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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    ASCOLTARE, TRADURRE, RICOSTRUIRE E RACCONTARE STORIE SU ‘PRESUNTI ERRORI MEDICI’: LE ABILITÀ DEI CONSULENTI DEL TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO


    Barbara Pentimalli

    pentimab@hotmail.it
    Docente a contratto, ricercatrice a progetto e membro del gruppo RiSOrSa (Ricerca Sociale, Organizzazione e Rischio in Sanità) al Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Sapienza di Roma. Si interessa di apprendimento organizzativo, di costruzione sociale del sapere pratico in contesti tecnologicamente densi nel settore sociale e sanitario, privilegiando le metodologie etnografiche, l’approccio narrativo e la prospettiva dei Workplace studies e dei Science and Technology Studies.

    Introduzione

    Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse dei ricercatori sociali nei confronti della moltitudine e dell’eterogeneità delle narrazioni che circolano all’interno delle organizzazioni (Czarniawska, 1997a, 1997b, 2004; Gabriel, 1998, 2000; Boje, 1991, 1995, 2000; Weick, 1995; Jedlowski, 2000) tanto da parlare di una vera e propria “svolta narrativa” nel campo delle scienze sociali (Poggio, 2004: 91). Tale interesse per le pratiche narrative e discorsive nei luoghi di lavoro riposa sulla convinzione che, attraverso la raccolta e l’analisi delle diverse forme e modalità di narrare l’organizzazione, si possano far emergere le voci e le interpretazioni degli attori così come i modi in cui producono una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà (Poggio, 2004: 91). Inoltre tali narrazioni sono “storie che organizzano” (Czarniawska, Gagliardi, 2003), che assicurano l’apprendimento e permettono di costruire, trasmettere e condividere la cultura, le conoscenze e le competenze professionali del mestiere (Orr, 1990, 1996; Gherardi e Nicolini, 2001, 2004).

    Durante la ricerca etnografica [1], che sto ancora conducendo al Tribunale per i Diritti del Malato, mi sono fin dall’inizio resa conto dell’importanza rivestita dalle narrazioni e, adottando la postura dell’antropologo del linguaggio (Duranti, 2005), ho raccolto dal vivo, nel loro contesto di produzione, la pluralità delle storie raccontate all’interno dell’organizzazione. Una delle mission istituzionali del TdM nazionale, che si ramifica su tutto il paese con le sue sedi regionali e locali (alcune situate negli ospedali), munito di una Centrale di Ascolto (front office) e di un’Area medico-legale (back office), consiste nel raccogliere le storie dei cittadini su presunti errori medici, fornendo un parere medico-legale gratuito sull’eventualità di intraprendere un’azione legale per ottenere il risarcimento del danno subito [2]. Il Tdm è un’organizzazione connotata da una forte dimensione narrativa: il lavoro dei consulenti del front office e del back office poggia sulla raccolta, la traduzione, la codifica e l’interpretazione delle storie raccontate dai cittadini o da medici ed infermieri nei loro resoconti riportati in cartella clinica che, in caso di presunto errore medico, verranno affiancate le une con le altre al fine di stabilire quale sia la più plausibile e supportata da prove cliniche (lastre, referti).

    L’affiancamento dei consulenti della Centrale di Ascolto del TdM, mi ha permesso di annotare sul taccuino i frammenti dei racconti su presunti errori medici narrati al telefono dai cittadini [3], cogliendo le abilità dei consulenti-destinatari nell’esibire un ascolto attento e comprensivo e nel guidare e collaborare con i cittadini alla ricostruzione congiunta di un racconto coerente e sequenziale. Ho inoltre incoraggiato, anche solo con la mia presenza accanto ai consulenti, la produzione di racconti e commenti sulla storia narrata dal cittadino e ho colto le loro abilità nel riassumere e tradurre il racconto orale, confuso ed emotivo del cittadino, in una storia scritta, coincisa, logica e sequenziale, il cui contenuto era trascritto sul mio taccuino. La mia ricerca si è anche svolta nel back office della centrale di ascolto per osservare le modalità discorsive e argomentative con le quali si svolge la consulenza medico-legale che richiede agli esperti abilità interpretative e investigative per stabilire quale, tra la versione del cittadino e quella del medico e/o degli infermieri su di uno stesso evento avverso, sia la più plausibile e dimostrabile perché supportata da lastre e referti clinici.

    Mentre osservavo e annotavo le pratiche discorsive tra i colleghi della Centrale di Ascolto, che lavorano fianco a fianco in un ufficio open space, ho anche scoperto la dimensione collaborativa delle loro attività (Goodwin, 1995) che li accomuna ai centri di coordinamento studiati dai Workplace Studies (Heath et al, 2000) e ho soprattutto raccolto un “repertorio” di storie che circolano tra colleghi (Orr, 1990) scoprendo il loro ruolo essenziale per la costruzione e l’apprendimento della cultura, dell’etica e delle competenze del mestiere (Gherardi e Nicolini, 2001). Tali pratiche narrative, pur assumendo la forma di “chiacchiere” tra colleghi, non vanno considerate come pratiche conviviali che distraggono dall’impegno lavorativo (Stucky 1994; Teiger, 1995). Esse costituiscono un canale di trasmissione della conoscenza (Czarniawska, 1997), consentono di costruire e veicolare il sapere tacito del mestiere (Polanyi, 1958), di categorizzare e dare senso agli eventi per prendere decisioni, diagnosticare e risolvere i problemi posti dai cittadini. Forniscono informazioni essenziali per la partecipazione alla vita organizzativa, permettono di negoziare, condividere e tramandare i modi appropriati di lavorare e di collaborare, alla base della socializzazione e dell’apprendimento organizzativo (Gabriel 1988; Cortese, 1999; Orr, 1990; 1996; Poggio, 2004, Gherardi e Nicolini, 2001). Le storie ricostruiscono giorno per giorno una équipe solidale, collaborativa ed esperta e i narratori mediante le storie ribadiscono e confermano la loro appartenenza all’équipe. Come dice Jedlowski (2000), non sapere le storie del gruppo implica esserne esclusi.

    La molteplicità e la polifonia delle storie raccolte, che svelano la presenza di più narratori e versioni discordanti su come si sono svolti gli eventi, si notano già nella diversità tra la storia orale su presunti errori medici, raccontata al telefono dal cittadino che coinvolge diversi personaggi (medici, infermieri) responsabili o meno dell’evento avverso, e la storia sintetizzata e scritta dal consulente nella scheda che, pur dando ascolto alla versione del cittadino-narratore, mette in dubbio la veridicità del suo racconto mediante particolari accorgimenti testuali di cui parlerò in seguito. La molteplicità delle voci e delle prospettive (Hatch, 1996; Bachtin, 1963, 1975) si notano in particolare quando la storia del cittadino (che manda un resoconto scritto) è affiancata alla storia riportata nella sua cartella clinica (compilata da medici ed infermieri) al fine di rendere possibile l’interpretazione degli esperti del TdM (medici legali, avvocati, medici specialisti) che, alla ricerca della storia plausibile, sorretta da prove e indizi, consigliano o meno al cittadino di avviare l’azione legale.

    La redazione del saggio, che presenta i risultati della ricerca e restituisce la narrazione delle storie raccolte, è di per sé un atto narrativo (Hatch, 1996). Talvolta, gli stralci di storie illustrano ed esemplificano il discorso scientifico analitico, talvolta il testo dell’analisi sociologica e le narrazioni colte dal vivo si fondono e si intrecciano per sottolineare l’importanza e le funzioni svolte dalle storie che circolano all’interno dell’organizzazione.

    Nella prima parte del paper descriverò le abilità dei consulenti front office nell’ascoltare, guidare, tradurre, narrare e ricostruire in modo coerente e sequenziale le storie confuse, drammatiche, lacunose e frammentate raccontate al telefono dai cittadini, illustrando un lavoro che è al contempo emotivo e investigativo e sottolineando le loro abilità di destinatari, ma anche di narratori di storie altrui, che si rivelano centrali nel loro mestiere. Inspirandomi alla morfologia della favole di Propp (1966) evidenzierò le azioni e i tratti tipici attribuiti ai personaggi delle storie su presunti errori medici.

    Nella seconda parte, mostrerò come l’accostamento di due artefatti narrativi (storia del cittadino e cartella clinica) scritti da autori diversi (parenti, medici ed infermieri) e che racchiudono storie dalle trame, gli stili e i generi narrativi diversi, connotate a loro volta da prospettive, saperi e posizioni discorsive divergenti, sia necessario per elaborare la perizia medico-legale che a sua volta poggia su di complesse pratiche interpretative, filtrate dalla visione e il sapere professionale degli esperti (avvocati, medici legali e medici specialisti).

    Nella terza parte mostrerò che i consulenti della centrale di ascolto, alla stregua dei tecnici studiati da Orr (1990; 1994), degli operai editi studiati da Gherardi e Nicolini (2001) e delle operatrici di un URP in Spagna, studiate in una precedente ricerca (Pentimalli, 2008), si raccontano le storie dei cittadini, scherzano sui loro nomi, ricordano e accostano storie simili risolte nel passato per condividere, costruire, attualizzare e distribuire la conoscenza specifica della loro comunità professionale, elaborare protocolli di risposta e tramandare i modi giusti di fare e di cooperare che sanciscono e ribadiscono l’appartenenza all’équipe.

