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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    “SIAMO STATI TUTTI BAMBINI PER UN TEMPO DELLA NOSTRA VITA”. INSIDIE E POTENZIALITÀ DEI RICORDI D’INFANZIA NELLA RICERCA ETNOGRAFICA CON I BAMBINI


    Caterina Satta

    caterina.satta@unipd.it
    Dottore di ricerca in "Sociologia: processi comunicativi e interculturali". Svolge attivitàdi ricerca nell'ambito della sociologia dell'infanzia e della vita quotidiana occupandosi principalmente di tempi e spazi, culture dei bambini e culture educative. Attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento FISPPA dell'Università di Padova. Ha in pubblicazione con Carocci il libro "Bambini e adulti: la nuova sociologia dell'infanzia" (2012).

    Come una madre che accosti il neonato al petto senza svegliarlo, così la vita procede per lungo tempo con i ricordi ancora gracili dell’infanzia.
    Walter Benjamin

    Fare ricerca con i bambini. Qualche premessa

    Sono ormai diversi anni che faccio ricerca con i bambini adottando metodologie qualitative, in particolare etnografiche, e sperimentando tecniche di indagine più child centred, così come prevede tutto un filone di studi che si sta consolidando nell’ambito delle ricerche sull’infanzia. Questo fiorire di tecniche e di strumenti che si inseriscono in un altrettanto fiorente mercato editoriale, specie anglosassone, di manuali, libri e articoli specializzati nella raccolta o nell’analisi di tale “strumentazione” (Christensen, James 2008; Greig, Taylorand, MacKay 2007; Farrell 2005; Kellett 2005; Fraser et al. 2004) si poggia sull’assunto condiviso che i bambini sono un peculiare soggetto di ricerca. Dei soggetti, cioè, che si distinguono da quelli tradizionalmente studiati nelle scienze sociologiche (giovani in primis, donne, migranti, gay, lesbiche, queer e altri gruppi marginalizzati) perché più piccoli, e quindi non pienamente socializzati alle norme e ai valori di una data comunità e non ancora in grado di padroneggiarli adeguatamente, e perché ancora carenti di conoscenze e saperi. Questa costruzione dell’identità dei bambini per sottrazione, come “non essere”, “non ancora” o “carenti di”, si ritraduce, d’altra parte, in un’attribuzione nei loro confronti di caratteristiche di preziosità (Zelizer, 1985) e vulnerabilità che richiedono al mondo adulto un carico di attenzione e cura superiore a quello richiesto per altre soggettività. Lo stesso carico di attenzione e cura si riscontra tra quanti svolgono ricerca sociale con i bambini. Uno dei punti più critici è la questione dell’alterità infantile che è transitoria (il bambino è “altro” sino a quando è bambino) e in via di definizione (essendo il bambino in una fase di crescita i lineamenti di questa alterità sono in continuo mutamento e ridefinizione durante l’infanzia). Questi aspetti si ritraducono in questioni metodologiche di non facile risoluzione nella fase di progettazione di una ricerca. Come affrontare, ad esempio, una differente padronanza del linguaggio verbale, specie nel caso dei più piccoli, edel linguaggio del corpo, ancora non sufficientemente disciplinato dalle istituzioni familiari e scolastiche? O ancora, come far fronte ad un differente grado di sviluppo, specie in conoscenze ed esperienze, di libertà e soprattutto di potere agito e riconosciuto ai bambini?

    Un esempio di tale mancanza di potere anche all’interno della ricerca è offerto dalla fase della richiesta di autorizzazione cui i ricercatori dell’infanzia devono “sottoporsi” prima di stabilire anche il minimo contatto con i bambini. Uno dei principali ostacoli che essi infatti attualmente incontrano è l’obbligatoria negoziazione del loro accesso al campo con degli adulti, i cosiddetti gatekeeper, i custodi di un mondo infantile che è sempre più separato da quello degli adulti (Zeiher, 2003). Chi si trova quindi a decidere, prima ancora dei bambini, aprendo e chiudendo loro la possibilità di scegliere, sono gli adulti, siano essi i genitori, i maestri, gli educatori o gli allenatori a seconda dell’ambito di ricerca individuato. Tutto questo perché i bambini sono considerati vulnerabili e quindi da proteggere all’interno di luoghi e istituzioni ben definiti garanti della loro protezione e incolumità che un “agente esterno”, come un ricercatore, con la sua domanda di ricerca potrebbe in qualche modo mettere “in pericolo”.

