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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    QUALI INTERPRETAZIONI PER QUALI APPROCCI NARRATIVI. ALCUNE RIFLESSIONI A MARGINE DI UN PERCORSO DI RICERCA


    Lucia Coppola

    lucoppola@unisa.it
    Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno. Ha svolto ricerche sui percorsi di formazione e di lavoro delle donne e dei giovani, sulle trasformazioni della famiglia nel contesto meridionale. Attualmente si occupa delle metodologie di analisi dei dati qualitativi attraverso l’uso di software dedicati. Tra le sue pubblicazioni: Modelli di vita familiare. Un’indagine nella provincia di Salerno (2010); (con M. Pacifico), NVivo: una risorsa metodologica. Procedure per l’analisi dei dati qualitativi (2010); NVivo: un programma per l’analisi qualitativa (2010).

    Introduzione

    Le riflessioni che qui seguono si inseriscono nel più ampio dibattito sulle metodologie di analisi dei materiali prodotti nella ricerca qualitativa e scaturiscono, più concretamente, da personali esperienze di ricerca. L’attenzione è focalizzata in modo particolare sulle procedure di analisi, per aprire un confronto sulle scelte analitiche che il ricercatore compie e sulle opportunità che il lettore ha di ripercorrere le strategie impiegate nel lavoro di interpretazione e di accedere ai materiali messi in campo nel percorso di ricerca.

    Tralascio in questa sede le questioni, pur rilevanti, che attengono alle procedure di raccolta e alle distinzioni tra i materiali narrativi – storie di vita, biografie, interviste in profondità, auto-etnografia, documents of life [Plummer 2001] –. Molteplici e consistenti contributi, da anni, ci hanno ampiamente informati della diversità delle strategie impiegate e della complessa gestione di un’intervista. Nel dibattito si focalizza l’attenzione sulla natura stipulativa della situazione d’intervista – a questo proposito Bertaux [1999] parla di patto di intervista – e sulle conseguenze che questo comporta sul piano della produzione di conoscenza. Si fa riferimento all’atto del narrare come ad un atto relazionale in cui si attiva uno scambio, una transazione sociale in cui si condividono esperienze personali, si negoziano significati, si trasferiscono modelli culturali, si costruisce il senso dell’agire [Atkinson 1998; Melucci 1998; Jedlowski 2000; Patton 2002; Poggio 2004]. Intervistato e intervistatore concorrono insieme al processo di produzione di conoscenza: l’uno racconta il mondo sociale di cui fa esperienza, riflettendo gli habitus, le condizioni sociali, le percezioni, le valutazioni che modellano il proprio retroterra cognitivo; l’altro si assume il compito di interpretare una realtà pre-interpretata, di ricomporre i significati attribuiti agli eventi, di ricostruire i contesti in cui prende forma il racconto e in cui vengono prodotti i significati, di analizzare il modo in cui la soggettività e la realtà sociale vengono costruite attraverso particolari forme di mediazione simbolica [Bourdieu e Wacquant 1992; Bichi 2000; Olagnero 2004; Denzin e Lincoln 2005]. Nei fatti, i significati che si trasmettono attraverso la narrazione sono definiti dalla posizione occupata dal soggetto narrante nello spazio sociale e, in tal senso, sono espressione delle disposizioni incorporate che operano ad un livello tacito, dato per scontato.

    Allo stesso modo si sottolinea la crescente consapevolezza del ruolo dell’intervistatore nel contribuire a costruire – e non solo a raccogliere – le informazioni biografiche [Gubrium e Holstein 1995; Silverman 2001]. In questa prospettiva prende vigore la riflessione sulla differenza tra la storia raccontata, quella vissuta e la storia ricostruita, per sottolineare che i resoconti delle esperienze di vita non sono il riflesso della realtà, ma si inseriscono appieno nel processo della sua rappresentazione e interpretazione [Rubin 1996; Bichi 2000; Melucci 1998, 2001]. Non a caso si parla di costruzione sociale, interpretazioni di eventi, racconto approssimato, tanto per citare alcune delle espressioni utilizzate nel descrivere la pratica narrativa [Riessman 1993, 2008; Plummer 2001; Atkinson 2005; Riessman e Salmon 2008].

