    Invece è stata data la priorità al fare una legge così detta “sul femminicidio”, del settembre 2013, che in realtà è un semplice legge sulla sicurezza pubblica che va dalla punizione di chi ruba cavi di rame lungo le ferrovie, alla violenza negli stadi, alla presenza dell’esercito in val di Susa per i movimenti che non vogliono la costruzione della TAV (treno ad alta velocità) etc. Insomma la violenza è solo una piccola parte di questa legge che non accontenta le richieste di molte realtà territoriali che si occupano del fenomeno.

    C’è il bisogno di fare una reale revisione delle leggi esistenti sia a livello nazionale che regionale, per omogeneizzare gli interventi ed armonizzarli, e una verifica di quelle leggi che, pur esistendo, non sono attuate in maniera omogenea o restano inapplicate.

    Infine si deve far chiarezza sui dati per conoscere il fenomeno, si devono stabilire linee di budget a livello governativo e regionale chiare e durevoli, si deve fare una formazione a tappeto degli operatori a tutti i livelli ed articolazioni dello Stato, e si devono sostenere i servizi territoriali soprattutto quelli che hanno una specificità di genere che nasce dalla pratica e diventa oggi sapere e conoscenza che deve essere riconosciuta dallo Stato.

    La “Diligenza dovuta”, e gli standard per misurare l’operato dello stato italiano sono ancora molto lontani dal raggiungere i risultati sperati, ma il vero problema resta quello che non si può aspettare e stare a guardare perché le donne che subiscono violenza continuano ad esserci, troppe subiscono silenziosamente perché non credono nelle risposte istituzionali e tra di esse non poche sono quelle che vengono uccise.

    Se in Italia si continuerà a non ricevere risposte, noi come società civile impegnata sull’argomento dovremo di nuovo andare a guardare oltre le frontiere e utilizzare gli strumenti di diritto internazionale che permettono in qualche modo di far riflettere e “redarguire” lo Stato Italiano a dare risposte concrete a tutela e a garanzia dei diritti umani per tutte e tutti.

    Gli Stati devono fare la loro parte, l’opinione pubblica oggi è molto più consapevole del problema rispetto a qualche anno fa, lo dimostrano le migliaia di iniziative e manifestazioni spontanee che in tutto il mondo si svolgono non solo il 25 novembre ma anche durante l’anno.

    Inoltre oggi esiste la  Convenzione di Istanbul, lo strumento di diritto internazionale che si rivolge a tutti i Paesi del mondo e che è all’avanguardia rispetto a qualsiasi altro documento sul tema, la sua applicazione permetterebbe veramente di fare passi avanti. Gli Stati devono recuperare il ritardo dando risposte e dimostrando volontà per realizzare politiche concrete.

    Da qualsiasi latitudine si voglia affrontare la questione della violenza, nella maggioranza dei Paesi del mondo, la voce della richiesta è unica: stop a qualsiasi forma di violenza su donne e bambine, è tempo di rispetto e dignità per tutte e per tutti.

    Note

    [3] Commissione Verma, composta da tre giudici di cui due in pensione.

    [4] Tranne uno di loro che si è impiccato da solo qualche mese dopo essere stato messo in prigione,

    [8] La CEDAW chiede di rimuovere le discriminazioni che limitano la partecipazione delle donne alla vita pubblica e lavorativa e ai processi decisionali, di contrastare la violenza di genere e di impegnarsi per modificare la diffusa accettazione degli stereotipi associati ai ruoli tradizionali di uomini e donne nella famiglia e nella società.

     



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