    Quelli che ho sommariamente descritto sono solo alcuni dei principali argomenti di cui si discute nell’ambito della metodologia della ricerca con i bambini. Questo contributo vuole provare ad aggiungere un tassello problematico in tale quadro già sufficientemente complesso e denso di questioni etiche e sostantive, e mira ad indagare in chiave metodologica il tema dei ricordi d’infanzia del ricercatore coinvolto in ricerche empiriche con bambini, analizzando riflessivamente il ruolo giocato da pezzi della sua personale autobiografia nella comprensione dell’infanzia [1].

    Se, a seguito della svolta riflessiva degli ultimi trent’anni nelle scienze umane e sociali, l’attenzione alla soggettività del ricercatore risulta sicuramente cresciuta in tutte le ricerche che adottano metodologie di analisi qualitative [2], la questione si fa ancora più delicata nel caso di ricerche etnografiche che riguardano i bambini. Non solo per le rappresentazioni sul bambino dominanti sia nel senso comune sia in quello più tradizionale delle scienze sociali - ancora non pienamente coinvolte, specialmente in Italia, dal cambiamento di paradigma sull’infanzia introdotto dall’approccio della new childhood sociology (Corsaro, 1997; James, Jenks Prout, 1998; Mayall, 2002; Satta, 2012) - ma più specificamente per quel tratto certo della biografia di un ricercatore sociale dell’infanzia, il fatto, cioè, che anch’egli è stato nel passato un bambino.

    Come ben sottolinea Philo (2003):

    forse più che in molte altre ricerche socio-culturali in cui il ‘noi’ rimane fondamentalmente ‘altro’ dalle persone su cui si fa ricerca, c’è ancora un frammento di connessione tra il ricercatore e i soggetti ricercati perché tutti ad un certo stadio della vita siamo stati bambini, più piccoli fisicamente, carenti di esperienze e ampiamente dipendenti, curati e regolati da adulti (p. 10).

    Ciò che si intende pertanto indagare è la posizione del ricercatore adulto che non solo con le sue conoscenze ma con la sua stessa esperienza di vita accede al mondo dei bambini. Una domanda a cui si vuole cercare di rispondere, seguendo lo stimolo offerto da Philo (2003) nel suo “To go back up the Side Hill”. Memories, imaginations and reveries of childhood, è se, e come, il ricercatore può assumere i suoi ricordi come strumenti di ricerca in grado di metterlo in contatto con il mondo dell’infanzia che sta indagando [3].

    Questo articolo presenta le riflessioni di una ricerca che è allo stadio iniziale ed è nata non tanto sul campo ma “a tavolino”, nei momenti in cui finite la raccolta dei dati e la compilazione dei diari etnografici mi trovavo a interpretare quello che avevo osservato. Mi succedeva spesso in quelle situazioni che un ricordo della mia stessa infanzia riemergesse a tinte chiarissime. Un ricordo che fungeva quasi da chiave di volta nella comprensione del fenomeno che stavo cercando di comprendere. L’articolo nasce esattamente in questa fase, tra la scrittura e l’interpretazione del proprio resoconto etnografico, in uno di quei momenti di transizione e di sospensione in cui non si è ancora completamente fuori dal campo né già nel dibattito della comunità scientifica. Ritengo che questi ricordi non siano “neutri”, non siano solo pensieri passeggeri destinati a fare inevitabilmente capolino e poi a sparire. Da ricercatrice dell’infanzia non posso trattare questo aspetto con la stessa leggerezza con cui i ricordi bussano alla mia testa perché capire che ruolo giochino mi può aiutare a mantenere la giusta distanza dal mio campo, ad assumere cioè la consapevolezza della genesi di alcune interpretazioni, e, ancora di più, a rispettare il campo dei bambini, ossia a evitare il rischio di proiettare sull’altro la mia storia.

    A partire da questa riflessione metodologica-riflessiva sul ricordo del ricercatore si cercherà poi di estendere la discussione alla complessa relazione tra ricordi e relazioni intergenerazionali. Se comprendere come il ricercatore “usa” il suo ricordo dell'infanzia dice di come egli ri-costruisce l'infanzia nei suoi resoconti, allo stesso modo comprendere come gli adulti (siano essi genitori, educatori, nonni o altre figure) ricorrono ai loro ricordi per educare i bambini dice della distanza-vicinanza esistente in una relazione intergenerazionale e delle rappresentazioni che essi hanno dell’infanzia. In conclusione, una breve presentazione del mondo dei ricordi degli stessi bambini ci aiuterà a problematizzare ulteriormente questo quadro analitico decostruendo una rappresentazione dominante sui bambini unicamente come il “nostro futuro” o come veicoli del “nostro passato”.

