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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    PSICHIATRIA, RESTITUZIONE E SUBLIMAZIONE DEL ‘MALE’ NELLE PAROLE DEI PAZIENTI PSICHIATRICI


    Vincenza Pellegrino

    vincenza.pellegrino@unipr.it
    Dipartimento Studi Politici e Sociali – Università di Parma e Laboratorio Interdisciplinare Scuola Internazionale Superiore Studi Avanzati (S.I.S.S.A.) – Trieste. Dopo un dottorato di ricerca in Antropologia Demografica presso l’Université de la Méditerranée di Marsiglia e lunghi studi post-dottorali compiuti tra Svizzera, Francia e Marocco, dedicati alle reti migratorie e alle migrazioni transnazionali, oggi lavora come ricercatrice nell’ambito della sociologia dei processi culturali con particolare interesse per la trasformazione delle istituzioni e delle relazioni di cura, e nell’ambito della sociologia della scienza con particolare interesse per la relazione tra scienza e politica nei conflitti attuali e nelle nuove forme della partecipazione civico-politica.

    1. Storia e impostazione metodologica dell’indagine

    a) L’incontro intervistati – intervistatori è di per sé cosa difficile, se poi l’intervistatrice è una tipa impressionabile...
    Perché il “patto narrativo” va ben preparato.


    Il presente saggio è centrato sulle storie di vita (più specificamente potremmo dire sulle storie di malattia e di cura) di pazienti psichiatrici di Trieste raccolte ormai anni or sono (a partire dal 2005) su desiderio di Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste e discepolo di Basaglia, intenzionato a costruire un “archivio” delle memorie di pazienti a lungo presenti nel suo servizio, e con il coordinamento iniziale di Nico Pitrelli del Laboratorio Interdisciplinare della S.I.S.S.A.

    Un primo passaggio necessario è stata l’esplicitazione della nostra idea di narrazione, molto diversa tanto da quella del “terapeuta” [1] quanto da quella dei “comunicatori” con i quali molti pazienti psichiatrici erano già venuti in contatto (a Trieste ad esempio sono numerose le trasmissioni Radio dedicate alla salute mentale, maggiormente votate all’advocacy, a sostanziare il “diritto alla relazione” con il mondo esterno, denunciare i così detti stereotipi sulla malattia mentale ecc.). La proposta delle illness narratives propria della ricerca sociale è evidentemente diversa: narrare in assenza dello psichiatra per spiegare a se stessi e agli altri - parlando con il “ricercatore”, figura nuova per i nostri interlocutori - il senso di quanto si è vissuto, per formulare e raccogliere immagini su quale sia il “perduto benessere”, perché sia andato perduto, come sia il “malessere”, come e perché agisca la “cura” ecc., agli occhi di chi con continuità è stato immerso nell’ordine simbolico della ‘cura psichiatrica’, nelle definizioni di malattia e di cura che i servizi danno loro, ecc. Abbiamo presentato quindi la narrative illness ai nostri interlocutori come sguardo sulla malattia dal suo interno (come forma di expertise ad altri impossibile, se così possiamo dire), ma contemporaneamente anche come sguardo sul mondo dei sani dal suo interno, come pensiero “laterale” sull’ordine quotidiano che la condizione - potremmo quasi dire lo status - del “malato” permette di elaborare, e in tal senso come pensiero fondamentale per interpretare le dinamiche relazionali quotidiane che mantengono e costituiscono inconsapevolmente l’ordine sociale.

    In questi primi confronti, apparivano i timori dei nostri interlocutori (chi è il ricercatore? chi c’è dietro di lui? chi altro ascolterà le parole registrate? perché proprio noi come testimoni? cosa ci “guadagniamo” noi?) per nulla scontati, che molto attengono a quelle che Fabietti [2] ha chiamato “politiche dell’identità” nella ricerca sociale, vale a dire strategie e forme della presentazione reciproca iscritte in un quadro di rischi e investimenti individuali, disparità di potere e di informazioni, timori presenti in ogni indagine sociale ma che qui premevano per trovare più ampia legittimazione - anche per la normale inclinazione di queste persone e di chi se ne prende cura a “difendersi dalle energie negative” - e che infine hanno portato a quello che diverse volte abbiamo poi chiamato un “patto narrativo” più esplicito. Non solo un discorso più esplicito con i testimoni sulla narrazione come strumento di ricerca sociale perché essa sia distinguibile da altre forme della narrazione, che pure essi conoscono e agiscono quotidianamente sulla scena di cura, ma anche una maggiore negoziazione sull’utilizzo futuro delle loro parole e sulla loro comunicazione utile a fugare resistenze e preoccupazioni che agivano con forza.

    In questo contesto, ho pensato che tali “patti” (chiarimenti sulla ‘funzione narrativa’ dei protagonisti, potremmo dire) divengono elementi centrali della metodologia laddove i\le testimoni hanno già una vasta esperienza in termini di narrazioni ‘prodotte’ ma diversamente concepite e finalizzate (penso non solo a tutti coloro che seguono una psicoterapia, come in questo caso, ma anche a tutti coloro che sono seguiti dai servizi socio-sanitari: pensiamo alle indagini sui migranti o sui richiedenti asilo ad esempio, tenuti a narrare continuamente quanto gli è accaduto a diversi tipi di operatori sociali), o laddove l’indagine si produce in un contesto di grande disparità percepita (ovvero dove chi intervista appare “biograficamente” distante a chi narra), dove il rischio di manipolazione e di danno percepiti sono elevati (a chi parlerai di queste mie cose? appunto).

    Dopo questi passaggi negoziali, l’adesione alla nostra proposta è stata buona; tra le persone disponibili, ne sono state selezionate 22, in base alla “diagnosi severa” (persistenza del problema nel tempo, esperienze anche transitorie di tipo allucinatorio-dissociativo ecc.), ed alla frequentazione dei servizi psichiatrici almeno decennale (potremmo definire in questo modo il nostro “campionamento ragionato” , “corretto” poi anche in base a genere, titolo di studio, l’età [3]).

    Vorrei aggiungere rapidamente qualcosa sulla “diagnosi psichiatrica”. Nel riesaminare il materiale raccolto con le prime interviste - al fine di strutturare le “ipotesi guida” circa le tipologie concettuali e le argomentazioni ricorrenti utili ad orientare le interviste successive [4] - ci siamo accorti di una dinamica alla quale non avevamo pensato. Da una prima e rudimentale analisi delle conversazioni (osservando cioè quali erano i nostri dispositivi “discorsivi”, gli interventi, i momenti di incoraggiamento o di arresto utilizzati durante l’intervistare al fine di facilitare il racconto), ci siamo resi conto che nel caso di diagnosi riconducibili alla “schizofrenia” vi erano più sovente atteggiamenti di resistenza ad “uscire” da un tema già impostato (probabilmente per paura di una frammentazione eccessiva della narrazione), mentre nel caso delle diagnosi riconducibili alla “depressione” ve ne erano altri (un modo potremmo dire più paternalistico di alleviare, di ridurre il silenzio e la sosta nei momenti del dolore ad esempio).

    Gli intervistatori sono sempre parte del “con-testo”, come sempre cioè essi contribuiscono all’andamento della narrazione, come sanno bene coloro che conducono personalmente le interviste [5], che esse siano “strutturate” o relativamente “destrutturate”. Ciò avviene non soltanto in modo consapevole, attraverso il richiamo esplicito ai nodi tematici o le domande, ma anche in maniera inconsapevole, seguendo uno stile personale di incoraggiamento alla narrazione, di uscita dalle empasse ecc. [6]. In questo caso, in particolare, gli intervistatori apparivano “impressionati” dalla “schizofrenia”, parola potente che anima il nostro immaginario e orienta le conversazioni. Per questo, abbiamo deciso infine di non conoscere la diagnosi e di adottare come categoria di analisi la “diagnosi narrata”, quella che sempre appariva nei racconti e che al di là di specifiche ulteriori sarà qui ricondotta a due vaste tipologie riferite principalmente alla “dissociazione” (circa 2\3) e alla “depressione grave” (circa 1\3, come vedremo in seguito).

    b) Queste storie di malattia possono essere intese come attività di ricucitura di “periodi frammentati” del vissuto in una unica “sequenzialità biografica”.

    I nostri testimoni erano in cura nei servizi psichiatrici da almeno 10 anni (e mediamente da 16 anni). Per loro la malattia non solo è stata un “punto di rottura” o di “svolta” che dire si voglia [7], ma è stata sopratutto la lunghissima esposizione ad esperienze differenziate di malessere, a idee instabili circa il possibile-poi impossibile-poi possibile ritorno al “oggetto di valore perduto”, mutuando una espressione famosa [8], vale a dire alla condizione psichica precedente la crisi, ad una condizione mentale più largamente impensata o sulla quale non si condivideva esplicitamente il discorso con gli altri, ecc. Si tratta dunque di racconti su una malattia prolungata e da tanto esposta ad “altri che curano”, anche se in questo caso è improprio chiamarla “malattia cronica” proprio perché i suoi esiti futuri hanno confini sfumati, anche “scientificamente” più indefiniti (la psichiatria si riferisce in maniera particolare alla predizione, e questa è un’altra differenza ontologica rispetto ad altri contesti medici), insomma di illness narratives in prima persona centrate su un’esperienza di malessere-benessere oscillatorie nel tempo.

    E’ questa una condizione particolare di sofferenza, oggi definita nei termini di malattia e quindi collocata nel contesto della cura medica e del “diritto” alla cura, che interroga in modo particolare la categoria esistenziale della “restituzione” alla normalità - per tornare a Frank (op. cit.) che parla appunto di “restitution narratives” - e che sfida la cura medica come “via della guarigione”, o la guarigione come rientro nel mondo quotidiano (fattivamente inteso come contesto della socialità produttiva ecc.) [9]. Rispetto alla gran parte delle altre malattie, quindi, non solo il paziente psichiatrico con diagnosi severa oscilla tra diverse idee di uscita dal male e rientro nel mondo dei sani che si hanno nelle diverse fasi di malattia e di cura psichiatrica, ma anche la società oscilla, non sa come e dove collocare univocamente oggi la “condizione” che un tempo fu quella del “matto” rispetto all’idea di restituzione. Non solo quindi la malattia mentale ci pone davanti a costrutti di desease e illness specifici, ma anche ad una sickness specificamente oscillatoria, potremmo dire rifacendoci ad ormai famosi schemi [10].