    1. Ascoltare, rincuorare, investigare e narrare

    Il lavoro di consulente alla centrale di ascolto del TdM implica competenze relazionali, linguistiche, tecniche e cognitive che sono tipiche dei mestieri del terziario (Joseph e Jeannot, 1995; Weller, 1997; Pipan, 1996). La particolarità del suo mestiere è data dal saper gestire quel carico emotivo che deriva dalle storie drammatiche raccontate dai cittadini [4] (specie se caratterizzate da eventi traumatici come il decesso o l’invalidità di un familiare) e al contempo saper investigare per ricostruire una storia sequenzialmente coerente, verificando che il cittadino abbia le prove per documentare l’errore medico.

    1.1 Consulente come story taker

    La narrazione è un evento comunicativo, un’interazione sociale che si svolge in un contesto particolare. Essa implica un interlocutore e un destinatario che ascolti e riconosca la plausibilità della storia raccontata. Il destinatario è un elemento indispensabile all’atto narrativo che è in sé un atto relazionale (Eco, 1979). La narrazione è dialogica (Bachtin, 1975), si colloca sempre all’interno di una relazione comunicativa che coinvolge chi narra e chi ascolta (Poggio, 2004). Nel nostro caso è il consulente della Centrale di Ascolto che si cala e adotta la ‘postura professionale’ del destinatario di storie e che esercita un ruolo attivo nel dare senso al racconto del cittadino deluso, arrabbiato e disperato. Agli occhi di chi chiama il consulente è una sorta di terapeuta, uno story taker che stimola e ascolta le narrazioni di vita (Steedman, 1992) e accoglie una storia ove il ruolo del nemico è spesso attribuito al medico distante, negligente, arrogante e/o che ha un commesso un errore.

    Il principale desiderio che anima il narratore è che la propria storia venga riconosciuta da chi ascolta il suo racconto (Jedlowski, 2000), di poter disporre di un interlocutore che sia convinto dalle sue argomentazioni e che creda nella veridicità di una trama segnata da un incidente biografico. Le storie dei cittadini su presunti errori medici e malpractice seguono una diacronicità dei fatti narrati che spesso è confusa e alterata dall’emozione di chi racconta eventi traumatici non ancora accettati né superati. Il consulente svolge il ruolo di colui che, rincuorando il cittadino, cerca al contempo – con le sue domande appropriate e formulate al momento giusto – di ricostruire la sequenza temporale e lo svolgimento degli eventi: l’inizio della storia, l’evento centrale e lo stato conseguente (Czarniawska, 1997a; Jedlowski, 2000:11).

    1.2 Lavoro emotivo e investigativo

    I consulenti front office ricevono le chiamate di cittadini che segnalano presunti errori medici avvenuti nelle strutture sanitarie a loro o ad un loro familiare. All’inizio della telefonata il consulente, prima di poter proseguire, è spesso costretto a ridefinire il suo statuto di partecipante e il framework (Goffman, 1974) all’interno del quale sarà raccontata e accolta la storia del cittadino che tende a scambiarlo per un medico o un avvocato riversando su di lui la diffidenza verso queste due figure professionali che possono averlo deluso nel passato [5]. I consulenti rifiutano di indossare tali ruoli attribuiti dai cittadini [6] e si trovano spesso costretti a ribadire che il loro lavoro consiste solamente nel raccogliere le segnalazioni e che saranno in seguito il medico-legale e l’avvocato ad analizzare la pratica, inoltrata nel back office, e a consigliare o meno l’avvio dell’azione legale. Nella relazione dialogica che si instaura al telefono, il consulente, alla stregua di tutte le professioni del terziario, è in grado di effettuare una “classificazione silenziosa” (Bruni et al, 2007), di categorizzare (Sacks, 1992) il cittadino fin dalle sue prime parole, dal suo tono di voce e modo di parlare, per valutare con che tipo di narratore, grado di conoscenza e di emozioni ha a che fare e prevedere l’uso di un linguaggio più o meno esperto ed empatico [7].

    Le storie dei cittadini sono segnate da eventi drammatici e cambiamenti dirompenti che provocano un’interruzione nelle loro biografie (decesso, invalidità) e da una trama di eventi che coinvolge alcuni personaggi (parenti, medici, infermieri…), all’interno di specifici luoghi (ospedali, cliniche) e momenti temporali (Poggio, 2004; Czarniawska, 2004). Mentre il cittadino racconta la sua storia drammatica, il consulente-destinatario effettua un lavoro emotivo (Hochschild, 1983): si mostra attento, gentile, disponibile e comprensivo. Cerca di rassicurare, rincuorare e calmare chi è disperato, deluso, arrabbiato e a volte piange:

    sì, sì, certo, immagino la sua urgenza di risposta, la sua rabbia e tristezza, non dica così lo so sembra tutto avverso, è un evento che le ha scombussolato la vita, certo è agitata, delusa, ma non si preoccupi una soluzione si trova sempre [stralci di note dal campo].

    Durante la telefonata con il cittadino il consulente gestisce quel fragile equilibrio tra l’esibire un ascolto attento e comprensivo per mostrare di credere a quel che dice – sfruttando quei regolatori verbali (“sì certo, capisco”) tipici della conversazioni ordinarie (Sacks, Schegloff e Schegloff, 1974) – e al contempo verificare l’attendibilità del racconto mediante una serie di domande che pone al momento giusto senza apparire insensibile alla sua storia drammatica o calarsi troppo nei panni dell’investigatore che mette in dubbio la veridicità del suo racconto. Per poter trasformare il racconto del cittadino in una “pratica” da studiare (Weller, 1997), il consulente deve ottenere le informazioni indispensabili alla ricostruzione cronologica dell’evento avverso e capire se il presunto errore medico è sorretto da prove cliniche (lastre, referti). Per fare ciò, pone in tono più perentorio le domande sonda (Weller, 1997; Lacoste, 1995) cercando di far in modo che il cittadino-narratore non si offenda o senta di non essere creduto, come mostrano gli stralci di interviste etnografiche (Spradley, 1980) svolte nel contesto dell’osservazione:

    Chiamano con rabbia, desiderio di giustizia, di vederci più chiaro, noi cerchiamo di prendere con le pinze le loro storie, di fare un lavoro psicologico, omettono parti del racconto, devi investigare. A volte la persona piange, io cerco di guidare, parlo, la persona si sente capita, ascoltata, intanto faccio le mie indagini, anche se non la vedi è sempre una persona che piange, è pesantino.

    Dobbiamo fare domande per avere risposte precise. Assumi un tono più perentorio: è una cosa grave che mi sta dicendo, lei ha fatto esami, quanti? Il medico ha visto le lastre? E non le ha consigliato di fare altri accertamenti? Stiamo mettendo troppa carne al fuoco mi spieghi meglio. Ci sono delle cose che non tornano così, bisogna guardarle… no, no, no! non è per mancanza di fiducia, per lavoro non possiamo pronunciarci. Quando facciamo queste domande, i cittadini pensano che non li crediamo e si alterano.


    Il consulente svolge il suo lavoro di indagine sia per ricostruire la trama, ricomponendo il filo conduttore della storia confusa raccontata dal cittadino, provando a connettere eventi e azioni per ricostruirne retrospettivamente il senso (Poggio, 2004), sia per valutare se ci sono gli elementi e la documentazione sanitaria per accertare l’errore medico e il danno permanente. Le domande sonda cercano di rintracciare le proprietà che organizzano la struttura di ogni narrazione (Burke, 1945 in Poggio, 2004) ovvero: l’evento, l’atto (cosa è accaduto, come è accaduto), gli agenti e i personaggi coinvolti (la presunta vittima, il familiare, il medico, l’infermiere) la scena (il luogo in cui si è verificato l’evento avverso: ospedale, clinica), gli antecedenti (cosa è successo prima) e le conseguenze (cosa è successo dopo). Indagando su di una storia drammatica, che può aver provocato la morte di un parente, la formulazione delle domande va fatta con delicatezza e accortezza:

    Posso farle qualche domanda? Sua madre come si chiamava? Era ricoverata in quale struttura? Cosa è successo? Quindi la causa del decesso quale sarebbe? Quella diciamo ufficiale. Sua madre aveva fatto esami? Quanti? Dalle lastre nessun medico aveva richiesto di proseguire con le analisi o ulteriori accertamenti? Queste lastre le ha conservate? Le ha viste qualcun altro? Cosa ha detto? Va bene, questo quando è successo? La visita all’ospedale quando c’è stata? Quindi poi cosa avete fatto? Cosa vi ha detto il medico? Avete iniziato la terapia? Si ricorda quando? E poi c’è stato il ricovero in urgenza? Si ricorda in che periodo? In marzo, va bene. Hanno fatto altre analisi, accertamenti e quindi voi sospettate che sia stato un errore nel diagnosticare la patologia?

