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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    NARRAZIONI E GENERAZIONI


    Giulia Maria Cavaletto

    giuliamaria.cavaletto@unito.it
    Ricercatrice e docente, Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Torino.

    Manuela Olagnero

    manuela.olagnero@unito.it
    Professore Associato, Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Torino.

    1. Declinazioni e distinzioni

    I due concetti di narrazione e generazione possono, come noto, essere variamente declinati.

    La narrazione, azione discorsiva che dà conto di eventi concatenati nel tempo, può configurarsi come:
    -dispositivo informativo, attraverso cui si ricuperano (in maniera selettiva e connotata da uno specifico punto di vista) esperienze pregresse che assumono significato in quanto informano su specifici contesti e strutture sociali (Bertaux, 1997; Bertaux e Thompson, 1993).
    -veicolo identitario, tramite il quale, nell’interazione tra un parlante e un ascoltatore, si costruisce un orizzonte di senso che riguarda in primo luogo la rappresentazione di sé del narratore. La narrazione attraverso la memoria, ricrea continuamente i significati di eventi passati finalizzandoli alla costruzione dell'identità presente (Atkinson, 1998). La narrazione di sé consente attribuzione di senso all’agire, attraverso la possibilità che l’individuo “trovi posto” all’interno di una storia (Bruner, 1990; Jedlowski, 2000).

    Anche il concetto di generazione, spesso erroneamente identificata come sinonimo di strato di età o coorte di nascita, richiede qualche distinguo.

    Secondo una prima accezione, di tipo antropologico, l’appartenenza di generazione ha a che fare con la posizione lungo la linea di discendenza; nella seconda accezione, propriamente sociologica, essa individua la collocazione rispetto a esperienze che hanno generato un “comune sentire” tra chi le ha vissute. Nel primo caso l’analitica è quella della parentela, nel secondo caso è quella della cultura.

    Questa differenza di ambiti analitici non è senza significato nel dar luogo a diversi tipi di narrative tra o di generazione.

    Possiamo molto schematicamente ricordare la rilevanza di almeno due diverse declinazioni del rapporto narrativo tra generazioni, l’una genealogico-familiare in cui le esperienze delle diverse generazioni si intrecciano e si integrano, l’altra “individuale riflessiva” in cui ciascuna generazione fa capo a se stessa e alle esperienze non trasferibili che l’hanno segnata e da cui ha essa stessa appreso qualcosa di sè. Il primo tipo di narrazione presuppone che occorra studiare l’intreccio delle storie di cui sono portatrici le generazioni familiari per ricostruire le mappe mentali e le condizioni soggettive e oggettive che presiedono alla scelta dei diversi percorsi di vita da parte dei componenti di ciascuna generazione (Bertaux, 1997, Bertaux, Thompson, 1993).

    La seconda prospettiva si ambienta in un diverso scenario che possiamo definire, con Lyotard di “crisi delle grandi narrazioni“ (Lyotard, 1981), intendendo con questa espressione non soltanto il crollo delle grandi ideologie ma la perdita stessa della capacità, individuale e sociale, di generare senso. Paradossalmente questa crisi, se ha da una parte sminuito il valore delle narrazioni, dall’altro ha condotto a una rivalutazione dell’esperienza individuale del narrare e del narrarsi. Le narrazioni diventano il mezzo attraverso il quale “costruire un intreccio che permette al soggetto di raffigurarsi lo svolgimento della vita nel tempo e dunque, in certa misura, di padroneggiare quest’ultimo” (Ricoeur, 1986).

    Questo secondo tipo di narrazione non ha una platea cui trasferire insegnamenti e anticipazioni di esperienze: è anzi eminentemente “riflessiva”, porta esperienze da elaborare in termini di identità del presente, e altresì comporta, come nel caso di anziani o adulti, revisioni autocritiche del passato.. La narrazione in quanto orientata alla costituzione e alla stabilizzazione dell’identità, modifica anche, retrospettivamente, la percezione della capacità di affrontamento delle sfide incontrate nella propria storia.

    All’interno di questa cornice appare di particolare interesse la proposta di autori che come Ahleit ricuperano, in chiave autoriflessiva e autoformativa, la memoria evenemenziale del passato biografico. In quest’accezione le biografie sono costrutti attraverso cui si costruisce l'identità sottoponendola a continue revisioni in riferimento a specifiche sequenze cronologiche di eventi e interpretazioni di eventi. (Alheit, 2005).

