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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    SECONDGEN [1]. TRAIETTORIE DI VITA DI GIOVANI FIGLI DELLA MIGRAZIONE. IL CONTRIBUTO DELLA NARRAZIONE ALLA RICERCA IN CONTESTI INFORMALI [2]


    Silvia Randino

    srandino@gruppoabele.org
    Laureata in Scienze Politiche, collabora in qualità di ricercatrice con il Centro Studi, Documentazione e Ricerche dell’Associazione Gruppo Abele Onlus di Torino; borsista presso l’Osservatorio Epidemiologico delle Dipendenze della Regione Piemonte.

    Francesca Rascazzo

    frascazzo@gruppoabele.org
    Sociologa, ricercatrice presso il Centro Studi, Documentazione e Ricerche dell’Associazione Gruppo Abele Onlus di Torino.

    Ma eccoli arrivare, Marco [3] alla guida.
    Tutti gli occhi sul furgone che parcheggia proprio lì, di fronte al campo da calcio.
    Insieme a Marco ci sono anche Romina e Naima, le mediatrici culturali.
    I ragazzi vanno incontro agli educatori: è tutto un darsi da fare a scaricare, montare,
    sistemare, attrezzare. Tavolo da ping pong da un lato, bigliardino dall’altro,
    piccolo tavolo da biliardo, e poi i palloni per giocare.
    Improvvisamente sembrano esserci molti più ragazzi di prima, anche italiani, ed anche ragazze. Alcuni giocano a ping pong e bigliardino, altri a calcio […].
    (Diario osservatore 2_10 Giugno 2010)

    Premessa

    Gli studi sulla migrazione d’origine straniera hanno posto particolare attenzione negli ultimi anni alle giovani generazioni di immigrati. Molti sono i ragazzi e le ragazze che abitano, ormai stabilmente, le comunità di arrivo, anche in Italia. A volte si tratta di adolescenti con percorsi di vita difficili, per qualcuno, invece, arrivare da un altro Paese sembra non comportare grandi difficoltà. Storie diverse di giovani che, ciascuno con i propri desideri, immaginano il futuro. Ma quali spazi di inclusione offrono loro le società d’arrivo? Quali risorse i ragazzi mettono in campo? Questi ed altri interrogativi hanno contribuito a definire il focus del lavoro presentato di seguito in modo sintetico e parziale. La ricerca in oggetto è ad oggi ancora in corso di svolgimento, ragione per cui, in questo articolo proponiamo prevalentemente riflessioni di carattere metodologico.

    La ricerca, condotta con approccio etnografico, si propone di ricostruire i percorsi e i progetti di vita, le carriere scolastiche, lavorative, familiari e sociali dei ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di migrazione (direttamente o della propria famiglia), prestando attenzione ai fattori che ne influenzano le traiettorie di vita. Tale interesse per decisioni, aspettative, circostanze ed eventi cruciali che possano influenzare le condizioni di vita di quella che può essere definita seconda generazione si inserisce, ad un livello macro e tra gli obiettivi del progetto generale, nel tentativo di comprensione della relazione tra il fenomeno dell’immigrazione e la creazione e ri-definizione del sistema di stratificazione sociale (Eve, Perino, 2011).

    Per provare a fornire risposte a tali questioni si sono individuati, quali interlocutori privilegiati, i ragazzi di origine straniera intercettati attraverso le attività di educativa di strada realizzate dagli educatori e mediatori culturali dell’Associazione Gruppo Abele in alcuni giardini pubblici della città di Torino. L’area interessata dalla ricerca di cui si parla è situata all’interno della V Circoscrizione della città, al confine tra i quartieri Borgo Vittoria e Madonna di Campagna, più precisamente nella zona che comprende e circonda i giardini pubblici Don Gnocchi, conosciuti in quartiere con il nome di giardini Sospello, dal nome della via che li costeggia.

    La Circoscrizione V, come altre zone di Torino, è divenuta negli anni meta delle famiglie immigrate che, non solo vi si stanziano appena giunte in città, ma che spesso decidono di rimanervi o che vi si trasferiscono da altri quartieri. Torino è, infatti, divenuta nell’ultimo decennio, una realtà sempre più multietnica, caratterizzata dalla presenza di molti giovani e minori [4].

