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  • Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013

    QUANDO LA COMPOSIZIONE DI INGREDIENTI DIVERSI DIVENTA NUTRIMENTO SANO E GUSTOSO: UN’ESPERIENZA DI FORMAZIONE NELL’AMBITO DI UN PROGETTO DI CATERING MULTIETNICO


    Tiziana Mantovani

    tiziana-mantovani@tiscali.it
    Mediatrice familiare, Counsellor, Didatta AIMS, Socio Formatore CNCP.


    Figura 1: catering multietnico.

    La cooperativa sociale ONLUS Energie Sociali di Verona lavora da anni sui temi dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e, nel 2011, ha promosso per la seconda volta un corso di formazione in Catering multietnico (la prima edizione è stata nel 2008). Il progetto, denominato Meltin’Food e cofinanziato dalla Fondazione Cariverona, ha offerto l'opportunità a 15 donne preferibilmente immigrate con profili di esclusione sociale, con buona conoscenza della lingua italiana, ma anche donne italiane considerate appartenenti alle fasce deboli, di partecipare gratuitamente a un corso di 140 ore.

    Mentre nel 2008 mi era stato dato l’incarico di accompagnare il gruppo nella gestione dei rapporti con i clienti, nel corso del progetto del 2011 mi sono occupata della formazione del gruppo e del rafforzamento motivazionale delle partecipanti: cambiamento significativo in quanto nella prima esperienza era stata sottovalutata la complessità delle diverse provenienze con conseguenti difficoltà e conflitti in cucina. In questa seconda occasione ho avuto la possibilità di fare tre interventi, per un totale di 12 ore: uno all’inizio, uno a metà e uno al termine del corso.

    Il gruppo era costituito da tre donne nigeriane, una ghanese, una rumena, due colombiane di cui una con cittadinanza italiana, una italo/dominicana, una algerina di nazionalità e cittadinanza italiana, una ivoriana, una marocchina, una senegalese, una ceca, una brasiliana con cittadinanza italiana e soltanto una italiana, tutte adulte di età compresa tra i 18 e i 52 anni con diverso livello di istruzione.

    Il mio primo incontro coincideva con l’inizio del corso e le partecipanti si vedevano in quell’occasione per la prima.

    Siamo partite dal considerare la composizione del gruppo per riflettere insieme su che cosa significasse sentirsi straniere ed è stata significativa l’affermazione dell’unica donna italiana: «anch’io mi sento straniera. Io lavoravo in un’agenzia tutta maschile, ero l’unica donna, mi sentivo veramente molto straniera. Mentre qua, non mi sento straniera con voi». Lavorando quindi su somiglianze e differenze ci siamo chieste quali abitudini si hanno nelle cucine dei rispettivi paesi d’origine e abbiamo fatto alcuni esempi che sono risultati molto divertenti.

    Successivamente, ogni partecipante ha scritto il proprio nome su un cartellino, che si è poi attaccata alla maglia. C’erano nomi molto complessi, ma ci siamo impegnate a pronunciarli correttamente, ben consapevoli dell’importanza del Nome. Abbiamo poi iniziato un gioco che ci ha aiutato a memorizzare i nomi e ad approfondire a poco a poco la conoscenza, comunicando con leggerezza e in modo rapido una serie di informazioni che avrebbero altrimenti potuto aprire uno spazio di narrazione dolorosa non idoneo a quel contesto (da quanto tempo sono in Italia, come sono arrivate, se hanno figli e dove, se sono sposate con un italiano o no…).

    A quel punto, dopo che si era creato un clima allegro e di disponibilità reciproca, ci siamo date un tempo per presentarci individualmente e la consegna è stata «Se io fossi un cibo del mio paese, sarei …». Uno degli obiettivi di questa modalità di presentazione era ricollegarsi alle proprie origini attraverso l’immediatezza che sempre si attiva nel fare ricorso ai propri sensi (colori, sapori, odori...). È stata una fase molto interessante e commovente soprattutto quando una delle ragazze, una giovane africana, ha detto: «Io sarei …» e non riusciva a ricordare il nome: si riferiva a una sorta di frullato che le faceva la nonna, a proposito del quale ha detto: «Quando ero in Africa lo odiavo, non lo sopportavo, lo bevevo proprio mal volentieri, adesso mi manca e non so più che cos’è e non so neanche come fare a risalire…».