    Il ricordo quindi da strumento di ricerca si fa anche oggetto di riflessione, da narrazione interna, silente e privata, diventa parola e testo interpersonale daraccontare, da ascoltare e infine da analizzare.

    Il ricordo d’infanzia come narrazione

    L’infanzia ricordata è un topos letterario ormai tanto abusato, specie nella nuova narrativa, da far parlare molti criticidi “infantilizzazione della letteratura” [4]. Romanzi che hanno per protagonisti bambini che raccontano in prima persona il mondo dell’infanzia e il mondo spesso incomprensibile degli adulti, e ancora biografie e autobiografie che dedicano capitoli interi ai primi anni di vita di personaggi noti si succedono tra le novità negli scaffali di librerie e biblioteche e nelle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali.

    A ben vedere il “genere infanzia” non è poi così recente, non foss’altro per l’uso metaforico che dell’infanzia è stato fatto nei secoli in molti ambiti, dalla filosofia alla psicologia, dalla letteratura al cinema. Il punto che però mi preme sottolineare è proprio questo: l’infanzia si fa metafora. Essa non è quindi quella concreta dei bambini che nel nostro presente vivono accanto a noi ma è quella rarefatta del ricordo, persa nell’asse temporale della nostra storia personale e della storia collettiva di una comunità.

    Ciò che vorrei qui indagare è proprio la considerazione del passato come qualcosa di “perso”, di “finito per sempre” e di “irrecuperabile” (Jones 2003) o come una parte della nostra vita a cui si può attingere attraverso un certo tipo di ricordo (Philo 2003). Chiaramente la questione non può essere posta in termini dicotomici, possibile-impossibile, anche perché si tratta di un materiale narrativo, il ricordo, insidioso e fallace, in cui la descrizione di “quello che è stato” è superata spesso dall’impressione, dalla sensazione, dalla rappresentazione che ci resta nel tempo di quello che è stato.

    Nel 1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sempre, alla città in cui ero nato. Nella mia vita interiore avevo più volte sperimentato come fosse salutare il metodo della vaccinazione, lo seguii anche in questa occasione e intenzionalmente feci emergere in me le immagini – quelle dell’infanzia – che in esilio sono solite risvegliare più intensamente la nostalgia di casa. La nostalgia non deve però imporsi sullo spirito come il vaccino non deve imporsi su un corpo sano (Benjamin, 2007, p. 3).

    Con queste parole Benjamin in premessa alla raccolta di suoi ricordi, o meglio di «immagini» della sua infanzia nella metropoli berlinese, descrive il difficile equilibrio che si deve mantenere nell’atto del ricordare. Descrive, in altri termini, il rischio della trasfigurazione di questo passato che con il trascorrere del tempo diventa altro e invita a controllare la spinta emotiva associata al ricordare perché potrebbe in qualche modo offuscarlo.

    Aitken (1994), citando Schactel (1959), parla a questo riguardo di “amnesia dell’infanzia” evidenziando così la problematicità del richiamare alla mente la nostra “vera” esperienza d’infanzia perché si riferisce ad un periodo che pur vissuto è così lontano dalla nostra attuale condizione che per l’adulto è difficile da recuperare nella sua integrità. Difficoltà che andrebbe quindi per Aitken ad intaccare l’utilità euristica del ricordo per l’impossibilità di costruire, a partire dall’esperienza infantile del ricercatore, dei legami con i bambini del presente.

    Una tale concettualizzazione della memoria e del ricordo sembrerebbe però affermare il possesso di una presunta conoscenza oggettiva del mondo che con il tempo verrebbe in qualche modo deteriorata. Il fatto è che il ricordo è una narrazione personale del proprio passato e come tale non può essere sottoposto ad un processo di validazione. Come afferma Riessman «le narrazioni non rispecchiano il passato, lo riflettono».

    Immaginazione e interessi particolari, influenzano il modo in cui i singoli scelgono di collegare eventi e renderli significativi per gli altri. Le narrazioni sono importanti nelle ricerche proprio perché i narranti non riproducono il passato così come era ma lo interpretano. Le “verità” dei rescoconti narrativi non risiedono nella loro fedele rappresentazione del passato ma nelle mutevoli connessioni che essi stabiliscono tra presente, passato e futuro (Riessman, 2004, p. 708).