    La trama e l’ossatura del racconto del cittadino sono caratterizzate da figure chiave (medici, vittime) che, come nella morfologia della fabula (Propp, 1966) svolgono funzioni legate al loro personaggio (Labov, 1972) e da opposizioni binarie come ad es. quella dell’avversario e dell’aiutante. Il ruolo dell’avversario, dell’oppositore, è rivestito il più delle volte dal medico responsabile del sorgere di un ostacolo imprevisto. È lui la causa dell’incidente biografico, secondo il cittadino narratore che racconta anche il sorgere di alcune figure di “aiutanti” (un secondo medico “buono” che ha scoperto le malefatte del medico “cattivo” e che fa la diagnosi giusta, gli infermieri, il medico di famiglia che consiglia come muoversi) le cui azioni sono viste come compensatorie o riparatorie rispetto all’evento avverso. Il consulente nel suo ruolo attivo di destinatario della storia drammatica, ma anche di guida e di intervistatore che pone delle domande precise, aiuta il cittadino a definire la scena in cui si è svolta l’azione, a introdurre i personaggi principali descrivendone le azioni e collocando gli eventi in una relazione temporale per produrre quelle connessioni di senso e causalità (Mishler, 1986) di cui terranno conto gli esperti del back office nell’effettuare la loro perizia medico-legale.

    I consulenti ascoltano attentamente e accolgono la storia dei cittadini ma senza mai dar per certa la trama raccontata. Dicono difatti che le storie dei cittadini vanno “prese con le pinze”, con sospetto. Ciò che è denominato errore medico è spesso legato a problemi relazionali con il personale sanitario, al sentirsi trascurati, a una negligenza nella comunicazione dell’iter della patologia e della terapia, all’atteggiamento scostante di medici e infermieri (Pentimalli, 2010a) [8]. Il danno o l’evento avverso possono essere dovuti all’iter naturale della patologia o a complicanze che avrebbero comunque condotto all’esito infausto. Nella storia e nelle parole del cittadino traspare la versione del medico incolpato – il quale avrà spesso un’altra e opposta interpretazione dell’evento – che è rintracciabile nella cartella clinica anche se, come dice sempre il cittadino, le malpractice del personale sanitario vengono “occultate” (aveva un’infezione ma non è stato riportato in cartella; il medico dice che si tratta di una complicanza, io dico che si tratta di un errore; dicono che mia moglie si è suicidata ma io penso che me l’abbiano ammazzata). Come è stato già sottolineato da Caprari (2008) e D’Angeli (2011), e da alcuni noti studi sulla compilazione della cartella clinica (Berg, 1996, 1997; Berg e Bowker, 1997), i medici possono a volte adottare accorgimenti narrativi per celare l’errore ma, soprattutto, i loro resoconti delle azioni effettuate sul corpo e gli organi del paziente sono annotati per farli apparire frutto di decisioni scientifiche razionali, celando le incertezze e la complessità delle pratiche di diagnosi e di cura La versione del medico, tradizionalmente dominante perché considerato l’unico detentore della razionalità e del sapere scientifico (Freidson,1970; Tousjin, 2000), è accostata dal Tribunale alla versione profana del cittadino che racconta la sua esperienza nelle organizzazioni sanitarie. Il cittadino, che non ha conoscenza medica, ha il suo modo di interpretare la causalità degli eventi che per lui sono responsabili dell’errore, della morte di un suo familiare (ha preso freddo e poi si è aggravato). Il consulente, pur esibendo un ascolto comprensivo e senza far trapelare la sua incredulità, non da mai per certa la versione del cittadino né la plausibilità della sua storia che poggia su di una conoscenza profana alla quale si oppone la versione discordante del medico, i cui resoconti nella cartella clinica sono presentati come frutto di una conoscenza e razionalità scientifica (Berg, 1996, 1997: Berg & Browker, 1997). La storia del cittadino non ha sempre quella persuasività per essere convincente per chi l’ascolta (Smorti, 1994). Come dice la coordinatrice della centrale di ascolto, “i cittadini ci segnalano un errore medico, all’atto pratico c’è altro”.

    Una cosa è quello che la persona ti segnala, che lui vede come un errore e negligenza dal parte del medico e una cosa è quello che noi possiamo verificare. Per noi l’errore è sempre stato presunto, le cose vanno prese con le pinze, una persona può avere una visione particolare, non ha conoscenza medica. In un certo stato emotivo, puoi vedere l’episodio secondo un certo punto di vista [Intervista con la Resp. area medico-legale]

    La credibilità di una storia è data dal grado di coerenza che il narratore impone alle esperienze frammentate e ai disparati elementi a cui essa fa riferimento (Weick, 1995). La trama – in quanto elemento organizzatore che connette e combina gli eventi in una struttura narrativa (Jedlowski, 2000; Boje, 2001) e che attribuisce senso e causalità agli eventi raccontati – è costruita in modo dinamico nell’interazione tra narratore e ascoltatore (Poggio, 2004). Chi ascolta è quindi un soggetto molto attivo che conferisce senso alla storia raccontata. La storia ha una dimensione referenziale (cosa si racconta), contestuale e interazionale. Durante la telefonata, sebbene i due interlocutori abbiano prospettive diverse, il senso e la ricostruzione della connessione sequenziale degli eventi sono congiuntamente negoziati nell’interazione tra il cittadino-narratore che è intervistato e il consulente-destinatario che svolge il ruolo di intervistatore (Poggio, 2004: 137). Sarà quindi il consulente a fare un complesso lavoro di sense making (Weick, 1995) per ricostruire in modo retrospettivo una sequenza di eventi che spieghi l’esito di una storia, con un suo inizio e una sua fine, integrando ogni dettaglio in una catena continua di causalità (Poggio, 2004).

    1.3 Tradurre la storia orale del cittadino in una storia scritta, coerente e sequenziale

    Durante la telefonata, mentre il cittadino racconta la sua storia, il consulente annuisce e formula delicatamente le sue domande per ricostruire la cronologia degli eventi, identificare i luoghi in cui si sono svolti e i personaggi coinvolti. Per verificare di aver capito bene ciò che racconta il suo interlocutore, ripete alcune sue frasi e informazioni chiave (era al Sant’Eugenio? Questo è successo in marzo?) mentre intanto le annota su di un foglio posato accanto alla tastiera, che fungerà da traccia per riassumere la storia sulla scheda del PC.

    Al telefono c’è un certo sforzo di concentrazione per capire bene quello che è successo e nello stesso tempo devi prendere nota su carta perché dopo devi fare la scheda.

    L’uso di carta e penna, accanto all’uso del PC, mostra quanto il lavoro dei consulenti si svolga mediante la mediazione di diverse generazioni di tecnologie che coabitano e si allineano fra di loro (Bruni, 2004) e che permettono di traslare la materia narrativa, emotiva, fluida, imprecisa in tracce documentali (Latour e Wolgar, 1987) che, come vedremo, saranno ancora soggette a modifiche. Il consulente ha sviluppato con il tempo una sua expertise, un suo sapere pratico (Gherardi e Nicolini, 2001; 2004) che gli consente di annotare solamente gli elementi chiave utili alla ricostruzione della storia: il protagonista, la presunta vittima, il presunto colpevole, il luogo in cui si è verificato l’evento avverso, le date, il tipo di malattia diagnosticata… Verso la fine della telefonata ricapitola a voce la cronologia della storia e le strutture sanitarie coinvolte per accertarsi di aver colto la versione del cittadino. Appena conclusa la chiamata, stacca il telefono, si mette “fuori gruppo” e comincia a compilare la scheda informatica sul PC. Consultando gli appunti presi durante la telefonata, compila la parte anagrafica con il nome della persona che chiama o fa la richiesta di intervento (soggetto richiedente) e della vittima del presunto errore medico (soggetto interessato). Nell’area dedicata alla descrizione del problema, trascrive, ricostruisce e riassume il racconto orale, complesso, articolato, incompleto, confuso ed emotivo del cittadino riportando, in modo esaustivo ma non prolisso, la sua storia secondo una logica sequenziale. Le trame delle storie di eventi avversi accaduti molti anni prima, possono essere ancor più confuse, distorte e lacunose, molti elementi vengono omessi o lasciati nell’ombra (Caprari, 2008: 24) rendendo ancor più difficile il compito del consulente. Osservando da vicino l’attività di scrittura della scheda, ho colto le competenze narrative del consulente che sa fare un uso abile del discorso riportato per ricostruire, in modo sintetico e logico, la sequenzialità di una storia coerente (Culler, 1981), riportando date o eventi salienti (decessi, visite, interventi chirurgici). Per traslare la storia orale del cittadino in una storia scritta, sequenziale e coerente, deve mettere in relazione gli eventi, costruire delle connessioni causali e temporali tra azioni e avvenimenti a fronte del racconto del cittadino, che pur sforzandosi di dare un senso di ordine e di significato alla sua esperienza umana (Weick, 1995), produce un resoconto che può essere confuso e frammentato. La storia, narrata nella scheda, deve permettere di ricostruire il suo intreccio. Il consulente cerca di imporre coerenza al caos, di attribuire una logica agli eventi, di stabilire continuità temporali e causali. Un’attività che come si evince dalle note etnografiche prese sul taccuino, implica un lavoro complesso, frutto di ripensamenti, aggiustamenti e correzioni che il consulente apporta man mano, mentre scrive la storia:

    Il padre è deceduto presso l’ospedale *** il 16/04/09. La causa della morte è una polmonite con aspergillosi [rivolgendosi all’etnografa seduta accanto a lui: “la signora mi ha dato molte informazioni, devo scrivere l’essenziale, poi manda il promemoria, altrimenti è una ripetizione”]. A Gennaio 2009, il signore manifesta sintomi gravi, in seguito a un controllo in ospedale, che sono risultati essere causati da [“cosi no”, sfoglia le sue note, cancella tutto fino a aspergillosi, commenta: “niente” e ricomincia a scrivere]. A fine dicembre 2008 aveva avuto un edema cerebrale. I sintomi si sono acutizzati a gennaio 2009, quindi una visita preso l’ospedale *** indicava una massa polmonare e la riconduceva all’edema. I signori non si fidano e vanno a Roma presso l’ospedale *** (inizio febbraio 2009) e qui si sospetta una glioblastoma, anche in questo caso non si fidano e si recano presso *** a Milano, qui la diagnosi è di linfoma quindi viene consigliato di riprendere la terapia cortisonica che il signore seguiva per l’edema, poi sarebbe stata decisa una risonanza magnetica di controllo. A marzo il signore sta ancora male, viene portato all’ospedale di ***, da qui al *** dove si individua una notevole massa polmonare, dalla biopsia viene fuori che la neoplasia si è originata proprio dal cervello. Il 6 aprile entra in rianimazione [sospiro, scrive il decesso poi cancella], i familiari vorrebbero capire se c’è stato errore nella diagnosi, se era possibile intervenire prima e meglio. [Commenta all’etnografa seduta accanto a lui: il caso è particolare, ci sono 3 diagnosi diverse, e in risposta ad una sua domanda spiega: ho tolto decesso dato che lo avevo già messo all’inizio della storia. Riguarda la scheda appena compilata e commenta la causa dell’edema: quindi stava già sotto cura all’ospedale, fin quando non lo chiudo è working progress, quindi esattamente il contrario, la massa celebrale come derivante da quella polmonare”. Lo corregge nella scheda].

    L’attenzione e precisione nello scrivere la storia del cittadino è dovuta, come vedremo ora, alla sua dimensione “pubblica” (Garfinkel, 1967) all’interno dell’organizzazione.

    1.4 Scrivere storie per un pubblico variegato di lettori

    La traduzione della storia orale del cittadino in una storia scritta, sintetica, coerente e comprensibile deve tener conto e immaginare altri lettori e destinatari, primo fra tutti lo stesso consulente autore della storia ma anche i suoi colleghi che, per gestire i richiami dei cittadini, consulteranno la scheda apportandovi aggiunte. La scrittura di una storia non si esaurisce alla prima telefonata. I richiami dei cittadini che apportano nuovi dettagli alla loro storia o aggiungono ulteriori elementi, implicano la riapertura della scheda e il suo aggiornamento. Le schede riportano storie polifoniche (Bachtin, 1963) a puntate, scritte e firmate da più autori, che adottano stili narrativi diversi e che sono continuamente aggiornate.

    Ogni consulente è cosciente del carattere pubblico della sua scheda e adotta alcuni accorgimenti editoriali che facilitano e allestiscono il futuro lavoro di sense making (Weick, 1995), suo e dei colleghi. Nello scrivere la storia del cittadino sulla scheda del PC mette in evidenzia, usando il carattere stampatello e il grassetto, dati ed eventi salienti (Lemieux, 2008), di modo che il nome della struttura, la patologia, il tipo di errore siano reperibili a colpo d’occhio ai colleghi, futuri lettori delle storie. Non appena il cittadino che richiama si presenta, il consulente esibisce la sua disponibilità cortese e finge di riconoscerlo (Oh Signor Rossi, Buongiorno, certo che mi ricordo), mentre intanto digita il suo cognome, apre la schermata e lancia una rapida occhiata alla scheda già compilata per individuare i punti salienti della storia che sono stati abilmente messi in evidenza da lui o dai suoi colleghi e che sono quindi visibili a colpo d’occhio. Il consulente legge a mente le informazioni pertinenti al caso, ne ripete alcune a voce (ah sì al San Eugenio, sì e poi è stato operato) e riesce così a condurre una telefonata auditivamente competente (Whalen et al, 2002) facendo sentire al suo interlocutore che si ricorda di lui, della sua storia e che segue il suo racconto. Spesso nella scheda i consulenti aggiungono anche alcune descrizioni sullo stato emotivo della persona (moglie e marito disperato), in modo da suggerire al collega come comportarsi quando richiama. L’introduzione recente di una nuova scheda, legata ad un nuovo software, ha per ora eliminato la possibilità di ricorrere a questi piccoli accorgimenti scritto-visuali, mostrando quanto l’innovazione tecnologica spesso non riposi su di un design partecipato e su di un’osservazione previa del lavoro dei futuri utilizzatori in modo da coinvolgerli e non ostacolare pratiche di lavoro efficaci, ormai consolidate (Heath et al, 2000).

    La scheda è un artefatto narrativo, un oggetto frontiera (Star e Griesemer, 1989), uno strumento di coordinamento tra attività distribuite nel tempo e nello spazio, che viene aggiornata, consultata e interpretata sia dai consulenti del front office sia dalla responsabile e i consulenti dell’area medico-legale che, come vedremo ora, hanno bisogno di consultarla per cogliere la versione del cittadino e affiancarla alla versione che emerge dai resoconti della cartella clinica, cercando di rintracciare gli indizi e le prove dell’errore medico.

    2. La polifonia delle storie, l’allineamento e il disallineamento degli artefatti narrativi

    La mission organizzativa del TdM affida ai consulenti dell’area medico-legale (avvocati, medici legali e medici specialisti) il lavoro di interpreti di storie su presunti errori medici raccontate da più autori (cittadini, medici, infermieri…). La consulenza medico-legale poggia difatti sull’accostamento tra la storia del cittadino (contenuta nella scheda e nel suo promemoria) e la storia di medici ed infermieri (contenuta nelle loro rispettive cartelle cliniche e affiancata a lastre e referti clinici), facendo emergere la dimensione polifonica (Bachtin, 1963), la diversità dei generi narrativi e delle prospettive, legate alla molteplicità dei narratori.

    2.1 Ogni artefatto narrativo ha la sua storia

    La storia del cittadino riportata nella scheda rappresenta uno dei diversi artefatti narrativi che viaggerà nel back office accanto alla/e storia/e raccontata/e nella cartella clinica da medici ed infermieri e al resoconto scritto richiesto al cittadino. Verso la fine della telefonata il consulente invita il cittadino – la cui storia sembra sorretta da prove cliniche (lastre, radiografie, diagnosi mediche) che comprovano il danno biologico – ad inviare sia un resoconto scritto dell’evento avverso sia la sua cartella clinica che deve recuperare presso la struttura dove si è verificata la malpractice. Il consulente spiega al cittadino come deve redigere la storia dell’evento avverso dal suo punto di vista, menzionando le date affinché si possa ricostruire la sequenzialità degli eventi. Nel fare ciò afferma che tale artefatto narrativo sarà un’indispensabile guida per i consulenti medico-legali nel loro lavoro di interpretazione della storia clinica riportata in cartella che è di per sé più schematica.

    Per fare la consulenza abbiamo bisogno di un promemoria, un resoconto scritto, come mi ha raccontato adesso, ma scritto, con le date, per avere un quadro cronologico e integrare l’informazione della cartella clinica che è più schematica. Un resoconto di cosa sia successo dal suo punto di vista: aveva questo problema, è stato ricoverato, Ci orienta nella lettura della cartella clinica che è complessa, con molte informazioni, pagine. E’ una guida per avere dei punti focalizzati, per sapere subito qual è il problema.

    Dalle parole del consulente, che invita il cittadino ad adottare alcuni accorgimenti narrativi (indicare le date degli eventi) per ricostruire una storia sequenzialmente coerente, trapela già il lavoro che verrà svolto nel back office dalla responsabile e dai consulenti dell’area medico-legale che dovranno ricostruire il quadro cronologico della storia del cittadino ed accostarlo al quadro che emerge dalla storia clinica della cartella, scritta dal personale sanitario.