    Purtroppo non c’era il tempo e non era quello il contesto, ma era uno spunto molto ricco per iniziare un percorso di recupero delle proprie radici. In quella situazione ho dovuto limitarmi a suggerirle di provare a parlarne con la sorella maggiore che ora vive a Parigi…

    Avevamo iniziato ad avvicinarci sempre di più ai loro Paesi d’origine, e dal cibo siamo passate al territorio: prendendo spunto da una delle applicazioni del genogramma paesaggistico di Jacques Pluymaekers [1] abbiamo utilizzato la stanza come se fosse una carta geografica.

    Abbiamo definito i punti cardinali e scelto una mattonella come punto di riferimento su cui collocare Verona. Ci siamo quindi posizionate nella stanza cercando le giuste distanze (avevo portato con me una mappa del mondo da poter osservare prima di prendere posizione). Anche questo è stato un passaggio intenso e molto bello in cui è stato possibile vedere come, per esempio, persone del Sud del mondo si ritenevano più a sud del sud (e non c’era cartina che potesse dimostrare il contrario) perché i loro caratteri somatici erano meno “europeizzati”, per esempio, di quelli di Cilene, una donna del sud Brasile!  E proprio Cilene, quando si è vista in fondo alla stanza, ha detto: «Ma perché mi lasciate quaggiù in fondo? Io volevo far parte, ma sono lontana!».

    Alla fine di questo primo incontro ci siamo chieste cosa era cambiato e perché non si sentivano più straniere; la domanda è stata: cos’ha permesso che non vi sentiate più straniere?

    Come conduttrice ho dovuto affrontare la sfida di preservare sempre uno spazio di non giudizio all’interno del gruppo, e di contenere nella giusta cornice le narrazioni, senza però lasciarmi sfuggire i vissuti emotivi che emergevano.

    Il mio secondo incontro con queste donne è avvenuto a 15 giorni dal primo e, nel frattempo, il gruppo aveva continuato a frequentare le lezioni di cucina. Questo è un particolare importante perché durante i loro incontri quotidiani erano emerse delle tensioni e quindi, anche se avevo già strutturato i miei interventi, dovevo essere molto flessibile nel raccogliere quello che stava avvenendo nel gruppo. Dopo aver riletto insieme a loro le difficoltà che avevano dovuto affrontare, ho deciso di far fare un collage [2] dividendo le partecipanti in quattro piccoli gruppi. Ho scelto che lo facessero sulla loro idea di nutrimento:

    Figura 2: collage.

    Figura 3: collage.

    Figura 4: collage.

    Figura 5: collage.

    Come è possibile dedurre, osservando le relative immagini, si è aperto un ampio spazio di dialogo che ha offerto a ciascuna di loro – indipendentemente dall’estrazione culturale, dall’età o dalla provenienza – la possibilità di confrontarsi con i propri desideri di benessere e, appunto, di nutrimento. Ciò ha dato una motivazione più ricca al corso stesso, in quanto l’incontro si è concluso chiedendo loro come pensavano di poter tradurre l’offerta di cibo in offerta di nutrimento, sia per il corpo che per l’anima.

    Questo incontro ha segnato un passaggio importante poiché, essendo il corso rivolto a “soggetti svantaggiati (…) con profili di esclusione sociale (…) appartenenti alle fasce deboli”, avrebbe potuto rischiare di svolgersi in un clima da corso di sopravvivenza, una sorta di “zattera di salvataggio” per persone che si stanno dando da fare per sopravvivere. Diventare consapevoli di avere qualcosa di prezioso da dare, qualcosa che è prezioso proprio perché pensato con l’amore e la cura tipica di quella parte del mondo portata qui da loro, ha permesso una svolta di dignità che è diventata a sua volta nutrimento per il gruppo. E’ diventato un vero e proprio reframing, cioè una ridefinizione da parte del gruppo della realtà vissuta e raccontata, che permette di modificarne in positivo il meta-significato, di gettare su di essa una luce diversa e di aprire nuove possibilità. Questa tecnica, elaborata da Minuchin, ha l’obiettivo di modificare la realtà percepita dagli individui e le narrazioni che ne fanno, ampliando gli orizzonti e costruendo una nuova configurazione su cui poter lavorare all’interno della relazione  in ambito di aiuto (Minuchin & Fishman, 1982).