    A partire da queste considerazioni, scopo dell’indagine è stato lavorare insieme ai testimoni sull’idea di “sequenza biografica” rispetto alle polarità immaginarie di benessere-malessere psichico, identificando “periodi” o fasi di “passaggio” [11], momenti biografici identificati come “discontinuità” rispetto alla condizione di salute, salti - ora più vicino, ora più lontano - dalla meta di un “valore perduto” (definito in molti modi, nei termini di concordia con il mondo esterno o di equilibrio interiore, come vedremo). Certo, i punti di svolta sono momenti biografici che appaiono al presente (al momento della narrazione), in tal senso momento di “ricucitura”, esercizio concreto di “consequenzialità” [12], di costruzione di costruzione di senso da attribuire alla sequenza biografica.

    Ovviamente, nel particolare ambito delle mental illness [13] queste ricuciture biografiche, questi ri-posizionamenti narrativi del soggetto rispetto alle fasi del “benessere perduto” e riperduto, avvengono sopratutto in relazione a diversi luoghi della cura psichiatrica attraversati, che tra loro appaiono ai nostri testimoni come differenti tra loro, discontinui più di quanto probabilmente accada in altri contesti della medicina: “ho visto tutte le diverse facce dell’uomo nelle diverse facce degli psichiatri” dice efficacemente uno dei nostri testimoni.

    Questo rende particolarmente interessanti le ricuciture biografiche delle svolte vissute da queste persone, particolarmente legate non solo all’idea di malattia ma anche appunto all’idea di cura, che si modifica nel tempo e che non è univocamente intesa neanche dalla stessa medicina.

    Più tecnicamente, le interviste pilota sono state inizialmente poco strutturate, “aperte” come si dice ma al tempo stesso “centrate” sulla esperienza di malattia e di cura a partire da un antefatto (l’incontro si apriva testando la capacità di stabilire l’esistenza di una condizione perduta in nome della quale si lavora insieme ai curatori), e si sono concluse nel momento in cui il\la intervistatore ha identificato in maniera soddisfacente (stabile) la sequenza tra le fasi, operando l’identificazione delle svolte significative e la loro messa in ordine temporale ed effettuando un passaggio sull’idea del “finale” (di possibile esito del proprio percorso) [14]. Se le persone con cui è stata ricostruita la storia sono state 22, le storie che hanno pienamente soddisfatto questo iter narrativo e che sono inserite in questa analisi sono 15.

    Le “sequenze biografiche” sono state poi analizzate utilizzando categorie già assunte nelle indagini precedenti, effettivamente performative anche per catalogare i nostri testi. Ho in buona parte mutuato le categorie di analisi di Cardano (Gergen modificato) [15], provando a coglierne elementi specifici in questo contesto di indagine. Vi è un “antefatto” appunto, la narrazione di una condizione precedente, che deve esserci per consentire l’idea stessa di “perdita” e l’idea di “malessere”, con tutto il suo apparato ideologico sulle cause scatenanti; poi vi è la “crisi” (la prima crisi come esperienza di “soglia” e le altre crisi); poi il “contratto di cura” per un ritorno o un nuovo approdo al benessere, ecc.
    Più precisamente, ricomponendo i nodi della struttura narrativa ricomposta per ciascuno:

    - Antefatto: la collocazione narrativa di un “prima”, di ciò che si ricorda come “l’altra” condizione mentale (un “oggetto di valore” perduto);
    - Soglia: l’esperienza di come si entra dentro al male-essere (di come lo si identifica e definisce da un lato, di come ne si ricorda la prima esperienza corporea e psichica dall’altro lato);
    - Andirivieni: come si opera un su e giù tra meglio e peggio, tra gradualità del bene (essere) e del male (essere) che quindi vengono ad essere sempre più definiti (quali sono i periodi di passaggio, quali le svolta verso l’alto o il basso, ecc.);
    - Finale: come andrà a finire (per me e per tutti gli altri);
    - Infine, ricomposizione di una direzione assunta dalla sequenza (pro/re-gressione): è la ricomposizione narrativa delle oscillazioni e delle svolte che nel complesso dà una direzione al proprio cammino, collocandolo rispetto alla meta.


    c) Cogliere la variabilità interna alle narrazioni è possibile “triangolando” diversi tipi di analisi.

    L’analisi dei testi ottenuti dagli incontri (integralmente sbobinati) ha proceduto per steps. In primo luogo abbiamo ricostruito l’intero percorso dei singoli, ricomponendo i frammenti narrativi che si riferivano ad un medesimo periodo e collocando le svolte rispetto alla sequenza. L’analisi del contenuto di tipo qualitativo ha poi permesso di identificare le argomentazioni ricorrenti circa i “passaggi” nella malattia, circa l’antefatto, la soglia, le crisi, i diversi “malesseri” attraversati (ora legati all’idea di “malattia”, ora di “sofferenza”, ora di “disagio”), alle “cause” (legate ora all’idea di “meccanismi biologici” ora all’idea di “colpe” ora all’idea di “trauma”) e alle “cure” (legate ora all’idea di “parola-terapia” ora all’idea di “farmaco-terapia”). Per motivi di spazio, non mi soffermerò particolarmente sulla descrizione di tali categorie argomentative, che ritroveremo nell’analisi multivariata lessicale presentata in seguito. Nella fase dell’analisi qualitativa del testo, sono state inoltre ricercate e catalogate alcune metafore ricorrenti nei racconti, dispositivi utilizzati in particolare per spiegare l’esperienza concreta, psico-fisica, delle crisi depressive e\o dissociative (“ti senti come …”; “è come se…”), sulle quali per motivi di spazio non mi soffermerò [16].

    Infine una analisi lessicale di graduale complessità - effettuata tramite il software TLAB (prima la associazione tra lemmi, poi l’analisi delle Componenti Multiple, poi l’analisi dei Clusters) - ci ha permesso di verificare come le diverse forme argomentative individuate precedentemente (e identificate in alcune lemmi e insiemi di lemmi) trovino una diversa distribuzione nelle narrazioni: su questo passaggio ho maggiormente focalizzato il presente saggio.

    d) Trieste non è un posto come gli altri, forse.

    Mi pare utile compiere un breve richiamo al luogo in cui si è svolta l’indagine, la città di Trieste.

    Le ricerche centrate sulle mental illness narratives sono relativamente numerose, non solo all’estero ma anche in Italia. Uno degli interessi è quello di verificare se e come Trieste rappresenti un contesto particolare nello scenario nazionale della cura e della socializzazione della sofferenza mentale. È importante ricordare infatti che non solo è stata una delle sedi operative di Basaglia, negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta indicata come luogo di sperimentazione avanzata della riforma (della democratizzazione interna dei luoghi psichiatrici, della socializzazione, eccetera), ma che anche nell’era post-basagliana tale attenzione è parsa mantenersi (“Impazzire si può” è un festival che testimonia di quante iniziative siano fatte in questo senso, ad esempio). Insomma, vi sono indizi di una particolare e prolungata attenzione alla dimensione sociale della sofferenza mentale e numerosi lavori indicano qui un passaggio più convinto da servizi accentrati (strutture come ospedali, manicomi, Diagnosi e Cura) a forme più comunitarie di cura rispetto a quanto avviene in altre aree del paese.

    Una delle domande particolari della ricerca era quindi relativa alla connotazione dei nostri risultati rispetto a quelli ottenuti in altri ambiti: qui si coglie un livello di comunicazione differente con gli psichiatri? apertura e socializzazione maggiore? speranza maggiore in termini di cronicità reversibile?

    Infine, il desiderio era anche quello di esplorare le narrazioni per compararle a quelle raccolte in altri contesti.

    2. La “sequenzialità”: l’andamento della sofferenza e il presunto finale

    Come abbiamo già detto, la narrazione di un’esperienza di malattia il cui incipit si colloca lontano nel tempo conduce necessariamente all’idea di “evoluzione” della malattia o meglio ad una collocazione ripetuta del sé narrativo rispetto ad eventi di “questo” o di “quel” periodo. Dalla presentazione degli antefatti così come definiti, delle crisi e della prima esperienza diretta (corporea e psichica) dei momenti di sofferenza acuta e poi dei momenti di sollievo, si arriva infine ai passaggi narrativi nei quali i testimoni forniscono valutazioni complessive circa le oscillazioni di cui si parla.

    La direzione ricavata dalla traiettoria (complessivamente rivolta verso l’altro o verso il basso, verso il ‘meglio-essere’ o il ‘peggio-essere’), dipende certo da ciò a cui si aspira e quindi ancora una volta dal punto di vista del “presente narrativo”: ad esempio, se si vuole tenacemente una vita come quella degli altri (la restituzione, come si diceva), allora anche un’aumentata capacità di gestione della sofferenza risulta poco efficace per giudicare in termini positivi l’andamento della malattia. Viceversa, se l’oggetto di desiderio perduto è una presentazione efficace ed eroica del sé, la capacità di ‘soffrire meglio’ diviene un traguardo, ecc. Il dominio materiale (l’eliminazione dei sintomi ad esempio) e il dominio simbolico (la comprensione dei sintomi, o più in generale una narrazione ricca di senso su quanto ci accade) si presentano nel nostro insieme di interviste come due diversi “oggetti andati perduti” con la malattia psichica (e quindi due diverse modalità di definire il bene perduto). Come vedremo, a seconda della loro prevalenza e della loro composizione avremo diverse valutazioni “interne” delle traiettorie.