    Il giardino Sospello, come gli altri parchi cittadini, è frequentato da molti ragazzi di origine straniera, ragione per cui nel 2008 gli educatori e mediatori culturali dell’Associazione Gruppo Abele, dopo alcune osservazioni preliminari del luogo, lo hanno scelto come area di lavoro di strada. I ragazzi intercettati in questo giardino sono perlopiù maschi, nella fascia d’età compresa tra 14 e 23 anni, le cui famiglie provengono dai paesi del Nord Africa o dell’Est Europa. L’incontro con i ragazzi durante l’accesso al campo ha determinato per noi la necessità di intendere le seconde generazioni in modo ampio, seguendo alcune tendenze già rintracciabili in letteratura [5]. Tra i soggetti coinvolti nella ricerca sono stati inclusi, infatti, sia i ragazzi d’origine straniera nati nel nostro Paese, sia quelli giunti in Italia in età infantile o durante l’adolescenza. In particolare, ciò che fa di questi ragazzi una generazione [6], al di là della coorte di appartenenza, è la migrazione delle famiglie come evento “subito” e, tuttavia, cruciale nelle loro traiettorie di vita. L’esperienza di “una migrazione subita”, infatti, può riguardare sia gli adolescenti che arrivano in Italia durante il periodo di crescita, perché non è progettata autonomamente ed è fonte di spaesamento e necessaria riorganizzazione di sé e della propria vita; sia i bambini nati in Italia o giunti molto piccoli, per i quali la migrazione è nelle narrazioni dei genitori, e attraverso questi i ragazzi ne fanno esperienza. Ben rappresenta, a nostro avviso, questa condizione l’espressione “giovani figli della migrazione” (Besozzi E., Colombo M., Santagati M., 2009: 15-20), figli cioè di un evento individuale e familiare tanto quanto culturale e politico, quello migratorio, un fatto globale che riguarda molte storie, seppur diverse.

    I giardini pubblici rappresentano, poi, un luogo in cui è possibile intercettare quei ragazzi che, a volte, sfuggono ai circuiti educativi istituzionali [7] e che trascorrono il tempo libero nei luoghi di aggregazione informale. L’attenzione per il contesto di vita, come importante fattore per l’inserimento nella società d’arrivo [8], ha aperto alla possibilità di cogliere dimensioni peculiari dell’esperienza quotidiana, altrimenti non rintracciabili, e che contribuiscono a costruire i percorsi di vita dei ragazzi incontrati. Contesto di vita, le cui caratteristiche, contribuiscono, come ricordano Eve e Perino, alla costruzione delle specificità delle seconde generazioni (Eve, Perino, 2011).

    Il contributo che proponiamo ha l’obiettivo di descrivere e riflettere sull’uso e il ruolo della narrazione nella nostra ricerca con i giovani figli della migrazione.

    L’articolazione del testo è la seguente:
    1. Inquadramento e scelte metodologiche;
    2. applicazioni della narrazione alle fasi di ricerca:
    2.1. il racconto dal campo: l’osservazione;
    2.2. l’ascolto dei partecipanti: le interviste;
    2.3. la comprensione: la fase di analisi e scrittura

    1. Muoversi nel campo dell’etnosociologia

    In questa prima parte offriamo, anche sul piano del metodo, alcuni riferimenti teorici alla luce dei quali leggere il lavoro condotto. Possiamo individuare nella prospettiva etnosociologica, così come definita da Bertaux, una cornice epistemologica nella quale inscrivere il lavoro di ricerca. Un approccio, quello descritto dall’autore, ispirato alla tradizione etnografica e alle tecniche tipiche dello studio sul campo, come l’osservazione, ma che «costruisce i suoi oggetti riferendosi a problematiche sociologiche» (Bertaux D., 2004: 35). Ciò che caratterizza l’approccio è, in sintesi, la necessità di descrivere e analizzare il particolare, ed allo stesso tempo di passare al generale, cercando all’interno della realtà osservata le forme, i meccanismi e i processi che, sebbene peculiari dello specifico “mondo sociale” osservato, possono essere riscontrati in molti altri simili contesti. Mondi sociali e categorie di situazioni sono gli oggetti di studio di tale prospettiva. Seguendo l’approccio, possiamo ipotizzare che, nel nostro caso, i ragazzi di seconda generazione che frequentano l’educativa di strada, siano ciascuno un microcosmo all’interno di un mondo sociale. Secondo la tesi centrale della prospettiva di cui si argomenta, indagare a fondo un microcosmo – nel nostro caso l’esperienza sociale dei ragazzi incontrati, il modo in cui vivono gli spazi, le loro aspettative, ecc. – consente di accedere a logiche proprie del mondo sociale a cui il microcosmo appartiene.