    Seconda una prospettiva di tal genere tutte le generazioni hanno pari titolo a raccontare e ad essere ascoltate, avendo ciascuna di esse vissuto esperienze portatrici di significato.

    Dunque le voci narranti possono appartenerne anche ad adolescenti e addirittura a bambini e le voci che le affiancano possono essere, nella rivisitazione della storia pregressa, voci tanto antagoniste quanto di supporto e di cooperazione, al di là dei ruoli familiari e sociali che caratterizzano i parlanti(Greimas, 1974).

    I bambini e gli adolescenti fanno dal canto loro ricorso alla narrazione, secondo schemi e competenze tipiche della fase specifica del corso di vita. Ma proprio in quanto capaci di narrare e narrarsi non sono soltanto destinatari di messaggi educativi e forme di socializzazione veicolati dagli adulti, bensì acquisiscono lo statuto di co-costruttori della realtà sociale e relazionale nella quale sono immersi, mostrando in tal modo la loro capacità di possedere un senso morale, di saper contrattare, violare o rispettare le regole e negoziarle (Alanen, Mayall, 2001; Hengst, H., Zeiher H., 2004). Spesso la narrazione realizzata da bambini e adolescenti viene considerata come incompleta, e l’attribuzione di senso è considerata un processo tipico dell’età adulta. Ne consegue che le narrazioni dell’infanzia tendono a essere sovrascritte e interpretate con le categorie degli adulti. Ma “non adulto” non è sinonimo di “non competente”. Certamente esistono specificità delle narrazioni di bambini. Quando l’arco biografico è molto breve (come nel loro caso) la dimensione retrospettiva della storia è necessariamente compressa e quella della ricapitolazione della storia perde di significato. Non è infatti l’estensione del passato che interessa, ma i confini mobili del presente. Tale prospettiva, entro la quale la narrazione non ha necessariamente l’obbligo di “sporgersi” verso l’intero segmento del passato prossimo e remoto, non è senza conseguenze metodologiche e anche applicative . In primo luogo c’è maggior prossimità a eventi e episodi che sono accessibili anche ad altri mezzi osservativi “istantanei” (fotografia, osservazione etnografica, ecc.). In secondo luogo vi è maggior possibilità di accedere ad altre voci narranti, che affiancano quella del narratore principale, a configurare una”polifonia” di versioni diverse della stessa realtà. In terzo luogo, in assenza del carico riflessivo ed emotivo proprio di storie lunghe e ormai “chiuse” e irreversibili, si presentano invece opportunità proprie di situazioni aperte, di apprendimento e di riprogettazione individuale, ma anche della collettività che sta attorno al protagonista della storia.

    2. Unicità e tipicità

    Negli anni’ 50 e ’60 la narrazione nella ricerca sociologica era per lo più una narrazione “militante”, tutta costruita attorno ai contenuti, poco interessata alle forme e figure linguistiche e paralinguistiche del narrare: attenta principalmente all’esemplarità e all’eccezionalità di storie di drop out, rimaste fino ad allora fuori del cono di attenzione della sociologia main-stream. Narrare storie significava allora non solo opporsi alla sociologia accademica (per lo più quantitativa), ma anche “schierarsi dalla parte dei deboli”.

    Il “salto” avviene, tra gli anni’ 70 e gli anni’80, con la scoperta della rilevanza sociologica della vita quotidiana: là dove si incontrano le vite “normali” e la routine di domesticità e lavoro di uomini e donne, vecchi e giovani, occupati e disoccupati, moglie e mariti, genitori e figli (Capecchi, 1972; Bimbi, Capecchi, 1986).

    La narrazione di quelle storie riempie il vuoto conoscitivo lasciato dal ragionare unicamente in termini di grandi strutture, di territori, di classi sociali, di gruppi, di ruoli. La nuova parola d’ordine è differenza. gruppi, classi sociali e territori sono insiemi eccessivamente ampi e, al tempo stesso, troppo opachi per far conto della eterogeneità e variabilità che li abita e delle linee di intersezione (genere, età, esperienze, strategie, ecc.) che li attraversano. Nel dar conto di ambienti familiari, di contesti di lavoro, di relazioni sociali, inaccessibili tramite le survey, si soddisfa il duplice principio per cui per ogni” io di una survey c’è sempre un noi della storia; ma anche, e all’opposto, aderisce alla regola per dietro ogni “noi” indifferenziato (gruppo, classe, età) restituito dall’analisi a distanza c’è sempre un “io”, da avvicinare nella sua singolarità tramite la sua storia.

