Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012
L’INFERNALE COMPAGNA ANORESSIA»: UN’ANALISI DELLE AUTO-BIOGRAFIE PRO-ANA E PRO-RECOVERY
Agnese Vellar
agnesevellar@gmail.com
Dottore di ricerca in Scienze e Progetto della Comunicazione, è attualmente social media consultant presso l’Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico di Torino. Svolge attività didattica presso l’Università di Torino e il Politecnico di Torino, dove conduce laboratori di etnografia dei media e di progettazione di servizi partecipativi.
1. La «voce della medicina»: dalla definizione
nosografica al disturbo etnico
Nel Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM-IV), i
Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono definiti come disturbi
mentali correlati alla percezione dell’immagine corporea. Gli individui
anoressici e bulimici controllano il proprio peso attraverso un’alimentazione
restrittiva o comportamenti compensatori (vomito autoindotto, utilizzo
di lassativi e purghe) e devono quindi intraprendere percorsi di cura
funzionali al recupero del normopeso e alle corrette abitudini alimentari.
Questa è la «voce della medicina», attraverso cui i clinici classificano
i disturbi mentali in base a raggruppamenti di sintomi («sistema nosografico»).
Tuttavia dietro a patologie quali i disturbi alimentari si cela la difficoltà
a costruire un’identità coerente che trova nei regimi fisici una strategia
per sanare l’angoscia esistenziale che caratterizza la tarda modernità
(Giddens 1991). Mentre le definizioni nosografiche del DSM trattano anoressia
e bulimia come due differenti disturbi, nella letteratura psicanalitica
(Recalcati 2007), psico-sociale (Codispoti e Simonelli 2006; Ostuzzi e
Luxardi 2009; Riva 2009) e socio-culturale (Giddens 1991; Dalla Ragione
2006; Ladogana 2006; Stagi 2008) si parla di anoressie-bulimie come di
una stessa «sindrome culturale» o «disturbo etnico» che esprime le contraddizioni
di un particolare gruppo sociale, in questo caso giovani donne occidentali.
Nella società contemporanea gli individui devono affrontare stati di incertezza
e rischio (Melucci 1998) che sono ancora più acuti per i soggetti femminili.
Durante la fase formativa di costruzione del proprio sé adulto, la donna
vive infatti una pressione sociale contrastante. Da un lato è chiamata
ad emanciparsi dal ruolo domestico di madre per conquistare una propria
autonomia economica e di carriera; dall’altro vengono riprodotte barriere
e stereotipi che non ne consentono la piena auto-realizzazione e indipendenza
(Stagi 2008). La donna è così indotta a riprodurre criteri di valore legati
alla produttività tipici della cultura maschile. Tuttavia, l’impossibilità
di rispondere ad aspettative sociali inconciliabili trova la sua espressione
patologica nel controllo estremo dell’anoressia; tale controllo non può
essere però mantenuto e per questo dà vita alla pratica bulimica, in cui
il cibo viene utilizzato per colmare il vuoto interiore, per poi essere
rifiutato.
I fattori socio-culturali quali il modello di magrezza dai media, sono
implicati nell’insorgere dei disturbi alimentari, tuttavia sono solo uno
degli elementi che entra in gioco nel contribuire allo sviluppo di una
patologia caratterizzata da un’eziologia multifattoriale, ovvero determinata
da una pluralità di variabili (temperamentali, traumatiche, sociali, culturali),
nessuna delle quali da sola è in grado di influenzare l’esito della malattia
o scatenarne l’esordio (Dalla Ragione 2006). La cultura non è quindi la
causa della malattia (processo patogenetico) ma modella la forma dei sintomi
(effetto patoplastico), quindi suggerisce la modalità d’espressione, la
fenomenologia di una sofferenza interiore (ibidem). Le anoressie-bulimie
sono dunque sintomatologie di uno stesso malessere profondo, che recentemente
si esprime in una varietà di forme di auto-controllo sul cibo e sul corpo
che vanno dalla body art agli sport estremi quali il body building, fino
alle ortoressie [1] (Stagi 2008).
2. La «voce della vita quotidiana» emergente nei media
Negli ultimi dieci anni, le storie di vita con i disturbi alimentari sono
emerse nel panorama mediale dando visibilità alla «voce della vita quotidiana»
dei soggetti sofferenti. Da un lato le storie di ex-anoressiche ed ex-bulimiche
sono state usate come soggetti di romanzi e auto-biografie a stampa (Stagi
2008); dall’altro la diffusione di Internet ha consentito la nascita sia
di ambienti online di auto-aiuto finalizzati alla cura (pro-recovery)
(Barbetta 2005), sia di siti «pro-ana» (contrazione di «pro-anoressia»).
Questi ultimi sono spazi digitali quali forum o blog in cui emergono framework
interpretativi della malattia contrari alla cura (anti-recovery) (Fox
et al. 2005). La diffusione di comunità online che si identificano con
un termine che suggerisce un supporto proattivo ad una patologia psichica,
ha indotto ricercatrici come Dalla Ragione (2006), Ladogana (2006) e Stagi
(2008) a mettere in luce la potenziale problematicità dei siti e dei blog
pro-ana, che nelle parole di Stagi sono «un media efficacissimo per la
diffusione di questo disturbo soprattutto tra gli adolescenti che lo utilizzano
quotidianamente (ibidem, p.71)».
Le ricerche sulle comunità pro-ana tuttavia hanno evidenziato come esse
rispondano ad un bisogno di accettazione per soggetti stigmatizzati (Dias
2003; Overbeke 2008) che costruiscono degli spazi propri di interazione
in cui è emersa una subcultura transnazionale con riti e pratiche proprie
(Pascoe 2008). Nonostante la dimensione subculturale di tali ambienti,
Peccenini (2010) ha individuato una continuità tematica tra siti pro-ana
e forum online legati a riviste femminili. Inoltre, come emerso durante
una mia ricerca sui blog pro-ana italiani (Vellar 2010), i soggetti si
rapportano all’identità anoressica in modo ambiguo e dinamico, a volte
dichiarandosi «pro-ana», altre mettendo in discussione tale etichetta.
Nella prima fase di questa mia ricerca ho indagato il processo di stigmatizzazione
emergente attorno alle culture pro-ana, interpretando il termine pro-ana
come un’etichetta funzionale a costruire una barriera simbolica tra in
group e out group (gli utenti). In particolare il blog è uno strumento
che consente di mettere in scena il malessere psico-fisico: le immagini
fotografiche e grafiche con cui il diario digitale è adornato lasciano
trasparire i segni dell’angoscia esistenziale tardo moderna (Vellar in
pubblicazione); dai post testuali invece emerge un tentativo di comunicare
la propria sofferenza di fronte a un gruppo di pari. Dopo aver indagato
le forme di auto-rappresentazione visuali, ho quindi deciso di focalizzare
l’attenzione sul blog come spazio di narrativizzazione del proprio sé.
Secondo Dias (2003) infatti la costruzione di un sé online può favorire
l’esternalizzazione della «voce del disturbo alimentare» (eating disorder
voice) e quindi creare una distanza psicologica tra il sé sano e il sé
malato favorendo il processo di cura.