    In definitiva, ripercorrendo le questioni metodologiche che hanno caratterizzato il dibattito sulla ricerca qualitativa si rileva che alla ricchezza della riflessione sulla raccolta dei materiali qualitativi si contrappone una scarsa attenzione verso le tecniche adottate nelle strategie di analisi. «I concreti processi cognitivi, le decisioni riguardo alle procedure di sintesi, all’aggregazione delle categorie e alle strategie adottate per definirne le relazioni rimangono misteriosi a tutti i ricercatori qualitativi» [Morse 1994: 25]. Tali aspetti, a volte esplicitati a volte meno, nella pratica di ricerca sono tutt’altro che scontati e, a mio parere, non esauriscono le questioni relative all’intervento interpretativo del ricercatore. Al contrario, penso che l’approccio riflessivo sia una costante che accompagna l’operato del ricercatore anche quando è impegnato a rendere intellegibili e a sintetizzare in un ‘autorevole resoconto scritto’ [Wolcott 2001] le informazioni acquisite attraverso i racconti.

    Come da più parti si precisa, non esistono protocolli biografici immuni dagli esiti delle procedure che vengono attivate nel processo di analisi [Poggio 2004; Cardano 2011]. Una tale consapevolezza suggerisce che il ricercatore deve dar conto dei propri resoconti: è esso stesso un narratore [Elliot 2005]. Con riferimento alla narrativa, Gery e Russell Bernard sottolineano che ‘i testi siamo noi’, per marcare il pieno coinvolgimento del ricercatore [in Denzin e Lincoln 2005].

    In altri termini, penso che rimangano aperte le questioni relative a come tradurre il racconto di un’esperienza di vita in un resoconto che riassuma quel processo di continua trasformazione che coinvolge il cosa si racconta e il come si trascrivono e comunicano gli esiti della ricerca. Se è vero che l’analisi dei dati non può essere concepita come una procedura standard, così come il ricercatore non può avvalersi di un elenco di procedure condivise [Huberman e Miles 1994], è altrettanto vero che l’attività del ricercatore non può essere descritta ripiegando sulle tre ‘I’: Idee, Intuito, Impressione [Dey 1993].

    1. Quali riflessioni offre il dibattito sull’analisi dei dati?

    Non si può certo dire che la letteratura sull’analisi dei dati nella ricerca qualitativa sia carente, al contrario, godiamo di una documentazione piuttosto articolata e densa di opzioni di scelta. In termini generali, gli approcci all’analisi variano sulla base degli assunti epistemologi di partenza e si differenziano a seconda delle diverse prospettive e tradizioni teoriche o, semplicemente, sulla base di specifici interessi e obiettivi di ricerca. E, tuttavia, anche tali distinzioni non sempre sono chiare e ben definite. Diventa difficile distinguere le procedure di analisi che richiamano una posizione epistemologica e quelle che sono concretamente messe in campo nella pratica di ricerca.

    Vale ad esempio la distinzione operata a suo tempo da Tesch [1990] la quale, focalizzando l’attenzione sulle procedure di analisi, distingue tre definiti orientamenti: quelli orientati al linguaggio, quelli descrittivi/interpretativi e gli approcci orientati alla costruzione delle teorie. In contrapposizione, alcuni studiosi sottolineano che ogni descrizione comporta la selezione e l’interpretazione dei significati, pertanto risulta piuttosto difficile distinguere un’analisi puramente descrittiva [Bryman e Burgess 1994; Hammersley e Atkinson 1995]. In questa stessa prospettiva, altri studiosi individuano tre diversi orientamenti da parte dei ricercatori, per cui si distinguono gli interventi volti a sintetizzare i significati e le interpretazioni degli intervistati, gli orientamenti più critici, tesi a contestualizzare i contenuti dei resoconti e a collocarli in un più vasto campo di conoscenze e gli interventi interpretativi volti ad analizzare i racconti secondo una più ampia prospettiva teorica.