    2. Applicazioni della narrazione alle fasi di ricerca

    In tale cornice, la raccolta di narrazioni, nelle sue diverse forme, a nostro avviso, rappresenta un’importante via di accesso al mondo cognitivo dell’interlocutore, di avvicinamento alle sue rappresentazioni della realtà, una tecnica in grado di accedere alle storie dei protagonisti nel loro naturale svolgersi e che permette, conosciuti i microcosmi, di elaborare modelli plausibili per il mondo sociale di riferimento.

    Dunque, la narrazione a più voci inserita nell’ambito di una ricerca etnografica è parsa la scelta metodologica più consona agli obiettivi e al contesto di ricerca, tanto più che il nostro interesse non è quello di pervenire ad una interpretazione unica della realtà oggetto d’analisi, bensì di valorizzarne pluralismo, relativismo e soggettività (Poggio B., 2004: 107).

    Una narrazione prodotta a partire dall’osservazione, avvenuta nei momenti della settimana in cui sono presenti sul campo anche gli educatori di strada e le mediatrici culturali, e “registrata” all’interno di diari etnografici. Il racconto degli eventi mediato dall’osservazione delle ricercatrici, l’ascolto dei soggetti portatori di conoscenza diretta sul tema della ricerca - educatori, mediatori culturali, abitanti del luogo, etc. – e, infine, le parole dei ragazzi permettono insieme di accedere a “frammenti” di esperienze caratterizzate da differenti e nuove letture delle situazioni di vita, con l’obiettivo di ricostruire la realtà vista da occhi diversi e raccontata a più voci.

    Gli attori coinvolti a vario titolo nella ricerca interpretano, ciascuno secondo le personali categorie di riferimento, la propria e altrui esperienza del tema in oggetto. Nel nostro lavoro, tali voci hanno preso parte al processo di ricerca in diverse fasi e trovato espressione grazie all’utilizzo di tecniche e strumenti differenti. Proponiamo di seguito una descrizione dei tre momenti narrativi che caratterizzano il processo di ricerca, con riferimento agli strumenti adottati, alle voci coinvolte e, in parte, alla produzione di contenuti, provando a declinarne le principali implicazioni metodologiche.

    Molte delle considerazioni riportate nel contributo sono maturate intorno all’esperienza “in strada” dei ragazzi di seconda generazione, in particolare, alla dimensione della vita in quartiere e all’utilizzo degli spazi cittadini. Dimensioni queste che ci hanno offerto, già in fase di raccolta, l’occasione di riflettere sull’uso della narrazione in contesti informali.

    2.1. Osservare è anche raccontare

    In una prima fase di lavoro abbiamo osservato direttamente i ragazzi in contesti di aggregazione informale. L’accesso al campo è stato preceduto da un periodo di preparazione volto all’individuazione delle strategie più opportune per l’introduzione ai luoghi della quotidianità “in strada”: ciò è avvenuto principalmente attraverso la creazione di alleanze con gli educatori e i mediatori, poi divenuti figure garanti e facilitatori di relazioni fiduciarie tra noi ricercatrici e i ragazzi.

    Tali azioni propedeutiche e parallele all’intero periodo di presenza in strada si sono rese necessarie perché, come ricorda Cellini (2008), l’accesso al campo in un’osservazione partecipante, è sempre un momento molto delicato: il riconoscimento del ruolo dell’osservatore e la sua negoziazione con gli attori in campo, l’effetto “perturbante” che egli produce con la sua presenza sono difficoltà metodologiche da affrontare. Proprio il costante confronto con gli operatori di strada ha permesso prima l’accesso fisico al campo e poi agevolato quello sociale che, in particolare, non è semplice da raggiungere perché richiede una grande disponibilità degli attori coinvolti, disponibilità che va continuamente rinegoziata (Cellini E., 2008).

    Il prodotto di questa fase si traduce principalmente in testo narrativo; essa genera un racconto di storie che si presentano spontaneamente agli occhi del ricercatore e che egli “rendiconta”, “dice”, ordinando secondo le proprie categorie gli eventi che vede, le parole che sente, le sensazioni che prova. Durante l’esperienza di osservazione, la pratica narrativa (Poggio B., 2004) si manifesta in varie forme che costituiscono modi per comprendere la realtà: il testo non è semplicemente una descrizione della realtà ma è una prima interpretazione, nonché luogo mentale di riflessione e pianificazione di strategie. Nel testo si ritrovano tracce frequenti di una mediazione tra la propria interpretazione e quella degli altri. La narrazione prodotta pone in prima istanza un confronto diretto tra la descrizione del mondo osservato così come gli abitanti lo vivono e lo interpretano (emic) e tra l’oggetto osservato e le categorie interpretative del ricercatore (etic) (Nigris D., 2003).

