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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    RACCONTARE ATTRAVERSO IL VIDEO: RIFLESSIONI E POSSIBILI PERCORSI


    Luisa Stagi

    luisa.stagi@unige.it
    Ricercatrice presso l’Università degli studi di Genova dove insegna Sociologia generale per il corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche. Co-direttrice di About Gender- Rivista Internazionale degli studi di genere- è stata fondatrice e fa parte del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova.

    L’esperienza di Yo no me complico

    Yo no me Complico è un film di ricerca prodotto nel 2010 dal laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova; si tratta di un lavoro ambientato tra il Gay Pride di Genova, il Festival Gender Bender di Bologna, passando dalla Bergamo più conservatrice alle strade della prostituzione genovese. Il percorso di ricerca si è sviluppato intorno ai temi del corpo, del genere e dell’identità sessuale; la traiettoria parte da questioni come l’omofobia e la trans fobia, per arrivare a trattare di alcuni diritti fondamentali che sempre più oggi sembrano minacciati e messi in discussione. La costruzione di un lavoro visuale intorno a questi temi ha avuto come fine primario la restituzione di uno spazio sociale ai protagonisti di un mondo sommerso che, di fatto, non ha parola, se non nei territori e nelle modalità spettacolarizzate dai discorsi mediatici [1].

    I dubbi e le riflessioni dei ricercatori rispetto a questa finalità hanno accompagnato tutto il percorso di ricerca e sono diventati parte integrante del documentario. Il “retroscena” della ricerca viene infatti narrato, mostrando i ricercatori intenti a discutere le note di campo, le scelte metodologiche e i riferimenti concettuali.

    Mano a mano che si sviluppava il processo di ricerca visuale, infatti, si sono dovute affrontare questioni metodologiche che hanno messo in discussione l’utilizzo degli abituali strumenti di ricerca.

    Inizialmente, le interviste sono state pensate e impostate secondo il metodo biografico, cercando cioè di mantenere le regole di base delle interviste non direttive, sia per la costruzione della traccia, sia per la gestione dell’intervista (l’utilizzo dei rilanci e delle consegne, il “contenimento” della direttività, ecc.) (Cfr. Bichi, 2002). Immediatamente, però, ci si è resi conto che il materiale prodotto con questa modalità, quando poi doveva essere elaborato, era difficilmente gestibile e che, anzi, operando con la forte direttività “connaturata” alla pratica del montaggio, si correva il rischio di estromettere l’intervistato dalla partecipazione alla costruzione delle informazioni (Cfr. Palumbo, 2001). Inoltre, ci si è resi conto che le interviste video riprese necessitano di una serie di accorgimenti tecnici per poter essere gestite meglio sia a livello di analisi, sia in fase di montaggio (per esempio i ciak) e che le necessità tecniche legate all’audio, alla luce o alle inquadrature interferiscono sul setting dell’intervista producendo, inevitabilmente, modifiche a livello di strutturazione e di direttività degli strumenti.

    Un’altra valutazione, emersa dopo qualche intervista, è che il setting visuale genera aspettative diverse negli intervistati rispetto, per esempio, alla situazione di intervista registrata su supporto audio: se, paradossalmente, è più facile per una persona parlare davanti ad una telecamera - perché sa che cosa sta facendo e dove andrà a finire il suo racconto - dall’altra parte, e per lo stesso ordine di motivi, aumenta l’aspettativa di partecipare al processo di restituzione. E’ come se il fatto di “metterci la faccia” (in questo caso letteralmente) comportasse una più decisa richiesta di partecipazione da parte degli intervistati che, nel caso degli impianti di ricerca tradizionali, possono al contrario utilizzare le garanzie di anonimato per “mitigare” la responsabilità rispetto alle opinioni espresse e le vicende narrate.

    In seguito a vari tentativi, si è dunque giunti a ripensare il processo di costruzione e raccolta delle informazioni e all’idea di sperimentare nuove modalità di gestione delle interviste. Si sono perciò creati percorsi partecipativi in cui venivano coinvolti gli intervistati a partire dalla fase di costruzione della traccia, condividendo inoltre diversi momenti del montaggio. La maggiore partecipazione dell’intervistato nella costruzione dell’intervista e nella scelta di come essere rappresentato ha compensato, in qualche modo, il più alto grado di direttività e strutturazione che un tale setting inevitabilmente produce.