    «La fase più delicata è quando si comincia a guarire perché poi la ricaduta è tragica, fa male quasi come la prima volta e direi che tanto dici di star bene, tanto più ricadi e stai male. E questa è una cosa che logora sia la persona che vive la sofferenza, sia l’ambiente familiare, perché la famiglia spera con te, ti vede rifiorire, rinascere e poi improvvisamente “patapuf”, di nuovo nella tragedia e supplichi, piangi, cammini per casa come un fantasma, ti nascondi, ti chiudi, non ti vuoi far vedere per non far soffrire gli altri, specialmente i genitori che fino a ieri erano felici, tornano magari da una passeggiata tutti felici che finalmente hanno fatto una passeggiata e ritornano a vederti proprio nel buio, in bagno, chiusa lì, persa di nuovo. Ma la ricaduta è una fase, è un cammino che fa parte del percorso verso una guarigione, è come il gambero, fai cinque passi avanti e magari sei indietro però quei cinque passi comunque ti sono serviti a vedere che puoi procedere e forse a sapere che indietreggi.
    All’inizio è dura ammettere che può servire, ma è molto importante. I dottori dicono sempre: “Guarda che riavrai i momenti negativi e guai se ti fai trovare impreparata, perché è lì che puoi decidere per sfinimento di farti fuori”» (Margherita).
    «Anche se in un primo momento mi sembrava di aver fatto dei passi indietro come i gamberi ho capito che dei passi indietro rispetto all’evoluzione della propria personalità, davanti alle proprie debolezze e manchevolezze, sono ammessi anche e proprio se poi il percorso è indirizzato, secondo me, verso il raggiungimento di qualcosa di buono» (Maria).
    «Purtroppo la mia famiglia non capisce il mio percorso verso la guarigione, a loro devo nascondere tutto. Loro sono arrabbiati con i servizi, li volevano denunciare, mi dicevano: “Ti rovinano, ti drogano, non sei più tu”. Ma lo scopo è stare meglio e non è essere sempre io» (Sara).
    «Ancora oggi non so valutare effettivamente se ci possa essere la guarigione da questo tipo di malattie o se invece probabilmente si tratterà più di adattamento che fa stare bene» (Lara).


    Per inquadrare sinteticamente queste traiettorie, ho adottato le tipologie di racconto della malattia mentale utilizzate da Cardano (2007) che riprendono e modificano i modelli di Gergen (si vedano note precedenti).

    Da un lato vi sono le modalità di composizione biografica detta “tragica” (nel nostro caso 5), che esprimono l’idea di una stabilizzazione dello stato di sofferenza a un livello di minor ben-essere (di minor dominio sia materiale che simbolico della propria esistenza) rispetto all’antefatto, vale a dire all’incipit (alla speranza e al progetto di vita) narrato come esperienza fatta precedentemente all’attraversamento della “soglia”.

    Una variante è la ricomposizione biografica che potemmo chiamare “satirica” (così si caratterizzano 3 storie) dove prevale la narrazione di uno stato di impossibile ritorno all’oggetto desiderato ma in cui è più centrale la descrizione di ripetuti e diversi tipi di accanimento della sorte, una sorta di “presa in giro” del destino (così è percepita) rispetto alla quale non ci si può opporre.

    Vi è poi un modello “cavalleresco”, nel nostro insieme quasi assente (1 caso): sono le narrazioni di un miglioramento graduale, di una lenta ascesa verso il benessere, di approdo al meglio, perdurante e stabile, che non induce al perpetuo su e giù. Questo modello, probabilmente si avvicina di più alle restitution di Frank già citate e si compie come adesione piena del narratore al sick role set (ad un insieme di ruoli attribuiti al malato) con una forte motivazione alla cura e allo stile di vita “sano”, a prendere come vita di riferimento quella dei “non malati”, gruppo al quale si aspira ritornare, anche se in tutti i casi di several mental illnessin realtà ci si assesta in una condizione percepita come maggiormente “compatibile”.

    Un altro modello narrativo è invece quello della “saga eroica” (6 casi), con l’esplicita narrazione di oscillazioni ripetute, di crisi considerate come “ricadute” (materialmente o potremmo direi “corporalmente”) ma anche come “sfide” (simbolicamente), dell’alternanza tra bene e male nel proprio iter personale, come appunto in quelle storie in cui all’eroe è richiesta non tanto la capacità di portare a termine un compito in maniera conforme all’obiettivo (la conquista dell’oggetto di valore) quanto la capacità di resistere, di restare in se stesso, nella sfida di essere esposto alla mancanza perpetua del proprio oggetto di valore. La resistenza e la tensione al miglior sé nella sciagura divengono, in questo caso, il “nuovo” oggetto di valore al di là del raggiungimento dell’obiettivo iniziale o del contratto iniziale (in questo caso la stabilità psichica).

    Fig. 1 Andamento dell’esperienza biografica nel modello Narrazione Tragica e Saga Eroica

    Come evidenzia lo schema qui sotto inserito, indicativamente possiamo dire che nella nostra indagine vi è una polarizzazione tra modalità tragiche e modalità eroiche, con particolare diffusione di un modello di narrazione centrato sull’andirivieni tra bene e male e sull’esperienza delle ricadute, mentre sono relativamente assenti le narrazioni su una evoluzione graduale e nel complesso monodirezionale. Come si può osservare dallo schema sottostante (e come vedremo nell’analisi multivariata), la distribuzione pare differire sopratutto tra testimoni aventi titolo di studio alto e titolo medio-basso:

    1. Fabio, scuole medie (sogg.01), percorso tragico-satirico (o eroico discendente); esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile ai servizi psichiatrici.
    2. Giovanna, scuola superiore (sogg.02), percorso tragico-satirico (o eroico discendente); esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile ai servizi.
    3. Roberto, scuole medie (sogg.03), percorso tragico; esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile ai servizi.
    4. Margherita, scuola superiore (sogg.04), percorso eroico ascendente; esperienze di dissociazione; primo accesso adulto ai servizi.
    5. Caterina, scuole medie (sogg.05), percorso tragico; esperienze di depressione; primo accesso giovanile ai servizi.
    6. Davide, scuola superiore (sogg.06), percorso eroico; esperienze di depressione; primo accesso giovanile ai servizi.
    7. Eleonora, scuole medie (sogg.07), percorso tragico; esperienza di depressione; primo accesso adulto ai servizi.
    8. Sara, scuole medie (sogg.08), percorso tragico; esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile ai servizi.
    9. Carlo, scuole medie-superiori (sogg.09), percorso cavalleresco; esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile.
    10. Luca, università (sogg.10), eroico ascendente, esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile.
    11. Elisabetta, scuole medie (sogg.11), tragico; esperienze di depressione; primo accesso giovanile.
    12. Maia, università (sogg.12), eroico; esperienze di depressione; primo accesso adulto.
    13. Lara, scuola medie-superiori (sogg.13), tragico-satirico; esperienze di dissociazione; primo accesso giovanile.
    14. Alberto, università (sogg.14), eroico ascendente; esperienze di dissociazione; primo accesso adulto.
    15. Maria, università (sogg.15), eroico ascendente; esperienze di depressione; primo accesso adulto.

    «Accettare la malattia può portare a cambiare il proprio modo di essere, al desiderio di conoscere altra gente, si diventa un’altra cosa, un’altra persona. Non è detto affatto che quella che diventiamo non sia proprio quella che da piccoli speravamo di essere» (Margherita).
    «Comincio invece a pensare che sulla faccia della terra esistono uomini che si troverebbero bene con me, ma poi penso che sono vecchia ed è troppo tardi per sperimentare, eppure quando sono più allegra mi viene da pensare che in realtà questi poveretti non sanno cosa si perdono perché sono diventata capace, intelligente di testa anche se fuori di testa e adesso si sarei anche di buona compagnia» (Maia).


    Nel nostro insieme di testimonianze troviamo una buona presenza del tipo di narrazione che potremmo chiamare “saga eroica ad incremento o “progressiva”. In questo caso, vi è una produzione considerevole di considerazioni su come «crisi dopo crisi si impara che passano», su come «il tunnel poi si faccia meno nero quando poi prevedi la luce, e non è lo stesso buio di quando non immagini la luce», sul fatto cioè che “prevederne” la fine significa andare oltre ai propri stati psichici più dolorosi. La sofferenza psichica viene intesa come palestra dell’immaginario, che sviluppa capacità intellettive nuove. Riuscire a dare un significato alle crisi più nere significa espressamente non ritrovarsi più nelle stesse “nere condizioni”; immaginare di essere migliorati (di aver incrementato le proprie capacità) anche in presenza di malattia produce di per se stesso salute. O meglio, i\le testimoni sottolineano come il dominio simbolico della ricaduta pone in una nuova condizione rispetto ad essa, più positiva rispetto agli inizi, sebbene in presenza degli stessi gravi sintomi, di nuovi tentativi di autolesionismo ad esempio, e anche laddove la malattia resta concepita come cronica. È quindi una tipologia narrativa sul “dimorare nella malattia” (la cronicità appunto) che già abbiamo incontrato in altre ricerche: penso, ad esempio, alla categoria RP3 di Cardano (2007), alla traiettorie progressive di cui lui parla, penso a Cesare e Noemi, che pure tuttavia mi sembrano casi leggermente diversi dai miei poiché erano persone che si sentono in via di guarigione o comunque meno esposte alla forza delle regressioni, al pericolo di angosce che tornano nelle forme più crude ad esempio.
    Ciò che qui pare più evidente invece è forse la relativa numerosità di questo tipo di storie rispetto a quelle cavalleresche o inclini alla modalità della restituzione: in queste testimonianze, il concetto di “guarigione” assume uno spazio più esiguo (e come vedremo la parola stessa è pressoché assente).

    Fig. 2 Modello narrativo della Saga Eroico-progressiva

    Ho trovato particolarmente stimolante questa visione eroica circa la malattia cronica poiché essa re-interroga dall’interno il concetto di salute, andando direttamente alla sua fondazione epistemologica: la salute come incremento delle esperienze di “dominio” innanzi tutto simbolico della propria vita, come incremento di un potenziale personale di rielaborazione a partire da una condizione incarnata, concretamente umana e particolare. Al di là delle definizioni altisonanti dell’OMS, è difficile solitamente definire un incremento di salute nel persistere di uno stesso livello di disfunzione. Al contrario, come dice Margherita, «adesso ho sempre quella stessa malattia, mi dicono, ma io so che quando entro nel tunnel poi ci esco ed è per questo che non mi suicido»: sviluppare capacità di vedere nel buio (per restare in metafora) significa produrre luce.