    La memoria «non è solo un recupero del passato dal passato, è sempre una fresca, nuova creazione dove i ricordi sono recuperati nel regno del conscio e qualcosa di nuovo è creato in quel contesto» (Jones 2003, p. 27). Per questo Jones ne parla come di una “rilettura senza fine” ma“finita per sempre”. Non esisterebbe quindi un passato recuperabile in sé ma una continua rivisitazione di quel passato nel presente. Un instancabile lavorio, una continua opera di re-immaginazione (Wright Mills, 1962) che da luogo remoto e lontano lo farebbe invece risultare costantemente vicino e presente nelle nostre vite.

    La memoria è un processo narrativo poiché come scrive Riessman non è mai una riproduzione fedele di “quello che è stato”, non è mai una riproposizione senza mediazione del passato. Alcuni eventi sono selezionati, organizzati, connessi e valutati come significativi per audience particolari. Come in un racconto ci sono un intreccio e uno scenario in cui far agire e interagire tra loro dei personaggi. La memoria è cioè un processo di riscrittura continua del passato, di cui è importante riconoscere la trama, i tasselli che la compongono, capire per chi e per quale ragione è stata tessuta in quel modo. Ad esempio, quali aspetti della nostra infanzia selezioniamo nella revisitazione del nostro passato? Che tipo di narrazioni del passato infantile ricostruiamo? Perché?

    Il ricordo d’infanzia. Proiezione adulta o possibile legame intergenerazionale?

    Il problema da cui siamo partiti circa la possibilità di usare la memoria come strumento interpretativo dell’infanzia è che per Jones il passato è passato ed è “per sempre finito” nella forma in cui lo abbiamo esperito, mentre per Philo sono possibili dei “ritorni” a quella fase della nostra vita dati dal fatto che tutti abbiamo vissuto la condizione di bambini e sentito come caratteristica distintiva quella di “non essere grandi”.

    Nell’affrontare questo tema Philo si sposta su una dimensione poetica dell’esistenza, allontanandosi cioè da un piano meramente empirico e ricorre al concetto di revêrie di Bachelard, il quale per primo considera le revêrie, le fantasticherie, un modo per “rientrare” in qualche modo nel mondo dell’infanzia. Egli si riferisce quindi a quelle forme di ricordo irriflessive, inconscie che emergono dall’oblio in cui erano state temporaneamente conservate in maniera involontaria. Le emozioni giocherebbero insieme all’immaginazione e al ricordo un ruolo centrale nella costruzione di un ponte immaginario tra adulti e bambini. La loro posizione non è però irrilevante nel processo mnemonico poiché, come mette in guardia lo stesso Benjamin, esse potrebbero influenzare lo stesso processo di ricerca, quello che si scopre o non si scopre, quello che si percepisce o si tralascia. Il ricercatore, nell’atto di esplorare le esperienze dei bambini che sta studiando, potrebbe andare alla ricerca della sua “infanzia perduta” e farla diventare una ricerca nostalgica di quello che è stato perduto o, al contrario, di quello che non è mai stato vissuto. Steedman (1995) suggerisce pertanto, come antidoto all’eccessivo coinvolgimento del ricercatore, che egli riconosca il proprio personale carico emotivo mentre è volto a stabilire un contatto e a identificarsi nell’altro. L'idealizzazione di un'infanzia perduta, che si ritraduce anche negli immaginari di una spazialità perduta [5], è infatti uno dei rischi maggiori che si corre quando si lavora con il ricordo, così come quando si livellano le differenze temporali alla ricerca di un'essenzialità dell'umano, colta nell'età infantile. In questi casi il ricordo perde la sua funzione euristica e diventa strumento di colonizzazione dello spazio infantile da parte dei ricordi o delle revêrie degli adulti, diviene mitizzazione dell’infanzia del passato e mistificazione dell’esperienza specifica dei bambini nei loro contesti di vita quotidiana. Si fa metafora.

    Le parole raccolte negli anni durante interviste ad adulti (genitori ed educatori) sui temi più svariati, e mai specificamente sul tema del ricordo, rivelano infatti un frequente utilizzo di un’infanzia spazio-temporalmente passata per comprendere quella dei bambini del presente.

    “Quando io ero bambino non avevo bisogno di tutti quei giocattoli che hanno i bambini di oggi”, T1.

    “Noi ci divertivamo, eravamo più spensierati”, T2.

