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  • Violence masculine et féminicide
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.1 Janvier-Avril 2014

    CONDIVIDERE SAPERI PER CAMBIARE IL MONDO: IL LAVORO DI RETE CONTRO LA VIOLENZA VERSO LE DONNE


    Maria Rosa Lotti

    leonde@tin.it
    Esperta nello sviluppo di sistemi di aiuto per prevenire e contrastare la violenza contro le donne. Studiosa femminista dei processi sociali e culturali attivati dal movimento delle donne e dal femminismo, specializzata in progettazione e interventi sulla violenza maschile verso le donne, in particolare nello sviluppo di reti e nell’integrazione dei sistemi di intervento. Responsabile progettazione Le Onde Onlus di Palermo, da oltre 20 anni coordina interventi in ambito locale, nazionale e transnazionale per lo sviluppo di azioni integrate contro la violenza alle donne, tra cui dal 2006 al 2012 dei progetti ARIANNA, numero di pubblica utilità 1522 del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha partecipato a numerose ricerche ed alla produzione di raccomandazioni; da 10 anni si occupa dello sviluppo di reti antiviolenza e dell’integrazione degli interventi in un’ottica di sistema. Le pubblicazioni più recenti sono: Capitolo in Violenza contro le donne nei contesti migratori di Italia e Spagna: conoscenza e percezione delle pratiche tradizionali dannose nei sistemi socio-sanitari AA.VV., Arti Grafiche Palermitane, 2011; Il silenzio e le parole II Rapporto nazionale Rete antiviolenza tra le città Urban Italia, F. Angeli Milano 2006.


    Erase 2011 (Eleonora Del Brocco) - Associazione "Movimento Artisti Arte per"

    Una questione di pratica e di produzione di senso

    In questi ultimi venti anni abbiamo vissuto in Italia una sempre maggiore attenzione alla violenza maschile verso le donne. Attenzione mediatica, attenzione politica, attenzione delle persone e delle comunità. La pratica di ascolto e relazione con donne in difficoltà a causa di violenza iniziata nella seconda metà degli anni ottanta è divenuta un discorso sociale sulla violenza maschile verso le donne, affermando nuovi paradigmi interpretativi e permettendo l’emersione di un problema strutturale della società, della cultura, del simbolico che ci iscrive nel mondo.

    Quella pratica ha determinato la possibilità di modificare un contesto che non aveva parole né rappresentazioni della violenza verso le donne, se non per la loro vittimizzazione salvifica di alcuni valori fondanti la società quale la famiglia. Il processo iniziato allora e nato nella fase finale del dibattito intorno alla nuova legge sulla violenza sessuale provava a dare una nuova risposta che aprisse lo spazio alla parola e ad un percorso di libertà femminile.

    Quel processo, strutturato a partire da alcune relazioni tra donne [1], ha aperto uno spazio di riflessione e di significazione che non avevamo previsto ma che abbiamo colto nel farsi della pratica e del pensiero che a questa si accompagnava. Pratica e pensiero che hanno segnato fortemente l’avvio delle esperienze italiane di centri antiviolenza e case rifugio, divenute ora fonte di saperi e di cambiamento nel linguaggio comune e nei linguaggi professionali.

    Processo che ha fornito sostanza alle tecniche utilizzate per garantire il raggiungimento di un risultato: rendere visibile e dare significato alla violenza verso le donne, agire per prevenirla e contrastarla. Le tecniche di comunicazione, progettazione, gestione di servizi, lavoro di rete hanno permesso di gestire la nuova realtà che si andava creando. 

    Questo processo è nato a partire dal lavoro fatto da altre donne in altri contesti (penso che molto si debba alle canadesi, così come a chi ha praticato relazioni tra donne e ragionato sui diritti), ha valorizzato le intuizioni della politica della differenza sessuale e ha provato a creare un nuovo ambito di significazione nel contesto in cui la violenza sessuale era simbolicamente connessa alla morale e le altre forme di violenza vivevano nel limbo dei rapporti personali e familiari. Ha fatto luce su un’area grigia delle relazioni sessuate tra donne e uomini, ma anche riguardo alla sessualità maschile ed al silenzio femminile.

    Questa pratica ha accompagnato la nascita dei centri antiviolenza in Italia, con un processo creativo caratterizzato dal riconoscimento di autorità femminile nel percorso di cambiamento del reale in materia di violenza maschile verso le donne.