    Oggi, entro scenari socialmente ed economicamente molto diversi, può dirsi non solo acquisita, ma valorizzata come “alterità” quella originaria categoria di “differenza” che aveva guidato i primi pionieristici approcci alla raccolta di storie “ diverse”. Se non la frammentazione, certo l’accentuarsi della differenziazione e anche delle disuguaglianze sociali chiede di essere adeguatamente descritta con dovuto dettaglio e profondità nel suo costituirsi nel tempo.

    In questi anni l’approccio narrativo ha poi acquisito una consapevolezza teorica analitica e metodologica che ha scongiurato il rischio di “scarso rigore scientifico” di cui erano inizialmente accusati i pionieri di quest’approccio.

    Molti problemi metodologici hanno trovato soluzione all’interno di specifici e autonomi percorsi di analisi narrativa, che hanno fatto ricorso a tecniche di analisi dei dati qualitativi di tipo testuale (come nel caso delle analisi delle co-occorrenze lessicali o del contenuto), contestuale (come con l’analisi strutturale) o delle stringhe narrative Alheit (2005). Rimangono, peraltro, aperte alcune questioni più generali. Proviamo a selezionarne un paio, a nostro avviso particolarmente rilevanti utilizzando i paper della nostra sezione per illustrarli.

    3. Questioni aperte

    La prima questione riguarda la consapevolezza del ricercatore circa lo statuto del suo oggetto di ricerca e la sua posizione sull’asse analitico-narrativo.

    Su suggerimento di Abbott (2007), si può pensare a opzioni: la narrazione può mettere in movimento un oggetto che era stato finora considerato in modo statico, oppure , all’opposto, la narrazione può bloccare nel tempo e trattare analiticamente un oggetto (situazione, contesto, legame sociale, episodio) che era stato finora considerato in movimento.

    I paper di Randino e Rascazzo e di Satta offrono eloquenti esempi di questi due movimenti: il primo contributo (Secondgen) illustra la prima opzione: il mettere in movimento e dare profondità temporale a un contesto di osservazione ben strutturato nello spazio fermo di un giardino di città.

    Da questa messa in movimento discende un secondo difficile compito, ben messo in luce dall’analitica del corso di vita: quello di scandire il tempo in cui immergiamo in nostri oggetti di ricerca utilizzando diverse traiettorie temporali e ponendo attenzione ai loro intrecci: la traiettorie del tempo individuale, ovvero del succedersi di specifiche transizioni di età, la traiettoria del tempo storico, ovvero dell’accadere eventi che “valgono” per tutti le persone che vivono in quel periodo-contesto, la traiettoria di vita non già di quell’individuo ma di quello specifico insieme di persone cui appartiene per età-generazione.

    Il secondo contributo (Siamo stati tutti bambini) aderisce alla seconda opzione: e cioè quella di “fermare”, per così dire, quel movimento che, fa dell’“infanzia” uno stato provvisorio e trattarlo analiticamente, ovvero leggerlo come problema strutturale, di rapporto tra memorie e vocabolari di adulti e bambini. La scelta di utilizzare la memoria del ricercatore applicata alla narrazione della propria infanzia costituisce al tempo stesso un plus conoscitivo e una sorta di strategia di evitamento rispetto al problema: nella difficoltà ad ascoltare o interrogare direttamente i bambini sulla loro infanzia, quella che stanno vivendo e comprenderla nella loro rappresentazione di bambini, si provano a ricostruire retrospettivamente le infanzie degli adulti. Ma la ricostruzione sconta il diverso posizionamento lungo l’asse del corso di vita e per alcuni aspetti stabilisce una gerarchia tra la competenza a narrare in modo pieno e significativo propria degli adulti (cui è riconosciuta la capacità riflessiva e organizzativa del pensiero) e quella in qualche modo ancora incompleta dei bambini. Per taluni aspetti però è proprio la spontaneità infantile, l’assenza di sovrastrutture, la limitata esposizione alle attese sociali contestualizzate a costituire la forma più efficace di narrazione, sebbene il materiale a disposizione sia minore e non ancora marcato da eventi e transizioni cruciali. La memoria dei bambini si configura come memoria episodica, che ricostruisce aneddoti, esperienze che nel loro essere narrate acquisiscono un significato preciso anche per il bambino stesso.