    Nella prospettiva ermeneutica, ad esempio, si privilegiano i particolari dell’esperienza vissuta, si volge al modo in cui i significati sono costruiti attraverso le narrazioni. Il racconto diventa pratica sociale, i testi diventano sguardi sulle esperienze di vita [Jedlowski 2000; Bruner 2002; Squire 2008]. La descrizione degli eventi è finalizzata, dunque, alla comprensione dei significati che essi assumono per il soggetto, al modo in cui sono messi in relazione con altri eventi o aspetti della propria vita, al modo in cui sono rielaborati nei ricordi, nella ricostruzione delle proprie esperienze di vita. In questa direzione, interrogarsi sulla veridicità delle descrizioni prodotte o sulle distorsioni della memoria diventa, probabilmente, un falso problema, perché ciò che si vuole raccogliere non è una testimonianza sui fatti, quanto piuttosto una testimonianza sui modi di costruire e comunicare significati attraverso il linguaggio e sui meccanismi di selezione che si attivano nella ricostruzione degli eventi [Rubin 1996; Riessman 2008]. La narrazione diventa un atto del raccontare [Riessman 1993] in cui il narratore declina la propria esperienza passata al presente collocandola in particolari quadri biografici e cognitivi, in un particolare spazio sociale e in uno specifico contesto culturale [Demaziere e Dubar 2000].

    Nell’introduzione al volume di Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare [2004], Bodei sottolinea come la memoria individuale non è sorretta soltanto da ricordi soggettivi, ma da cornici sociali che localizzano i ricordi, rendendoli coerenti con le tradizioni accettate dalla comunità o dal gruppo di appartenenza. Allo stesso modo Jedlowski sottolinea come «ogni comprensione del mondo che un soggetto può mettere in atto è radicata in una struttura di pre-comprensione socialmente data. […] ogni interpretazione dell’agire comporta la comprensione dello sfondo di senso comune dal quale trae significato l’azione di coloro intorno a cui lo scienziato indaga» [Jedlowski 2008: 31]. Al riguardo, Ann Phoenix, focalizzando l’attenzione sul rinnovato interesse verso l’analisi narrativa, mette in evidenza lo spostamento di attenzione «dallo ‘studio della narrativa come un testo’ allo ‘studio della narrativa in un contesto’» [Phoenix 2008: 64].

    In breve, la distinzione degli approcci secondo le prospettive teoriche non aiuta a ricostruire un quadro di riferimento univoco e la stessa nozione di analisi dei dati qualitativi richiama un’ampia gamma di criteri e procedure di difficile classificazione. Al di là degli orientamenti e delle prospettive prese in considerazione, molte delle strategie di analisi si distinguono rispetto al modo di manipolare i dati, al modo di generare e applicare i concetti e allo stesso utilizzo delle categorie analitiche impiegate per l’organizzazione e l’archiviazione dei materiali di ricerca.

    Un così articolato scenario pone non pochi interrogativi sui processi che si attivano in fase di analisi dei dati. I testi dedicati alla ricerca qualitativa offrono molte idee relativamente alle procedure, ma piuttosto scarse sono le possibilità che si hanno per capire «cosa concretamente fa un ricercatore quando assembla e analizza i dati» [Huberman e Miles 1994: 5]. Sicuramente, a distanza di molti anni da quando sono state poste tali questioni, poco sappiamo sul modo in cui i ricercatori affrontano la fase dell’analisi e scarsamente visibili sono i materiali prodotti e interpretati dal ricercatore.

    2. Quali questioni si prospettano nella pratica della ricerca?

    Come, dunque, orientarsi per affrontare le intricate questioni fin qui elencate? Quali spazi si aprono nella pratica della ricerca narrativa per avviare un confronto proficuo sugli esiti delle proprie analisi? Di quali opportunità godiamo per trasferire la complessità insita nelle procedure di lavoro?

    Denzin e Lincoln [2005] ricorrono alla metafora del bricolage per descrivere l’attività sottesa alla ricerca qualitativa e assimilano l’impegno del ricercatore a quello di un bricoleur, intento a ricostruire i passaggi del percorso di ricerca, dal contesto concettuale e teorico del progetto alla esplorazione delle possibili strategie di analisi, di rappresentazione e di scrittura dei resoconti di intervista.