    Nella fase finale della ricerca, che ha riguardato persone transizionanti FtM [2] si è arrivati a mettere a punto un sistema ancora più articolato. Questa parte specifica del lavoro, infatti, è riconducibile a un percorso di ricerca partecipata dove gli attori sono coinvolti fin dalla fase di definizione dell’oggetto e della costruzione dello strumento (Fetterman et al., 1996). Inizialmente, sono stati intervistati diversi stakeholder appartenenti ad associazioni LGBT [3] che hanno permesso di individuare i temi più rilevanti e che hanno fornito alcuni suggerimenti sulle persone da coinvolgere. Quindi, sono stati organizzati alcuni incontri collettivi con le persone FtM che ci sono state segnalate: il primo incontro ha avuto una modalità di svolgimento assimilabile alla tecnica del brainstorming (cfr. Bezzi e Baldini, 2006) ed ha portato a definire la rilevanza degli argomenti da trattare; successivamente, è stato realizzato un altro incontro più simile a un focus group valutativo (Stagi, 2001), che ha portato il gruppo a scegliere - si potrebbe dire “eleggere” - le persone da intervistare e la modalità di svolgimento dell’intervista [4].

    In seguito, sono avvenuti diversi incontri tra le tre persone che avrebbero preso parte al documentario, sia in nostra presenza, sia privatamente; durante questi momenti, sono stati discussi la forma, i modi e i contenuti da rappresentare nel video, a partire dalla traccia emersa nei brainstorming. Questo processo, che ha portato a distillare gli argomenti in una prospettiva di grande riflessività orizzontale e a rappresentare i temi emersi nella ricerca come attraverso una “lente di ingrandimento”, ha generato una sorta di stratificazione di senso condiviso tra intervistati e ricercatori.

    La videoregistrazione delle interviste è stata ancora preceduta da una giornata di chiacchiere e di scambi e ciò ha favorito un clima di intimità e di empatia che si è riverberato nella modalità espressiva dei racconti, ma anche e soprattutto nella profondità dei contenuti. Uno dei temi considerato tra i più importanti da trattare, era anche emotivamente difficilissimo da esprimere ma, dopo tutto questo percorso di condivisione, è stato raccontato con grande naturalezza e spontaneità.

    Le interviste riportate nel documentario, ancorché intense, sono piuttosto brevi, perché frutto di questo processo di distillazione dei contenuti e di co-costruzione di significati; il nostro intervento è perciò stato minimo nello scegliere cosa montare: si è così in qualche modo stemperato il potere del ricercatore nel gestire le informazioni prodotte dai soggetti delle ricerca attraverso la loro selezione, necessariamente arbitraria. Anche l’artificio di aver montato come un dialogo “a tre” le interviste, che in realtà sono state registrate singolarmente, è un elemento di fiction che restituisce, nella rappresentazione, il frame nel quale sono state realizzate e il percorso che ha portato a costruirle.

    Documentario e film di ricerca

    Alcune delle questioni sopra descritte sono senz’altro riconducibili a temi centrali del dibattito metodologico, quali per esempio il rapporto tra le categorie emic/etic (Nigris, 2003) o la pluralità ermeneutica (Palumbo, 2004, p. 30), anche se tali argomenti assumono declinazioni particolari nel frame visuale.