Coloro che soffrono di disturbi alimentari hanno infatti una scarsa capacità
di connessione metaforica tra i sintomi fisici, le emozioni e la percezione
di sé. In particolare non hanno sviluppato competenze di mentalizzazione,
ovvero la capacità riflessiva di interpretare un comportamento come il
risultato di un pensiero o di un’emozione (Ostuzzi e Luxardi 2009). L’incapacità
di elaborare un malessere all’interno dello spazio psichico della rappresentazione,
porta quindi ad una somatizzazione della sofferenza. La narrazione, recentemente
riconosciuta come strumento di cura ed integrata nelle pratiche cliniche
per il trattamento delle malattie fisiche e mentali, risulta dunque particolarmente
adatta per trattare i disturbi alimentari (Codispoti e Simonelli 2006).
Inoltre, l’insorgere di una malattia si configura come un’interruzione
nella storia dell’individuo, una «rottura biografica» in cui la pratica
della narrazione può aiutare ad attribuire un senso alla sofferenza e
a creare un legame tra l’identità precedete e il sé futuro (Bonica e Cardano
2008; Harter e Bochner 2009). Mentre il pensiero logico-scientifico si
occupa di saggiare la verità empirica di ordine generale, il pensiero
narrativo si esprime nell’abilità di cogliere relazioni ancora prima di
poterle dimostrare e di situare l’esperienza umana nello spazio e nel
tempo (Bruner 1986). La testualizzazione narrativa consente quindi di
creare schemi interpretativi attraverso cui dare coerenza alla propria
esperienza di vita. Forme di auto-narrazione quali l’autobiografia, i
diari e i blog consentono dunque di prendere le distanze dalla quotidianità
attraverso una rilettura della propria biografia che può svolgere una
funzione terapeutica (Di Fraia 2007; Piccone Stella 2008).
I racconti dell’esperienza di vita con i disturbi alimentari nella forma
dei blog e delle auto-biografie possono dunque essere interpretati come
strategie attraverso cui i soggetti malati attribuiscono un senso alla
propria sofferenza; al contempo esse diventano fonti di dati per accedere
alla voce della vita quotidiana delle anoressie-bulimie. Qual è il senso
attribuito ai disturbi alimentari nelle narrazioni di malattia rappresentate
online e nelle pubblicazioni commerciali a stampa? Esistono elementi comuni
nelle narrazioni anti-recovery e nelle narrazioni pro-recovery? In questo
articolo tenterò di affrontare queste domande analizzando i post auto-biografici
condivisi online sia in blog pro-ana sia in siti pro-recovery. Utilizzerò
inoltre materiali proveniente dai miei diari personali e da due auto-biografie
commerciali a stampa di ex-anoressiche, per supportare l’analisi relativa
alle forme di narrazione della sindrome anoressico-bulimica.
3. Un intermezzo auto-biografico
Piena di vuoto (2002) - akame
in attesa dell’invisibilità,
mi sigillo dal mondo,
pennellandomi il corpo
di vernice trasparente
chiudo ogni mio foro
versandoci dentro
ceralacca bollente
e quando l’ultima visione
della mia follia
starà per scomparire
brinderò con un calice
della mia miglior saliva.
Marionetta (2003) - akame
non che fossi sempre stata scomoda, dentro la mia forma. quand’ero
marionetta anzi non ci pensavo nemmeno. semplicemente mi facevo trasportare,
vivere dagli altri. mi si svegliava alle sette dell'alba, mi si invitava
a tavola alle sette del tramonto, e l’unico movimento che dovevo fare
era quello delle dita sulla carta crespa per dargli la forma di fiore.
ma da quando una mattina la mia forma aveva sputato la cena sui mazzi
di rose di carta, avevo dovuto cominciare a muoverla io dal di dentro,
questa marionetta.
da un anno a questa parte, devo puntare la sveglia un’ora prima del solito.
ci vuole più tempo per prepararsi. devo sgrovigliare quelle matasse di
funi e ragnatele che si sono formate nella notte, e che non vogliono liberare
quel corpo alla vita del giorno.
la trascino nel mondo, la spingo a fatica nei posti in cui lei chiede
d’andare. all’inizio tentavo di parlarci, di chiederle perché. la accompagnavo
nei supermercati e, per delle ore, la facevo camminare per i corridoi.
principalmente le interessavano due cose: i gusti degli yogurt e i residui
fissi delle acque minerali naturali. ma ogni chilometro che percorrevo,
ogni ora che passava, le ossa diventavano piombo, i muscoli legno, il
grasso plastica, i capelli fune. quel corpo diventava sempre più inanimato,
sempre più pesante.
sono cambiate le cose negli ultimi mesi. mi sono definitivamente stufata
di stare dentro a due braccia due gambe una pancia una schiena e poc’altro,
ho deciso di espandermi. ero diventata troppo scomoda per me. già da qualche
settimana avevo deciso di abbandonarmi. desideravo sublimare. pensando
che fosse tutta colpa della forma, non della sostanza. perché rimanere
materia solida quando una consistenza aerea mi avrebbe tolto tutto quel
peso.
Il desiderio di sparire, il corpo vissuto come un’alterità in cui non
ci si riconosce. Questi sono temi ricorrenti nei racconti biografici dei
soggetti anoressico-bulimici. La magrezza, la dieta, il digiuno e il vomito
auto-indotto sono tutti sintomi finalizzati all’annullamento e all’autopunizione.
Ma questi sono i sintomi di un male che ha una storia, una storia che
comincia nella prima infanzia.
Once upon a time (2009) - akame
Da piccolissima avevo i ricci biondi. A dimostrarlo c’è stata, per
molti anni, una foto appesa nel corridoio di casa mia. Poi un giorno ho
avuto la brutta idea di voltare lo sguardo e, invece di proiettarmi nell’immagine
della fotografia, mi sono riflessa nello specchio che stava appeso sulla
parete opposta. Ho così scoperto di non essere più bionda e di aver pure
perso il sorriso. L’unica cosa che era rimasta invariata dalla mia prima
infanzia era la corte al mio seguito. Una famiglia dedita a proiettare
le speranza della propria stirpe sulla primogenita aveva foraggiato la
mia autostima, fino a quando questa non si è dovuta scontrare con le truppe
dei compagni d’asilo.
In ogni fiaba c’è una strega e la mia abitava in una casa di marzapane.
Il suo obiettivo era farmi ingrassare per usarmi come trofeo alle fiere
di paese. Poi un giorno ho scoperto che c’era dall’altro oltre i confini
del regno. Così ho deciso di fuggire di corsa, per dimenticare il sapore
della pasta di mandorle e scrollarmi di dosso il suo peso. Più correvo
veloce più mi dimenticavo di quelli che mi stavano attorno, ma non del
buco che avevo dentro. Per riempire il vuoto che mi ero creata attorno,
mi avventavo sui cespugli di more. Abbuffarsi di spine è una buona strategia
per sentire calore: basta ignorare il sapore del sangue. Di villaggio
in villaggio sono arrivata all’altro capo del mondo, dove era tutto diverso,
tutto gigante. Sentirmi troppo piccola per la prima volta mi ha fatto
capire che era ora di crescere. Non sapendo da dove iniziare per chiedere
aiuto ho cominciato dall’indirizzo a me più familiare, quello che comincia
con il www.