    La differenza tra esperienza tragica ed esperienza eroica infatti appare sostanzialmente nel modo di pensare alla crisi successiva come tradimento o fallimento del contratto di cura (nel primo caso) o piuttosto che come sfida al migliore dominio di sé (nel secondo caso). Da un lato, «L’ultima volta sono andata avanti due mesi, sono dimagrita, non dormivo, non mangiavo: l’ultima crisi è stata proprio brutta, orribile, terribile, perché ogni volta è sempre peggio perché è ancora e ancora e capisci che non è mai finita» (Elisabetta). Dall’altro lato, al contrario, la ricaduta è vista come graduale conquista della verità su di sé, che è poi diviene lo scopo, il valore perduto su cui si spostano queste narrative: «Ciò che desidero è capire torti e ragioni, comprendere la natura delle persone anche se comprendere avviene proprio a forza di traumi. La mia vita va verso il realismo a forza di traumi. A un certo punto, in qualche maniera, sono andata fuori della realtà, ho idealizzato tutto troppo ed è per questo che bisogna cercare di prevenire la depressione. Ma poi è comunque qualcosa che ti porta alla crescita se affrontata con le persone giuste, nel modo giusto, ti porta a una conquista di te stessa e a una maggior consapevolezza. Perché la depressione è soprattutto una lacuna di appartenenza, di appartenersi, di aver capito le qualità buone. Perché è evidente che i depressi vedono solo i difetti di se stessi. La mia malattia sottolinea il fatto che, secondo me, non ho saputo vedere le qualità buone su cui appoggiarmi nei momenti di difficoltà. Ma a forza di traumi mi sono avvicinata alla vita realistica. E se mio marito mi avesse dato un po’ di più tempo... E invece lui, sportivo, forte, campione militare mondiale di pallanuoto, doveva avere tutto. Tutto, tranne sapere però chi sono io e chi è lui» (Margherita).

    3. Verso la definizione di alcuni “profili narrativi”: sublimarsi, restituirsi, stigmatizzarsi

    Vorrei ora tentare un’interpretazione più complessiva della variabilità contenuta nelle narrazioni raccolte, cercando di stabilire in che modo i diversi temi affrontati (sistemi di spiegazione circa le cause della sofferenza, l’idea di cura e di terapia) si associano tra loro, e in che modo essi possono costituire diversi “profili narrativi”, diverse ricostruzioni complessive della propria esperienza di several mental illness.

    Anche alla luce delle analisi precedentemente compiute interpretiamo i risultati conseguenti alla Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) effettuata sempre grazie al supporto TLAB [17].
    Complessivamente, l’analisi ha permesso di identificare tre fattori, potremmo dire tre dimensioni alle quali legare la variabilità contenuta nelle narrazioni, fattori cui si associano le diverse caratteristiche individuali. Come mostra lo schema sottostante, considerando l’associazione LEMMI x VARIABILI (l’output numerico e grafico di TLAB sono qui semplificati per motivi di leggibilità), emerge l’associazione significativa di alcune parole al primo fattore, che spiega il 41% della variabilità, a sua volta relato significativamente alla variabile di genere (uomini e donne); il secondo fattore è invece associato al titolo di studio (30% variabilità), mentre il terzo fattore alle modalità di entrata nel servizio psichiatrico (e in maniera inferiore al tipo di crisi descritte, dissociative o depressive).

    Guardando tabelle e grafici, possiamo dire che vi è l’incidenza significativa di alcune caratteristiche rispetto all’utilizzo delle parole e alla loro associazione in concetti (in diverse forme di concettualizzazione narrativa della sofferenza):

    - il genere pare influire più chiaramente rispetto alla definizione del male e alla definizione dell’oggetto di valore perduto con la malattia (ciò di cui si va alla ricerca attraverso la cura);
    - il percorso psichiatrico (momento dell’entrata in cura, tipo di auto-diagnosi più propriamente dissociativa o depressiva del male) pare incidere sull’idea stessa di cura e di psichiatria (la parola-terapeutica o piuttosto il farmaco-terapeutico);
    - il titolo di studio pare incidere maggiormente sui concetti legati alle cause (processi di maturazione della malattia legati all’individuo o piuttosto alla sua interazione con l’esterno, di natura organica o piuttosto relazionale) e all’evoluzione del malessere.


    Il genere
    In senso più generale, possiamo dire che il genere appare un elemento ordinatore rispetto alla rielaborazione della sofferenza psichica. Ciò non stupisce affatto, poiché il genere (parola che fa riferimento più esplicito alla costruzione sociale della differenza sessuale) è, come si sa, uno degli elementi biografici maggiormente strutturanti l’esistenza. In questo caso, vi è una maggiore ridondanza di osservazioni e di sfumature circa le relazioni vissute nel tempo lontano e la loro ricaduta su di sé. Nei racconti femminili vi è una maggiore attenzione alle percezioni corporee e potremmo dire alla storia del proprio corpo, memoria forte delle sensazioni infantili e nostalgia forte. Inoltre, lo spazio femminile della narrazione è più facilmente vasto, uno spazio che tende a occupare per ciascun aspetto (le cause, l’andamento della malattia, la cura) le considerazioni sulla “vita intera” (diffuse le espressioni sul “prima”, “in rapporto a” ecc.), rispetto alla centralità assunta dall’adesso e dalle sue connotazioni (o meglio la separazione narrativa tra “periodi”) nella narrazione maschile.

    Una grande distanza tra i due universi narrativi di genere nelle nostre testimonianze è rispetto all’oggetto di valore perduto e a come sia andato perduto. Il discorso femminile è maggiormente centrato sulle “relazioni” come luogo ambiguo per eccellenza, di salvezza e di malattia, sulla “casa” come luogo del tradimento e dell’accompagnamento, l’aspirazione all’altro come realizzazione negata. Il discorso maschile è principalmente orientato sulla “mente”, sul “cervello”, sulla funzione mentale danneggiata, sul processo in ottica neurologica che si traduce in funzioni negate (la centralità del “lavoro” nei discorsi maschili è davvero evidente). La sofferenza ha cicli, spazi, andamenti circolari che impediscono agli uomini le occasioni giuste, i lavori giusti, le compagne giuste, la realtà giusta che «non prevede cicli ma solo corse in avanti», come dice un testimone.

    In tal senso l’approccio critico nei confronti della società e dei suoi valori (ad esempio sulla facilità con cui vengono stigmatizzate le persone sofferenti) trova universale collocazione ma diverse argomentazioni nei due universi: la lotta tra i sessi, la violenza maschile sulle donne, i modelli della performance e la menzogna borghese per le donne; la difficoltà di collocazione nel mondo del sani, la precarietà, l’impossibilità di fare ciò che si potrebbe fare perché non si è apprezzati per gli uomini.

    In generale l’analisi evidenzia un elemento prevedibile, la maggiore aspettativa degli uomini circa la normalizzazione, la collocazione sociale ad esso legata, la “restituzione” alle regole del gioco, che pure riguarda anche le donne ma in maniera differente, meno nei termini di posizione sociale ottenuta e più nei termini di “buone prestazioni relazionali”.

    Il titolo di studio
    Anche il titolo di studio pare influire sulla modalità di raccontare la propria esperienza di malattia, in particolare rispetto alla concettualizzazione della relazione tra individuo e ambiente circostante nel processo di “ammalamento”, se così lo possiamo chiamare. Da un lato, vi è l’allocazione esterna dell’incipit e del processo (quello che abbiamo chiamato “cause esogene”); dall’altro, una più sfumata incapacità di disgiungere l’esterno dall’interno, un linguaggio centrato sulle interazioni che porta ad attribuirsi parte della pre-disposizione e della natura del malessere (“cause endo-esogene”). Questa diversa allocazione delle responsabilità pare legarsi al modo di proiettare la fine del proprio viaggio verso l’alto o verso il basso, di vivere appunto la cronicità (la durata nel tempo delle crisi e le oscillazioni) come una strada che può condurre in alto (verso l’oggetto di valore smarrito con la sofferenza) o in basso (più lontano da esso).

    Potremmo parlare qui di “individualizzazione” più meno spinta della sofferenza mentale. Da un lato, vi sono le persone che hanno studiato più a lungo e che (in generale, tranne un caso) appartengono a famiglie della medio-alta borghesia friulana (nel nostro caso, il titolo di studio è – come spesso avviene – una buona proxi del ceto).

    Nelle loro narrazioni vi è un forte accento sulla natura circolare dei processi di sofferenza (individuati come ‘reazioni a reazioni’, tanto per intenderci, anche quando si tratta di processi che interessano il livello organico o il proprio cervello). Questo porta alla riflessione sulla società come realtà ammalante ma anche a una più concreta, sentita narrazione sulle proprie inclinazioni, debolezze. Una sorta di maggiore responsabilizzazione, insomma, a tratti colpevolizzante, che tuttavia pare avere come contraltare un maggiore dominio simbolico della sofferenza, una visione eroico-progressiva (la conoscenza della propria debolezza come via di salvezza). In tal senso, l’istituzione medica di stampo moderno (prevalenza di farmaci e omologazione dei percorsi) è qui osteggiata con lucidità, ritenuta grossolana nei suoi errori ecc., ma la voce del proprio psichiatra è invece fortemente interiorizzata (molti i discorsi che tendono ad attribuirsi un’expertise sia in chiave psico-analitica, più al femminile, o farmacologica, più al maschile). Che sia in chiave psico-relazionale, mistico-spirituale, bio-medica, la tensione alla “maturazione della verità” rende queste narrazioni molto auto-centrate: l’individuo è al centro, ha contribuito con le sue reazioni alle reazioni altrui, e oggi cerca sollievo alla sofferenza nella sua capacità di svelare questo ordine simbolico e relazionale, prima incassato inconsapevolmente. Più sfumata invece è la narrazione della propria collocazione ‘funzionale’ nel mondo, delle esperienze reali di contrapposizione, delle dinamiche di potere visibili, se così si può dire.