    “Si stufano subito, dopo che gli compri un giocattolo ne vogliono subito un altro perché l’hanno visto al compagno di classe o al compagnetto di calcio o di catechismo”, T3

    “I bambini di oggi non sanno più cos’è il rispetto. Noi - sarà stato così anche per te - quando ci trovavamo di fronte ad una persona più grande in classe non ci sognavamo nemmeno di rispondergli se venivamo rimproverati, questi invece....”, T4

    “Sono bambini cresciuti con la playstation non hanno più la fisicità, le capacità motorie dei bambini di una volta. Perdere o vincere una partita non ha più tanto significato per loro, sono abituati con i giochini al computer e a rifare la partita. Anche solo 10 anni fa, i bambini piangevano, si arrabbiavano, per questi di adesso...è lo stesso”, T4.

    Il “quando eravamo bambini noi”, spesso declinato al plurale per rafforzare l’idea di una comune condizione generazionale che trascende il singolo individuo, è frequentemente usato dagli adulti come metro di paragone per comprendere o per stigmatizzare i comportamenti dei bambini. Nella sempre più diffusa “ansia di comprensione” sul “perché mio figlio fa così”, in mancanza del supporto disaperi esperti, psicologici o pedagogici, il recupero del proprio ricordo d’infanzia sembra essere la via più semplice ma soprattutto più naturale. Si fa cioè in questi casi un ricorso stumentale, razionale, consapevole e mirato al ricordo della propria infanzia (diverso da quello invocato da Philo), che assume così tratti oggettivi. Un’evocazione che non ascolta, come invita a fare Steedman, ma cade invece nell’atteggiamento opposto di proiezione della propria infanzia passata in quella attuale dei bambini.

    Io credo, seguendo l’ipotesi di Philo, che il ricordo della propria condizione durante l’infanzia possa comunque creare «frammenti di connessione» tra il ricercatore (o l’adulto in generale) e i bambini, facendo leva sul senso di comunanza dell’aver vissuto quella fase ma senza che per questo si voglia affermare una coincidenza e negare le differenze temporali e spaziali esistenti tra le diverse infanzie (Aries, 1976; James A, Prout A., 1997; James, James, 2004).

    In questa distanza, che non è «incolmabile» (Philo, 2003, p. 9), risiederebbe la potenzialità del ricordo come strumento euristico. La condivisione di status, anche se temporalmente sfasata, costituisce la base per un possibile incontro «non tra due bambini nati in epoche differenti ma sempre tra il bambino su cui si fa ricerca e l’adulto ricercatore, in cui quest’ultimo cerca di assumere tra i vari punti di vista interpretativi quello del suo self bambino» (Satta, 2010, p. 202). Il ricordo del ricercatore non si limita quindi ad evocare un passato che rimane tale, bensì può essere una via per ri-conoscere il mondo del bambino che ha davanti.

    L’anello di congiunzione con i bambini potrebbe essere basato proprio su questo vagare libero tra i propri ricordi, aiutati dall’immaginazione e sostenuti nel loro recupero dall’emozione che spesso arriva prima di ogni comprensione razionale, perché non sarebbe poi così diverso dal daydreaming dei bambini, dalle fantasticherie che riempiono le loro giornate per molti anni della loro vita. Questo loro tempo del ciondolarsi ad occhi aperti sarebbe poi l’unico spazio che essi possiedono per stare da soli con se stessi, lontani dalla presenza e dal controllo degli adulti. In questo tempo fuori dal tempo si concretizza per Bachelard l’essenza della condizione infantile, così come ben descrivono le sue parole:

    quando siamo bambini, le persone ci mostrano così tante cose che noi perdiamo il profondo senso del vedere. Vedere e mostrare sono fenomenologicamente in violenta antitesi. E come potrebbero gli adulti mostrarci il mondo che essi hanno perso!....Essi sanno; essi pensano di sapere; essi dicono di sapere...Essi dimostrano al bambino che la terra è rotonda, che essa gira intorno al sole. E il povero bambino sognante deve stare ad ascoltare tutto questo! Che sollievo per le tue fantasticherie quando tu lasci la classe e ritorni sulla cima della collina, la tua collina! (Bachelard, 1972, p. 127)