Going digital (2010) - agnese vellar
Nel digitale non ho trovato soluzioni alla mia peregrinazione, ma
ho incontrato compagni di viaggio. Leggendo di abbuffate di more altrui
mi sono sentita compresa, anche se l’empatia è sempre stata para-sociale,
perché non ho mai avuto il coraggio di interagire. Però ho compartecipato
al racconto del dolore fisico ed emotivo. Oltre che di ore di corsa, di
vomito indotto e di digiuni, molte delle storie raccontavano di lotte
contro un comune nemico. Le declinazioni dell’alterità erano differenti:
dai genitori, agli psicologi/psichiatri/psicanalisti, fino agli internauti
intrusi che si prendevano la libertà di partecipare ad una discussione
a cui non erano stati invitati.
Le biografie digitali costruite come fuga dal giudizio del mondo circostante,
venivano infatti violate dalle accuse degli utenti della rete. È stato
in quel momento che ho cominciato a guardare dall’esterno un’identità
che avevo sempre sentito mia. Un’identità costruita attorno al desiderio
di una rassicurazione che ha la durezza delle ossa, ma che deve apparire
agli altri come trasparente. Un’identità che vuole esibirsi e al contempo
nascondersi, e che trova nella rete la giusta dimensione per costruire
il proprio limbo. Un’identità che, prendendo consistenza nei blog che
leggevo, mi è improvvisamente, inaspettatamente, parsa distante e poco
attraente.
Il mio percorso di ricerca sui disturbi alimentari segue un sentiero che
ho cominciato a percorrere durante la mia tarda adolescenza. La scrittura
privata dalla mia esperienza con la bulimia nella forma della poesia e
della prosa breve mi ha aiutata a riflettere sull’origine e il significato
della malattia. Per introdurre il lettore nella cultura anoressico-bulimica,
ho scelto per questo di utilizzare stralci delle mie note auto-biografiche
scritte durante gli ultimi otto anni della mia vita. Dagli stralci, presentati
in ordine cronologico, credo si possa osservare un’evoluzione della forma
della rappresentazione, dei contenuti e del livello di riflessività. Il
primo brano, di genere poetico, è l’espressione di un sentire non mentalizzato.
Di un desiderio auto-distruttivo, che caratterizza la patologia anoressico-bulimica.
Una morte rappresentata ed immaginata, ma che lascia intravedere una delle
sintomatologie correlate ai DCA, ovvero il desiderio suicida (Pompili
et al. 2003). Segue un brano descrittivo in cui ho usato una rappresentazione
metaforica per esprimere il rapporto conflittuale con il corpo, vissuto
come un’alterità piuttosto che un tutt’uno con l’identità personale, di
cui il soggetto (akame, il mio alterego utilizzato per esprimere poeticamente
e narrativamente i miei stati emotivi interiori) si deve occupare, prendere
cura, anche se ciò comporta un’estenuante fatica. Emerge qui la domanda
«perché?» tipicamente formulata dai malati per dare un senso alla sofferenza
(Cardano 2007) («all’inizio tentavo di parlarci, di chiederle perché»);
la risposta a questo quesito comincia ad emergere cinque anni dopo, durante
il primo periodo di frequentazione dei siti pro-ana. La lettura delle
esperienze altrui mi ha stimolata a ricostruire la mia storia attraverso
la narrazione per trovare un significato e un’origine al mio malessere.
La narrazione in forma fiabesca del terzo brano è stato uno degli strumenti
che mi ha aiutata a prendere le distanze dalla mia «parte malata» e a
mentalizzare il mio dolore.
In questa fase la mia storia personale mi ha indotta a riflettere sulla
mia esperienza privata anche in funzione della comprensione di più complesse
dinamiche socio-culturali, di cui le anoressie-bulimie sono espressione.
Tuttavia avevo necessità di trovare uno strumento attraverso cui conciliare
la mia esperienza personale con la pratica di ricerca. Mi sono così confrontata
con il dibattito relativo al ruolo della soggettività del ricercatore
nel processo di indagine empirica che si è sviluppato nel corso del secolo
scorso all’interno delle scienze sociali.
4. Ricerca sociale, soggettività e narrazione riflessiva
Qual è il rapporto tra ricercatore e realtà sociale? Com’è possibile restituire
alla comunità scientifica una descrizione della cultura osservata? La
risposta a queste domande si è evoluta nel corso del Novecento come conseguenza
di un percorso storico che ha visto la ricerca sociale qualitativa ridefinire
i propri criteri di validità scientifica. Il «positivismo» naturalista
che si è affermato nella metà del secolo scorso è stato messo in crisi
negli anni Ottanta dalle visioni «post-strutturaliste» e «post-moderniste»
che hanno aperto le porte ad un’epistemologia «riflessiva» (Cardano 2001;
Marzano 2006). A partire da tale percorso di ridefinizione epistemologica
sono emerse differenti pratiche di scrittura che si sono concretizzate
nella forma della narrazione «realista», «processuale» e «riflessiva»
(Colombo 1998).
Fino agli anni Settanta il ricercatore era inteso come un osservatore
straniero, esterno al contesto di indagine che produce una rappresentazione
oggettiva della realtà indagata. Le modalità di scrittura che corrispondono
ad una concezione naturalista delle scienze sociali si caratterizzano
per uno stile distaccato e documentaristico. Tuttavia con la svolta postmoderna
degli anni Ottanta, i ricercatori hanno messo in luce la natura retorica
della rappresentazioni, evidenziando l’impossibilità di descrivere le
culture nei loro tratti essenziali. Non potendo dare una descrizione oggettiva
della realtà esterna, gli etnografi postmoderni usano forme espressive
evocative ed indagano la propria soggettività attraverso esercizi di introspezione
sociologica (Ellis et al. 2011). Si tratta di narrazioni «processuali»
in cui viene descritto il processo di ricerca dal punto di vista soggettivo
del ricercatore.
La narrazione processuale ed evocativa è stata utilizzata anche per cogliere
la «voce della vita quotidiana» dei soggetti anoressico-bulimici e mettere
in luce il punto di vista soggettivo per distanziarsi dalle concettualizzazioni
teoriche sia sociologiche che cliniche. In particolare le tecniche dell’«auto-etnografia»
(Kiesinger 1998; Tillman-Healy 1996, 2009; Chatham-carpenter 2010) e delle
«interactive interview» (Ellis 1998) sono state utilizzate da ricercatrici
che hanno avuto esperienze con i disturbi alimentari per avvicinare il
lettore al mondo interiore dei soggetti sofferenti ed andare oltre le
astrazioni delle indagini scientifiche e della narrazione realista. Mentre
l’auto-etnografia è un tipo di narrazione processuale al cui centro è
posta l’esperienza soggettiva del ricercatore, la tecnica delle interactive
interview prevede che intervistatore ed intervistato condividano una stessa
esperienza di vita. Tale tecnica è particolarmente adatta per avvicinarsi
al punto di vista di soggetti stigmatizzati in quanto l’intervistato risulta
più disponibile a parlare dei propri vissuti se percepisce l’accettazione
sociale da parte dell’intervistatore (Green et al. 2005).