    A questo livello si pone, secondo noi, l’esigenza di accennare brevemente al discorso della riflessività. Nell’ambito etnometodologico ci si riferisce in tal senso al ruolo che il ricercatore assume nella ricerca e al rapporto che instaura con i vari attori incontrati durante l’intero percorso. L’attenzione alla riflessività non è isolabile al solo momento del lavoro sul campo, ma è propria dell’intero processo di ricerca. Divenuto tema centrale nelle scienze sociali a partire dagli anni ’80, esso richiama diverse questioni (Colombo, 2003) alcune delle quali si sono riproposte nell’esperienza di ricerca oggetto di questo articolo. Emblematica e chiarificatrice dei ragionamenti sostenuti anche in questo contributo, a nostro avviso, può essere la definizione di riflessività ripresa da Bacigalupo, menzionando Sparti (2002), per cui la riflessività è «una circolarità ricorsiva, connessa al doppio livello ermeneutico, ovvero alla capacità interpretativa posseduta sia dal ricercatore, sia dagli altri attori sociali» (Bacigalupo, 2007: 2).

    In tale cornice, in sostanza, il ricercatore «non rimane indifferente al proprio oggetto di studio» e la conoscenza prodotta è il frutto di una costruzione che avviene attraverso la compartecipazione di attori del campo e ricercatori che danno vita ad un processo circolare. L’introduzione di questo argomento, rende necessario fare alcune altre precisazioni metodologiche rispetto al lavoro svolto. Tenendo conto delle implicazioni riflessive, ci preme ricordare che il lavoro di osservazione è stato comunque accompagnato da un’analisi costante del modo in cui le caratteristiche proprie di ciascuna delle ricercatrici sono entrate in campo prima nella semplice osservazione visiva e poi nella stesura dei diari. Dunque, riprendendo Bourdieu, la riflessività nella ricerca implica anche una costante autoanalisi del ricercatore (Bacigalupo, 2007) che lascia sempre spazio ai protagonisti del campo, che non vengono mai persi di vista, perché sono il punto di partenza e sono loro a guidare il lavoro di raccolta. È dalle parole e dai gesti dei ragazzi che ogni ricercatrice ha fatto scaturire, infatti, la propria “selezione dei dati” che inevitabilmente dipende «dal bagaglio teorico, dagli interessi, dalle competenze, dai gusti…» (Fabietti U., 1992: 81-82; cit. in Cellini E., 2008: 14).

    Quanto si qui descritto si è concretizzato in riflessioni la cui traccia è presente nei diari etnografici compilati dopo le numerose uscite sul campo ed in cui, ciascuna per sé e per ciascuna delle uscite in strada, abbiamo riportato descrizioni di ambienti e loro frequentazioni, conversazioni, atteggiamenti e comportamenti non verbali utili a chiarire le dinamiche di interazione dei ragazzi nei loro spazi di vita quotidiana.

    Le scene osservate, ad esempio, intorno al campo di calcio, si sono tramutate in racconti il più possibile scevri da condizionamenti personali, frutto di quel tentativo di tenere a bada gli effetti distorcenti degli elementi riflessivi, e di un atteggiamento di “serendipity” nei confronti del mondo sociale studiato. Accanto a questo, però, ci sono anche riflessioni a partire dalle nostre categorie e sulle nostre categorie espressione di quella “riflessività metodologica” che secondo Colombo «richiama la necessità di interrogarsi continuamente sulle proprie azioni, sui metodi che si stanno seguendo per conoscere, controllare, guidare la realtà» (Colombo, 2003, p:14).

    Di conseguenza, le parole riportate nei diari etnografici non sono solo le nostre; al racconto si uniscono le parole dei ragazzi stessi che si cerca di riproporre fedelmente, in modo da non perdere informazioni importanti che sul campo sono affidate solo alla memoria. A questo livello, la scelta metodologica, infatti, è stata quella di non registrare gli appunti in strada, per evitare che questo fosse fonte di “perturbazione” dell’ambiente osservato, ma di ricorrere, invece, a note mentali e poi appunti veloci, fatti seguire dalla stesura di un ulteriore testo arricchito dalla riflessione. Le domande, i dubbi che trovano spazio nel diario etnografico sono, inoltre, occasione per rimodulare la propria griglia di osservazione e cogliere, di volta in volta, spunti per nuovi approfondimenti.