    I due artefatti narrativi hanno autori, stili e generi letterari molto diversi e raccontano storie dalle voci, posizioni discorsive, saperi e prospettive divergenti (Davies e Harré, 1990; Hatch, 1996). Il resoconto del cittadino (scritto a mano o al computer), può essere sintetico e schematico e poggiare su di una fredda enumerazione di eventi, date e luoghi, sebbene sposi più spesso la forma di una storia dettagliata nella quale si raccontano gli eventi e gli stati emotivi dei protagonisti. La cartella clinica è un artefatto a matrioska (D’Angeli, 2011) composto da una varietà di supporti testuali, simbolici, grafici, immagini (diaria clinica, lastre) che vengono man mano aggiunti lungo il percorso clinico del paziente nelle diverse strutture e reparti ospedalieri. Caratterizzata da annotazioni schematiche e da un uso di sigle e termini medici, la cartella può appare ermeneutica ai profani. Da un lato abbiamo quindi la storia esperienziale ed emotiva del paziente o del familiare particolarmente colpito dall’evento avverso e dall’altro la storia clinica, più schematica, i cui resoconti appaiono come il frutto di decisioni e diagnosi mediche, razionali e scientifiche, giustificate e basate su referti e lastre cliniche (Berg, 1996, 1997; Berg e Bowker, 1997).

    Il cittadino racconta la sua storia drammatica sperando di ottenere giustizia e interpreta i comportamenti dei personaggi della sua storia, in particolare medici o infermieri, accusandoli di negligenza, incompetenza, freddezza, leggerezza ed indifferenza nei confronti di eventi drammatici e gravi provocati dal loro operato. Medici e infermieri compilano la cartella clinica nel rispetto delle sempre maggiori esigenze redazionali e di rendicontazione imposte dal processo di aziendalizzazione della sanità. Tale attività può apparire ai professionisti come non prioritaria e burocratica rispetto al senso e alla centralità della loro mission che consiste nel curare e assistere i pazienti. Tuttavia la compilazione della cartella, oltre ad essere indispensabile al coordinamento delle azioni tra le varie figure che operano intorno e sugli organi del paziente, è diventata uno strumento di difesa per legittimare le loro azioni e decisioni e talvolta occultare eventuali negligenze ed errori. Capita che ritardino la sua compilazione dopo un intervento chirurgico o una terapia per aspettare gli esiti dell’operazione e della cura (Caprari, 2008; D’Angeli, 2011).

    2.2 Alla ricerca della storia più plausibile, di indizi e prove

    La storia esperienziale ed emotiva del cittadino e la storia fredda, “scientifica” e schematica della cartella clinica vengono dapprima confrontate e fatte dialogare nella loro densità testuale dalla responsabile dell’area medico-legale per preparare il futuro lavoro di consulenza degli esperti (medico-legale, avvocato e medico specialista). Tale attività di allestimento della pratica consiste nell’aprire e sfogliare la cartella clinica per verificare che sia completa [10] e nel ricostruire la sequenzialità delle due storie, evidenziando gli eventi salienti e le eventuali discrepanze e incongruenze che emergono tra ciò che racconta il cittadino e ciò che racconta il personale sanitario, i referti e lastre contenute in cartella. La stessa storia contenuta nella cartella si articola in diverse storie raccontate da corpi professionali diversi (medici, infermieri, radiologi…) mediante resoconti scritti, immagini, lastre e misure di temperature non sempre coerenti fra loro (Berg, 1996,1997; Berg e Bowker, 1997). I consulenti del back office terranno difatti anche conto della coerenza tra queste diverse storie contenute in cartella, verificando ad esempio la congruenza tra le diagnosi mediche e la somministrazione della terapia da parte del personale infermieristico [11].

    Le cartelle cliniche provenienti da diverse strutture, possono essere già accorpate e disposte in ordine cronologico, facilitando in tal caso la ricostruzione della carriera del paziente e delle azioni effettuate su di lui dal personale sanitario; oppure possono seguire un criterio di accorpamento tematico (tutti gli esami e le lastre insieme) che costringe la responsabile a rimettere la documentazione in ordine cronologico consultando le date riportate sui documenti e usando come traccia la trama e la sequenzialità degli eventi della storia raccontata dal cittadino nel suo promemoria. La cartella clinica così riordinata viene di nuovo accostata alla versione dei fatti data dal cittadino. La responsabile, grazie alla sua precedente esperienza come infermiera ospedaliera, detiene il sapere pratico (Gherardi e Nicolini, 2001) e clinico per leggere e interpretare la cartella tra le righe, dedurre ed estrapolare informazioni e indizi anche da ciò che non è scritto. Adottando uno sguardo e un ragionamento medico-legale, ricerca i nessi causali tra azioni tangibili e dimostrabili. Verifica se la versione del cittadino – che come ci confida lei stessa, essendo emotivamente scosso da un evento infausto e non avendo conoscenze mediche, può dare una versione dei fatti che è frutto di un abbaglio (gli hanno dato un bicchiere di acqua avvelenata, ha avuto dolori allo stomaco e ciò ha provocato un infarto) – sia supportata da prove cliniche (lastre radiografie, accertamenti) e se il racconto degli eventi è riscontrabile nelle azioni riportate in cartella dal personale. Il suo lavoro di allestimento della pratica consiste in particolare nell’evidenziare materialmente mediante accorgimenti scritto-visuali (Lemieux, 2008), nel testo della cartella clinica e nel promemoria del cittadino, le incongruenze e le anomalie significative che emergono dal raffronto tra le due storie e dall’analisi di lastre e referti che ritiene pertinenti per il medico legale.

    Il cittadino racconta nel suo promemoria che un suo parente ricoverato in ospedale aveva una grave infezione con febbre e accusa il personale di non aver fatto niente. La responsabile nel leggere la cartella nota che la temperatura del paziente non è stata menzionata, ma deduce dal livello alto dei globuli bianchi nel sangue, riportato in cartella, che il paziente poteva avere la febbre ma che magari quel giorno il personale, per problemi di sotto-organico, aveva effettuato un giro visite frettoloso senza prendere la temperatura. La responsabile accerchia con l’evidenziatore il valore alto dei globuli bianchi in cartella e la parola infezione menzionata dal cittadino nel suo promemoria per attirare lo sguardo del medico-legale nel momento in cui analizzerà la pratica.

    La responsabile elabora poi un altro artefatto narrativo, nel quale effettua una ricostruzione cronologica del caso, descrive la tipologia di malpratice denunciata dal cittadino, evidenzia i punti cardini, i problemi di cartella clinica incompleta o consenso informato inappropriato, e mette in risalto le incongruenze emerse dal raffronto tra le storie, fornendo una vera e propria traccia al medico-legale, come dimostra una sua metafora felice, senza il suo sunto è come se andassi di notte senza bussola nel deserto a cielo coperto.

    Il medico-legale, che con la sua doppia expertise deve verificare se il danno è dimostrabile perché supportato da valide prove cliniche, tenta di individuare i nessi di causa che legano il danno raccontato dai cittadini ad un’eventuale negligenza o imperizia medica. Seguendo la traccia fornitagli dalla responsabile, verifica di nuovo se la versione dei fatti data dal cittadino coincide con le azioni ed informazioni riportate in cartella. Se l’accusa di negligenza è riscontrabile, o deducibile ‘tra le righe’ dalla lettura della cartella che evidenzia incongruenze tra la diagnosi del medico e la terapia messa in atto dagli infermieri, il medico-legale può argomentare che si tratta di un’omissione di diagnosi o di terapia.

    Nel suo pro-memoria il cittadino racconta che il parente aveva un’infezione che però non è stata curata. Se il medico-legale riesce a rintracciare l’effettiva presenza di un’infezione in cartella deducendolo dalla temperatura elevata del paziente e dai globuli bianchi nel sangue, va poi a verificare, leggendo la diaria medica e la somministrazione della terapia nella cartella infermieristica, se il personale ha messo in atto le azioni appropriate per curarla.

    Un cittadino sulla cinquantina racconta : “Mi sono recato al Pronto Soccorso dicendo ‘ho un dolore al torace, invece di fare l’elettrocardiogramma mi danno un antidolorifico e mi mandano a casa, in realtà era un infarto’. Il medico legale, con il foglio di dimissione sotto gli occhi, commenta: “un infarto che hanno scambiato per un problema digestivo” ed etichetta la storia come un’omissione di diagnosi per un medico che non ha messo in atto i dovuti controlli diagnostici malgrado i sintomi di una patologia frequente oltrepassati i 40 anni.

    Il medico legale è molto abile nell’interpretare la diaria clinica ed infermieristica, ma quando per un presunto errore di diagnosi o una diagnosi tardiva le lastre rappresentano un indispensabile elemento di prova (come spesso viene segnalato dal sunto della responsabile dell’area medico-legale), fa appello alla perizia di un medico specialista [12] che mette quotidianamente in pratica la sua conoscenza medica e sa leggere le lastre che riguardano patologie della sua specialità. La sua visione professionale (Goodwin, 1994, Turrini, 2010) lo orienta nel guardare e magari vedere quell’elemento pertinente (una macchiolina che potrebbe essere un nodulo) che salta agli occhi nell’osservare la lastra e lo rende in grado di dire se la patologia già era “visibile” e avrebbe dovuto incitare altri accertamenti e cure.