    L’immagine offerta da Denzin e Lincoln ha molto in comune con la mia esperienza di ricerca su “La transizione alla vita adulta” [1]. Dopo aver definito il progetto, volto ad analizzare le trasformazioni dei modelli di vita familiare nel contesto della provincia di Salerno, il lavoro da me svolto ha assunto tutte le caratteristiche di un bricolage. Un’attività di definizione e ridefinizione di passaggi e strategie procedurali finalizzata a organizzare i materiali prodotti, in relazione a precisi e ben definiti interessi e obiettivi: ripercorrere le traiettorie di vita di donne appartenenti a tre differenti generazioni, con l’idea di focalizzare l’attenzione sul modo di progettarsi nei propri percorsi di vita, sui modi di vivere la famiglia, di pensarsi come famiglia e quindi di rappresentarla.

    Pensando alle procedure attivate nel lavoro di analisi rimbalza l’immagine di un percorso di lavoro per certi versi frustrante e caotico e, spesso, cadenzato da riflessioni ingannevoli. In particolare, penso alla trascrizione e organizzazione delle interviste, alla fatica di gestire il materiale accumulato (ciascun colloquio ha avuto la durata di un’ora e mezza/due, corrispondente a circa venti pagine di testo; per non tralasciare le fitte pagine di appunti prodotte nel corso della ricerca). Un tale lavoro, tutt’altro che meccanico, ha significato una sistematica e ciclica lettura dei resoconti e dei materiali prodotti, la progettazione di un sistema di archiviazione dei materiali funzionale ad un successivo trattamento, la descrizione delle categorie impiegate per classificare i resoconti di intervista. Un lavoro che, al di là della fatica, ha significato riflettere, di volta in volta, sui contenuti e sulla diversa articolazione dei racconti e, di converso, sulla non facile definizione di uno schema interpretativo. In sostanza, un quadro di lavoro che contrasta, e di non poco, con l’immagine ordinata che la pubblicazione finale può trasmettere.

    Non a caso Creswell [2007] descrive il lavoro di analisi raffigurando una spirale per indicare un continuo spostamento di attenzione, da parte del ricercatore, che procede dai materiali raccolti verso la scrittura degli esiti della ricerca. Riessman [1993] richiama l’immagine di un ‘lavoro sartoriale’, per sottolineare che la messa a punto del linguaggio, la cura dei dettagli, la selezione degli eventi sono finalizzati a comunicare una storia che riflette significati particolari, associati ad un’esperienza personale e, allo stesso tempo, i presupposti culturali, sociali ed istituzionali del contesto a cui fa riferimento il racconto. In altri termini, un oneroso lavoro in cui bisogna valorizzare la prospettiva di chi narra, la pluralità degli aspetti e dei significati messi in campo, senza perdere di vista gli obiettivi dell’analisi, i quadri teorici di riferimento e i livelli di dettaglio che il ricercatore si prefigge di affrontare [Riessman 2008].

    Far luce su tali aspetti, nel mio lavoro di ricerca, ha significato scomporre e ricomporre i racconti operando un lavoro di tessitura tra il loro contenuto (un mosaico carico di immagini, di modelli di vita domestica e familiare molto diversificati) e le scelte analitiche da me operate nel lavoro di selezione dei segmenti di testo. Ma penso anche alla messa a punto e alla gestione delle schede bibliografiche, utili per sintetizzare l’ampia letteratura dalla quale ho attinto il quadro di riferimento teorico e le più concrete riflessioni sulle nozioni messe in campo, per esemplificare i concetti di: vita quotidiana [Jedlowski 2000]; corso di vita [Saraceno e Naldini 2001]; rappresentazione sociale [Moscovici 1989]; rapporti di genere [Piccone Stella e Saraceno 1996]; doppia presenza [Siebert 1999]; rapporti sociali di sesso [Pacifico 1989]; capitale sociale e capitale culturale [Bourdieu 1979]; habitus e campo [Bourdieu e Wacquant 1992; Bourdieu 1994].

    È superfluo sottolineare che le strategie di analisi che si impongono in un percorso di ricerca non sono definibili in termini di procedura puramente tecnica, né sono assimilabili ad una procedura meccanica o intuitiva. Al contrario, richiedono la soluzione di non pochi problemi di natura organizzativa e, dunque, il ricorso ad una strumentazione adeguata per una proficua gestione dei materiali prodotti nel processo di ricerca. Per questo mi sono avvalsa del software NVivo, che mi ha permesso una sistematizzazione metodica dei materiali prodotti e una base di lavoro efficace per attivare una più adeguata esplorazione ed analisi, facilitando la visibilità di ogni fase del processo analitico nonché la rappresentazione dei resoconti delle procedure impiegate.