Le forme di narrazione processuale sono tuttavia state criticate per un
eccessivo ripiegamento nella soggettività del ricercatore che porta a
saturare lo spazio conoscitivo con il proprio sé perdendo di vista l’oggetto
di studio (Colombo 1998; Anderson 2006); inoltre l’epistemologia postmoderna
comporta una de-differenziazione dei generi che non consente di definire
dei criteri di distinzione tra discorso sociologico (scientifico) e discorso
letterario (artistico) (Cardano 2001). Questa fase di rottura epistemologica,
che nega ogni possibilità di conoscere oggettivamente il reale, ha tuttavia
aperto la strada ad un nuovo paradigma scientifico di tipo riflessivo
(Melucci 1998). La sociologia riflessiva ha abbandonato l’illusione positivista,
ma, piuttosto che ritrarsi nella soggettività pura, ha ridefinito il proprio
ruolo conoscitivo in quanto scienza interpretativa. Anche gli strumenti
della ricerca empirica hanno acquisito una nuova validità euristica. L’osservazione
partecipante (Gobo 2001; Cardano 2003) così come le interviste discorsive
(Losito 2004), non più definibili come strumenti di raccolta dati, vengono
intesi come processi comunicativi durante i quali il ricercatore e i soggetti
studiati partecipano alla costruzione della realtà stessa.
In seguito alla svolta riflessiva viene quindi messo in luce il ruolo
della soggettività del ricercatore, il quale concorre a produrre la rappresentazione
della realtà indagata. Tale fenomeno si verifica sia nel caso in cui il
ricercatore sia straniero rispetto al gruppo sociale oggetto di studio,
sia nel caso in cui ne faccia parte. Nella prima situazione, il rischio
è di interpretare una cultura secondo categorie analitiche ad essa estranee
rischiando di fornire una rappresentazione distorta. I primi antropologi
sono stati accusati dai postmoderni di aver inventato le culture in quanto
utilizzavano categorie analitiche proprie della cultura occidentale per
interpretare le pratiche dei selvaggi (Clifford e Marcus 1986). Tale rischio
si può verificare anche all’interno delle indagini sociologiche, ad esempio
in relazione a culture interpretate come devianti, quali le subculture
pro-ana. Il mio interesse nei confronti delle culture pro-ana deriva proprio
dalla volontà di fornire un punto di vista differente rispetto alla rappresentazione
oggettiva fornita dalla voce della medicina. Questo articolo vorrebbe
dunque essere una «narrazione riflessiva» in cui interagiscono due registri:
quello personale ed evocativo e quello scientifico ed analitico. Il primo
ha l’obiettivo di rendere visibile il processo di costruzione della ricerca
descrivendo lo strumento osservativo (la soggettività del ricercatore).
Attraverso i brani poetici e le prose ho tentato di superare un tipo di
rappresentazione naturalista per introdurre emotivamente il lettore al
tema dei disturbi alimentari da un punto di vista interno e, al contempo,
per esplicitare la mia posizione osservativa a partire dalla quale ho
interpretato la realtà osservata. La soggettività del ricercatore è un
elemento influente sia nel caso in cui esso sia straniero sia nel caso
in cui sia nativo della cultura studiata. Per questo ritengo utile mettere
in luce non solo i presupposti teorici e la pratica di analisi empirica
della ricerca, ma anche gli elementi biografici che inevitabilmente influenzano
l’interpretazione della realtà sociale. Tuttavia non intendo fare della
mia soggettività l’unico oggetto di studio; al contrario la narrazione
processuale vuole essere uno strumento retorico attraverso cui introdurre
il lavoro analitico e costruire un dialogo virtuale con le storie di vita
dei soggetti studiati.
5. Un’analisi delle auto-biografie pro-ana e pro-recovery
La scrittura è sempre stata parte integrante della mia esperienza di vita
con la bulimia. Dalla tarda adolescenza ho utilizzato la poesia e la prosa
breve per esprimere il mio malessere e, quindi, tentare di dare un senso
a ciò che mi stava accadendo. Nel panorama mediale contemporaneo è possibile
identificare molteplici espressioni di tale bisogno che dal privato entrano
nella dimensione pubblica. Nel panorama massmediale le storie narrate
da ex-anoressiche diventano un genere di scrittura auto-biografica commerciale
piuttosto diffusa [2]. All’interno della
rete invece le anoressico-bulimiche raccontano le proprie esperienze personali
in ambienti quali i forum e i blog. Nella mia esperienza personale la
lettura di testi a stampa (romanzi e autobiografie) e di racconti digitali
(blog di ragazze pro-ana e post in siti pro-recovery) mi ha aiutata a
prendere le distanze dalla mia sofferenza, vedendola oggettivata in forma
scritta nelle pagine dei libri o sullo schermo del computer. Quando il
mio interesse da personale è diventato scientifico, questo materiale mi
è parso estremamente interessante per accedere ad una comprensione più
ravvicinata del significato dei disturbi alimentari dal punto di vista
dei soggetti malati.
5.1 Metodologia e base empirica
Nel dicembre 2009 ho avviato un’indagine sulle culture pro-ana con una
ricerca empirica in una rete di blog italiani. Nella prima fase dell’indagine
ho identificato un campione di 50 blog con l’obiettivo di analizzare le
modalità di auto-rappresentazione e il processo di stigmatizzazione emergente
attorno all’etichetta pro-ana [3] (Vellar
2010). Nel campione sono presenti blog senza una dimensione narrativa
di lungo periodo, tra cui blog che contengono esclusivamente post relativi
all’alimentazione e al peso o post descrittivi appiattiti alla dimensione
quotidiana. Un secondo tipo di blog ha invece una struttura più definita,
anche se, piuttosto che avere uno svolgimento lineare e continuo, la natura
del mezzo di comunicazione usato determina una frammentazione della narrazione.
Tuttavia nei blog sono presenti anche post specificatamente autobiografici
in cui la blogger si presenta attraverso la propria storia.
Ho quindi identificato due post biografici in cui era evidente una struttura
narrativa e in cui era esplicitata la rottura biografica che consente
di identificare il passaggio tra la salute e la malattia. Oltre ai post
biografici pro-ana ho identificato due post biografici pro-recovery all’interno
di un forum di discussione dedicato al mutuo aiuto. Tuttavia il mio interesse
in questo frangente non è la specificità della forma mediale di comunicazione,
ma le caratteristiche delle narrazioni di una specifica patologia. Per
questo ho deciso di integrare il materiale empirico digitale con quello
proveniente da auto-biografie commerciali. Tra i 10 testi a stampa (biografie
e fiction) che avevo fruito come consumatrice mediale, ho selezionato
le due biografie non fiction scritte in prima persona. Ho scelto le due
auto-biografie più conosciute sul tema delle anoressie-bulimie: Tutto
il pane del mondo (1994) di Fabiola De Clercq e La ragazza che non voleva
crescere (2009) di Isabelle Caro.
Ho raccolto così sei storie di vita con i disturbi alimentari con l’obiettivo
di identificare delle strutture ricorrenti e di mettere in luce la specificità
delle narrazioni delle anoressie-bulimie rispetto ad altri tipi di narrazioni
di malattia. Per farlo ho applicato i modelli analitici di Greimas e di
Gergen nella loro versione utilizzata in precedenza per l’analisi delle
narrazioni del male mentale (Cardano 2007). Nelle narrazioni di malattia
è infatti possibile identificare 5 tappe : (i) il protagonista perde l’oggetto
di valore, ovvero la salute (antefatto) come conseguenza della rottura
biografica; (ii) il malato riceve dall’istituzione sanitaria (destinante)
il compito di riconquistare la salute (contratto); (iii) il malato tenta
di dare una spiegazione alla propria sofferenza (competenza) e (iv) lotta
contro il male mentale (performanza); (v) tale fase può dare esito positivo
o negativo (sanzione). Analizzando le differenti tappe è quindi possibile
ricostruire tre generi narrativi : nella tragedia vi è una caduta a cui
segue una stasi; nel romanzo cavalleresco il narratore lotta contro il
male sconfiggendolo o dominandolo; nella saga eroica si alternato le fasi
progressive e regressive.