    Se il cittadino nella sua storia incolpa il medico di aver commesso un errore nel non diagnosticare un tumore che ha poi provocato la morte di un suo familiare, il medico oncologo ‘leggendo’ le lastre, può accusare il medico di non aver visto il sorgere del tumore e può sciogliere i quesiti posti dal medico-legale: se diagnosticato cinque mesi prima cosa poteva cambiare? Quanto ha influito sul decesso? Quanto avrebbe potuto cambiare il risultato finale?

    Se il cittadino racconta di essersi recato al pronto soccorso in urgenza per un trauma e incolpa il personale di negligenza ed imperizia nel rimandarlo a casa dopo aver fatto la radiografia, dicendo “non c’è niente” quando si trattava di una cosa grave, il radiologo lancia un’occhiata alla lastra e può confermare che si tratta di un errore di diagnosi legato ad un’errata lettura delle lastre.


    La cartella clinica con lastre e referti è il maggiore elemento di prova (la prova principe), una vera e propria documentazione ai fini di indagine retrospettiva, la cui presenza è indispensabile alla ricostruzione della storia clinica da confrontare e da far dialogare con la storia del cittadino la quale diventa plausibile solamente se le prove di quello che racconta sono riscontrabili o deducibili dall’analisi testuale della cartella. Il medico-legale cerca anche di scovare ciò che è stato omesso in cartella. In quanto a conoscenza dell’attitudine difensiva dei medici tra i quali gira voce: “meno scrivi meglio è”, la sua investigazione consiste proprio nel cercare di rintracciare una descrizione troppo succinta di un intervento chirurgico che non riporti in modo preciso le azioni indicate dal protocollo, la prova per poter poi presumere che l’operazione è stata eseguita male, contando sul fatto che i medici non avranno, in sede di processo, le prove (scritte in cartella) per dimostrare di averla eseguita bene.

    Se un medico durante un parto cesareo, scopre un’aderenza causata da un parto precedente che provoca una lesione durante il suo operato, ma non la menziona in cartella, non potrà provare che il suo intervento è stato eseguito secondo le regole dell’arte, grazie alla sua bravura e manualità. Io alloro presumo una colpa perché “ciò che non viene scritto va a sfavore del medico” anche nei casi in cui l’intervento è stato eseguito bene. Se invece il medico menziona l’aderenza, riporta circostanze in suo favore, provando che la lesione è dovuta a un fattore naturale piuttosto che a un fattore umano, attribuibile alla sua responsabilità.

    La consulenza medico-legale poggia su un insieme di pratiche sociomateriali che assumono la forma di discussioni e scambio di argomentazioni tra la responsabile, il medico- legale e a volte l’avvocato che maneggiano, indicano, sfogliano e leggono, anche ad alta voce, gli stralci di storie e le informazioni riportate nei diversi artefatti narrativi (diaria clinica, lastre, promemoria del cittadino). Tali artefatti, connotati da generi diversi, veicolano punti di vista, vissuti esperienziali, saperi e posizioni discorsive divergenti. Nel suo promemoria il cittadino racconta l’evento avverso e attribuisce l’esito infausto di una grave malattia o il danno causato a un suo familiare durante un intervento chirurgico ad una negligenza e imprudenza dell’équipe medica, parla di sbagli, distrazioni e incompetenze del personale. Le accuse del cittadino, legate ad un vissuto esperienziale drammatico, e che spesso sono dovute all’indelicatezza e ad una scarsa comunicazione tra medici e pazienti o parenti sull’iter della terapia e della patologia, possono essere contraddette dalla versione del medico specialista, chiamato per effettuare una perizia sul caso. Sfruttando il suo sapere medico afferma se si tratta dell’iter naturale di una patologia infausta o se il danno è dovuto ad una complicanza legata a quel tipo di intervento, alle condizioni del paziente, alla reazione del suo organismo piuttosto che ad un errore del chirurgo o a una diagnosi tardiva. Nel confronto tra la voce del cittadino profano e la voce del medico specialista, la responsabile cerca di dare ascolto alla voce del paziente mentre il medico legale, facendo appello al suo doppio bagaglio di sapere, prende in conto la perizia del medico specialista, gli indizi e le prove rintracciabili in cartella e la sua conoscenza di come si sono risolti in tribunale, storie e casi simili.

    Per il caso di un intervento alla cataratta che ha provocato una lesione all’occhio di una paziente (a causa della rottura di una capsula) e che il medico specialista (l’oculista) ha attribuito a rischi e complicanze legate a quel tipo di intervento, la responsabile dell’area medico-legale nel parlare con il medico-legale, espone il punto di vista della presunta vittima. Riporta a voce stralci del suo promemoria in cui lamenta il danno e il dolore e menziona il fatto che il medico l’abbia illusa: ‘il chirurgo le ha detto vedrà signora tornerà giovane come prima’. Il medico-legale partendo dalla perizia dell’oculista, si informa sulle condizioni attuali della paziente ‘ma adesso ci vede? Sente sempre dolore o solamente un piccolo disturbo?’. Mentre la responsabile risponde: ‘ci vede sfocato’, commenta: ‘beh dopo questa operazione può capitare’. Poi, appoggiandosi agli elementi riportati in cartella clinica, constata l’impossibilità di presumere una colpa dato che l’intervento è descritto bene e il consenso è appropriato e dettagliato. Ricordando l’insuccesso di una causa analoga, afferma che la controparte dirà che il danno (la lesione all’occhio) è dovuto a complicanze legate a quel tipo di intervento e non a un errore attribuibile a una responsabilità umana.

    La responsabile tiene conto della dimensione esperienziale della paziente che è stata illusa dal medico e che si ritrova con una lesione all’occhio, anche per sapere cosa risponderle. Il medico legale, sondando le condizioni della paziente e constatando che l’intervento è stato descritto in dettaglio secondo i protocolli e che il consenso informato c’è ed è appropriato (sono indicati i rischi e le complicanze legate a quel tipo di intervento), non può che appellarsi alla conoscenza medica di cui si terrà conto al processo. In realtà, le frontiere tra negligenze, imperizie e complicanze sono molto labili. Se si tratta, come dice il medico legale, di un errore grossolano di per sé piuttosto raro (il chirurgo che taglia un nervo con il bisturi usato a mo’ di zappa), il dubbio non c’è. Ma non è sempre facile distinguere tra ciò che è una complicanza, ovvero un rischio legato a quel tipo di intervento chirurgico e ciò che è un errore dovuto alla non perfetta “manualità” del chirurgo e quindi attribuibile alla sua responsabilità professionale. A volte il dubbio non si scioglie neanche chiedendo la perizia dei medici specialisti (operando nelle strutture possono anche loro adottare attitudini di medicina difensiva e di protezione della loro professione), che offrono responsi discordanti: la rottura delle capsule per un intervento oculistico si può verificare, può succedere, oppure: no, se il chirurgo è bravo non si verifica”. L’errore e le complicanze sono socialmente costruiti (Berger e Luckman, 1966) e richiedono l’accostamento sociomateriale (Law, 1987) tra artefatti narrativi, contenenti testi, immagini, vissuti esperienziali e saperi diversi, le cui storie e versioni discordanti possono non allinearsi fra di loro. La versione profana del cittadino e la versione medica della cartella, vengono interpretate, soppesate e valutate. La loro plausibilità è frutto di una ricerca di indizi, incoerenze e prove, mediante pratiche che coinvolgono e sono mediate dai diversi artefatti narrativi, sguardi e saperi professionali.

    L’attività dell’avvocato consiste nell’estrapolare le voci e le vittime del danno, valutando il danno biologico, fisico (supportato da prove cliniche che attestano un’invalidità permanente), ma anche il danno patrimoniale, morale e psicologico sia per la vittima stessa che per i familiari. Per i casi nei quali l’errore non è dimostrabile, analizza la cartella clinica per vedere se è leggibile e se presenta grafie incomprensibili o cancellazioni, svelando la tattica usata talvolta dai medici per ricostruire ex post una storia dell’intervento o della terapia che li protegga e celi i loro errori (Caprari, 2008), e eventualmente accusarli di falso in reato. L’avvocato analizza anche un altro artefatto testuale, il consenso informato per verificare la completezza dell’informazione fornita al paziente sui rischi che corre in prima persona

    Verifico se il modulo del consenso è completo (firma congiunta del medico e del paziente) e se c’è un eventuale deficit di consenso ovvero una scarsa informazione sui rischi anche nel caso di interventi eseguiti secondo i protocolli, quando ad es. una persona sceglie di fare un’operazione urgente e va con la convinzione di togliere un piccolo fastidio e poi si ritrova con un problema più grosso. Anche una circostanza che rientra nelle complicanze posso farla rientrare nelle responsabilità tutte le volte che non è rappresentata nel consenso che deve informare su tutti i rischi dell’intervento. La rischiosità diventa fatto, il cittadino dice “mi si è rotta la retina, hanno fatto un errore”. Se tale circostanza non è rappresentata, la persona poteva scegliere di non farlo. Preferisce avere la cataratta piuttosto che il distacco della retina. E stato leso il suo diritto all’autodeterminazione.