    Ritornando alla mia esperienza, ho codificato i racconti per predisporre gli aspetti chiave del loro contenuto secondo gli interrogativi di ricerca. A tal fine ho sviluppato dei codici predisponendoli in forma gerarchica e distinguendo i contenuti delle interviste in relazione alla cronologia degli eventi o dei punti di svolta indicati nei racconti, alle caratteristiche distintive delle storie raccontate e ai nuclei tematici in essi presenti.

    In termini generali un tale intervento significa frammentare i racconti e ricomporli secondo una diversa forma e consistenza. Pertanto, nel concreto processo di analisi, l’attenzione del ricercatore è rivolta non tanto ai risultati quanto, invece, alle procedure impiegate per ottenerli. Per dirla con Bourdieu [1993] è l’intervistatore che istituisce le regole del gioco e assegna al racconto dei significati.

    Vale la pena ricordare che tali aspetti hanno costituito un punto di attenzione piuttosto controverso. Nel dibattito, si mette in evidenza che il processo di scomposizione e ricomposizione dei racconti possa allontanare il ricercatore dai dati raccolti [Fielding e Lee 1991; Richards e Richards 1994]. Con riferimento all’analisi narrativa, alcuni studiosi sostengono che l’esperienza soggettiva delle persone debba essere rispecchiata fedelmente, per dar conto dei significati manifesti nei racconti, contrastando così l’utilizzo di selettivi e astratti concetti. In contrapposizione, si sottolinea che l’analisi delle narrazioni implica una particolare attenzione ai modi in cui prende forma e si sostanzia un racconto in riferimento alla ricostruzione dei percorsi di vita, alla esplorazione degli intrecci tra pratiche sociali e pratiche individuali, alla definizione dei rapporti che si stabiliscono nello spazio sociale, alla comprensione dei significati attribuiti agli eventi della vita quotidiana, nonché alla elaborazione delle rappresentazioni e interpretazioni sulle esperienze di vita [Elder 1984; Moscovici 1989; Jedlowski 2000; Saraceno 2001]. Non a caso, Atkinson [2005] mette in guardia contro la pretesa dei resoconti narrativi di offrire una rappresentazione reale degli eventi e suggerisce che «abbiamo bisogno di considerare i resoconti come forme di azione sociale», inserite all’interno di un contesto socialmente condiviso.

    Un ulteriore punto di attenzione nel trattamento delle interviste da me prese in considerazione ha riguardato la definizione delle associazioni concettuali. Questa operazione, come è noto, risponde all’esigenza di ridurre e convertire in categorie analitiche le informazioni contenute nei racconti. Un lavoro che richiede un sforzo cognitivo piuttosto rilevante dal punto di vista interpretativo. Vale ad esempio il delicato lavoro di individuazione e distinzione delle unità di significato. I racconti non sempre presentano una sequenza strutturata di passaggi secondo una storia lineare. Gli eventi o le tematiche possono presentarsi in modo nidificato o secondo molteplici intrecci e sovrapposizioni.

    È il caso del trattamento dei brani qui di seguito riportati ed estratti dai racconti di due intervistate:

    […] Mia madre non accetterebbe mai che io andassi a vivere fuori perché direbbe “io ti dò tutto non ti faccio mancare niente”, ma poi del resto è così, non riesce a capire l’esigenza che ti può spingere a fare questo, a volere un’indipendenza tua e quindi a volerti sentire pienamente autonoma. Penserebbe che tu te ne vai perché vuoi fare qualcosa di male nel senso che… te ne vuoi andare perché vuoi fare quello che vuoi tu…vuoi vivere senza regole […]. Questa cosa ti pesa, però purtroppo alla fine ci convivi e ci devi convivere, non puoi fare diversamente. Arrivi a un punto che, pure sbagliando, però lo accetti perché vedi che poi non c’è via d’uscita, devi tagliare tutti i rapporti perché se te ne vuoi andare tagli… e anche questo ti frena perché poi è normale che pensi alle conseguenze e dici “vabbè non ne vale la pena” (Lella, 26 anni)