5.2 Analisi narrativa
L’obiettivo della seguente analisi è l’identificazione di una struttura
narrativa ricorrente nelle storie pro-ana e pro-recovery. Per farlo utilizzerò
principalmente le storie di Tatoo [6]
e Blue (blog pro-ana) e di Dark e Alibruciate (post pro-recovery), a cui
farà da contrappunto il materiale tratto dagli scritti di Fabiola, Isabelle
e akame, con l’obiettivo di rendere maggiormente eloquente la specificità
delle biografie di anoressia-bulimia [7].
Analizzando le sette biografie è infatti emersa una struttura ricorrente,
che, da un percorso iniziale comune, assume due differenti declinazioni
che corrispondo ai percorsi pro-ana e pro-recovery. Alcune storie prendono
l’avvio da un’infanzia felice, in cui la protagonista è unita all’oggetto
di valore, ovvero il benessere, la normalità, l’amore dei genitori:
Fino ai 14 – 15 anni ho avuto una vita tutto sommato normale. Ero
una ragazzina brava a scuola, ubbidiente, ordinata, carina… una ragazzina
normale. Eppure, ad un certo punto, è successo. Cosa, esattamente? Neanch’io
saprei dirlo. Ma è successo. Avrei potuto avere tutto, tutto quello che
una ragazza normale potrebbe avere, ma non era abbastanza. O, forse, era
troppo (Dark, pro-recovery).
Ho sempre avuto una famiglia tranquilla e felice, felice specialmente
della propria figlia (Tatoo, pro-ana).
Da piccolissima avevo i ricci biondi. A dimostrarlo c’è stata, per molti
anni, una foto appesa nel corridoio di casa mia. Poi un giorno ho avuto
la brutta idea di voltare lo sguardo e, invece di proiettarmi nell’immagine
della fotografia, mi sono riflessa nello specchio che stava appeso sulla
parete opposta. Ho così scoperto di non essere più bionda e di aver pure
perso il sorriso (akame, auto-biografia).
Ad accomunare tutte le narrazioni è la perdita dell’oggetto di valore,
che avviene nel momento in cui la protagonista non si riconosce nel proprio
corpo o nell’immagine riflessa allo specchio. In questa fase la rottura
biografica non è ancora associabile all’insorgere del vero e proprio male
mentale, ma può essere più ragionevolmente descritta come una crisi identitaria
adolescenziale che si esprime nel mancato riconoscimento del proprio corpo.
Tuttavia la soluzione a tale crisi non viene ricercata nella costruzione
di un proprio sé adulto, ma, al contrario, prende la forma del desiderio
anoressico che si declina nella volontà di rimanere «piccola» o «distruggere
la me stessa dello specchio»:
Un giorno mi sono guardata allo specchio e non ho visto quel che avrei
voluto vedere. Il riflesso che mi rimandava non era quello che avrei voluto
che fosse. Non mi piaceva. Non volevo essere quella me stessa. Volevo
essere un’altra me stessa. […] Volevo che tutti, guardandomi, vedessero
qualcosa di speciale. Sapevo che, per fare questo, avrei dovuto distruggere
la me stessa dello specchio. Sapevo che sarebbe stata dura. Sapevo che
sarebbe stato difficile. Sapevo che avrei dovuto mettere in gioco tutto
e riuscire a controllarlo. Sapevo che si sarebbe trattato di camminare
sul filo di un rasoio. Ma sapevo anche quel che volevo: diventare migliore.
Trovare un modo per sentirmi a mio agio con me stessa (Dark, pro-recovery).
Ho cominciato in prima elementare, forse prima. Alimentazione restrittiva,
con fobie per certi tipi di alimenti (pane duro, prosciutto crudo...).
Verso la quarta ho iniziato a guardarmi allo specchio. Mi piacevano le
mie ossa. Odiavo la mia pancia (Alibruciate, pro-recovery).
Così un giorno mi sono guardata allo specchio e ho visto, come fosse la
prima volta, la balena che ero diventata e mi sono messa a dieta (Blue,
pro-ana).
Ero stata fino a poco prima una bambina normale e, tutt’a un tratto, dovevo
convivere con un corpo che non riconoscevo (Fabiola, auto-biografia commerciale).
L’ultima cosa che mamma desidera è che io cresca. Vorrebbe che restassi
una bambina piccola, come quando lei era una persona giovane e felice.
[…] Anch’io preferivo quanto ero piccola. Ne deduco che più crescerò meno
Mamma mi vorrà bene (Isabelle, auto-biografia commerciale)
Nel caso di Isabelle il desiderio anoressico è fortemente eterodiretto
dalla volontà della madre. Negli altri casi invece l’anoressia è rappresentata
come una presa di potere («Ho deciso») e di controllo («mi sentivo […]
potente», «riuscivo a modificare il mondo esterno») su se stessa, un moto
di agency:
Così ho iniziato. Senza neanche rendermene conto, senza sapere quello
che stavo facendo, sono scivolata nella spirale discendente dell’anoressia.
L’ho fatto coscientemente, lucidamente, pur non potendo ovviamente in
quel momento prevedere quali ne sarebbero state le conseguenze. Ho deciso
di cambiare. Ho deciso di dimagrire. Ho deciso di restringere. Ho deciso
di controllare. Ho deciso di essere forte. Ho deciso di diventare migliore.
E tutto è cominciato (Dark, pro-recovery).
Prima di rendermene conto era già troppo tardi per tornare indietro.
I primi chili sono volati, senza nemmeno particolari restrizioni. Poi
ci ho preso gusto e ho ristretto un po’ di più, per velocizzare la cosa…
poi un po’ di più, un po’ di più… e nel giro di circa 4 mesi avevo smesso
di sedermi a tavola con la mia famiglia. Giorni interi di digiuno in cui
mi sentivo una divinità, forte, invincibile, potente… (Blue, pro-ana).
Attraverso questa metamorfosi corporea riuscivo a modificare il mondo
esterno. Avevo preso, senza saperlo ancora, una strade che mi avrebbe
fatto perdere di vista, per diciassette anni, le ragioni reali del mio
malessere (Fabiola, auto-biografia commerciale).
Tuttavia, il controllo sul proprio sé è apparente, in quanto implica sempre
un elemento di accidentalità («sono scivolata») e di inconsapevolezza
(«Prima di rendermene conto», «senza saperlo ancora»). Nella scrittura
a posteriori si intravede dunque un’alterità che prende il sopravvento:
«LEI», l’anoressia:
è arrivata LEI. Sì, Lei era quella che cercavo, la mia valvola di
sfogo, quella che mi avrebbe fatto sentire bene dopo anni ed anni di dolore,
i miei genitori non l’avrebbero mai scoperto! (Tatoo, pro-ana).
In questa prima fase l’anoressia è il destinante che assegna un compito:
la perfezione. Attraverso la capacità intellettuale costituita dal «controllo»
sul proprio corpo acquisita durante la fase della competenza, durante
la fase della performanza è possibile dimagrire e ottenere, come sanzione
positiva, il controllo sul «mondo esterno», diventare «invincibile». Tuttavia
in questo frangente si avvia una nuova narrazione, nel momento in cui
la protagonista scopre che l’anoressia è un’«infernale compagna»:
E poi mi sono accorta che mi ero fregata da sola. Che l’anoressia
non mi avrebbe mai portato tutto quello che prometteva. Anzi, al contrario,
avrei dovuto sopportare una vita fatta solo di compromessi, dove non ci
sarebbe stata davvero gran differenza tra vivere e morire. Un vita a metà.