    L’avvocato si cala nei panni del paziente, e chiamando in causa il suo diritto ad essere informato, vede se il consenso è stato redatto con un uso eccessivo di tecnicismi, riducendosi a un mero adempimento e rituale burocratico e a un’azione di medicina difensiva per scaricare la responsabilità sui pazienti. L’avvocato considera plausibili le storie di pazienti che raccontano che il medico o addirittura il portantino ha teso loro il consenso all’ultimo momento, poco prima dell’intervento, dicendo: “mi metta la firma qui sennò non operiamo”. L’avvocato critica il medico che tende ad utilizzare il consenso informato come strumento difensivo, travisando l’idea all’origine della sua concezione

    Il medico deve dedicare tempo al paziente e far precedere il consenso scritto da una spiegazione orale in un linguaggio chiaro, comprensibile e alla portata del suo livello culturale. Il fatto che i rischi vengono indicati e che il paziente abbia firmato prima dell’atto chirurgico non significa che sia stato un consenso informato. Io dimostro che il paziente ha firmato ma nessuno gli ha parlato, che il suo grado di cultura era tale da non capire il consenso, se il linguaggio era particolarmente tecnico, un foglio con cose complicate non puoi dire che gli hai fatto presente i rischi! Si tratta di lesione del diritto all’autodeterminazione.

    Il lavoro dei medici-legali, dei medici specialisti e degli avvocati del TdM, che sono alla ricerca della storia più plausibile, delle prove cliniche, dei diritti lesi e delle omissioni dei medici, consiste quindi nel saper confrontare, far parlare e dare senso a queste storie dalle trame, gli stili e i generi narrativi diversi, connotate da prospettive, saperi, posizioni discorsive (Davies & Harré, 1990) e visioni professionali divergenti (Goodwin, 1994), nelle quali si intrecciano e coesistono voci dissonanti dovute alla molteplicità dei narratori.

    3. Storie e chiacchiere tra colleghi

    L’affiancamento quotidiano dei consulenti della Centrale di ascolto mi ha permesso di cogliere un’ulteriore pratica narrativa apparentemente superflua e dispersiva. Alla stregua delle “storie di guerra” raccontate dai tecnici per la riparazione delle fotocopiatrici (Orr, 1990, 1995) e dagli operai nei cantieri edili (Gherardi e Nicolini, 2001), i consulenti si raccontano le storie esemplari dei cittadini con le quali hanno avuto a che fare, scherzano sui loro cognomi, sui loro modi di parlare, chiedono ai colleghi: “ma poi quella storia com’è andata a finire?”.

    La raccolta di queste brevi storie e conversazioni nel contesto naturale e relazionale in cui sono prodotte, svela la dimensione collettiva, collaborativa e sociale delle attività lavorative della centrale di ascolto, simili in ciò alle attività degli operatori dei centri di coordinamento (Luff, Hindmarsh & Heath, 2000), e svela soprattutto le funzioni e le azioni indispensabili performate da queste “chiacchiere tra colleghi”.

    Le storie che circolano tra colleghi permettono di prendere decisioni e risolvere i problemi del lavoro quotidiano ma anche di costruire, sedimentare e tramandare il sapere, i trucchi e l’etica del mestiere, contribuendo all’apprendimento organizzativo, alla costruzione di un’équipe solidale e a sancire l’appartenenza dei membri alla comunità.

    3.1 La circolazione delle storie come strumento diagnostico e di costruzione del sapere

    Il mestiere di consulente alla Centrale di Ascolto sembra ad un primo sguardo poggiare su di una gestione individuale delle telefonate con i cittadini che chiamano per raccontare storie di presunti errori medici e su di una scrittura solitaria di tali storie sulle schede informative dei PC. Sebbene sia il consulente a condurre il dialogo telefonico con il cittadino e sia lui l’autore della sintesi della sua storia, la soluzione delle richieste del cittadino e la compilazione della scheda si svolgono in uno spazio aperto, condiviso e diventano quindi performance pubbliche (Garfinkel, 1967; Goffman, 1959), accessibili ai colleghi in co-presenza. Come succede anche nei cosiddetti centri di coordinamento, studiati dai Workplace Studies (Heath et al, 2000), le attività dei consulenti richiedono abilità nel saper prestare orecchio e ascoltare gli stralci di storie che emergono dalle telefonate o che vengono raccontate dai colleghi, per aggiornarsi e apprendere dalle storie degli altri e per poter sorprendere e cogliere le difficoltà dei compagni in modo da intervenire con prontezza al fine di aiutarli e coordinarsi (Heath e Luff, 1994, Joseph, 1994; Grosjean, 2005; Pentimalli, 2008; Gobo et al. 2008). Il mestiere di consulente front-office è quindi eminentemente collettivo. La risoluzione congiunta delle richieste degli utenti (Goodwin, 1995, Bassetti, 2008) poggia su di una conoscenza pratica che si costruisce in azione e che giorno per giorno viene aggiornata e condivisa tra colleghi. I consulenti sanno abilmente origliare le chiamate gestite dai compagni e, tra una telefonata e l’altra, hanno l’abitudine di commentare a voce alta una chiamata con la quale hanno avuto appena a che fare (la signora era disperata) e di raccontasi le storie di errori medici narrate al telefono dai cittadini. Chi ha gestito un caso particolare, lo espone agli altri (io ho un caso). Chi, sfruttando la risorsa dell’ufficio in open space, ha “origliato” la telefonata di un collega, gli chiede notizie (che è successo?), invitandolo al racconto. Tali scambi, commenti e conversazioni permettono di far circolare “storie sulle storie dei cittadini” e sono indispensabili alla condivisione di un sapere comune su come gestire le loro chiamate. Il racconto delle storie permette di avvicinare eventi di malpractice somiglianti grazie ai colleghi che li commentano (è lo stesso caso del Gemelli?) o ricordano (mi è capitato un caso simile / è come la storia della signora…).

    Il Consulente S racconta la sua telefonata: dice che il campione midollare se lo sono persi o non hanno fatto la diagnosi, la figlia richiede informazione senza delega e quindi non gliela danno, al *** [nome ospedale] non risulta nella cartella clinica il prelievo per diagnosticare la sospetta encefalopatia, gli hanno risposto: richiesta non pertinente
    Coordinatrice: mancano i modi, lo metterei per il seminario di formazione per i medici
    Consulente S: La Regione ha risposto ma la Direzione Sanitaria no, diagnosi c’è, ma se hai fatto un prelievo e non metti cosa è venuto fuori! Adesso è ricoverata in Molise, dovrebbero farle un altro prelievo ma nelle condizioni in cui sta non glielo possono fare e quindi vorrebbero sapere la diagnosi del primo prelievo
    Coordinatrice : non è la signora che doveva andare dai carabinieri?
    Consulente S: no è un’altra
    Coordinatrice : era sempre al Gemelli?
    Consulente MT sarà lo stesso caso?
    Coordinatrice: se non mi dicono niente vado dai carabinieri!
    Consulente S [guarda il riassunto della storia sulla scheda informativa e vede che c’è scritto che la signora voleva andare dai carabinieri] il caso è questo, ha risposto la Regione
    Coordinatrice : almeno si stanno muovendo, cosa ha detto la Regione?
    Consulente: che si poteva scrivere, ma fanno fesserie, la figlia non ha messo l’Assessorato, la lettera è scritta male.

    Le storie possono essere a puntate. Lo stesso cittadino può chiamare più volte e aggiungere altri elementi alla sua storia parlando con consulenti diversi che durante la telefonata o subito dopo si confrontano ed aggiornano. Il consulente che origlia stralci di un dialogo telefonico condotto da un altro, interviene dicendo (ah sì doveva dirmi come era andata a finire con il trasferimento del marito) e poi appena vede che il collega ha chiuso la telefonata chiede il seguito della storia (allora la signora poi che ti ha detto?) oppure il collega stesso comincia a raccontare in modo plateale il seguito della trama, rendendola accessibile anche agli altri.