    Ogni narrazione, come detto, è espressione di una realtà soggettiva: prova ne sia, nel nostro caso, la possibilità di confrontare i diari delle due ricercatrici. Lo stesso episodio viene raccontato con parole e sfumature diverse; i luoghi sono gli stessi, ma considerati da diversi punti di vista. Ognuna presta attenzione a frammenti di episodi differenti su cui focalizza la propria attenzione ed il testo prodotto da ognuna fornisce all’altra un ulteriore feedback dal campo.

    In riferimento al loro lavoro etnografico Colombo e Navarini sono dello stesso avviso: «Il fatto di essere in due ha favorito l’esperienza della polisemia, perché anche se si è presenti assieme, contemporaneamente e davanti al medesimo evento, non sempre le sensazioni e le interpretazioni sono risultate le medesime» (Colombo E., Navarini G., 1999: 168).

    La scrittura quotidiana dei diari, il racconto a più voci ha rappresentato, quindi, un primo momento di elaborazione dei contenuti oggetto di ricerca; la stesura del testo, in questa fase, è divenuta il primo prodotto su cui scambiare idee e confrontare ipotesi interpretative, sottolineando il valore dell’apporto narrativo nella raccolta delle informazioni utili all’analisi.

    Nei diari trovano spazio anche vissuti personali delle ricercatrici, elementi biografici che accomunano alle esperienze dei ragazzi incontrati (ad esempio, vivere lontano dai luoghi d’origine, riorganizzare la propria vita in una nuova città, cercare un lavoro, stabilire relazioni, etc.). Tutti elementi che rientrano pienamente nella dimensione soggettiva della narrazione e che attribuiscono ricchezza interpretativa e profondità a quanto osservato: riflessioni maturate a partire dal vissuto personale e che avvicinano all’esperienza dei ragazzi ma soggette poi, in coerenza con ciò che abbiamo ampiamente sostenuto precedentemente, ad un distacco critico da parte delle ricercatrici.

    La narrazione a più voci non è solo quella che ha origine dalle ricercatici, ma è quella che da spazio anche ai racconti indiretti di altri protagonisti, ognuno dei quali riporta le proprie impressioni e i propri punti di vista sulle scene di vita in strada. Nei diari, si descrive cioè, non solo ciò che il ricercatore osserva, ma anche quello che gli attori in campo gli raccontano di osservare. Dialoghi tra i ragazzi, colloqui informali con figure chiave all’interno degli ambienti descritti, quali educatori e mediatrici, colloqui con gli abitanti del quartiere: chiarimenti, nuove letture offerte dalle altre voci del campo che contribuiscono, quindi, a costruire una spiegazione multidimensionale e plurale della realtà.

    In questa cornice, lo stesso giardino, lo stesso quartiere, la stessa città ospitano diverse esperienze, diversi occhi, diversi emozioni, il tutto raccontato con uno stile proprio. Ogni attore coinvolto, con le sue parole, aggiunge un pezzo di conoscenza in più, favorisce la comprensione di quanto descritto e soprattutto contribuisce alla costruzione di saperi sociali (Navarini, 2003).

    Il risultato è che tutti i materiali raccolti nel lavoro etnografico vanno a costituire un modo di scrivere la realtà (Poggio B., 2004) in cui si ripropongono alcuni linguaggi, alcuni codici di comportamento, ma solo alcuni tra tutti quelli possibili.

    2.2. Ascoltare. Parola ai protagonisti

    Il lavoro ha previsto, come anticipato, anche il coinvolgimento diretto dei ragazzi incontrati durante la fase di osservazione, chiamati a raccontare la propria esperienza ed i progetti di vita in sede di intervista con modalità di conduzione tendenzialmente non direttiva.