    Tralasciando tutto il dibattito intorno ai metodi visuali [5], appare invece rilevante, per le sopracitate questioni, ragionare intorno alla differenza tra documentario e film di ricerca. Sinteticamente e provocatoriamente, si potrebbe affermare che la differenza tra un documentario e un film di ricerca riguarda lo spostamento, su un ipotetico asse emic-etic, verso l’estremo etic. Un documentario, soprattutto nella tradizione antropologica, è costruito secondo una prospettiva di “realismo”, ovvero di restituzione neutra e oggettiva del contesto etnografico oggetto della ricerca (Mason, 2005), tuttavia, gli stessi autori, che si sono occupati di discutere metodologicamente di questi temi, concordano sul fatto che non bastano le immagini a garantire realismo o ancor meno oggettività (cfr. su questo dibattito Adelman 1998, Heider, 1976). Come afferma Mason, infatti, la distorsione degli eventi o delle informazioni può essere operata anche con la sola scelta delle immagini; semmai, appare più interessante ragionare attorno alla questione della validità interna/esterna delle immagini: perché un’immagine abbia validità esterna, i gradi di interpretazione devono essere ridotti al minimo e deve essere perciò coerentemente (e legittimamente) connessa alla validità interna (Mason, 2005). Secondo Pink, che è tra gli autori che maggiormente si sono occupati di sistematizzare le questioni metodologiche nell’ambito visuale, il punto essenziale non è registrare un’immagine senza alcuna interferenza, ma riconoscere la riflessività del ricercatore e la valenza del contesto che produce l’immagine e, conseguentemente, conoscenza etnografica. Questo significa che la scelta delle informazioni e delle immagini da mostrare deve avvenire in modo esplicito, secondo una teoria di cui si deve dare conto e che il ricercatore deve sistematicamente operativizzare per ogni selezione svolta. In generale, per tutti questi autori, la differenza tra un documentario e un film etnografico è la lente teorica attraverso la quale vengono restituite le informazioni per mezzo delle immagini.

    Mattioli (2007) opera un’ulteriore distinzione, egli distingue tra saggio visuale e saggio sociologico visuale: il saggio visuale (dalla definizione di visual essay di John Grady) sarebbe il documentario, strettamente scientifico, destinato a circolare tra i membri della comunità scientifica e che rifugge qualsiasi tipo di fiction, il saggio sociologico visuale (SSV), invece, “costituisce una rivisitazione sociologica del cinema ibrido praticato dagli antropologi, che fondono insieme fiction e dati di ricerca per creare un prodotto espressamente cinematografico” (p. 86). Il saggio sociologico visuale cioè utilizza la fiction per fini euristici e pone attenzione all’estetica e alla comunicazione, perché vuole essere divulgato anche ad un pubblico non esperto. Mattioli mette in guardia da questo tipo di lavoro che definisce di divulgazione scientifica più che di prassi scientifica e che, a suo avviso, rischia di scivolare verso il giornalismo o la comunicazione.

    Posizioni come questa portano inevitabilmente a discutere della spendibilità del sapere sociologico [6] e a interrogarsi su temi che non sono specificatamente inerenti a problemi metodologici della sociologia visuale, ma, più in generale, appartengono al dibattito della ricerca sociale, anche se, probabilmente, sono stati affrontati maggiormente nel contesto etnografico.

    Bourdieu, che ha parlato della sociologia come sport da combattimento, intendeva affrontare proprio questo tema; per il sociologo francese, la sociologia dovrebbe rendersi comprensibile anche ai profani, senza per questo franare verso il senso comune che, al contrario, va messo in discussione e per certi versi combattuto. Per il sociologo francese, affinché le persone comuni possano avvicinarsi alla sociologia, occorre che le ricerche siano comprensibili e adatte, senza per questo perdere scientificità, occorre semmai utilizzare modalità comunicative e categorie concettuali efficaci per le persone che hanno più bisogno di appropriarsi di questo lavoro. Perché la sociologia sia efficace, quindi, ci si dovrebbe porre in una prospettiva di rigore scientifico, ma anche porsi il problema della comprensibilità. La Misère du Monde è un esempio di questo intento, è un’opera che si legge come un romanzo, che ha avuto molte rappresentazioni teatrali perché è accattivante e poetica: la costruzione di questo lavoro - la scelta delle storie, il modo in cui si susseguono- segue la doppia logica del rigore scientifico e dell’attenzione estetica e narrativa.