    Per quanto riguarda, invece, coloro che hanno un titolo di studio più basso, vi è una maggiore ricorrenza all’allocazione esterna delle responsabilità (le “eso-cause” sia in chiave organica che relazionale). Molto più diffusa è la lettura in chiave bio-medica, con la nozione stessa di “cervello”, di “dis-funzione”, di “trauma cranico”, eccetera. Queste storie sono più fortemente caratterizzate dalla “violenza”, “morte”, sciagure familiari indicate come incipit del male che sovrasta il singolo, con una idea forte di dipendenza del singolo dall’esterno (al destino prima, alla medicina poi). È più presente qui l’idea di restituzione, di ambìto ritorno al mondo dei normo-funzionali. Sono le narrazioni in cui l’oscillazione legata alle crisi è percepita come “fallimento” della cura (altra parola diffusa), come esclusione dalla promessa di normalità.

    L’iter psichiatrico e l’esposizione alla medicina
    Un altro elemento che pare incidere sulla narrazione della propria esperienza è il tipo di iter psichiatrico seguito: ricovero più o meno precoce nelle strutture psichiatriche, numero di cambi rispetto alla struttura (pochi o molti), la diagnosi (così come riferita ed auto-attribuita rispetto alla natura delle crisi). A questi aspetti (variabili) pare legato il modo di narrare la cura. Da un lato, tra coloro che sono giunti più maturi all’incontro con i servizi psichiatrici, appare una maggiore propensione ai racconti circa il proprio “dottore”, lo psichiatra inteso come “psico-analista”, in una relazione personalizzata che per quanto conflittuale è percepita come “scelta” (tutte parole più presenti) e sostenuta nel tempo. Queste narrazioni sono quelle in cui emerge più esplicitamente l’idea di una doppia psichiatria o meglio le narrazioni sul contrapporsi di diverse proposte psichiatriche percepite (almeno in parte) come contraddittorie nel tempo, giudicate secondo i propri valori (con riferimento all’ “umanità” dello psichiatra, al “rispetto” ecc.) prima che in termini di efficacia. L’età più avanzata al primo ricovero potrebbe corrispondere alla maggiore maturità o, se vogliamo, in qualche modo ad un’autorevolezza del soggetto (viene citata in modo minore l’interposizione dei parenti, ad esempio).

    Dall’altro lato, è maggiore il riferimento invece ai “centri_di_igiene”, all’istituzione di cura intesa come “mura” e come spazi fisici, con una maggiore centralità dei “farmaci”, cuore del discorso sulla cura.

    Tabella 1 Analisi delle Corrispondenze Multiple, associazione lemmi x variabili

    Facciamo ora un passo ulteriore nell’analisi. Per cogliere il modo in cui i singoli elementi narrativi sino ad ora mostrati si trovano realmente associati nelle singole narrazioni, abbiamo proceduto ad una analisi successiva, la Clusters Analysis [18].
    Attraverso questo iter siamo giunti ad isolare alcune tipologie o cluster narrativi) che abbiamo chiamato “profili”.

    - Profilo femminile con titolo di studio elevato.
    Narrazione eroico-ascendente: sublimazione del dolore come capacità di dominio sul non-senso e sulla superficialità dei saperi relazionali insiti nella società; quest narratives (narrative di un viaggio per la conquista del sé); cronicità come palestra dell’immaginario sul “bene” e sul “male”, come conquista di una consapevolezza e di un sapere psico-relazionale superiore;
    - Profilo maschile con titolo di studio alto.
    Narrazione eroico-ascendente: cronicità e andirivieni nelle crisi come percorso di dominio progressivo della mente legato all’avvicinamento a una verità superiore, piuttosto in chiave spirituale e di conoscenza tecno-scientifica;
    - Profilo maschile con titolo di studio medio-basso.
    Narrazione eroico-discendente o tragica: desiderio di restituzione al mondo dei sani, centralità del discorso sulla farmaco-terapia, speranza di normalizzazione funzionale, di ritorno alla funzione in senso sociale (come riconoscimento lavorativo, come socializzazione sessuale ‘normale’ e in realtà frustrata dal continuare delle crisi);
    - Profilo femminile con titolo di studio medio-basso.
    Narrazione anch’essa caratterizzata in senso tragico, ma differente a seconda che si faccia riferimento ad esperienze di ricovero adulto e legato a crisi depressive (vi è l’idea di una «resistenza tristissima alle ingiustizie» dice Lara e di un «tramonto delle forze») o di ricovero giovanile e crisi dissociative (compare l’idea di colpa e di punizione, vi è un maggiore caos narrativo e un ripetuto ricorso all’idea di perdita di sé come processo inarrestabile).

    Grafico 1 ACM, fattori 1-2, 3-2 sul piano x-y

    CLUSTER 1. QUEST-NARRATIVES E SUBLIMAZIONE AL FEMMINILE. CERCARE IL SENSO DELLA SOFFERENZA NELLE RELAZIONI UMANE «PRIMARIE» («quelle che arrivano per prime», dice una testimone) VIVENDO LUCIDAMENTE «LA RADICE PROFONDAMENTE AMBIVALENTE DELLE RELAZIONI»
    Donne con titolo di studio elevato. Maria, Maia, Margherita.

    Queste narrazioni sono le testimonianze più tipicamente caratterizzabili in termini di saga eroica progressiva o ascendente: le crisi si ripetono e la malattia è un lungo percorso tra cadute e ri-ascese (tipiche del profilo dell’eroe), e l’oggetto di valore (ciò a cui si tende, ciò che addomestica la sventura e la piega ad avere senso) viene apertamente argomentato nella forma dello «stare meglio nello stare male, nel male che gli uomini si fanno, che va capito e accettato, qualcuno per tutti» (sempre da Margherita). Il miglioramento è quindi inteso come capacità di comprensione delle relazioni, di auto-addomesticamento ad esse e di scelta. Vi è chiaramente un percorso di maturazione nel malessere legato alla capacità di dominarlo simbolicamente, di farne qualcosa di vivo e di utile per vedere e denunciare. In tal senso, il dominio del malessere non può essere farmacologico e individuale, ma deve essere interpersonale e psico-analitico (riferimento forte alla parola-terapia) così come interpersonali e di matrice interattiva sono le cause e i processi che hanno condotto alla malattia (qui più specificamente chiamata «sofferenza»). La propria connotazione è quindi nei termini di “resistenti al non-senso” e di resistenti al senso attribuito da altri alla propria sventura (si ambisce ad esprimersi per dare un contributo al sistema delle relazioni). Ciò che ha fatto ammalare queste donne, ai loro occhi, sta anche in loro, nell’incontro tra la loro particolarità (corpi fragili, sensibilità particolari, sviluppi troppo veloci) e il mondo che le circonda. Il mondo maschile, innanzitutto (ma più precisamente il maschile che c’è nel mondo e che spesso si abbatte su una donna attraverso le altre donne). Sono storie di donne molto esigenti con se stesse, che hanno affrontato la maternità, il lavoro, la performance, la bellezza in un momento storico in cui tutte queste cose venivano a cumularsi senza essere ripensate nel loro insieme, o meglio in cui le richieste venivano a cumularsi «senza essere messe in ordine di priorità». Ma soprattutto senza che questo ordine trovasse nuovi referenti con i quali essere costruito: appaiono figure maschili mute davanti al travaglio femminile, prive di parola, letteralmente (è la prima generazione a cui il proprio matrimonio appare come «non-relazione travestita», come dice Maria). Ma vi è anche l’emblematica presenza di figure femminili che si affollano intorno mandando segnali contrastanti sulla buona femminilità, estromettendosi a vicenda dal cuore della bambina, frustrandone il bisogno di chiarezza e di sincerità (pensiamo alla lotta tra le nonne e la madre di Margherita, al loro non essere chiare su quanto e cosa dovrebbe fare una donna, al loro silenzio e alle loro contraddizioni che preludono - secondo Margherita e Maia - alla dissociazione). In questi racconti vi è l’inedita pressione performativa di contesti socio-culturali in trasformazione che appaiono irrisolti: il passaggio da una borghesia agricola a una borghesia professionale di città; il passaggio da un uomo dichiaratamente autoritario a un uomo che esercita l’autorità in maniera indiretta ma radicale, attraverso disimpegni e assenze ritenute nuova normalità, percepite come silenzi senza appello.

    Grafico 2 ACM, fattori 1-2, 3-2 sul piano x-y

    Il meglio essere (la maggior salute mentale) non è qui in riferimento all’essere normo-dotate (il mondo normale sfugge qui alla descrizione) ma all’essere capaci di sapere, di verità, in modo simile a quanto vedremo nel Cluster maschile di coloro che hanno studiato e che sono stati psichiatrizzati da adulti. In questo caso, tuttavia, si tratta della verità sulle (proprie) relazioni e sugli scambi connotati dall’affetto, e non di verità più generali sul mondo, come nel caso maschile.

    Maia ad esempio racconta:
    «Riguardo ai miei precoci atteggiamenti depressivi, ricordo che quando ero bambina ogni tanto succedeva che tra mamma e figlia ci arrabbiassimo, ma nel momento in cui c’era tensione e baruffa fra me e lei mia mamma mi chiedeva di andare a darle un bacino e allora io quali alternative avevo? La richiesta del bacio per me poteva significare due cose: che la mamma aveva bisogno di essere rassicurata, oppure che lei era una buona mamma e che io non ero arrabbiata con lei. Il problema era che io in quel momento ero ar-rabbiata con lei e allora cosa potevo fare? Darle il bacino era falso perché in quel momento avrei fatto qualunque cosa tranne quella perché ero incavolata, ma negare un bacino alla mamma che me lo chiede voleva dire essere cattiva, e io non volevo neanche essere cattiva, per cui non avevo nessuna possibilità di fare una cosa che mi sembrasse giusta. E allora qual era la soluzione che mi davo io? Sono sbagliata, sarebbe meglio che sparissi dalla faccia della terra perché non voglio essere né cattiva né falsa e questo è un ragionamento da depressi doc, secondo me, perché non ci si può accollare il delitto di esistere e non si riesce a guardare gli altri con occhio critico. Anche mia sorella si arrabbiava con mia mamma, ma reagiva in un altro modo. Dire: io non sono come dovrei essere perciò è meglio che sparisca, è proprio secondo me abbastanza caratteristico di questo tipo di sofferenza mentale».