    Con la scelta delle tematiche da affrontare nel corso dell’intervista si sono passati in rassegna gli argomenti utili alla ricostruzione delle traiettorie di vita dei ragazzi, traendoli dagli obiettivi generali del percorso di ricerca, dagli interrogativi emersi durante la rilettura dei diari, dalle specifiche esigenze conoscitive dell’équipe di educatori che abbiamo affiancato nel lavoro, e per i quali la ricerca in corso costituisce un’opportunità per conoscere più a fondo parte del loro lavoro in strada. Ne è risultata una griglia di argomenti su due livelli di generalità, trattata in sede di intervista come traccia-guida, lasciando spazio al racconto il più possibile spontaneo dei ragazzi e utilizzando i rilanci per approfondire. L’esplorazione del contesto di ricerca inteso come “mondo sociale”, accanto ed insieme alla narrazione delle scene osservate – la scrittura dei diari è proseguita anche durante la fase di interviste – ha visto quindi il coinvolgimento dei giovani figli della migrazione come diretti protagonisti di quel mondo, titolari di un’esperienza biografica di estrema importanza per gli obiettivi della ricerca. L’emersione del loro racconto, la conoscenza delle loro traiettorie, le loro opinioni e rappresentazioni della vita quotidiana nello spazio del giardino, come negli altri luoghi della città, hanno dato la possibilità di arricchire ulteriormente il materiale prodotto. Dalla scrittura dei diari etnografici sono emersi, nel tempo, numerosi interrogativi sulla vita dei ragazzi nel contesto osservato, sul modo peculiare in cui vivono quella specifica situazione, sul significato che, di volta in volta, attribuiscono ai comportamenti assunti da loro, come dai coetanei. Quello dell’intervista è stato ed è anzitutto un momento utile a chiarire le “zone d’ombra” individuate e non spiegate dai diari. Durante le nostre incursioni sul campo, ad esempio, ci siamo a lungo interrogate sulla quasi totale assenza delle ragazze al giardino, soprattutto nei mesi invernali. Abbiamo ipotizzato che fossero più soggette alle regole familiari rispetto a fratelli e cugini, e che la restrizione della libertà per loro potesse essere dovuta anche alle tradizioni delle famiglie. Un’ipotesi che abbiamo “connotato” culturalmente, adducendo una motivazione legata alla nazionalità d’origine delle famiglie. Abbiamo anche pensato che possano essere più impegnate dei maschi nei compiti domestici, o nel seguire i fratelli minori, oppure che siano più impegnate nello studio, e quindi che trascorrano il pomeriggio a studiare. L’intervento diretto dei ragazzi e delle loro opinioni, invece, ha offerto una lettura alla quale non avevamo pensato.

    Dalle parole dei ragazzi, ad esempio, apprendiamo che le regole familiari, che pure ci sono, in alcuni casi riguardano anche i figli maschi, non solo le ragazze. In alcuni casi esse non sembrano dovute alle tradizioni delle famiglie, o delle culture di origine, quanto alla riorganizzazione delle abitudini familiari nella nuova società, nella città d’arrivo, soprattutto per chi proviene da piccoli centri. La città, infatti, può essere percepita come fonte di rischio, pericolo, insicurezza, un ambiente al quale ci si adatta gradualmente.

    Ciò che aiuta notevolmente la comprensione del tema in esame è che l’opinione dei ragazzi intervistati, non solo aggiunge contenuto, ma mette in discussione le nostre ipotesi iniziali, invitandoci a riformularle. Ancora, ci segnala uno dei rischi che possiamo erroneamente correre nell’interpretazione, quello di attribuire necessariamente alla nazionalità d’origine dei nostri interlocutori, alla “questione migrazione”, la principale chiave interpretativa della ricerca.

    La città come luogo ostile e vitale allo stesso tempo, come opportunità di vita, ma anche fonte di pericolo, è uno dei temi che l’osservazione e le interviste hanno portato alla nostra attenzione e che abbiamo cercato di approfondire anche attraverso altri strumenti. Per facilitare la narrazione dei ragazzi sul proprio mondo e consentire l’emersione del loro punto di vista, abbiamo utilizzato anche l’approccio conoscitivo della sociologia visuale, in particolare di quella parte della disciplina che Grady definisce “fare sociologia visualmente” [9]. Le tecniche utilizzate sono state la produzione soggettiva di immagini (native image making) e l’intervista con foto-stimolo (photo-elicitation). Nello specifico, si è scelto di coinvolgere i ragazzi in un’attività di produzione di materiale fotografico sul tema della “vita in quartiere”, al fine di recuperare attraverso le fotografie scattate da ogni ragazzo una lettura della realtà non mediata dal linguaggio, né ricostruita dalla narrazione del ricercatore. Le immagini entrano direttamente nella produzione di contenuti ed informazioni utili alla ricerca: si procede alla realizzazione di interviste con foto-stimolo dove chi è osservato si confronta con l’osservatore, commenta le foto da lui scattate, rende esplicita la propria rappresentazione simbolica del quartiere come luogo di vita, racconta la propria esperienza di appartenenza/distacco dai luoghi vissuti e rappresentati. Durante l’intervista, al racconto della vita in quartiere a partire dal commento delle foto, si legano poi le varie aree di indagine che insieme contribuiscono a delineare esperienze e traiettorie di vita degli intervistati (migrazione, famiglia, scuola, scelte, reti sociali, lavoro, modelli e valori di riferimento).