    Nel terzo ed ultimo incontro ho utilizzato la proiezione di un cortometraggio (Black Sushi, di Dean Blumberg, 2002) che narra la storia  di un giovane africano che esce dal carcere. Ritrova gli amici della banda, ma lui vuole trovare un lavoro e cambiare vita. Viene quindi assunto in prova per fare le pulizie in un ristorante sushi. Il giovane rimane affascinato dalla ritualità del Maestro giapponese, a cui chiede insistentemente di essere iniziato all’arte del sushi. Il filmato è particolarmente toccante e coinvolgente, soprattutto nella semplice dimostrazione di come entrambi, superando i pregiudizi razziali, accettano di avere qualcosa da imparare dall’altro (deliziosa la scena in cui il ragazzo africano si specchia tirando la pelle ai lati degli occhi per renderli a mandorla).

    Poiché nel cortometraggio c’è una scena molto intensa in cui vengono inquadrate le mani del giovane che, al termine del lungo e faticoso processo di apprendimento, dichiara «Le mie mani sono cambiate», ho proposto al gruppo uno strumento ideato da Marie Simon [3] per i gruppi di parola per bambini figli di genitori separati: secondo la tecnica dei Calligrammi [4] di Guillaume Apollinaire (Apollinaire, 2004) ho chiesto loro di percorrere con la penna il contorno della loro mano posata su un foglio e di scrivere nella loro lingua madre che cosa si portavano a casa da quel corso.

    Anche quello è stato un momento molto intenso e significativo perché qualche donna  ha detto: «Io non so qual è la mia lingua madre», oppure «Io non so più scrivere nella mia lingua madre».Ci siamo poi messe in cerchio, tenendoci per mano, e abbiamo sistemato tutti i fogli al centro; ho quindi proposto a ciascuna di portarsi a casa non il disegno della propria mano, ma quello di un’altra, indipendentemente dal fatto che non avrebbero mai saputo cosa c’era scritto: ogni volta che si riesce a creare un Cerchio di intenti comuni, di vicinanza, di scambio, di rispetto e di comprensione, resta in ognuno un’impronta, e quell’impronta può diventare un simbolo fortemente evocativo a cui accedere nei momenti di difficoltà.

    Al termine dell’esposizione di questa esperienza, la relatrice ha chiesto al pubblico di posare la propria mano su un foglio bianco e di disegnarne il contorno. Utilizzando la tecnica dei Calligrammi a ognuno è stato chiesto di scrivere lungo il contorno cosa si portava a casa dal Convegno.

    Ecco alcune scritte che sulle proprie mani i partecipanti hanno disegnato:

    • Mi porto a casa dal convegno d’oggi un senso d’ammirazione per la capacità testimoniata di mantenere congiunti aspetti d’attivazione razionale ed emotiva, fonte di motivazione e creatività! Grazie.
    • Mi porto via il consueto calore che Cecilia ha saputo creare e trasmettere attraverso il suo staff e i suoi corsi; il cuore dell’Incontro, al di là di tutte le diversità culturali è il Cuore. E poi un bel “ripasso” che torna a muovere l’entusiasmo per la creatività.
    • Ascolto dei propri pregiudizi. Potenza dei pregiudizi nei confronti della capacità di ascolto. Interculturalità a livello di individui. Esplorazione di mondi culturali con simboli e significati diversi. Un grazie a chi ha permesso che questo accadesse.
    • Nuove conoscenze, conferme, apertura alle differenze, cogliere, vivere la nostalgia. Energia donna – madre. Soggetti, energie sociali. Circolarità, multiculturalità.
    • Importanza del cuore nella relazione d’aiuto. Circolarità della relazione d’aiuto. Importanza di essere in rete. Cambiamento del cliente e cambiamento del terapeuta. Coraggio di essere sistemici.
    • Suggestioni, incontri, voglia di cambiare, facce, nuovi orizzonti, mondi, diversità, dentro e fuori, cura, intesa, linguaggi, riconoscimento, emozioni, approdi, viaggi, voglia di movimento, letture, poesia, immagini, parole, realtà mutevoli.
    • Linguaggio, consapevolezza, inclusione, creatività, curiosità, professionalità, ascolto, condivisione vera. Cambiamento.
    • Conferme, conoscenze, competenze, condivisioni, amore.
    • Speranza di un cambiamento difficile ma possibile. Imprevedibilità. E’ l’incontro il punto di partenza.
    • Nuove conoscenze. Nuovi misteri. La curiosità di continuare le esplorazioni. La condivisione di esperienze e vissuti. L’aver pensato tanto. Un’attesa non ancora definita. Un cammino che spero continuerà.
    • Accoglienza, sintonia, empatia, dolcezza, esperienza.
    • Mi porto via alcune conferme, grazie.
    • Una porta aperta.
    • “Riconoscersi in una prospettiva”.
    • Riflessione, emozione.
    • Me llevo a cassa un dia de nutrición
    • Coraggio, intercultura, passione, professionalità, rischiare, tenacia. Ciao Ceci!
    • Stimoli sempre nuovi per nuove possibili occasioni di incontro.
    • Incontro, scambio, confronto, serenità, piacere, pace, ascolto, emozioni, calma, visioni, belle immagini, tempo, nuovi significati.

    Riferimenti bibliografici

    Apollinaire G. 2004, Calligrammes, Gallimard, Parigi.
    Edelstein C. 2000, Il pozzo: uno spazio di incontri, «Connessioni», Vol 6, pp. 71-84.
    Edelstein C. 2002, Aspetti psicologici dei processi migratori al femminile. Albatros in volo, «Psicologia e Psicologi», Vol 2, (2), pp. 227-243.
    Edelstein C. 2003, La costruzione dei sé nella comunicazione interculturale, «Studi Zancan», Vol 6: pp. 121-147.
    Edelstein C. 2011, Il counseling sistemico pluralista. Dalla teoria alla pratica. Erickson, Trento.
    Minuchin S. & Fishman H. C. 1982, Guida alle tecniche della terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.
    Onnis L. 2010, Lo specchio interno. La formazione personale del terapeuta sistemico in una prospettiva europea, Franco Angeli, Milano.

    Note

    1] Psicologo, Terapeuta Familiare, Direttore e formatore in terapia familiare all’Istituto di Studi della Famiglia e dei Sistemi Umani a Bruxelles e all’Associazione Rete e Famiglia a Montpellier, Presidente della Camera dei Membri Individuali (CIM) dell’ EFTA (European Family Therapy Association), consulente scientifico alla scuola di criminologia dell’Università Cattolica di Louvain.

    2] La tecnica del collage è stata utilizzata inizialmente da de Bernart, soprattutto all’interno della terapia di coppia, per attivare i linguaggi non verbali e facilitare l’analisi relazionale. Scopo del lavoro è far circolare i pensieri e favorire la comunicazione attraverso l’immagine (Edelstein, 2011).

    3] Dottore di ricerca in Psicologia clinica e Psicopatologia presso la Facoltà di Medicina di Lione, Ricercatrice ed esperta dei gruppi di Parola, Specializzata nei problemi infantili nelle transizioni familiari, Formatrice di conduttori di Gruppi di Parola, Mediatrice familiare - Diplome d'Etat Mediation Familiale.

    4] Il calligramma è un componimento poetico costruito in modo che le parole, disposte secondo una logica grafica, formino un’immagine, un disegno che rinvia al contenuto della poesia stessa.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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