    In questa sorta di quest narratives, potremmo parlare di sublimazione della sofferenza psichica intesa come un travaglio simbolico per dare cittadinanza al “negativo” insito nelle relazioni umane.

    Susan Sontag - parlando delle metafore e più in generale delle narrazioni collettive sulla follia nell’epoca contemporanea - ipotizza che quest’ultima abbia ereditato le rappresentazioni con cui nell’800 si trattava la tubercolosi (malattia che svolgeva una simile funzione di contenimento simbolico di coloro che non riuscivano a stare al passo con la vitalità-velocità dei nuovi tempi e del capitalismo nascente). La Sontag parla di «rappresentazioni romantiche» in merito a queste due forme di malattia, follia e tubercolosi: condizioni «repellenti e tormentose che diventano indice di sensibilità superiore e veicolo di sentimenti spirituali e di malcontento critico» (1979, p. 35) [19]. In tal senso, lei dice, sono in realtà presentate come persone isolate e repellenti nel loro «sperpero di vitalità non indirizzabile all’investimento» su di sé e sulle cose, all’accumulo, al lavoro e al consumo (la Sontag parla espressamente di contrarietà dell’homo economicus). La stessa comunità capirebbe la natura sociale di questa emarginazione, la natura morale sottese a queste categorizzazioni della malattia, e reagirebbe culturalmente facendone nel pensiero comune (e soprattutto nel pensiero comune dei ceti più elevati) forme idealizzate di resistenza spirituale ai tempi.

    Rispetto alle nostre testimonianze, pur trovando una certa concordanza nell’interpretazione della Sontag, noto qualcosa di diverso: queste donne non presentano un’immagine di sé esterna alle brutture dell’ambiente che le circonda, non si pongono come natura diversa rispetto alla natura dei tempi. Non fanno astrazione romantica di sé, quanto piuttosto compartecipano al negativo (raccontano di desiderare cose sbagliate, di essere state bambine ultra esigenti, di avere impulsi violenti, eccetera). Insomma è l’idea di essere immerse come gli altri in una matrice di relazioni violente che viene solitamente negata e che per questo diviene soffocante. L’accento è qui sulla volontà di capire: ciò che si può arrivare a vedere è orribile ma in nome di ciò che si vede nuovamente si accede a una forma di libertà, a una forma di vita liberata e per questo più generosa (penso ai brani di Margherita o di Maia sul perdono dei propri genitori, ad esempio).

    In ogni caso, questo soggetto narrante si carica del peso di dare senso al male a cui lui stesso partecipa e lo colloca nel cuore delle relazioni affettive più vere (tra sé e i propri figli ad esempio) perché si possa parlare “veramente” di vita buona. È un soggetto ultra esigente il cui principale nemico è se stesso, che raramente si lascia andare a “racconti contro” (il tal medico o il tal parente, ad esempio). Se parla male dei medici è sempre in generale, in termini astratti di medicina. In tal senso, sono donne critiche ma anche molto disciplinate. Lo psichiatra è interiorizzato, e la propria emancipazione dalla medicina si compie con la piena partecipazione ai suoi criteri dello studio di sé e dell’analisi, secondo appunto categorie psicopatologiche.

    La dimensione eroico-ascendente è una dimensione che in queste narrazioni pare essere più diffusa rispetto ad altre indagini su forme così severe di malattia mentale (già citato nelle note: Cardano). In tal senso, come emerge specificamente dalle parole di queste donne, Trieste si mostra come contesto particolare di scambio, come luogo in cui i centri territoriali paiono essere giudicati positivamente (nell’insieme) e nel quale la parola del malato pare occupare un posto relativamente importante nell’approccio istituzionale alla sofferenza. E tuttavia, questa percezione pare significativamente legata al ceto della persona sofferente (si veda il cluster delle donne con titolo di studio più basso).

    CLUSTER 2. QUEST-NARRATIVES AL MASCHILE. LA TENSIONE TRA VERITA’ E VIVIBILITA’. LA «CONOSCENZA PESANTE» COME DOVERE.
    Uomini con titolo di studio elevato. Luca, Alberto.

    Il discorso complessivo sulla sofferenza mentale in alcune esperienze maschili prende una forma simile al caso precedente eppure con qualche differenza.

    Il caso di Luca ci permette di entrare nel discorso. La sua storia incomincia con la narrazione di un andirivieni tra luoghi (Londra-Trieste, Trieste-Londra) che sarà poi centrale nella trama narrativa. Luca viaggia, studia, lavora, ma non trova un posto dove collocarsi nonostante lo sforzo. Il senso del suo “movimento” non si chiarisce nel tempo e, anzi, proprio quando la sua mente gli pare funzionare a pieno ritmo («Ero al massimo in quel periodo, facevo benissimo matematica, avevo imparato l’inglese»), le disconferme rispetto alla sua capacità di capire e di collocarsi aumentano, aumenta lo spaesamento e la sensazione di non saper interpretare la complessità del mondo circostante («Sentivo che tutto capitava per caso ma che il caso a Londra era impossibile. Il caso era perfetto e casuale», «Non capivo se lei voleva e non voleva e magari tutte e due le cose», «Più io parlavo inglese più l’inglese si complicava davanti a me» ecc.). E’ la narrazione di una crescente consapevolezza sulla complessità del mondo e sulla propria incapacità di «leggere i giusti collegamenti» che introduce la crisi dissociativa (intesa proprio come sottrazione al modo comune di pensare nel tentativo di cogliere meglio i significati, le trame invisibili). Il «muoversi delle nuvole proprio alla stessa velocità della musica», il trovarsi di una persona in un dato luogo, le mille notizie sui giornali e la relazione tra esse, tutto rientra per Luca in uno sforzo accresciuto di «ragionarci continuamente su», di ragionare senza però riuscire a sciogliere il dubbio, a collocare la propria intelligenza. Luca racconta molto a lungo ad esempio degli atteggiamenti della ragazza che desidera, complessi e oscillanti oltre misura, ecc.

    Questo modo di narrare la schizofrenia tematizza un conflitto individuo-società: un uomo che si ritrova costretto in prestazioni sociali senza più elevate poter sentire questo mondo come patria, estraneo al mondo reale nonostante tenti ragionevolmente di entrarvi, respinto in un mondo totalmente privato che l’oggettività non riesce a scalfire. Luca, in modo contrario rispetto alle narrazioni femminili, si pone come testimone dei suoi tempi, dai quali prende le distanze per «eccesso di zelo». L’esperienza del malessere mentale è quindi narrata come pensiero super-presente a se stesso, super-potente «tanto da deformare la mente» (l’accezione di follia come sforzo di iper-collegamento, di ultra-comprensione della realtà circostante). I primi sintomi della crisi disso-ciativa (quel pomeriggio in cui Luca vede per la prima volta le nuvole muoversi con i suoi pensieri) sono letti come conseguenza di questa capacità superlogica, l’esplosione della crisi è l’esplosione della ragione che si è troppo impegnata (negli studi, nei viaggi, eccetera).

    In quel momento, il soggetto avverte un universo che non domina, un universo che diviene una verità pericolosa, spesso apocalittica. È sommerso dalla paura per le verità (le nuove connessioni tra i frammenti del reale), eppure resta nel mondo, ne sente coscienza e dai racconti pare che tale coscienza resti sempre presente (l’impressione che «ci sia sempre anche la realtà di prima»). Il richiamo a una nuova comprensione non è più, quindi, alle relazioni di prossimità - come nel caso delle narrazioni femminili prima presentate - ma al mondo, alla verità sui sistemi di potere o, come nel caso di Alberto, su «Dio che torna ad essere visibile». L’uomo e la sua limitata capacità di «portare il vero» sono il peso schiacciante, la matrice della sofferenza.

    In tal senso, anche la narrazione di Alberto è esemplare. Per lui stare nel mondo «è una prova», finalizzata a raccogliere le tracce del creatore tramite strumenti nuovi e diversi (per esempio, l’auto-ipnosi). Il delirio mistico appare come problema non di natura qualitativa ma quantitativa («non devo esagerare ma voglio vedere»). Per tornare alla rappresentazione della malattia come conflitto, qui riaffiora un sistema di asserzioni che potremmo definire come “orizzonte magico”. Alberto ci mostra che la religione può essere considerata oggetto di credenza delirante nella misura in cui la cultura del gruppo non permette più di assimilare le credenze religiose o mistiche ai contenuti della propria quotidiana esperienza. A questo conflitto e all’esigenza di superarlo appartengono le esperienze allucinatorie che restaurano nell’universo della follia quell’unità fortemente ambita (quella tensione tra verità e quotidianità), che si percepisce come lacerata. Qui è più centrale rispetto alle donne la questione della propria collocazione, l’idea di essere inciampati proprio perché si voleva contribuire, trovare lo spazio di azione, «avere la propria occasione nel mondo del lavoro». E qui entra più forte la riflessione sugli altri uomini: come dice Luca «per me ha senso raccontare la verità come un piccolo uomo che vede le cose più amplificate rispetto a un altro più posato».

    CLUSTER 3. LA VISIONE TRAGICA: LA SVENTURA COME DESTINO E LA REMISSIVITA’ COME COLPA.
    Donne con titolo studio basso e psichiatrizzazione in età giovanile. Elisabetta, Sara, Lara, Caterina.