    […] andare via dalla famiglia significa rompere i contatti, perché non è facile che i genitori accettino che tu vai a vivere da sola. Di solito quando si va a vivere da soli si fa perché o si è litigati, oppure perché ormai sei grande, hai oltre i trent’anni, sei autonoma, lavori e… quindi non accetterebbero mai che io andassi a vivere fuori di casa così, per andare a vivere nello stesso paese. Se andassi via di casa, fuori dal mio paese e perché ho trovato lavoro al Nord sarebbe diverso, non avrebbero problemi […]. E, comunque, andare a vivere da sola sarebbe una scelta forte perché significa non tanto avere più autonomia, ma vivere proprio da sola, stare da sola. Non so se ci riuscirei perché comunque vivere da sola, ritirarsi la sera e stare da sola, la notte stare da sola, è qualcosa che… non so… può darsi pure che sarebbe semplice, però per adesso… […]. E poi considera che in casa sono io che porto mia madre a fare la spesa, mi occupo di alcune faccende: a volte pagare le bollette, aiutare in cucina, in tutti i piccoli lavori, trovare un idraulico, qualcuno che ci può dare una mano per qualcosa […] magari non mi rendo conto che le altre persone della mia età vivono da figli…entrano, mangiano e non fanno nulla, non si occupano di tutto ciò che è il contorno […] (Sabrina, 28 anni)

    Tali brani testimoniano come molte delle informazioni che transitano attraverso i testi riproducono idee, opinioni, elementi che ci ragguagliano sui comportamenti individuali e collettivi e tali aspetti sono tra di loro intrecciati e spesso non sono esplicitamente collegati.

    Come decidiamo – e in base a quale criterio – l’estensione dei segmenti di testo ai fini interpretativi?

    Molte sono le opzioni metodologiche: si possono presentare i brani accompagnandoli con la scrittura di brevi commenti; si possono selezionare o sintetizzare o descrivere i contenuti informativi, distinguendoli sulla base di assi tematici; si possono interpretare i resoconti dando spazio ai concetti e alle categorie di lettura predefinite in partenza secondo uno schema teoretico. Va da sé che nessun particolare criterio è giustificato da un monopolio delle procedure d’analisi.

    Simili racconti, nell’ambito della mia esperienza di ricerca, hanno richiamato le questioni aperte nel dibattito sui diversi significati della permanenza in famiglia, sulle concrete possibilità di elaborare proprie strategie di vita e hanno sollecitato non pochi interrogativi sulle vicende individuali e collettive riguardo ai processi di formazione delle scelte, sulle dinamiche familiari che intervengono nella progettazione dei propri destini di vita, sugli eventi che orientano le traiettorie biografiche. Per non tralasciare altre sollecitazioni verso ragionamenti non esplicitati nei racconti e, non per questo, meno degni di attenzione. Nei brani riportati, ad esempio, il riferimento al Nord, come luogo di realizzazione professionale – e che, a detta delle intervistate, giustifica l’allontanamento da casa – ha indirizzato la mia riflessione su:
    - le difficoltà di mettere in discussione un sistema di valori e di idee fortemente radicato nel territorio di appartenenza;
    - il forte senso di protezione dei genitori, frutto di una tradizione ereditata dal passato, e sicuramente incoraggiato dall’assenza di politiche a sostegno dei giovani;
    - la condizione delle donne del Sud, alle prese con un debole processo di emancipazione.

    In altri termini, lo sforzo che si richiede nel lavoro di analisi trova il suo punto più impegnativo non tanto nella struttura organizzativa delle procedure, quanto invece rispetto al trattamento dei significati. Nei fatti si manipolano argomenti e si sviluppano secondo diversi livelli di riflessione, per ricomporli successivamente in una nuova struttura argomentativa. In breve, non trasferiamo del tutto ciò che si è visto, ascoltato e detto. Piuttosto, leggiamo e scriviamo, lasciandoci guidare dalle nostre idee su ciò che i nostri interlocutori dicono e pensano delle loro esperienze. E, anche dopo aver distinto i significati e derivato delle idee, sintetizziamo i nostri esiti pescando quanto ci sembra degno e importante dire. Per non trascurare le riflessioni aggiuntive che si affacciano in fase di scrittura del resoconto finale della ricerca.