    In antropologia, la questione della poetica in etnografia è stata già da tempo dibattuta; Clifford (1986/96) esorta ad abbandonare le pretese di una scrittura oggettiva capace di raccontare l’essenza delle varie alterità con le quali entra in contatto e ad avere consapevolezza di essere produttori di fictiones, cioè di racconti condizionati dalla soggettività dell’autore, dalla sua sensibilità, dal suo stile e anche dalla sua fantasia, tematizzando l’etnografia come genere di scrittura. In Italia, questa prospettiva è stata portata avanti da diversi autori, in particolare Matera (2004), Colombo (1998) e, in posizione più estrema, da Dal Lago che da sempre sottolinea le esigenze letterarie dello stile etnografico (Dal Lago, De Biase, 2002; Dal Lago 1994).

    Sembra opportuno a questo punto trasferire tali riflessioni sul lavoro fatto con Yo no me complico, dove, sicuramente, l’attenzione alla dimensione estetica e poetica ha assunto un certo significato.

    In questo contesto appare interessante la riflessione di Sooryamoorthy (2007) che introduce ancora un'altra definizione: quella di film di ricerca. Secondo questo autore, i film di ricerca si caratterizzano per l’utilizzo di tutte le potenzialità, che il media visivo offre per comunicare i risultati di ricerca nel modo più emozionante e incisivo possibile. In questo percorso, per Sooryamoorthy, muta il ruolo del ricercatore, perché la vera sfida è quella di costruire un lavoro fruibile da un pubblico più ampio e perciò: “allo scopo di coinvolgere gli spettatori ed evitare la monotonia, il ricercatore dovrà assumere il ruolo di un regista creativo che governa il flusso delle immagini”. Secondo questo autore un film di ricerca può essere sviluppato su un argomento di ricerca o su una parte di un progetto di ricerca in cui si è coinvolti e di cui, però, si ha una conoscenza sostanziale. Spesso i film di ricerca sono la naturale conseguenza di uno studio che trae attori e informazioni dalla ricerca stessa; le informazioni raccolte nella ricerca sono perciò la base di tutto il lavoro: “le scene sono elaborazioni del prezioso contenuto di ricerca dei filmati originali”, integrate con immagini e suoni che possano catturare l'attenzione del pubblico, senza tuttavia sovraccaricare lo spettatore o interromperne la comprensione (ibidem). Il vantaggio della pellicola risiede anche nella sua capacità di trasmettere un messaggio combinando più tracce insieme; il linguaggio cinematografico, infatti, è composto da cinque tracce o canali espressivi: le immagini, il suono registrato (conversazioni), i rumori, la musica e la scrittura.

    Per queste ragioni Yo no me complico credo si possa definire un film di ricerca; senz’altro è un “testo dialogico e polifonico” (secondo la definizione di Clifford) che sfugge ad un'unica chiave interpretativa e che, in modo a volte impressionistico, cerca di restituire, le emozioni con tutti i canali espressivi a disposizione, rappresentando in primo luogo il disagio, ma anche la forza con cui i soggetti intervistati affrontano lo stigma assegnato loro dalla società. Attraverso un lavoro sulle immagini e sulla musica si è cercato di restituire l’atmosfera delle interviste, ma anche le riflessioni che queste hanno prodotto; la musica, per esempio, che in sottofondo accompagna tutto il film, varia da una situazione all’altra, ma anche all’interno della stessa intervista a seconda dell’intensità dei contenuti, diventando a volte quasi fastidiosa nel caso di passaggi che esprimono disagio. Si tratta di musica elettronica costruita a computer campionando anche suoni che sono stati raccolti durante la ricerca o che facevano parte degli ambienti in cui si è lavorato [7].