    Vi è poi un terzo gruppo di narrazioni molto differenti da quelle precedentemente viste, quelle delle donne con titolo di studio basso e ricovero in età precoce. Anche in questo caso la propria malattia pare destinata a durare (non ci si proietta nella guarigione intesa come scomparsa della sofferenza e delle crisi) ma la resistenza a questo continuo ripresentarsi del dolore appare stanca, stentata, maggiormente destinata alla resa. La rappresentazione complessiva è quella di un percorso caratterizzato da brevi pause di maggior benessere e ricadute dovute non solo alla malattia ma a nuove sciagure esterne (la forma narrativa è quella di una catena di lutti, di incontri con uomini violenti ad esempio, ivi comprese le figure della cura e gli psichiatri), alle quali la testimone cerca di reagire e, reagendo, sbaglia («una storia dove per sfuggire ci si ficca nei guai da sole e si va nel torto, insomma»). In tal senso, queste sono le narrazioni più tragiche, intese tecnicamente come narrazioni di una spesa inutile di forze da parte di chi narra. Vi è certo una maggiore idea di “cause esterne” (di traumi alla base della malattia, legati all’ambiente familiare, ai contatti traumatici con l’esterno), spesso leggibili in chiave di contrapposizione tra dominio maschile violento e difficile collocazione di un soggetto femminile (che fugge, che esce di casa, che gestisce la propria sessualità in maniera eccessiva). La malattia è conseguenza di una violenza rifuggita, di sventure rifiutate alle quali sono seguiti errori e altre sventure. Il cammino si è fatto pesante e spesso domina la narrazione di una “chiusura” e di una “rinuncia” (di un «graduale calare delle forze» vitali). La persona si sente esposta al male - inteso prevalentemente in chiave sociale, ma anche in chiave di sventura casuale come lo è la morte accidentale e prematura dei cari - che mette le radici in forma di malattia, e in tal senso l’allocazione delle responsabilità è prevalentemente all’esterno (la violenza è narrata più chiaramente come esito della contrapposizione tra gruppi, generi, ceti sociali, e il soggetto ne è maggiormente vittima). Queste donne sentono uno stigma forte ma non trovano luoghi buoni per rifugiarsi. Considerano più spesso la psichiatria come fallimento (la non guarigione) e come spazio della violenza (intesa come «prove fallite», dei «medicinali inadeguati» ma anche «chiusura alla comunicazione»).

    Eppure, la tragicità di questi lunghi percorsi di malattia sta proprio nel fatto di non trovare le forme di emancipazione alla quale invece pensano di dover ambire (sono molto numerosi i richiami alla propria debolezza nello scegliere male gli uomini, ad esempio). In tal senso sono narrazioni in cui le donne sentono la malattia come ingiustizia, come causa esogena e come «colpo assestato dall’esterno», ma si colpevolizzano per il modo poco disciplinato e poco vitale, poco auto-imprenditoriale con il quale hanno affrontato tale destino (per tornare al tema culturale del soggetto e della sua incapacità di muoversi rispondendo alle pressioni ad una “buona performance”).

    Nella vita raccontata da Sara la morte ritorna, la violenza ritorna. La malattia segue le sventure, è sventura tra le altre:

    «E allora è così, io dovrò sempre subire. Sono schedata perché le depressioni, gli attacchi di panico, le ansie ce li hanno i grandi signori, gli attori, la gente bene. Loro non sono pazzi, sei tu che non sei niente ad essere considerato pazzo, gravemente malato, e altre parole molto più grosse di così.» (Sara).

    Nel racconto di Sara sono molti i passaggi circa la scomparsa del padre come «fine della realtà accettabile», e la sua vita appare come «perpetuarsi di questa delusione». Il conflitto che fa da sfondo alla narrazione pare porsi tra gli adulti e lei bambina: racconta del suo radicamento in un sogno di infanzia interrotto, al quale subentra la vita adulta (o meglio la vita adulta al femminile) come esposizione alla brutalità senza protezioni. Effettivamente, il titolo di studio relativamente basso e l’appartenenza a famiglie numerose e più problematiche sembrano aumentare questo senso di abbandono nel male, questo salto incolmabile tra il «rifugio agognato» e il mare aperto nel quale ci si sente. Eppure, è una condizione dalla quale si denunciano più chiaramente le dimensioni dei conflitti nelle quali le donne vivono immerse: la violenza e il ricatto maschile in relazioni in cui si dipende economicamente dall’altro, la solitudine delle proprie madri, la violenza esercitata dallo psichiatra-uomo, eccetera.

    Anche Caterina rientra, come Elisabetta ed Eleonora, in questo Cluster (gruppo) di narrazioni. La sua testimonianza è particolarmente interessante per quello che riguarda il discorso sulla psichiatria, per la quale lei è giunta «a provare nel tempo una vera avversione». In lei è centrale la questione dei farmaci, di quello che percepisce come inganno di una cura che non è affatto certa, che le appare infine casuale, a tentativi, fonte di sofferenze aggiuntive, troppo grandi appunto perché «taciute, non spiegate mai prima» (parla molto delle controindicazioni dei farmaci ad esempio). Queste sono narrazioni in cui vi è molto più spazio per i passaggi tra diversi centri e diversi psichiatri, sulla mancanza di continuità e coordinamento tra strutture, sull’idea di una scienza «disordinata, legata al caso» e colpevole di troppo sbagliare senza dirlo.

    CLUSTER 4. LA RESTITUZIONE AL MONDO DEI NORMALI E IL DESIDERIO FRUSTRATO DI UNA DEGNA FUNZIONE. «L’ODIOSA NATURA DEL MALATO» E L’IMPRODUTTIVITA’ COME COLPA.
    LE POTENTI NEUROSCIENZE E LE TRAGICHE DISILLUSIONI.
    Uomini con titolo studio basso e psichiatrizzazione in età giovanile. Roberto, Carlo, Davide, Fabio.

    Quest’ultimo tipo di narrazioni è quello più marcatamente caratterizzato da una visione della malattia come «disfunzione organica». L’allocazione delle responsabilità è solitamente legata a nozioni che potremmo definire di importazione dal linguaggio neuro-scientifico. Il cervello, la mente e le sue esplosioni, l’adrenalina e i flussi ormonali sono concetti che servono a narrare una «personalità in balia del corpo». Al centro delle narrazioni vi è il tentativo di riappropriarsene grazie alla farmacologia. In maniera abbastanza evidente, dunque, potremmo qui parlare di aspirazione «normalità», concetto qui molto più presente, intesa come collocazione nel mondo dei lavoratori, delle persone autosufficienti dal punto di vista economico, e sopratutto «competenti», capaci di specifica funzione (nel racconto di Carlo vi è una ridondanza particolare sulle doti tecniche da cuoco ad esempio).

    In tal senso, il punto di vista della società esterna sembra essere acquisito,gli altri utenti del servizio psichiatrico appaiono agli occhi di questi testimoni come persone piuttosto «false» o «fannulloni», e i riferimenti all’amicizia sono essenzialmente diretti agli infermieri, citati molto più che nelle altre narrazioni. Il malato mentale è un dis-adatto che cerca di adattarsi e rimprovera chi non si adatta. Le riflessioni sulle proprie relazioni di prossimità sono molto meno importanti rispetto alle narrazioni precedenti, mentre prendono grande spazio le riflessioni sul lavoro e sulla quotidianità interrotta. Il tal senso, questo soggetto si concepisce nei termini di ego fungens, vale a dire trae legittimazione dalla propria funzione sociale codificata in forma di lavoro salariato (a cui viene associata sempre, ad esempio, la possibilità di avere le donne), e trae senso di colpa dal non riuscire a svolgerlo. In questo caso, la collocazione esterna delle cause (di tipo organico) e della responsabilità rispetto alla malattia pare agire come fuga dal peso dell’improduttività, come dispositivo di discolpa. La medicina pare svolgere il ruolo di contenere questo tipo di disperazione, di cogliere il desiderio di tornare tra gli altri e come prima (emblematico il fastidio ricorrente per i propri compagni di sventura che non prendono le medicine). La pressione verso la “funzione produttiva” pare qui socialmente e culturalmente molto forte, come era forse comprensibile per uomini di ceto medio-basso.

    Infine, la medicina, in queste narrazioni, è massimamente responsabilizzata nei termini di normalizzazione (corporea e perciò - poi - sociale). Il fatto di essere entrati in contatto in giovane età con le strutture psichiatriche e di averne girate molte non sembra qui di per sé negativo, come invece nel caso precedente delle donne, poiché appunto ci si affida al farmaco più che allo psichiatra. E tuttavia la disillusione verso la “mancata guarigione” è a tratti molto forte e molto cocente.

    Infine, le forme espressive della sofferenza mentale di cui rendiamo conto contengono al loro interno coordinate socio-culturali (grandi temi culturali) rispetto ai quali la nostra epoca ‘stressa’ i soggetti e li scuote diversamente a seconda della collocazione biografica (il genere ecc.), sociale (il titolo di studio ecc.). Nel caso delle nostre narrazioni, possiamo individuare l’evocazione trasversale di alcune “forze agenti”:
    la relazione di coppia e la questione di una emancipazione femminile sospesa e ambivalente;
    la “funzione sociale” dell’individuo in un’epoca di mutamento dei sistemi produttivi (la precarietà dell’operaio e la difficile prestazione maschile);
    la “performanza sociale” (la prestanza) percepita come obbligatoria nei contesti di investimento sulla formazione dei singoli ma impossibile poi nel mondo fattosi vasto («quanta gente brava c’era a Londra!» dice Luca);
    il conflitto tra linguaggi dell’istituzione psichiatrica (a volte coercitivi) e quelli emergenti del diritto individuale del malato, dell’informazione, della scelta terapeutica;
    la promessa di guarigione insita nel farmaco e la disillusione che ne deriva.

    Queste questioni appaiono in maniera trasversale e fanno da sfondo a tutte le narrazioni sulla sofferenza, ma risultano diversamente significate e diversamente associate tra loro dai testimoni a seconda della loro formazione e del loro iter psichiatrico, mettendo in evidenza diverse strategie di (auto) controllo e di (auto) medicalizzazione.