    Orizzonti simbolici e di sapere: il valore di un’esperienza

    Su questo terreno si sono confrontate donne che partivano da diversi orizzonti di pensiero, quello della differenza sessuale e quello del genere come costruzione dell’identità femminile. Pratica discorsiva quest’ultima, che permea il linguaggio ufficiale e professionale in materia di violenza, affermandosi come unico linguaggio utilizzato nell’attuale formulazione di violenza di genere per significare  ogni forma di violenza che si fondi su una disparità di potere tra uomini e donne, ed ancora quelle forme di violenza che affermano il potere sui più fragili (bambine e bambini, ma pure gay, lesbiche e transgender).

    Nel percorso che ho vissuto, con le donne che hanno condiviso con me valori e ricerca, questo approccio gender si è misurato con il pensiero e la pratica della differenza sessuale, dando il via a esperienze che trovano le proprie radici nella costruzione di relazioni tra donne volte al rafforzamento della soggettività femminile, connotandola della possibilità di agire per rompere il ciclo della violenza e dell’affermazione della libertà femminile quale orizzonte simbolico in cui inscrivere il nuovo percorso di vita al di fuori dal circuito della violenza. La messa in gioco di desiderio, competenza e autorità permette il cambiamento di contesto e di vita per le donne che soffrono violenza, coniugando la relazione politica al rapporto professionale. In questo quadro trova valorizzazione la “professionalità”, cioè la capacità di agire e parlare con competenza ed adeguatezza di ciò che sino a quel momento (intendo quello storico in cui si inscrive la pratica) non aveva trovato significazioni importanti quali quelle della necessità di costruire alleanze sessuate che “aiutassero” donne in difficoltà e “difficili” a trovare la propria personale strada verso un orizzonte di libertà femminile, o ancora la creazione di circuiti di opportunità che coinvolgono tutti i soggetti che hanno responsabilità nel supportare il nuovo percorso esistenziale. Infine la capacità di segnare la scena pubblica e politica di un discorso che non punta esclusivamente alla tutela della vittima ma permetta uno spazio appropriato alla scelta personale.

    L’Associazione Le Onde si costituisce nel 1997. Ci siamo date tutto il tempo di riflessione, di pratica e di maturazione di scelte politiche. Abbiamo letto, discusso, ci siamo confrontate, sino a strutturare una metodologia che ponesse al proprio centro la complessità legata sia alla costruzione di un nuovo progetto di vita con la donna, ridefinito nella relazione competente tra la donna e l’operatrice e sul quale intervengono le relazioni terapeutiche o professionali (avvocate/i, medici, assistenti sociali, educatrici/ori, ecc.), sia al necessario affermarsi sulla scena pubblica dell’autorità di un sapere femminile.

    Si è scelto di sviluppare attività di servizio, di cui il centro e le case rifugio sono l’esempio più evidente, ma anche azioni rivolte al sistema di intervento sociosanitario e di protezione, promozione di politiche, ricerche, iniziative educative, ecc. In questo processo si colloca l’avvio della Rete cittadina contro la violenza alle donne ed ai minori della città di Palermo [2]. Ci era chiara la necessità di creare un sistema che richiamasse tutti alle proprie responsabilità istituzionali e che rafforzasse l’intervento con la donna e nella città. Così come eravamo consapevoli della necessità di costruire un luogo professionalmente competente.

    Siamo consapevoli  che i concetti e gli spazi di pubblico e privato si incrociano, nel caso della violenza verso le donne (ma solo in quello?), nel simbolico che trova radice nei corpi, nella sessualità, nell’amore e nelle sue categorie di rappresentazione sociale, nelle dinamiche di potere tra i sessi e in come queste si perpetuano. Essa riguarda le relazioni sessuate ed il loro codificarsi attraverso stereotipi, rappresentazioni e convenzioni sociali che riportano ancora alla struttura simbolica patriarcale dei rapporti tra i sessi.

    Da questi elementi si avvia un’esperienza che misura la pratica politica dell’agire quotidiano con le donne con il “territorio”, le sue risorse e limiti.

    Il Centro accoglie circa 450 donne l’anno, garantendo loro percorsi di uscita dalla violenza, consulenze psicologiche individuali o in gruppo, consulenze legali, connessione coi servizi aderenti alla Rete. Possiamo offrire ospitalità a circa 15 tra donne e bambine/i in due case rifugio ad indirizzo segreto.