    La cima della collina, non la classe o l’ambiente domestico popolato da adulti, diventa il luogo in cui il bambino ritrova se stesso. In un periodo in cui si parla di istituzionalizzazione e commercializzazione del tempo libero dei bambini che sono entrati, al pari e più degli adulti, in un regime di regolamentazione oraria delle loro giornate (Näsman, 1994), non è probabilmente un caso che alcuni geografi dell’infanzia abbiano attinto a questa immagine di spazio libero e incontrollato di Bachelard (cfr. anche Aitken 2001). E non è ugualmente casuale che in un periodo di proliferazione di tecniche di ricerca per avvicinarsi il più possibile al mondo dei bambini, l’invito di Philo ai ricercatori sia di “non fare troppo”. Sarebbe dunque nella connessione tra le fantasticherie dei bambini e le revêrie degli adulti che si potrebbero creare quei frammenti di connessione tra adulti e bambini. Da qui il suggerimento di raccogliere e osservare il materiale, i diari, le parole e le azioni svolte dai bambini al di fuori dai compiti che diamo loro come ricercatori perché si nasconderebbero anche in queste azioni e prodotti apparentemente “inutili” i frammenti «del senso di sé nel mondo di un bambino» (Philo, 2003, p. 18). Un mondo che - non deve farci paura - può essere popolato da dinosauri e streghe che vivono nella stessa strada in cui c’è il negozio dove il bambino va a comprare il pane con suo padre. Un mondo dove l’immaginazione, l’emozione e il ricordo si fondono in modo armonico, ma anche disarmonico, con elementi della realtà. Potremmo pertanto dire che l’incontro tra bambini e adulti (siano o meno ricercatori) può avvenire su un altro «ordine di realtà» (Schutz, 1979), un ordine inter-generazionale in cui cioè elementi della cultura adulta convivono con elementi della cultura infantile, al di là di discorsi educativi e di divisione del mondo tra soggetti “da socializzare” e soggetti “già socializzati”. Basterebbe cogliere l’invito offerto dalla nuova sociologia dell’infanzia a cambiare la prospettiva da cui guardare i bambini per toglierli dal cono d’ombra delle proiezioni adulte e iniziare a vederli qui ed ora (Satta, 2012).

    “Quando io ero piccolo”. I ricordi dei bambini

    Sono le narrazioni che gli adulti fanno del mondo e dell’infanzia a legittimare, o più comunemente, a delegittimare certi tipi di immaginari e forme di immaginazione infantile. Gli adulti con le loro narrazioni influenzano sia il modo in cui si agisce con i bambini sia la loro stessa esperienza nella vita quotidiana e nella relazione con il mondo adulto (James, James, 2004; Holland, 2004) e per questo esse ricoprono un ruolo centrale nella comprensione del rapporto tra le generazioni.

    Anche la rappresentazione diffusa dei bambini come deficitari di conoscenze perché non ancora maturi (Greene, Hogan, 2005) fa sì che li si pensi spesso come carenti di ricordi, mentre l’ascolto e l’osservazione attenta dei bambini rivelano che anche i bambini hanno ricordi e che raccoglierli può forse fungere da argine ad una colonizzazione dell’infanzia da parte dell’infanzia ricordata dagli adulti.

    L’ascolto delle narrazioni che i bambini fanno del proprio quotidiano contribuisce non solo a decostruire le narrazioni dominanti su un’infanzia idilliaca ma a scoprire il ruolo giocato dai loro stessi ricordi e dall’evocazione del tempo passato nella costruzione del racconto di sé.

    Brevi estratti che qui riporto di alcune interviste raccolte durante una ricerca sui consumi di bambini e bambine di dieci anni [6], sembrano essere un’adeguata risposta a quell’infanzia ricordata dagli adulti citata nelle pagine precedenti. Non sono le revêrie di Philo ma sono racconti stimolati dalle fotografie che i bambini hanno scattato di tre “cose” che erano per loro importanti [7]. La domanda con cui si dava avvio all’intervista di gruppo era descrittiva, si chiedeva cioè ai bambini di dire cosa aveva fotografato e perché “la cosa” fotografata era importante. Quanto è emerso in molte occasioni, senza che ci fosse alcuna sollecitazione a riguardo, è che l’importanza della “cosa” custodita gelosamente era legata a dei ricordi della loro infanzia.

    Dopo ho fotografato la coppa che mi hanno dato a calcio. Quando l’anno scorso ho fatto il capitano della squadra e facciamo anche tanti goal e dopodiché abbiamo vinto questa coppa che c’è scritto sotto, sotto c’è scritto data 2009 e subito il mese.