    Certamente, il lavoro sulla musica, così come quello sulle immagini, è stato possibile grazie all’ausilio di persone con capacità tecniche specifiche, che tuttavia avevano anche le competenze sociologiche necessarie per tradurre le ipotesi che noi proponevamo. Questo aspetto apre ad una serie di riflessioni sostanziali sulla possibilità di operare nella sociologia visuale. Se è vero, come sostengono molti autori, che la rivoluzione digitale ha aperto le porte alla sociologia visuale, perché ha reso possibile a chi opera nella ricerca visuale di lavorare più autonomamente sulla raccolta e sulla gestione del materiale, è tuttavia anche vero che una certa qualità tecnica è ottenibile solo con l’ausilio di competenze specifiche. Senza il regista, che ci ha accompagnato lungo tutto il lavoro, non avremmo potuto ottenere quella poetica dell’immagine che invece si è cercato di perseguire, così come, senza il collega esperto di musica elettronica, non avremmo potuto avere una colonna sonora così suggestiva. I costi di queste competenze non sono un aspetto irrilevante, tuttavia, è soprattutto la questione dell’ibridazione tra linguaggi a poter rappresentare il vero problema. Nel nostro caso, l’empatia si è costruita durante il percorso di lavoro, ma la mediazione tra esigenze estetiche del regista e rigore scientifico dei ricercatori è stato frutto di un lungo lavoro di mediazione e di scoperta reciproca, che ha trovato non pochi punti di crisi soprattutto nella fase del montaggio. In questo senso, le raccomandazioni di Becker a un ricercatore che vuole utilizzare il media visuale, sull’esigenza di avere almeno delle competenze tecniche di base, sembrano davvero opportune.

    Aver invocato l’empatia tra i componenti del gruppo di ricerca può sembrare forse azzardato, senz’altro impone di affrontare il tema in modo più specifico.

    Usi ed abusi del concetto di empatia

    Si è parlato direttamente di empatia come condizione per far dialogare diverse specificità tecniche in un gruppo di ricerca, ma anche, indirettamente, sostenendo di aver potuto tradurre stati d’animo ed emozioni degli intervistati attraverso l’uso di particolari suoni e immagini.

    Come sostiene Watson (2009), se il metodo narrativo spesso si può tradurre in confini sfuocati tra metodologia di ricerca, oggetto di studio e forma della restituzione dei risultati di ricerca, similmente, se l’empatia viene “invocata” in diversi punti del processo di ricerca e per diversi scopi, rischia di diventare un concetto “scivoloso” in termini metodologici. Questa autrice, nel suo provocatorio articolo “The impossibile vanity: uses and abuses of empathy in qualitavie inquiry”, ripercorre la letteratura a favore e contro l’utilizzo di questo concetto; tra le posizioni negative Van Loon la definisce appunto “vanità impossibile”, de Sardan ne parla nei termini di “etno-ego-centrismo”, per una serie di autori, ripresi da Keen, addirittura può diventare “amorale” dal momento in cui “è sensibilità acquisita a spese delle sofferenze altrui” (cit. in Watson, 2009). Tuttavia, dopo lo spiazzamento di queste posizioni, Watson ci porta a riflettere sull’empatia come strumento di analisi: il presupposto da cui l’autrice parte è che l’empatia tra ricercatore e partecipante si tradurrà come minimo in informazioni più adeguate e una rappresentazione più autentica dell’altro. Il punto interessante della sua riflessione arriva poi quando unisce il termine “empatia” al concetto weberiano di “Verstehen”. L’adeguatezza, di cui se è accennato sopra, ha cioè a che fare con il presupposto epistemologico modernista di razionalità che sottende al concetto di Verstehen, e cioè la convinzione che non vi è significato oggettivamente conoscibile dietro l’agire e l’interagire sociale. In questo contesto, l’empatia come principio epistemologico diventa uno strumento per ottenere una maggiore obiettività scientifica: “siamo cioè in grado di realizzare qualcosa che non è mai raggiungibile nelle scienze naturali, cioè la comprensione soggettiva dell’azione” (ibidem) [8]. Tuttavia, il concetto di adeguatezza porta a ricordare anche i tre postulati metodologici di Schütz, ai quali, secondo questo autore, lo scienziato sociale dovrebbe attenersi, allo scopo di innestare le sue concettualizzazioni ai costrutti dell’attore sociale. Oltre alla coerenza logica, primo postulato, Schütz tratta come seconda questione l’interpretazione soggettiva che, in accordo con la sociologia weberiana, fa del senso che gli attori attribuiscono al loro agire il centro dell’indagine sociologica, per poi arrivare - appunto - a parlare dell’adeguatezza:

    “ogni termine di un modello scientifico dell’azione umana deve essere costruito in modo tale che un’azione umana messa in atto all’interno del mondo della vita da un attore individuale, nel modo indicato dal costrutto tipico dovrebbe essere comprensibile per l’attore stesso e per gli altri attori sociali, nei termini dell’interpretazione di senso comune della vita quotidiana. Il rispetto di questo postulato garantisce la coerenza dei costrutti dello scienziato sociale con i costrutti dell’esperienza di senso comune della realtà sociale” (Schütz, 1967, p.44).