    Rendere visibili le scelte politiche

    Lavorare a Palermo implica affrontare e nominare la miseria (è stato il tema da noi lanciato alla Rete nazionale dei centri dall’inizio degli anni novanta) senza veli né equivoci dettati dal desiderio di valorizzare il positivo della forza femminile o dalla voglia di riscattare un territorio così difficile e così ricco. Lavorare a Palermo necessita di un confronto costante e stimolante con il reale e con la responsabilità che implica avviare un processo di cambiamento.

    Il territorio è divenuto per noi un luogo di sperimentazione per poter costruire o definire un sistema di intervento che permetta alle donne per prima cosa di chiedere aiuto trovando una risposta concreta e reali connessioni tra i servizi, e secondariamente la costruzione di percorsi nell’ottica esclusiva del vantaggio per quella donna che chiede aiuto. Il territorio è il luogo in cui si vive, la regione che si abita, la nazione di cui si è cittadine. La  nostra associazione ha vissuto il desiderio, trasformandolo in un progetto, di essere autorità di riferimento per determinare, nei limiti delle proprie possibilità, dei cambiamenti utili alle donne, alle bambine ed ai bambini che hanno vissuto o vivono violenza. Siamo partite dalla realtà ed abbiamo cercato le strade per produrre dei concreti cambiamenti, visibili, vantaggiosi per le donne, misurabili. Abbiamo aumentato le nostre conoscenze e competenze per raggiungere questo obiettivo, consapevoli che il difficile territorio che vivevamo poteva/doveva  esserci da stimolo per costruire un modello in cui ognuno facesse la sua parte. Alcuni risultati li abbiamo ottenuti, con grande sforzo, ma anche con una crescita collettiva importante. Abbiamo scelto la strada della rappresentazione sapiente della nostra politica e delle nostre azioni. Abbiamo incontrato donne e uomini, dentro e fuori le istituzioni, con cui si sono condivise convinzioni ed obiettivi e costruite relazioni, così da potere avviare un processo che è ancora ben lungi dall’essere terminato e nel quale la gestione del conflitto ha una parte importante. Abbiamo avuto la pretesa di affermare valori della politica prima (quella che interagisce e vive nel reale del mondo) sulla scena delle decisioni istituzionali.

    Le pratiche che abbiamo sviluppato focalizzano il passaggio da una metodologia che privilegia la risposta ai bisogni (tipica dei servizi pubblici) ad un’impostazione metodologica relazionale basata sulla costruzione condivisa di un nuovo progetto di vita. Progetto che si definisce e si condivide nel luogo dell’accoglienza, ma a cui partecipano tutti i soggetti presenti nel territorio dal loro vertice di intervento e dai loro compiti istituzionali (sociali per aiuti, sostegno a figlie/i, alloggio; sanitari per benessere psicofisico, salute; protezione per scenario di sicurezza, procedure di tutela, denunzie, ecc.; giudiziari per tutela di sé e delle/dei figlie/i, pratiche giudiziarie civili e penali, ecc.; istruzione e formazione; no profit per primo contatto). Il focus dell’intervento ha una doppia entrata: il lavoro con la donna ed il lavoro con le/gli operatrici/ori; e genera una doppia uscita: un percorso più semplice ed efficace per la donna e per i figli ed il coinvolgimento responsabile degli attori che agiscono localmente.

    Gli effetti visibili delle scelte che abbiamo effettuato possono essere collocati su differenti piani di azione, di cui il primo è quello che riguarda la relazione con la donna che ci chiede aiuto e la proposta che le facciamo, cioè quella di pensare insieme un progetto di cambiamento. È la pratica dell’accoglienza, che si integra di tutte le competenze ed agenzie (pubbliche e private) che possono intervenire sul singolo progetto di vita.

    Il secondo livello di azione riguarda invece la programmazione e  attuazione di interventi tra i soggetti coinvolti nel progetto individuale, ma come enti, non più come singoli operatori – nodi di una rete che si fonda sulle relazioni personali -. È la pratica di lavoro di rete, che coinvolge in un processo di progettazione condivisa enti ed agenzie territoriali a partire da una visione comune sul “problema da affrontare” e con l’obiettivo di avviare processi di cambiamento interno ad enti ed istituzioni che permettano una maggiore adeguatezza di saperi, prassi e protocolli, ma anche e soprattutto l’assunzione del tema nelle organizzazioni e nelle programmazioni, così da rendere possibile la formazione, la strutturazione di procedure, la costruzione di relazioni efficaci tra organismi. Il primo risultato di questo lavoro è quello di rendere visibile il problema e di tessere rapporti significativi con chi può segnare le organizzazioni di un processo di cambiamento. Dare senso al cambiamento è un elemento fondamentale per il processo che accompagna la costruzione di una rete, alimentato da momenti di formazione che possono permettere dinamiche individuali di interrogazione sui propri saperi e competenze, alla luce delle rappresentazioni sociali e simboliche delle donne che soffrono violenza e delle loro capacità di costruire un’alternativa a tale sofferenza.