E mi sono resa conto che l’anoressia aveva promesso di farmi sentire diversa,
speciale, forte, in controllo… ma che in realtà la mia infernale compagna
mi aveva fatta prigioniera, rubando anni, energie, pensieri, amici, hobby,
studio, lavoro. Aveva rubato me stessa, aveva cancellato quello che ero
e quello che avrei potuto essere. Aveva portato via la parte migliore
di me, le cose che amavo. Perciò mi era rimasta solo una grande stanchezza,
una solitudine senza confini, giorni fatti di ossessione e di vuoto. Niente.
Non mi era rimasto più niente (Dark, pro-recovery).
Poi il crollo. La consapevolezza che non ero più io ad avere il controllo,
ma era lei, l’anoressia… che con le sue regole e dettami mi stava cambiando
la vita, trasformando fisicamente e psicologicamente (Blue, pro-ana).
In seguito alla scoperta dell’illusorietà del controllo, la protagonista
sviluppa un nuovo tipo di competenza, ovvero acquisisce i mezzi intellettuali
per dare un senso a ciò che sta vivendo e dare il nome alla propria patologia.
È in questo bivio che i percorsi delle pro-ana e delle pro-recovery si
separano. Nei post biografici pro-ana, nonostante la consapevolezza della
malattia, Ana continua ad essere interpretata come «una guida» che consente
di «dimagrire» con l’obiettivo di raggiungere la «perfezione» e «scomparire»:
So di stare male, so che non è normale. Ma io non riesco a resisterle,
a resistere alla forza della magrezza, della perfezione.. DEVO dimagrire
(Blue, pro-ana).
Dopo aver toccato i 45 kili ed essere stata soggetta a giornalieri svenimenti,
dopo aver detto tutto al mio ragazzo ed essere mandata dai professori
(che si erano accorti) dallo psicologo, dopo che tutto questo è stato
rivelato a mia madre, dopo che ho ripreso a mangiare per 3 mesi, dopo
che HO FINTO DI ESSERE “GUARITA” E ANCORA FINGO: sono qui, ana è qui,
non ci sono creste e anfibi nonostante le mie persistenti ideologie, non
ci sono compagnie sbagliate attorno a me, e i miei genitori sanno solo
che sono ossessionata dalla dieta ma non credono sia Lei, mio moroso idem.
Ana mi salva da tutto, mi guida, nonostante i momenti di crisi mi fa star
bene e mi farà essere ciò che voglio. Basta insulti, prese in giro e brutte
occhiate. Solo l’invidia dilagherà, e se diventassi così magra da essere
addirittura inguardabile nessun problema, potrò sempre scomparire (Tatoo,
pro-ana).
Dopo aver scoperto la falsità dell’«infernale compagna», le pro-recovery
scelgono invece un altro oggetto del desiderio: la normalità. La fase
della performanza diventa dunque una lotta vissuta di giorno in giorno,
tra il sé malato, che assume la forma di differenti sintomi - dall’anoressia,
alla bulimia, all’alimentazione incontrollata (binge eating) -, e il sé
sano, la volontà di «essere normale»:
Ho ricominciato a mangiare, ma non mi sono arresa. La parte malata
di me non si è arresa. E così, per limitare i danni del cibo, ho preso
a vomitare. Bulimia. Ma, alla fine, ho deciso di smettere. Ho deciso di
smetterla con i disturbi alimentari. Uscire da anoressia e bulimia è stato
difficile. Crisi, pianti, umor nero. Non riuscivo a vedermi con niente,
anche perché la malattia mi aveva fatta gonfiare tutta. Ma, pian piano,
credevo di avercela fatta. E, invece, la binge è tornata a bussare alla
porta. Toc toc. E io ho aperto. La binge è stata la più difficile da combattere
dopo l’anoressia. Ci sono voluti dei mesi, ma alla fine ce l’ho fatta
(Alibruciate, pro-recovery).
ogni volta ci sono ricaduta, ho resistito un po’ e poi ho ricominciato
a restringere, in un circolo vizioso che sembrava veramente non avere
mai fine. E mi sentivo stanca, tanto stanca. Stanca di vivere solo per
morire. Stanca di morire solo per vivere. Avrei voluto imparare a vivere
solo per vivere. […] E allora ho capito che la cosa più speciale che potessi
fare era provare ad essere normale. E a sopportare, in questa normalità,
tutte le sfide quotidiane. Perché è questa la vera forza. Non quella illusoria
che l’anoressia sembra dare (Dark, pro-recovery).
Nelle tappe della narrazione del male mentale fin qui descritte entrano
in gioco ulteriori ruoli attanziali che possono configurarsi come aiutanti
o come opponenti. Nella prima fase della narrazione in cui l’oggetto di
valore è costituito dalla magrezza, genitori e medici sono percepiti come
opponenti che, proponendo un oggetto di valore differente (il benessere),
distruggono la competenze acquisita fino a quel momento:
Il filo si è spezzato, i miei giochi scoperti, le mie bugie svelate.
Il mio universo disintegrato. I miei genitori si sono accorti di quello
che stavo facendo e sono corsi ai ripari. A loro modo, si capisce. Mi
hanno trascinata dal medico, poi da una dietista, poi da una psichiatra.
Mi hanno detto che mi volevano aiutare a stare bene e che, con quello
che stavo facendo, li avevo feriti e stavo distruggendo la loro vita.
Non si sono accorti che, con ciò che si sono messi a fare “per il mio
bene”, hanno iniziato a distruggere quella che in quel momento consideravo
la mia vita (Dark, pro-recovery).
Genitori e clinici si configurano come figure antagoniste anche nella
fase della guarigione (performanza), in quanto non sono in grado di comprendere
la specificità del problema:
Dai disturbi alimentari sono uscita da sola. I miei genitori? Facevano
finta di non vedere. Il loro motto è sempre stato “Tu non hai nessun problema.
Smettila di farteli venire”. Gran bel sostegno (Alibruciate, pro-recovery).
Poi la preoccupazione di genitori e amici, i medici e le cure. Mi hanno
dato farmaci per farmi venire fame e riprendere peso, per “farmi stare
meglio”. Nessuno si è preoccupato di affrontare i motivi che mi spingevano
al digiuno, alla voglia di sparire. Risultato: peso ripreso con gli interessi
per via dei farmaci, che ora ho smesso, e stessa mentalità malata (Blue,
pro-ana).
Al contrario a fungere da aiutanti del protagonista sono le amicizie mediate,
incontrate sui forum, sia negli ambienti generalisti come il sito alFemminile,
sia nella rete di blog pro-ana:
L’unico vero sostegno che ho avuto proviene dal sito alFemminile,
dove è presente un gruppo di ragazze che stanno cercando di uscire dai
dca. Lì sono riuscita per la prima volta a raccontarmi, lì ho imparato
a sfogarmi e non tenermi tutto dentro. Lì sono stata finalmente accettata
e compresa. Se volete uscirne esistono siti di autoaiuto. A me ha aiutato
molto (Alibruciate, pro-recovery).