    Diverse sono state le critiche mosse a questo postulato (cfr. Longo, 2005) ma, in particolare in questa riflessione, sembra opportuno ricordare la posizione di Giddens (1979) che considera incongruo l’obiettivo di tradurre le argomentazioni scientifiche in una lingua comprensibile all’attore sociale, poiché “ciò priverebbe la riflessione sociologica di un suo tratto essenziale: la capacità di proporre spiegazioni contro intuitive dei fenomeni sociali, le quali perché contro intuitive, difficilmente possono apparire insieme legittime e plausibili all’attore sociale che in quei fenomeni è prima persona coinvolto” (Longo, 2005, p.38) [9].

    A questo punto, può essere interessante riprendere la questione, già accennata, della mediazione tra le dimensioni etic ed emic (Nigris, 2003), oppure riferirsi al problema di dare coerenza a quella che Palumbo (2006) ha definito “quadrupla ermeneutica”. Non è un caso che Palumbo ne parli proprio a proposito della situazione in cui il sociologo entra in contatto con soggetti della ricerca che sono lontani dalla sua esperienza quotidiana. All’inizio della nostra esperienza, la difficoltà maggiore è stata proprio quella di farci accettare da questi mondi sociali, perché ci percepivano come (cito testualmente dalle note di campo) “scienziati che ci vengono a studiare come fossimo topi da laboratorio” [10]. Allora, al di là della questione della conquista della fiducia e delle porte di accesso, quando ci siamo resi conto di questa distanza (che percepivano più loro di noi, ma che abbiamo poi scoperto essere reale) abbiamo provato onestamente - anche se provvisoriamente e spesso solo in modo contingente - a “metterci nei loro panni” [11]. Questo ha significato molto semplicemente, per esempio, camminare a fianco loro per strada, entrare insieme a loro in un locale affollato, andare nei loro luoghi e alle loro feste; abbiamo così potuto intuire cosa si prova a vivere con lo sguardo con il quale loro convivono costantemente, uno sguardo sanzionatorio e stigmatizzante che non lascia tregua. I silenzi, gli sguardi, i gesti che si producono con l’entrata in scena di una persona trans, fanno parte di quel contesto della ricerca da cui non si può prescindere per analizzare e comprendere i testi prodotti dai “nativi” della scena. Come sostengono diversi autori (per es. Frost, 2009), comprendere il contesto nel quale viene prodotta una narrazione consente di rintracciare i discorsi rappresentati al suo interno e attivare la riflessività del ricercatore. La conoscenza delle interazioni all’interno dell’intervista fornisce importanti informazioni sulla narrazione e il suo significato; Georgakopoulou (2006) distingue, a questo proposito, tra narrazioni-in-testo (i racconti nel contesto dell’intervista) e narrazioni-in-contesto (chiacchiere e altre informazioni collaterali al contesto dell’intervista), nell’intento di sottolineare l’importanza del contesto nella produzione di informazioni: “grandi e piccole storie sono entrambe importanti per comprendere la costruzione sociale delle identità e richiedono strumenti diversi per la loro raccolta e interpretazione” (ibidem).