    Questioni come queste, nel loro insieme, sottolineano che il ricercatore si trova di fronte al permanente problema di lavorare con delle dimensioni concettuali. Per sintetizzare, si offrono al ricercatore diverse opzioni per l’analisi e lo sforzo interpretativo è tutt’altro che scontato. Per riprendere la definizione di Seale, «la codifica è, naturalmente, un tentativo per fissare il significato, costruire una particolare visione del mondo che non esclude altri possibili sguardi» [Seale 1999: 154]. In questo senso, la prospettiva teorico-concettuale può diversamente orientare le scelte analitiche, indirizzare il lavoro di analisi, influenzare le procedure attraverso cui vengono riformulati i significati veicolati attraverso le narrazioni [Wolcott 2001; Denzin e Lincoln 2005; Richards e Morse 2009; Pacifico e Coppola 2010].

    Al riguardo, Bourdieu e Wacquant [1992] sottolineano come ogni pratica di ricerca richiede una riflessione sulle condizioni intellettuali e sociali che la rendono possibile: l’esperienza vissuta dal ricercatore, la propria collocazione professionale, particolari e specifici interessi cognitivi, nei fatti, orientano gli interventi interpretativi. Senza dubbio il ricercatore dà forma alla propria interpretazione del fenomeno, costruisce il dato in relazione a una teoria o prospettiva teorica, sceglie tra i molteplici aspetti e significati, costruisce interpretazioni plausibili [Gobo 2001; Denzin e Lincoln 2005; Silverman 2008; Campelli 2009].

    3. Alcune riflessioni conclusive

    Da quanto detto, emerge che il lavoro di interpretazione presuppone un particolare modo di trattare il materiale raccolto e, nei fatti, gli esiti della ricerca sono frutto della combinazione tra i racconti e la lettura riflessiva del ricercatore. In breve, è il ricercatore che sceglie cosa rappresentare – la storia? La catena degli eventi? – e come – la sequenza del racconto? Il modo in cui si racconta? Gli aspetti che hanno maggiore rilievo? – [Silverman 2001; Gubrium e Holstein 2002].

    Più in generale, nella fase di gestione e analisi dei dati, non abbiamo a che fare con semplici testi, immagini o riproduzioni vocali. Al contrario, ci ritroviamo a gestire resoconti, narrazioni su questioni relative a fenomeni problematici del mondo sociale. Molte delle informazioni riproducono idee, opinioni, elementi che ci ragguagliano sui comportamenti individuali e collettivi. Nei fatti, i racconti filtrano elaborazioni individuali, soggettive in cui le tradizioni e le rappresentazioni agiscono come selettori rispetto all’esperienza [Bourdieu 1986]. Il problema che si pone, dunque, è capire come prendono forma le interpretazioni.

    Nel dibattito si sostiene che il tipo di analisi dipende dalla natura degli interrogativi di ricerca [Patton 2002] e in tal senso si prefigurano più opzioni metodologiche. Va da sé che il discorso si sposta sulla individuazione e sulla natura dei concetti, nonché sul modo in cui sono generati. Nella pratica di ricerca, come è noto, alcune categorie analitiche si basano sul linguaggio degli intervistati, altre derivano dal campo disciplinare o addirittura sono ideate dal ricercatore quasi a prefigurare una tipologia. Per non tralasciare il modo in cui i concetti sono applicati nel processo di analisi.

    Una tale complessità appartiene a qualsiasi tipo di approccio. Analizzare la struttura discorsiva o linguistica di un racconto, piuttosto che soffermarsi sui significati delle storie raccontate richiede uno sforzo di comprensione e di interpretazione da parte del ricercatore che racchiude l’orientamento alla riflessività, alla relazione intersoggettiva e alla contestualizzazione dei significati. Nei fatti, costruire storie implica una continua negoziazione dei significati prodotti attraverso i processi cognitivi e attraverso l’attività di comprensione e di interpretazione del ricercatore [Riessman 1993, 2001; Melucci 1998; Bovone 2000; Freeman 2001; Leone 2001; Lorenzetti e Stame 2004; Olagnero 2004].