    Beh, è importante perché mi ricorda quando ero il capitano e anche quest’anno, ma però quest’anno c’è un altro mio compagno che si chiama R. e che adesso è il terzo capocannoniere che adesso mi rifanno capitano, ma lui qualche volta fa il capitano e in alcune lo faccio io. (Bambino1, 10 anni)

    La prima è la foto della mia vecchia racchetta da tennis che adesso non uso più, che però l’ho usata per tanto tempo, quindi era un bel ricordo. L’ho presa l’anno scorso, perché quando ho iniziato a fare tornei. Poi la foto del mio computer, insomma fin da piccolo l’ho usato, non solo per giocare, ma già per fare magari programmi, vedere come sono fatti così. Mio papà spesso, visto che lui lavora proprio con il computer, è ingegnere informatico e quindi lui un giorno, l’anno scorso, c’erano dei pezzi di altri computer, potenti del loro ufficio solo che non venivano più usati, allora con dei pezzi di computer che avevano in ufficio, più altri pezzi di computer ha costruito questo qua, perché è molto potente. E quindi questo è quello che ho scelto. Ce l’ho da tantissimo tempo…(Bambino2, 10 anni)

    Io questo peluche l’ho avuto, me l’ha regalato mia mamma quando ero piccolo, ero all’asilo nido. Da piccolo sono sempre stato un po’ pigrone all’inizio e quindi andavo all’asilo, all’asilo-nido, solo che non stavo da solo dopo allora le maestre hanno consigliato a mia mamma di darmi qualcosa con questa… così… e allora mi ha regalato questo. Da quel giorno sono stato così e da lì me lo sono tenuto fino adesso (Bambino3, 10 anni)

    Dopo ho fotografato il mio telefono che ce l’ho da tanto tempo, io ci tengo molto perché ho fatto tante foto sul telefono che mi ricordano belle esperienze che ho fatto e mi ricordano un po’ il passato e tanti tanti messaggi che ho ricevuto...(Bambina4, 10 anni)

    Beh, io ho due foto. Una rappresenta un serpente di mio papà, questa è la mia scrivania che me l’hanno regalata e un altro è il lettino perché mi ricorda quando ero piccolo…(Bambino5, 10 anni)

    Ho fotografato i gatti perché mi piacciono e soprattutto perché mi fanno ridere per i ricordi. Macchia mi fa venire in mente quando l’ho trovato e quanto è pazzo. Cammina sui muri. Una volta lui vede il vetro della finestra, no? Dopo comincia a correre intorno a tutta la casa, dopo comincia ad andare sul divano e buttarsi addosso con la testa. Così psss! E poi ci riprova anche! (Bambino6, 10 anni)

    Gli oggetti diventano così strumenti per addomesticare il passato, dei ponti adoperati dagli stessi bambini per fermare il trascorrere del tempo e ritornare in certi momenti della loro vita “bambini” [8]. Il “quando ero piccolo” non è infatti una proiezione temporale appartenente solo agli anziani, agli adulti o ai giovani, bensì anche ai bambini come ben sanno gli psicologi dell’infanzia che da tempo lavorano con i ricordi dei bambini. Anche la sociologia potrebbe riconoscere questo aspetto della temporalità infantile, e non solo quello rivolto al futuro, e iniziare ad analizzarla con una chiave di lettura differente da quella terapeutica adottata dalla psicologia.

    Dare valore ai ricordi dei bambini significa dare valore al loro modo di “fare esperienza” e di dare un senso alla propria storia attingendo dal tessuto della vita quotidiana (Jedlowski, 1994). Significa riconoscerli come attori sociali, ma non retoricamente, bensì a partire dall’ascolto dei loro racconti, più o meno fantastici, di addomesticamento spaziale e temporale. Se addomesticare significa «fare propria, una parte della realtà (che si presenta come nuova, straniera o selvaggia) rendendola familiare» (Mandich, 2010, p. 9) attraverso delle pratiche e degli usi concreti, non diversamente, raccontare la propria storia, è un modo per creare legami con l’altro e con un altrove spazio-temporale. D’altronde come afferma Bruner «le storie rendono l’inaspettato meno sorprendente, meno arcano: addomesticano l’imprevisto, gli danno un’aura di ordinarietà» (2002, p. 102). In una prospettiva arendtiana dell’identità personale come necessariamene relazionale (Arendt, 1989), potremmo dire che affinché il significato di una storia personale prenda la forma della narrazione è necessario un altro disposto ad accoglierla (Cavarero, 2005). Gli altri sono sicuramente i coetanei, con cui i bambini scambiano e condividono quotidianamente raccontandosi le loro esperienze e idee del mondo e creando così legami di amicizia. Basti pensare a quanto i bambini parlano tra loro quando sono in compagnia e a quanto cercano in ogni momento, anche disobbedendo ai “grandi”, di crearsi occasioni per comunicare, sia che si trovino a scuola, a casa, in palestra, a danza, sui campi di calcio, in chiesa o a teatro. Dietro quello che gli adulti definiscono “brusio” c’è un operoso scambio di racconti, accompagnati da sentimenti di allegria e di dispiacere, attraverso cui i bambini si costruiscono spazi di riconoscimento. E gli adulti? Che spazio occupano? Molto dipende da dove decidono di “fare casa”, di collocare cioè la loro biografia nell’asse temporale passato-presente-futuro, ma soprattutto dal senso dato a ciascuna fase. È proprio in questa attribuzione di senso, mediata dalla narrazione e dall’ascolto, che si gioca la possibilità del riconoscimento reciproco tra adulti e bambini.