    Prima ancora del valore euristico della tecnica adottata, essa ha offerto al processo di lavoro un’occasione in più per coinvolgere i ragazzi nelle interviste, per facilitare la loro riflessione e argomentazione su temi dei quali solitamente non sono abituati a parlare. La produzione soggettiva di immagini ha significato per loro anzitutto un processo di selezione dei luoghi della vita in quartiere così come dei temi che ad essi si legano, dal momento che ognuno ha avuto a disposizione un massimo di cinque foto. Spesso i luoghi e i temi scelti, e quindi rilevanti per il racconto della propria esperienza, sono quelli emotivamente legati ai primi momenti trascorsi nella nuova città: gli spazi urbani importanti, ma anche il mondo delle frequentazioni, delle relazioni affettive, tutti temi che la nostra traccia-guida prevedeva, ma che sovente non è stato necessario sollecitare, perché chiamati in causa attraverso le foto. L’importanza della narrazione prodotta in questa fase è attribuibile al fatto che «il soggetto a cui si chiede di rappresentare visualmente la sua vita […] non potrà farlo se non a partire da sè» (Faccioli P., Losacco G., 2003: 50); dunque, le immagini prodotte in simili contesti sono definizioni di situazioni che solo gli stessi soggetti possono spiegare. È per questa ragione che la combinazione tra comunicazione iconica e verbale permette di affidare alla ricerca informazioni e sensazioni a cui diversamente non si potrebbe accedere, informazioni che contribuiscono alla comprensione.

    2.3. Narrare per comprendere

    La fase di analisi e restituzione viene qui solo accennata, mettendone in rilievo gli obiettivi, l’utilizzo dei materiali nel testo finale e l’apporto che la narrazione potrà dare anche a questa fase della ricerca. È utile ricordare che l’analisi intermedia dei diari o delle interviste consente di intervenire sul processo di ricerca su vari aspetti: poter modificare la traccia di intervista (flessibilità degli strumenti di rilevazione), intervenire sulla selezione delle persone da intervistare (saturazione), rivedere e approfondire ipotesi interpretative iniziali. L’analisi, inoltre, è sia verticale, sui singoli testi per esplorare le traiettorie peculiari di ciascun percorso, sia orizzontale, nell’ottica della comparazione, per confrontare le storie, cercare le ricorrenze, i meccanismi propri del mondo sociale esperito e che solo i protagonisti possono svelare in profondità. L’analisi è un momento in cui tutti i punti di vista registrati, le informazioni raccolte, i dati, quelle che abbiamo chiamato “voci narranti”, le riflessioni dei ricercatori e di tutti gli attori coinvolti dalla ricerca, concorreranno congiuntamente alla restituzione dei contenuti emersi. L’elaborazione dei risultati, momento chiave per la comprensione, sarà frutto dell’intreccio tra le categorie interpretative dei ricercatori e quelle degli interlocutori, intervenute di volta in volta nella definizione della situazione vissuta e narrata.

    Tutto ciò convergerà nella redazione del testo finale che, come nell’epilogo al racconto di una storia, legherà insieme gli eventi passati per dar conto di come si sia arrivati all’esito finale. Nella stesura del rapporto, come dice Poggio, «tutto viene rimontato (Poggio B., 2004: 127)» in uno dei tanti modi possibili, frutto della mediazione di più ipotesi interpretative.

    I frammenti di diari e gli stralci di interviste contenuti nel testo finale, insieme al commento del ricercatore, aiuteranno a chiarire alcune tappe cruciali nelle traiettorie di vita analizzate. Il ricercatore produrrà, allora, una “narrazione sociale” (Poggio B., 2004) in grado di illustrare le scene osservate, restituire i racconti dei protagonisti, aiutare a comprendere, perché frutto di analisi, il senso delle loro azioni. Nel complesso quadro sin qui descritto, la narrazione del ricercatore risponderà ai suoi interrogativi di senso e i soggetti coinvolti entreranno in relazione con l’attività di ricerca mettendo in risalto la loro definizione della situazione. Entrambe le prospettive offriranno al lettore una ricostruzione della realtà, uno schema di significati dal quale egli trarrà “la sua comprensione” a partire dalla sua soggettività, e dalla quale potrà far scaturire una nuova narrazione.

    Un testo che riassuma nel suo complesso e in modo diretto la molteplicità di voci intrecciatesi durante la ricerca:

    «Said, dopo la scuola, trascorre le sue giornate al giardino Sospello, se ci sono gli educatori, o altrimenti, in loro assenza, all’oratorio, incoraggiato anche dal sacerdote che in bicicletta percorre le vie del suo quartiere per offrire una possibilità in più a ragazzi come lui. Sin dall’inizio della nostra attività al Sospello abbiamo notato la sua assidua presenza: il martedì e il giovedì al giardino, e anche il sabato all’oratorio, sono appuntamenti da non perdere, forse gli unici nell’arco della settimana.
    La sera, quando dobbiamo andare via, ci saluta sempre con tristezza: “Allora… io vado…”, e ha gli occhi affranti.
    Said in quel giardino si sente a casa».