    Mi chiedo, per ritornare all’interrogativo del presente contributo, quali opportunità ha il lettore di afferrare questo contesto riflessivo? Quali possibilità si offrono ai lettori e alla comunità scientifica per condividere il minuto lavoro di cucitura delle idee, delle interpretazioni e delle rappresentazioni dei racconti? Come rendere visibile l’intera architettura del processo di analisi? Nella letteratura si enfatizza il lavoro riflessivo del ricercatore e le componenti che entrano in gioco nel lavoro di analisi: le rappresentazioni, gli stereotipi culturali e sociali messi in campo nei racconti, nonché le tensioni cognitive, gli schemi teoretici, la sequenza dei ragionamenti prodotti nel processo di concettualizzazione e messi in campo dal ricercatore. In sintesi, un intreccio di aspetti e nodi problematici che in fase di analisi si addensano e richiedono strategie e scelte volte ad elaborare un testo che dia conto della successione delle idee, dei collegamenti logici, della individuazione dei significati, senza sacrificare argomenti o informazioni.

    Va da sé che, pur avendo chiari gli obiettivi conoscitivi, piuttosto arduo è il compito di capire come comunicare gli esiti di un tale lavoro di analisi, evitando di sovrapporre o confondere storie, significati ed elaborazioni. E, pur avendo la consapevolezza che i resoconti sono la rappresentazione di dati parzialmente basati sulla prospettiva dei partecipanti e parzialmente fondati su quella del ricercatore, quale possibilità si ha di capire quanta distanza si accumula dal soggetto narrante, dalle sue interpretazioni? In breve, quale storia si racconta?

    Nella letteratura si dibatte sul rigore metodologico, sulla validità e qualità dei risultati di ricerca, su come migliorare l’affidabilità degli strumenti e si affacciano differenti orientamenti per sviluppare e controllare l’attività di comprensione dei fenomeni sottoposti allo studio. Tuttavia, rimane aperta la questione del come. Le dimensioni della soggettività, della riflessività e la diversità delle prospettive di ricerca, nei fatti, acquistano una diversa consistenza problematica quando si ha a che fare con il concreto lavoro di analisi. Nei fatti, si affacciano gli interrogativi sulla trasparenza dell’operato del ricercatore e sulla necessità di una metodica che testimoni delle pratiche impiegate nel percorso di analisi.

    Sotto questo aspetto non si pone tanto l’esigenza di costruire una guida per un modello standard di analisi, né si invocano delle istruzioni che indichino la sequenza dei passaggi da attivare. Al contrario, si affaccia l’esigenza di come favorire procedure che permettano di rendere visibile al lettore il modo di selezionare, di organizzare, di categorizzare i materiali di ricerca, nonché il modo di produrre dei resoconti che diano conto della sua attività cognitiva e del suo ruolo nel contesto dell’analisi.

    Facendo tesoro della mia esperienza, penso che più che interrogarsi su quale procedura di analisi sia adeguata per trattare il materiale prodotto con l’approccio narrativo, sia opportuno affacciare una riflessione sulle opportunità che si offrono per prendere visione delle scelte analitiche che il ricercatore compie, per comprendere come si producono i significati e i ragionamenti, ma anche per aprire un confronto all’interno della comunità scientifica e offrire utili testimonianze del proprio lavoro.

    Non pochi studiosi hanno sottolineato l’importanza di produrre un resoconto chiaro a garanzia della ‘qualità’ della ricerca. Nel dibattito metodologico si richiama il requisito della trasparenza delle procedure e, tuttavia, ancora carente è l’attenzione su come affrontare un simile impegno. Probabilmente, abbiamo bisogno di una metodica di lavoro e di una strumentazione adeguata per gestire l’analisi, più che rincorrere l’idea di corredare i propri report con anonimi resoconti sul metodo adottato. Non possiamo nasconderci che la spina dorsale della ricerca qualitativa è rappresentata da una mole consistente di materiali che ci impegna in un arduo esercizio, fatto di tentativi ed errori, e per questo siamo chiamati responsabilmente a dar conto della nostra produzione.

    Note

    1] La ricerca, realizzata per il conseguimento del dottorato, è stata pubblicata nel volume Modelli di vita familiare. Un’indagine nella provincia di Salerno (2010), Milano, FrancoAngeli.

    Bibliografia

    Andrews M., Squire C. e Tamboukou M. (2008), (a cura di) Doing Narrative Research, London, Sage Publications.
    Atkinson P. (1998), The Life History Interview, Thousand Oaks, CA, Sage Publications.
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