Cerco sostegno, incoraggiamento per non mollare in questo mio estremo
tentativo di riuscire, di farcela per una volta. Magari con il sostegno
di anime affini, con le stesse idee, posso riuscire più facilmente. Il
confronto secondo me aiuta, e nella vita reale non posso averne… (Blue,
pro-ana).
La lettura dei blog è stato un elemento rilevante anche nella mia storia,
in quanto mi ha spinto a prendere le distanze dal desiderio anoressico:
Nel digitale non ho trovato soluzioni alla mia peregrinazione, ma
ho incontrato compagni di viaggio […] È stato in quel momento che ho cominciato
a guardare dall’esterno un’identità che avevo sempre sentito mia. Un’identità
costruita attorno al desiderio di una rassicurazione che ha la durezza
delle ossa, ma che deve apparire agli altri come trasparente. Un’identità
che vuole esibirsi e al contempo nascondersi, e che trova nella rete la
giusta dimensione per costruire il proprio limbo. Un’identità che, prendendo
consistenza nei blog che leggevo, mi è improvvisamente, inaspettatamente,
parsa distante e poco attraente (akame, auto-biografia).
La ricerca di un contatto estraneo emerge anche nella biografia di Isabelle
che tuttavia, in epoca pre-Internet, lo ricerca attraverso un mezzo più
tradizionale, il telefono:
A furia di fare avanti e indietro per casa mi rendo conto che c’è
un oggetto a portata di mano che potrebbe procurarmi un po’ di evasione:
il telefono. […] Telefono chissà dove, chissà a chi. A caso, come un naufrago
che getta in mare la sua bottiglia. Quando qualcuno mi risponde, spiego
che sono una bambina di undici anni e che sto cercando qualcuno a cui
scrivere. A volte mi sbattono la cornetta in faccio o mi rispondono seccamente,
altri i dicono che non c’è nessun bambino della mia età. Due o tre volte,
però, ci azzecco e riesca raccogliere qualche volontario (Isabelle, auto-biografia
commerciale).
Così come tutte le narrazioni analizzate sono accomunate da una stessa
rottura biografica, anche la tappa conclusiva (sanzione) è simile. Nonostante
la differenze tra le pro-ana e le pro-recovery per quanto riguarda il
percorso di cura e l’abbandono del desiderio anoressico, non vi è mai
un completo raggiungimento dell’oggetto di valore, in quanto l’anoressia
continua ad essere parte della biografia di tutte le ragazze che hanno
sofferto di disturbi alimentari:
L’anoressia è una prigione che non ha odore, che non ha sbarre, che
non ha mura: una prigione per la mente… Certo, è una cosa da cui sono
passata, e niente potrà cancellarla. Ma la porterò nel doppio fondo dell’anima
per sempre, come una contrabbandiera dell’orrore. Sorella morte. Ma la
mia vita è ancora nelle mie mani, perciò sta a me decidere cosa farne.
[…] Vivere è possibile. Sta solo a voi scegliere di farlo – e come farlo.
Io ho fatto la mia scelta. Spero che sia anche la vostra (Dark, pro-recovery).
Ora sono tre mesi che sono guarita. Non sono sicura che dire «sono guarita
dai dca» sia esatto. Ne sono uscita, questo sì. Ho eliminato i comportamenti
malati, anche. Ma guarita... La parte malata di me è ancora lì, la sento.
Se ne sta relegata in un angolo. La parte sana di me ore è più forte.
Ma non potrò mai eliminare i dca dalla mia vita. Non potrò mai premere
CANCELLA e chi sé visto sé visto (Alibruciate, pro-recovery).
Spesso mi capita anche di ricorrere a quello che ormai considero quasi
un’abitudine. Di fronte ad alcuni problemi la mia prima reazione è quella
di mangiare, un po’ per questa volta, per poter vomitare. Ma adesso sono
capace di guardare oltre, sapendo con certezza che anche questo è superabile
(Fabiola, auto-biografia commerciale).
Con questo libro ho cercato di togliermi la sciarpa che avevo davanti
alla bocca per raccontare tutto il mio dolore a la mia speranza. Sì, spero
di guarire. Forse non del tutto, ma abbastanza da riuscire a festeggiare
il mio sessantesimo compleanno (Isabelle, auto-biografia commerciale).
Isabelle, deceduta appena due anni dopo la pubblicazione della sua storia,
non ha realizzato il suo desiderio impresso nella penultima pagina di
un libro a stampa. Questa è una testimonianza del fatto che le tappe delle
narrazioni di malattia sono tutt’altro che lineari e che la forma chiusa
del romanzo può tutt’alpiù simulare un lieto fine.
6. Discussione
Applicando il modello narratologico ai racconti biografici è stato possibile
identificare due strutture a tappe corrispondenti alle storie pro-ana
e alle storie pro-recovery. Le seconde, tuttavia, piuttosto che seguire
un percorso separato, possono essere considerate come una seconda narrazione
che prende l’avvio nel momento in cui la protagonista trova la forza di
scegliere un oggetto di valore differente rispetto a quello identificato
nel contratto con Ana.
In tutte le narrazioni la separazione dall’oggetto di valore del «benessere»
avviene nel momento in cui il soggetto non si «riconosce più» (allo specchio,
nel proprio corpo). La soluzione alla rottura biografica costituita dalla
crisi identitaria viene quindi identificata nel desiderio anoressico.
La protagonista infatti stabilisce un contratto con l’Anoressia (o Ana):
l’oggetto di valore costituito dalla «perfezione» (e la sua declinazione
estrema identificata con la possibilità di «sparire») può essere raggiunto
nella fase della performanza attraverso il dimagrimento. In questa fase,
Ana si configura come il mandante del soggetto, mentre genitori e clinici
(medici, psichiatri, psicologici) sono considerati gli oppositori. Le
protagoniste conquistano così la competenza, ovvero la «forza» e il controllo
su di sé per diventare «invincibile» e avere controllo sul mondo. Tuttavia
si tratta di una conquista illusoria, in quanto nella fase che può essere
definita del tradimento la protagonista scopre che Ana è un’«infernale
compagna che mi aveva fatta prigioniera». A partire da questo punto di
rottura, mentre le pro-ana continuano a vivere nella fase di performanza
finalizzata all’annullamento, le pro-recovery intraprendono un percorso
di cura e avviano una nuova narrazione in cui l’oggetto di valore è la
«normalità».
La differenza tra le narrazioni pro-ana e pro-recovery può quindi essere
ricondotta a differenze di genere narrativo. Se la voce narrante fosse
quella della medicina, le narrazioni pro-ana sarebbero da associare al
genere della tragedia, in quanto alla rapida caduta non segue una fase
progressiva che consenta di raggiungere l’oggetto di valore costituito
dal benessere. Tuttavia, volendo ascoltare la voce della vita quotidiana,
è necessario considerare anche il punto di vista soggettivo della protagonista,
la quale, anche dopo la scoperta del tradimento, continua a seguire il
compito assegnato da Ana. Dal punto di vista interno dunque la narrazione
pro-ana acquisisce la forma di un romanzo cavalleresco in cui la protagonista
non combatte contro il male mentale, ma contro lo sguardo del mondo, rispetto
al quale vuole scomparire (Figura 1).