    Note

    1] Il lavoro di cui si tratta nel presente articolo è parte del progetto di ricerca “Second generations: migration processes and mechanisms of integration among foreigners and Italians (1950-2010)”, finanziato dalla Regione Piemonte e a cui l’Associazione Gruppo Abele Onlus partecipa insieme ad altri attori: Dipartimento di Ricerca sociale dell’Università del Piemonte Orientale, FIERI Forum italiano ed europeo di ricerca sull’immigrazione, Dipartimenti di Storia e Studi politici dell’Università di Torino. L’obiettivo generale del lavoro – programmato nel periodo 2010/2013 – è quello di studiare i meccanismi che caratterizzano, e hanno caratterizzato, i processi migratori in alcune zone del Piemonte: strategie di inclusione sociale, eventuali effetti dell’esperienza migratoria sulla stratificazione sociale, possibile transizione verso aree di disuguaglianza e svantaggio sociale. Particolare attenzione è posta alle seconde generazioni di immigrati, mettendo in relazione le migrazioni interne del passato e la migrazione d’origine straniera attuale. All’interno di tale cornice, il Centro studi del Gruppo Abele, insieme al Piano Giovani (attività dell’Associazione che lavora in contesti educativi formali ed informali), partecipa alla ricerca nell’ambito del Workpackage5: “Young people, streets and neighbourhoods”.
    2] L’articolo prende le mosse dal Paper “Secondgen. Traiettorie di vita di giovani figli della migrazione in contesti di aggregazione informale a Torino”, presentato nell’ambito del Convegno “Raccontare, ascoltare, comprendere. Metodologia e ambiti di applicazione delle narrazioni”, realizzato presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento in data 22-23 settembre 2011.
    3] Tutti i nomi propri citati nel testo sono fittizi.
    4] Dagli ultimi dati dell’Osservatorio interistituzionale degli stranieri nella provincia di Torino, riferiti all’anno 2010, emerge che in città i minori stranieri sono sempre di più e tra loro è alta la percentuale di quanti sono nati in Italia. È nato a Torino il 63,8% dei minori di origine straniera, corrispondente a 17.637 bambini e ragazzi, nati con cittadinanza straniera e che «potranno acquisire quella italiana dopo la maggiore età, se potranno dimostrare di aver vissuto con continuità nel nostro Paese». Cfr. Cammarata M., 2011.
    5] Come afferma Zhou, «la letteratura emergente sulla nuova seconda generazione […] ha preso in analisi non solo i ragazzi nati negli Stati Uniti – la vera seconda generazione – ma anche quegli immigrati giunti negli Stati Uniti prima di divenire adulti». Cfr. Zhou M., 1997: 64-65.
    6] Il concetto di generazione fa riferimento ad un insieme di individui che presentano allo stesso tempo diverse caratteristiche: essere nati entro un medesimo arco temporale, essere destinatari di azioni sociali peculiari, occupare una posizione simile nella traiettoria di vita e condividere simili esperienze sociali, culturali e psicologiche (Gallino L., 2005: 316).
    7] Come ricorda Favaro, «confrontando i dati Istat sui residenti stranieri fra i 14 ei 18 anni e quelli del Miur sui frequentanti le scuole superiori statali si è evidenziato un divario pari a circa un terzo delle presenze. Si può presumere che una quota di giovani stranieri sia nei corsi di formazione professionale e che un’altra sia iscritta ai Ctp, ma vi è una parte consistente di ragazze e ragazzi stranieri che non sono inseriti nei percorsi formativi» (Favaro G., 2011: 18-33).
    8] A tal proposito Favaro, riprendendo Portes e Rumbaut (2001), ricorda i differenti fattori che concorrono all’inserimento nella società d’arrivo: il capitale umano inteso come risorse intellettuali; il capitale sociale come risorse relazionali e il contesto di vita (Favaro G., 2011: 29).
    9] La sociologia con le immagini riguarda la produzione o l’uso di immagini come elementi utili all’analisi dei comportamenti o alla raccolta delle informazioni. Sulla sistematizzazione della sociologia visuale proposta da Grady si veda: Faccioli P., Losacco G., 2003.

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