    Accanto al tema della memoria, della sua diversa estensione e diverso uso che possono farne adulti e non adulti, si presenta anche quello della forma espositiva, ossia del repertorio linguistico infantile. La capacità di verbalizzazione infantile è completa, sebbene vada raffinata e ampliata, fin dalle scuole primarie, proprio perché esse, attraverso insegnanti e sapere codificato, gruppo dei pari e relazioni di gruppo, consentono di arricchire il processo di socializzazione primaria e secondaria. Si tratta di una verbalizzazione maggiormente ancorata al reale e ancora povera di capacità di astrazione. Ciò non inficia la capacità riflessiva ma sconta una limitata competenza nella rielaborazione. Tutto questo non costituisce di per sé elemento di difficoltà. Lo diventa nel momento in cui gli adulti categorizzano i vocabolari infantili con le coordinate proprie di chi appartiene ad un'altra fase del corso di vita, cui implicitamente si riconosce competenza, responsabilità, capacità a questi ultimi, ponendo i primi in una condizione di subalternità e di dipendenza. Il dialogo tra adulti e non adulti può efficacemente realizzarsi attraverso dispositivi semplici, che includono la narrazione orale, ma non si esauriscono in essa, anzi la completano con il disegno, la simulazione, la creatività fantastica con cui si inventa una realtà o si conferisce senso alla realtà vera e propria (Federici, 2005; Gardner, 2005).

    Da questo problema discende un difficile compito: quello di riambientare l’oggetto infanzia (originariamente pensato come step di un ciclo-sequenza di fasi di età) entro confini che lo inquadrino come struttura permanente di azioni-relazioni sociali significative. Se l’infanzia non è solo fase della vita , o cammino verso lo sviluppo, ma struttura permanente di rapporti, quali strumenti narrativi suoi propri ha a disposizione?

    Bibliografia

    Abbott A.(2007), I metodi della scoperta. Come trovare delle buone idee nelle scienze sociali, Bruno Mondatori, Milano.
    Alanen, L., Mayall B. (2001), Conceptualizing child-adult relations, Routledge-Falmer, London-New York.
    Alheit P. (2005), Everyday Time and Life Time - On the problem of Healing Contradictory Experiences of Time, in R. Miller (ed.), Biographical Research Methods, Sage, vol. I, pp.353-36 (ed. originale: 1994).Atkinson R.(1998), The Life History Interview, in ”Qualitative Research methods “, vol.44, Sage Publications, Thousands Oaks (CA).
    Bertaux D. (1997), Les récits de vie, Nathan, Paris.
    Bertaux D., Thompson P. (eds.) (1993), Between generations. Family Models, Myths and Memories, Oxford University Press, Oxford.
    Bimbi F., Capecchi V.(1986), Strutture e strategie della vita quotidiana, il Mulino, Bologna.
    Bruner J.S. (1990), Acts of Meaning, Harvard University Press, Cambridge MA.
    Capecchi V.(1972), Struttura e tecniche della ricerca, in P. Rossi (a cura di), Ricerca sociologica e ruolo del sociologo, il Mulino, Bologna, pp. 23-120.
    Federici P. (2005), Gli adulti di fronte ai disegni dei bambini, Angeli, Milano.
    Gardner E. (2005), Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento. Erickson, Trento.
    Greimas A.(1974), Del senso, Bompiani, Milano.
    H. Hengst, H., Zeiher (2004), Per una sociologia dell'infanzia, Franco Angeli, Milano.
    Jedlowski P. (2000), Storie comuni, Mondadori, Milano.
    Lyotard F. (1981), La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano.
    Montaldi D.(1961), Autobiografie della leggera, Einaudi, Torino
    Ricoeur P. (1986), Tempo e racconto, Jaka Boook, Milano.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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