Figura 1: narrazioni pro-ana dal punto di vista esterno e interno
Le narrazioni pro-recovery possono invece essere interpretate come una
saga eroica, in quanto, in seguito alla scoperta del tradimento, si avvia
un percorso di cura in cui si susseguono molteplici fasi progressive e
regressive (Figura 2). Nella fase della performanza gli aiutati della
protagonista sono le «anime affini» incontrate online, mentre genitori
e clinici si configurano come opponenti. Le storie pro-recovery analizzate
si concludono con un periodo progressivo, nel quale tuttavia non si raggiunge
una conquista completa dell’oggetto di valore (la normalità), in quanto
l’anoressia continua ad essere parte dell’identità individuale . Inoltre
è necessario sottolineare che la fase di stabilità con cui può concludersi
una storia è sempre un artificio creato apponendo un punto conclusivo
in una biografia che naturalmente prosegue oltre i confini di una pagina
scritta o dello spazio digitale del blog con risvolti che ci costringono
a dover re-interpretare alcuni casi, come quello di Isabelle, come una
tragedia.
Figura 2: narrazioni pro-recovery
7. Riflessioni conclusive
Le anoressie-bulimie sono un fenomeno complesso, sia dal punto di vista
della patologia (caratterizzata da un’eziologia multifattoriale) sia dal
punto di vista degli attori coinvolti nella sua definizione (soggetti
pro-ana, soggetti pro-recovery, clinici, sociologi). A tale complessità
si deve aggiungere quella determinata dal ruolo del ricercatore all’interno
del contesto di studio, che non può più essere considerato come uno sguardo
neutrale e oggettivo, ma come uno punto di vista situato all’interno del
contesto di interazione. Per tentare di districarmi in tale complessità,
ho utilizzato come filo conduttore l’elemento narrativo e biografico in
quanto centrale nell’oggetto del presente studio: le anoressie-bulimie
e, in particolare, le forme di auto-rappresentazione mediale. Ho quindi
affrontato il tema della narrazione in relazione alle anoressie-bulimie
attraverso due passaggi che ritengo parte di una stessa riflessione sul
ruolo delle forme di rappresentazione narrativa nelle scienze sociali.
Innanzitutto ho discusso il ruolo della soggettività del ricercatore nel
processo di indagine empirica, proponendo la narrazione riflessiva come
forma retorica per conciliare le esperienze personali con la pratica di
ricerca. Quindi ho analizzato le storie di vita con i disturbi alimentari
con l’obiettivo di identificare una struttura narrativa ricorrente e,
più in generale, mettere in luce il ruolo dell’analisi biografica come
strumento di indagine sociologica che consente di accedere al punto di
vista dei soggetti studiati.
Note
1] L’ortoressia è una patologia
che si contraddistingue per un controllo ossessivo della propria alimentazione
ma che non ha necessariamente una valenza restrittiva come nel caso dell’anoressia.
2] Da una ricerca all’interno
del più famoso negozio online di vendita di libri, Amazon, nella categoria
«Biographies & Memoirs» sono presenti 92 romanzi biografici dedicati all’anoressia,
i cui titoli evocano domande Why Me?, promettono di raccontare la esperienze
vere Nikki Grahame: Dying To Be Thin: The True Story of My Lifelong Battle
Against Anorexia, dando anche istruzioni su come vincere la malattia (Life
Without Ed: How One Woman Declared Independence from Her Eating Disorder
and How You Can Too). Nella versione italiana di Amazon invece sono presenti
24 libri, di cui 4 di Fabiola De Clercq, autrice di Tutto il pane del
mondo (1994), una delle prime autobiografie relative ai disturbi alimentari.
3] La base empirica di questa
prima fase della ricerca è stata costruita attraverso un campionamento
a valanga. A partire da una ricerca con la parola chiave pro-ana nel motore
di Google, ho identificato sia siti informativi e blog che rappresentano
tale identità da un punto di vista esterno e stigmatizzante, sia blog
pro-ana. Questi ultimi sono stati il punto di accesso ad una rete di blog
in cui ho selezionato 50 casi come oggetto di analisi.
4] Secondo il modello narratologico
di Greimas nei racconti è possibile identificare quattro tappe di sviluppo
della storia: (i) il protagonista riceve un compito da un destinante (contratto);
(ii) il protagonista acquisisce i mezzi materiali e intellettuali (competenza)
per (iii) portare a termine il compito (performanza) e quindi (iv) ricevere
una sanzione positiva o negativa. A questo modello è stata aggiunta la
tappa dell’antefatto, in quanto consente di definire il momento della
rottura biografica.
5] I tre generi narrativi derivano
da una combinazione dei tre tipi di narrazioni (stabilità, progressiva
e regressiva) identificati nel modello di Gergen.
6] Nonostante i nickname originali
non consentano di identificare l’identità anagrafica della blogger, ho
comunque scelto di sostituirli con altri nomi definiti da me per salvaguardare
la privacy anche della loro identità online.
7] Tra le tre forme espressive
analizzate (blog, biografie a stampa e le mie note auot-biografiche) esistono
notevoli differenze. Le biografie a stampa sono infatti mediate da un
processo editoriale finalizzato alla loro commerciabilità. I blog sono
invece una forma espressiva più spontanea. Innanzitutto non sono sottoposti
a una revisione editoriale. In secondo luogo, mentre nell’autobiografia
la trama è costruita con uno sguardo retrospettivo alla fine degli eventi,
nella forma diaristica del blog la narrazione è maggiormente immediata
e autentica (Piccone Stella 2008). Infine la possibilità di costruire
una propria identità online attraverso un nickname («pseudonimato», vedi
Paccagnella 2000), protegge l’identità offline della persona e dunque
presumibilmente consente di veicolare informazioni maggiormente sensibili
che, se fossero esplicitamente legate all’identità della persona, potrebbero
essere oggetto di auto-censura. Infine nei brani tratti dai miei diari
ho sempre usato una forma di rappresentazione metaforica piuttosto che
una descrizione realistica, anche per proteggere esperienze della mia
biografia non particolarmente edificanti. Date le notevoli differenze
per creare un’omogeneità nell’analisi e poter identificare una struttura
narrativa, ho scelto di analizzare i post autobiografici presenti nei
blog, dunque non i post con una forma più prettamente diaristica.
8] A questo proposito, a piè di
pagina, vorrei aggiungere un’ultima nota auto-biografica. Nel momento
in cui scrivo queste righe e, forse, proprio grazie al fatto di avere
scritto le pagine che le precedono, la mia narrazione è in una fase progressiva.
Tuttavia, nella mia storia, così come nelle altre storie analizzate, il
desiderio anoressico (se non l’anoressia), la sensazione di controllo
che il dimagrimento provoca e, assieme, il bisogno di pieno-vuoto dello
sfogo bulimico, anche se non si esplicitano (più) in una sintomatologia,
sono un elemento costitutivo dell’identità che mi consente (mi obbliga)
a collocare la mia persona all’interno delle culture pro-ana. Nonostante
nella mia storia sia prevalsa la sintomatologia bulimica, nonostante non
abbia mai partecipato attivamente nelle comunità pro-ana, nonostante attualmente
il mio oggetto di valore sia la normalità e non l’auto-annullamento, continuo
a sentire un’empatia nei confronti della pro-ana, comprendo cosa stanno
provando, il loro punto di vista. E, proprio per questo, ho sentito l’urgenza
di esplicitare anche il mio, in quanto inevitabilmente influente nell’interpretazione
di questa cultura.
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