    Qualche riflessione conclusiva

    Non credo che si possa parlare per tutti gli estratti qui presentati di narrazioni, secondo il significato di Riessman (2002), eppure è importante sottolineare, a partire da una prospettiva di sociologia dell’infanzia, che i ricordi degli adulti costruiscono storie che fungono da chiavi interpretative per avvicinarsi al mondo dei bambini. Se l’interpretazione data in questo articolo è stata quella di un ricordo che spesso mitizza un passato e mistifica un presente colonizzando lo spazio infantile, c’è anche la possibilità che il ricordare, come revêrie, funga da ponte per l’incontro con i bambini su un altro livello di realtà.

    Le storie del passato raccontate dagli adulti o quelle proprie del ricercatore che “emergono” nel momento in cui cerca di instaurare un contatto con dei bambini, possono servire per interpretare le “premesse implicite” degli adulti sull’infanzia e per capire come la guardano. Secondo una visione linerare del tempo i ricordi e la memoria vengono riconosciuti, e ascoltati, solo agli adulti e ancora di più agli anziani; i brevi resoconti sui ricordi dei bambini qui delineati aprono degli scenari sull’infanzia che essi ricordano su cui raramente da sociologi ci soffermiamo, perché ancora condizionati dal paradigma dello sviluppo e della socializzazione (James, Jenks, Prout, 2002). Nell’adottare un altro sguardo sull’infanzia, l’approccio narrativo e biografico può essere una via per costruire altre rappresentazioni, non solo sui bambini ma dei bambini.. Se, come afferma Riessman, le narrazioni possono forgiare legami tra «la biografia personale e la struttura sociale, tra il personale e il politico» (2004, p. 708) allora anche i ricordi raccontati e ascoltati possono creare dei legami tra persone e, auspicabilmente, anche tra le generazioni.

    Note

    1 Le riflessioni contenute in questo articolo si collocano all’interno di un dibattito interno alla sociologia, all’antropologia e alla geografia dell’infanzia in cui il bambino nonè considerato una semplice “variabile” da aggiungere nell’analisi dei fenomeni sociali bensì un soggetto a partire da cui rileggere e ridefinire tali fenomeni nel loro complesso.
    2 Per la sociologia italiana valga per tutti il riferimento al volume di Alberto Melucci (1998).
    3 Sull’uso della memoria come “strumento di ricerca” si vedano per un approfondimento Radstone (2000) e Campbell, Harbord (2002).
    4 Il concetto, riflesso di una più generale infantilizzazione della società, si riferisce al fenomeno editoriale del “cross-over” che vuole indicare quei romanzi adatti sia ad un pubblico di giovani e bambini che ad un pubblico di adulti. Tra gli esempi più famosi si pensi solo al successo planetario di Harry Potter.
    5 Si veda per un’introduzione al tema Philo (2000).
    6 Si tratta della ricerca “La costruzione quotidiana delle responsabilità nelle pratiche e nelle rappresentazioni di consumo di genitori e figli” diretta dal Prof. Valerio Belotti dell’Università di Padova come unità locale del Prin 2008 “La responsabilità nelle relazioni familiari: pratiche e norme, interpretazioni e rappresentazioni” il cui coordinatore nazionale è il Prof. Guido Maggioni dell’Università di Urbino. Le riflessioni presentate in questo contributo esulano dai temi e dagli obiettivi del progetto di ricerca condotto per il Prin, e sono infatti da collocarsi, come scritto nella premessa, in un personale percorso di ricerca e analisi di chi scrive.
    7 Uso volutamente tra virgolette il termine “cose” perché sin da subito gli stessi bambini hanno chiesto se potevano fotografare anche animali e piante in quanto importanti.
    8 Le ricerche sul tempo dei bambini raccontano di come essi vivano il loro presente scissi tra il desiderio di “diventare grandi” e quello di “tornare piccoli” rivelando così una più complessa relazione con il tempo di quella che comunemente gli viene riconosciuta (cfr. James, 1997; Christensen, James (2001).

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