    Max, una delle tre persone FtM intervistate, alla fine dell’intervista, soddisfatto di quello che era riuscito a esprimere, ci ha detto (testuale dalle note di campo): “Attraverso il vostro sguardo empatico siamo riusciti a riverberare il nostro pensiero, ciò ci ha portato a parlare di cose che avevamo dentro e che non ci eravamo mai detti: di solito tra di noi parliamo di cose concrete come gli effetti degli ormoni o ci scambiamo informazioni mediche o legali”. Credo che le sue parole sintetizzino bene le questioni che si è cercato di affrontare: da un lato cioè Max ha riconosciuto il processo di avvicinamento (empatico), dall’altro il nostro è comunque uno sguardo “altro” a cui, tuttavia, riconosce il merito di aver modificato la prospettiva auto-analitica anche per se stesso. L’analisi narrativa si basa sul fatto che le persone attraverso la presentazione di se stessi e delle loro esperienze ad altri diano senso alla loro vita (Frost, 2009), ma un percorso partecipato, come quello descritto all’inizio, può favorire anche quel processo di “auto analisi provocata e accompagnata” di cui ha parlato Bourdieu perché:

    “tentare di assumere il punto di vista dell’intervistato a partire dalla sua posizione sociale per obbligarlo, durante l’intervista, a partire dal suo stesso punto di vista, e quindi entrare nella sua “parte” […], non significa [comunque] operare la “proiezione di sé in un altro” di cui parlano i fenomenologi. Significa darsi una comprensione generica e genetica di ciò che egli è, comprensione fondata sul controllo (teorico o pratico) delle condizioni sociali di cui esso è il prodotto: controllo delle condizioni di esistenza e dei meccanismi sociali i cui effetti si dispiegano sull’insieme della categoria di cui fa parte […]. e controllo dei condizionamenti inseparabilmente fisici e sociali associati alla sua posizione ed alla sua traiettoria specifica nello spazio sociale […]. Tale comprensione non si limita ad uno stato d’animo vigilante. Essa si esercita al modo allo stesso tempo intelligibile, rassicurante e coinvolgente, in cui viene presentata e condotta l’intervista, affinché l’intervista e la situazione stessa abbiano un senso per l’intervistato, anche e soprattutto (nel contesto) della problematica proposta: la quale, come le probabili risposte che essa suscita, si deduce da una rappresentazione verificata delle condizioni nelle quali è posto l’intervistato e di quelle delle quali egli è il prodotto” (Bourdieu, 1993, pp. 1400-1401) [12].

    Note

    1] www.laboratoriosociologiavisuale.it.
    2] Female to Male, persone che sono nate biologicamente donne e transizionano verso un’identità di genere maschile.
    3] Lesbian-Gay-Bisexual-Transgender. In questo acronimo appare, a volte, anche la “I” di “Intersexual” e la “Q” di Queer.
    4] Sono state scelte tre persone che si trovavano in momenti diversi del percorso di transizione.
    5] Per tutte le questioni inerenti la discussione intorno alla sociologia visuale ed un excursus storico si rimanda a Pawels, 2010.
    6] Su questo tema si ricordano i numerosi contributi di Cipolla, in particolare il volume che ha curato nel 2002.
    7] Dal rumore dei bicchieri del bar dove è stata svolta l’intervista, al suono della fotocopiatrice del dipartimento, fino ad arrivare alla rielaborazione di musiche tipiche dei paesi di origine degli intervistati.
    8] Su questo punto, il dibattito si è di recente ampliato con l’avvento degli studi delle neuroscienze che hanno fornito un contributo interessante in merito alle posizioni weberiane, introducendo nella discussione l’aspetto biologico dell’empatia (cfr. Gallese et al., 2010).
    9] Longo ricorda, a questo proposito, anche la posizione di Bernsteins (1976), sottolineando che esistono meccanismi complessi di difesa, resistenza e di autoinganno che possono rendere incomprensibile per i soggetti descrizioni sociologicamente accurate della loro azione (ibidem).
    10] Queste difficoltà sono esposte nel film da Emanuela Abbatecola in un monologo che riflette sulla possibilità effettiva per un sociologo/una sociologa eterosessuale di essere accettato/a nel mondo LGBT.
    11] Se vuoi capirmi “cammina per tre lune nei mie mocassini” si dice sia un proverbio degli indiani d’America.
    12] Trad. a cura di Sebastiano Benasso (Benasso, Stagi, 2008).

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