    Note

    1] Paradossalmente, il problema degli utenti psichiatrici di lunga data è che loro hanno masticato tantissima “narrazione” proprio poiché le parole sono state a lungo gli unici strumenti professionali che la medicina psichiatrica potesse usare per “definire” il problema, tanto nei termini di “cause” quanto nei termini di “sintomi”, al contrario di quasi tutte le altre discipline mediche centrate sulla osservazione “strumentalizzata” del corpo. Questo costituisce appunto una delle differenze ontologiche della psichiatria (sebbene oggi le neuroscienze, il brain imaging ecc. ambiscano nei fatti a ridurre tale differenza).
    2] Fabietti U. (a cura di) (1998), Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell’identità, Carocci, Roma.
    3] “Campionamento ragionato” e “corretto” sono espressioni in parte improprie nel nostro caso, così caratterizzato dalla disponibilità o meno delle persone a partecipare che ha operato certamente una “autoselezione” del campione. Tuttavia tali espressioni sono consentite dall’dea di controllo operato su variabili significative come genere e titolo di studio (fare in modo che vi fossero tanti uomini quante donne, tanti laureati quante persone con il diploma di terza media, ecc.).
    4] Non mi dilungherò sugli aspetti metodologici che caratterizzano le indagini qualitative “ancorate” ai dati - “grounded” appunto -, sul criterio di abduttività (circolarità tra ipotesi e informazioni raccolte) e sui procedimenti di saturazione delle ipotesi nel corso dell’indagine. Per la definizione di questi concetti rimando a Silverman D. (2002), Come fare ricerca qualitativa. Una guida pratica, Carocci, Roma, dove questi riferimenti teorici sono chiaramente esposti, come d’altra parte in molti altri testi sulla ricerca qualitativa.
    5] Sull’idea dell’intervista come “con-testo”, vale a dire come situazione (potremmo dire quasi “setting”) all’interno del quale si stabiliscono gradualmente, per adattamento reciproco, i contenuti e le “narrazioni condivisibili”, rimando in particolare modo all’interessante approccio di Lutter nella presentazione dei così detti “cultural studies” in Lutter C., Reisenleitner M. (2004), Cultural Studies, Un’introduzione (versione italiana a cura di M. Cometa), B. Mondadori, Milano.
    6] Rimando al saggio “E’ mia la tua follia” contenuto nell’opera Come stai in famiglia, a cura di Alessandro Bosi (2008), Battei editore, Parma, ho condotto un’analisi più puntuale della conversazione tra me e i miei intervistati (anch’essi nell’ambito di una indagine sui servizi psichiatrici visti dagli utenti), soffermandomi più specificamente sulle modalità con cui veniva indirizzata la narrazione al di là delle domande esplicite (incoraggiamenti, battute, soste, chiarimenti ecc.).
    7] Per comprendere meglio la relazione tra malattia, narrazione biografica e rielaborazione dei punti di rottura o di discontinuità esistenziale, rimando certo a Bonica L., Cardano M. (a cura di) (2008), Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico, Il Mulino, e in particolare a Il male mentale. Distruzione e ricostruzione del sé di Cardano, ma anche più specificamente rispetto alle illness narratives, ai vecchi lavori di Bury, Frank, Good e altri, numerosi già a partire dagli anni ’80: Bury, 1982, Chronical illness as biographical disruption, in Sociology of Health and Illness, 4, 167-82.; Frank, A.W. (1993) The rhetoric of self-change: illness experience as narrative. The Sociological Quarterly, 34, 39-52; Frank, A.W. (1994) Reclaiming an orphan genre: the first-person narrative of illness. Literature and Medicine, 13, 1-21; (vers, it.) Good J. B. (1999), Narrare la malattia, Edizioni Comunità, ecc.
    8] Si veda Greimas (1998) citato da Cardano M. (2007), «E poi cominciai a sentire le voci...». Narrazioni del male mentale, in Rassegna Italiana di Sociologia, anno XLVIII, num.1, pp. 9-56.
    9] Si veda Frank, A.W. (1995) The Wounded Storyteller. Body, Illness, and Ethics. Chicago University Press, e saggi successivi.
    10] Ci si può rifare ai primi schemi degli anni ’90, si pensi a Twattel (1994) Disease, Illness and Sickness: Three Central Concept in the Theory of Health, in Studies in Health and Society, n. 18 pp.1-18, ma anche alle più recenti elaborazioni dei diversi “domini semantici” che illuminano gli universi di significato del concetto stesso di “malattia” come in Cipolla C., Maturo A. (2009), a cura di, Con gli occhi del paziente. Una ricerca nazionale sui vissuti di cura dei pazienti oncologici, Franco Angeli, Milano ecc.
    11] È importante sottolineare, anche se va da sé per chi si occupa di “narrazioni”, che ai nostri occhi si è sempre trattato di pratiche discorsive che non arrivano a definire fatti (passati e presenti) o condizioni oggettive (passate e presenti). Si tratta di espressioni negoziali, di ricostruzioni identitarie rivolte all’idea di Altro (alla ricercatrice “sana di mente e magari progressista” o alla ricercatrice “che forse cerca di capire se i medici sono stati la mia rovina o la mia salvezza..” come mi hanno detto le mie testimoni scherzando, ma intanto chiarendo perfettamente quello che loro consideravano come “dispositivi interattivo” della nostra comunicazione). La narrazione non raccoglie una traiettoria già data ma la ri-crea, come da tantissimi autori ormai sottolineato, la rende possibile perché la espone ad uno spazio comune (esplicita ciò che è dicibile nello spazio tra il narratore e l’ascoltatore). E infine la narrazione in prima persona sulla sofferenza mentale non è considerabile come narrazione “interna” (come se parlasse l’esperienza) o “esterna” (come se ci si staccasse dal passato e si parlasse della esperienza).
    12] Rimando ad esempio a Olagnero M. (2004) Vite nel tempo. La ricerca biografica in sociologia, Roma, Carocci.
    13] Questo ambito è davvero particolare anche perché non è da intendere solo come narrative about illness ma anche come narrative as illness, come sottolinea bene nella sua “ripartizione tipologica” Hyden L. C. (1997), Illness and Narrative, in Sociology of Health Review alludendo a quelle malattie caratterizzate proprio da una particolare predisposizione al tempo biografico. Ci tengo a sottolineare, se pur brevemente, che con la nostra indagine non intendevamo occuparci di questo aspetto, e che le narrazioni biografiche raccolte non sono narrazioni “caotiche”, per citare un’altra categoria analitica.
    14] Si veda Hyden, L.C.(1995) In search of an ending. Narrative reconstruction as a moral quest, in Journal of Narrative and Life History, 5, 67-84.
    15] Queste categorie riprendono una lunga discussione sul racconto della malattia come racconto epico, per la quale rimando a Gergen (1994), Realities and Relationship, Cambridge, Harvard University Press, già citato in Cardano (2007) op. cit. – e ad una più vasta serie di autori che in realtà si rifanno a più vecchi lavori (si veda Frye e le sue strutture narrative biografiche).
    16] Uno degli aspetti maggiormente degni di attenzione riguarda, a mio avviso, la capacità di rendere in “metafora” la sofferenza mentale esperita attraverso altri tipi di sofferenza, vale a dire di tradurre l’esperienza della dissociazione, piuttosto che dell’angoscia, nel registro di altri dolori comuni o immaginati come tali. In questi passaggi narrativi lo sforzo è quello di mettere in comune un dolore acuto alludendo a una forma della sofferenza che si pensa vissuta da tutti (e quindi alludendo al fatto che la sofferenza è comunemente umana, che tutti provano condizioni di lutto, o emarginazione, o diversa-abilità, che se richiamate possono fare luce sulla sofferenza psichica). La strategia narrativa principalmente adottata quindi non è quella di spiegare realisticamente i dettagli di alcune condizioni o esperienze (pur se a volte anche questo accade e lo abbiamo visto) ma di evocare l’alfabeto condiviso della dimensione emotiva («essere svegli nella notte mentre gli altri dormono», «parlare una lingua sconosciuta agli altri», eccetera). Su questo rimando alla monografia Pellegrino V. (2012), Sofferenza, caos e sublimazione nelle parole dei pazienti psichiatrici (titolo da confermare), UTET, in uscita.
    17] Ricordo qui che, in tale analisi, u’associazione non si riferisce immediatamente alle narrazioni nel loro insieme, ma ai tratti di narrazione, ai contesti elementari di analisi in cui sono divise le interviste e che si riferiscono ai singoli concetti espressi. Le parole - o meglio i “lemmi” che possono rimandare anche a concetti (parole associate) - sono le variabili attive nell’analisi nella modalità presenti/assenti; le caratteristiche individuali (genere, titolo di studio, eccetera) fungono da variabili illustrative.
    18] L’analisi tematica dei contesti elementari che TLAB esegue come Analisi dei Clusters è una analisi multivariata che consente di costruire ed esplorare una rappresentazione dei contenuti del corpus attraverso i cluster tematici (minimo 3, massimo 50), ciascuno dei quali: a) risulta costituito da un insieme di contesti elementari (frasi, paragrafi o testi brevi quali risposte a domande aperte) caratterizzati dagli stessi pattern di parole chiave; b) è descritto attraverso le unità lessicali (parole, lemmi o categorie) e le variabili (se presenti) che piú caratterizzano i contesti elementari da cui è composto. Per molti versi, si può affermare che il risultato dell’analisi propone una mappatura delle isotopie (iso = uguale; topoi = luoghi) intese come temi “generali” o “specifici” caratterizzati dalla co-occorrenza di tratti semantici (si veda Rastier, 2002 in Lancia (2004), Strumenti per l’analisi dei testi, Franco Angeli, Milano). In tal senso la Cluster Analysis rappresenta un passo successivo alla ACM: ogni cluster è caratterizzato da insiemi di unità lessicali che condividono gli stessi contesti di riferimento, e ciò consente di ricostruire “un filo” del discorso all’interno della trama complessiva costituita dal corpus.
    19] Si veda Sontag S. (1979), Malattia come metafora. Aids e cancro, Einaudi, Torino.



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