    Il terzo livello di azione concerne la promozione di politiche attive contro la violenza, dove per attive si intende la programmazione di azioni e misure in cui collocare servizi e progetti, in un quadro regionale di intervento che renda visibili gli impegni assunti nella parola pubblica, sempre più pervasiva, di lotta alla violenza di genere con azioni adeguatamente finanziate e monitorate in un processo di condivisione, scambio e conflitto che si sviluppa con l’ente locale. È la pratica dell’affermazione – riconoscimento di autorità a livello interorganizzativo e, sul piano della scena pubblica, di costruzione delle politiche e delle misure di intervento sociale, sanitario, educativo, di inclusione, di protezione.  

    Alla base vi è una pratica costante di ricerca, individuazione di tracce e di esperienze, messa in gioco delle metodologie esperite e valutate, definizione di strumenti di comunicazione e formazione, lavoro su progetto, adattamento della nostra organizzazione. Vi è anche la consapevolezza e la volontà che noi non vogliamo essere l’unica agenzia che risponde alle donne, ma che queste debbano trovare ovunque una risposta adeguata e competente. Per questo è così importante il lavoro con le organizzazioni pubbliche e private che incontrano le donne e spesso le respingono nel loro ruolo secolare di custodi dell’amore e del focolare o le vittimizzano ulteriormente. Ed ancora vi è un ulteriore passaggio che riguarda il lavoro con le bambine ed i bambini e l’allargamento simbolico e di pratica che questo ha comportato e sta comportando su tutti i livelli sopra descritti.

    Lo scenario attuale è apparentemente più favorevole ed adeguato agli interventi ed alle attività in favore delle donne che soffrono violenza, ma è anche penalizzato da un cambiamento strutturale che riduce fortemente il sistema di protezione sociale, limitando l’offerta dei servizi ed in particolare di quelli vissuti come non prioritari, cioè non richiesti dalla legge. Così, a fronte dell’emersione dei problemi e della difficoltà vissuti da molte donne, assistiamo alla riduzione degli interventi e della loro qualità. La scena pubblica si popola di significati legati alla tutela ed alla protezione e rende residuali gli interventi che portano alla libera scelta ed alla costruzione di un nuovo progetto di vita. Più sono visibili le donne uccise da mani amorose, più si alza il livello di sicurezza che protegge non loro, ma chi non vuole sentirsi troppo fragile rispetto ad una questione che interroga la vita e l’identità di tutti e di tutte.

    NOTE

    [1] Penso ovviamente alle milanesi con cui ho condiviso l’avvio di questo processo (Marisa Guarneri, Tiziana Catalano e Ileana Bersellini. per significarle tutte) ed alle donne palermitane con cui l’ho successivamente percorso in una dimensione inedita (Anna Alessi, Valeria Marcangeli e le altre).

    [2] Sono aderenti alla Rete i seguenti organismi: Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri; Polizia di Stato - Questura di Palermo; Procura presso il Tribunale di Palermo; Tribunale Ordinario di Palermo; Tribunale per i Minorenni;Comune di Palermo, Assessorato Cittadinanza Sociale, Assessorato Istruzione e Polizia Municipale; Provincia Regionale di Palermo, Direzione Politiche sociali, Giovanili, Pubblica Istruzione, Pari Opportunità; A.R.N.A.S. Civico Di Cristina Benfratelli; A.S.P.  Palermo; Università di Palermo, COT ; A.O.U.P. Paolo Giaccone; A.O. O.R. Villa Sofia - Cervello; USR Sicilia -  Osservatorio sulla Dispersione Scolastica; Ufficio della Consigliera di Parità Regionale; Le Onde Onlus; Associazione pediatri di base Di.Stu.ri.; Centro Sociale Laboratorio Zen Insieme; EdA “A. Ugo”; Ecap Palermo; I Sicaliani Coop. Sociale

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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