    Il consulente è al telefono con una signora molto agitata a causa del marito in attesa del trapianto di entrambi i polmoni che è stato trasferito in una clinica sprovvista di ventilazione polmonare, e che dovrà quindi essere ritrasferito in ospedale: Pronto? Buongiorno, sì mi dica…questo mercoledì praticamente… sì diciamo per l’urgenza… suo marito sarà trasferito nel reparto di rianimazione. Al PS del *** sarà comunque più seguito, sono in grado di gestire una situazione di questo tipo… Sì il trasferimento è stato disposto perché si sono accorti che permangono in una situazione di urgenza e che loro non hanno una struttura adatta. La soluzione ottimale sarebbe di inviarlo al reparto ma non c’è posto, bisogna tenerlo sotto controllo e in clinica non si può fare, sembrerebbe un comportamento schizofrenico… i suoi dubbi sono più che ragionevoli ovviamente, certo, è giusto, teoricamente lo avrebbero dovuto sapere prima dal fax dell’ospedale… signora se la situazione è reputata da loro grave quindi con un codice di priorità giallo… se è rosso non dovrebbe più essere in clinica, io credo sia giallo… il problema è che se non si libera un posto nel reparto, è possibile magari che si liberi nel breve tempo non so come darle una mano, un’indicazione potrebbe essere il medico curante, durante questi trasferimenti visto che l’ospedale ha mandato il fax in maniera grossolana, lei lo dica al medico di famiglia è importante… sta seguendo la situazione di suo marito? Lo tenga aggiornato, mi lascia il suo nome così lo comunico alla collega Signora Rossini. va bene grazie.
    Finita la telefonata, il consulente S. si rivolge alla collega V. che aveva gestito la prima chiamata della moglie: era la signora Rossini, quella del marito, c’è stato uno sviluppo ulteriore dell’ultimo secondo, lo vogliono trasferire di nuovo in ospedale ma non c’è posto nel reparto, il fax mandato dall’ospedale era senza specifica che faceva ventilazione polmonare e quindi la clinica sprovvista di macchinari per la ventilazione lo sta trasferendo al PS, la signora è giustamente preoccupata, il trasferimento si fa nella speranza si liberi un posto in reparto
    V: altri fax li stanno mandando ad altre strutture?
    S: questo non l’ha detto
    V: hai detto di richiamare?
    S: le ho detto ci tenga aggiornati
    V: come hai detto che si chiama, Rossini ?
    S: sì, Rossini
    V: e ti ha lasciato un numero di telefono?
    S: no! Pensavo l’avesse detto a te!
    V: come siete rimasti? ;
    S: di tenerci aggiornati previo consulto del medico di base

    I consulenti dei telefoni gestiscono spesso la storia drammatica narrata dai familiari o dalla presunta vittima che denunciano il trattamento poco “umano” dei medici. Nel raccontare una telefonata e una storia di quel tipo, descrivono lo stato emotivo di chi chiama, si confrontano, verificano e condividono le strategie da adottare o già adottate per calmare chi è agitato, rincuorare e non impaurire chi è deluso, non incitare chi è arrabbiato a sporgere denuncia:

    La signora è un po’ un fiume in piena, era arrabbiata, inviperita, deve aspettare il risultato degli esami, è legato all’aspetto relazionale, ha sentito un senso di abbandono del medico dell’ospedale, dopo l’operazione le sono rimasti due pezzi di tiroide, al *** le stanno facendo uno screening. Sono rimasta cauta, non mi sembrava disposta a fare causa, per non farle capire che le è capitato una cosa grave, non la volevo incitare a fare denuncia per non impaurirla, le ho consigliato di fare gli esami, gli accertamenti e poi vediamo.

    Scambiandosi ipotesi sulla possibilità di comprovare il racconto del cittadino, ribadiscono l’importanza delle prove cliniche e documentali, indispensabili alla perizia medico legale

    Il consulente S. racconta il caso della morte di un kosovaro in un campo rom colpito da una meningite che secondo la moglie è dovuta all’arrivo in ritardo dell’ambulanza e commenta: “bisogna provare che l’ambulanza è arrivata in ritardo, è quello che dice la moglie, hanno chiamato il 118 e che non sarebbe arrivato, va comprovato”. Una collega aggiunge: “se si tratta di una meningite fulminante non è che l’arrivo dell’ambulanza poteva cambiare qualcosa, bisogna ritrovare la diagnosi di accesso, ritrovare la chiamata al PS sul tabulato”.

    Spesso la coordinatrice si rivolge ai consulenti invitandoli al confronto (Finisce lei e ci mettiamo fuori gruppo e facciamo il punto?) o chiede se ci sono casi eclatanti incoraggiandoli a raccontare brevi storie (la signora Gelsomimo non ci vede da un occhio, ha fatto un’operazione che è andata male al ***) e a scambiarsi commenti anche divertenti (la signora è simpatica ma è disperata) che in tono conviviale permettono di comunicare ai colleghi i nomi dei cittadini accanto alle loro storie, alimentando così un patrimonio condiviso. I consulenti scherzano sui nomi (si chiama Rosalia tipico palermitano!), sospendono la conversazione per segnalare il nome di un cittadino aneddotico o riportano la storia e il nome di un cittadino che potrebbe richiamare, comunicando le strategie di risposta da adottare

    Se richiama il signor Ciuffo è ultra assistito, quello che piange al telefono, è un signor che ha avuto un ictus e parla male, ha una situazione familiare difficile, si sfoga così chiama tutto il mondo: ‘sono una vittima della mia famiglia, il medico non mi aiuta, la mia famiglia non mi fa uscire’, non ha alcun motivo di lamentarsi, ha un medico di famiglia è un santo, è super seguito.

    Le chiacchiere e le brevi storie raccontate tra una telefonata e l’altra permettono di avvisare i colleghi affinché si preparino la risposta in caso di richiami, non siano presi alla sprovvista, si ricordino a che punto era la storia a puntate di un cittadino, si familiarizzino con il caso, ricordino i nomi dei cittadini e le loro storie correlate. Parlare della storia dei casi, segnalando i nomi dei cittadini o degli ospedali e il modo in cui si è risposto, aiuta a ricordarseli per poter gestire i richiami, a paragonarli, a raggrupparli e contribuisce all’elaborazione delle modalità di risposta da dare ai cittadini. Tale conoscenza, che assicura la conduzione di telefonate auditivamente competenti (Whalen et al. 2002), si costruisce, si aggiorna, si comunica e si condivide giorno per giorno (Hutchins, 1990; 1995; Lang Hing Ting & Pentimalli, 2009) tramite le storie e per “trasmissione diretta”, grazie all’aiuto reciproco tra colleghi, perché come afferma un consulente,“tre teste o quattro funzionano meglio di una”

    Non abbiamo una conoscenza formalizzata, qui c’è la modalità della trasmissione diretta: non so rispondere a questa persona, lo metto un attimo in attesa e chiedo: vi posso chiedere una cosa? ed è lì che imparo perché se una cosa è risolvibile la risolviamo subito e lo facciamo con la collaborazione. Se il caso è complicato facciamo queste supervisioni pomeridiane dove ci confrontiamo perché tre teste o quattro funzionano meglio di una. E’ assolutamente condiviso, non c’è un protocollo formale, l’unico protocollo è diamoci una mano perché facciamo prima, diamo prima una risposta alla persona e creiamo prima un modo per noi di rispondere. Sembra una cosa fatta in casa, personalmente a me piace rispetto ad un protocollo impostato. E’ una conoscenza e una condivisione che si impara quotidianamente.

    L’attività di raccontare e far circolare le storie narrate al telefono dai cittadini, non va vista come una perdita di tempo in chiacchiere (Stucky, 1994; Teiger, 1995). I colleghi-ascoltatori apprendono e si preparano a rispondere ai richiami quando capiteranno su di una storia che a questo punto suonerà loro familiare, intervengono per avvicinare storie somiglianti (mi è capitato un caso simile, è come la storia di quella signora), si accordano se sia o meno il caso di incoraggiare i cittadini a seconda della plausibilità e della dimostrabilità delle loro storie, sorrette o meno da prove documentali [13]. L’aver ascoltato la storia di un collega, o un suo commento ironico su di un cittadino dal nome particolare, farà si che al momento di un eventuale richiamo, la storia e il nome del cittadino suoneranno familiari. Ogni consulente in tal caso potrà sempre interpellare il collega che aveva gestito quella stessa storia (ti era capitata a te la storia di quella signora il cui marito è stato trasferito due volte?) o quest’ultimo, prestando orecchio alla telefonata, interverrà per raccontare ‘a che punto era la storia’ e cosa aveva consigliato al cittadino di fare. Avvicinando storie e casi simili, i consulenti riescono a coordinarsi, a mostrare ai cittadini che ricordano la loro storia e seguono il loro racconto. L’équipe si accorda in modo collettivo, congiunto, situato e plateale su come classificare i casi e le storie ed uniformare le soluzioni e le risposte da dare. Se un collega conferma che una storia simile (di diagnosi tardiva) ha avuto un esito negativo dopo la consulenza medico-legale, ciò inciterà il consulente ad usare il condizionale per non dare false speranze al cittadino il cui parente è colpito da un tumore incurabile, la cui diagnosi anche se effettuata prima, non avrebbe cambiato niente. I consulenti mediante tali procedimenti narrativi, elaborano un primo filtraggio e una “prima diagnosi del caso”, sebbene questa loro attività (come capita anche agli infermieri) non sia riconosciuta dato che non detengono né il sapere medico né quello legale degli esperti del back office.

    I consulenti della centrale di Ascolto fanno come i tecnici delle fotocopiatrici studiati da Orr (1990; 1996) che per risolvere i problemi con la macchina si addentrano in un “procedimento narrativo” raccontando storie relative a situazioni simili incontrate precedentemente (Poggio, 2004). La loro diagnosi consiste nella produzione situata della comprensione attraverso la narrazione (Orr, 1990: 314). Per giungere alla soluzione del problema, avvicinano “frammenti di esperienza” tratti dalla “memoria della comunità”. Le storie raccontate dai tecnici sono piene di dettagli a prima vista insignificanti, di istruzioni pratiche nella forma di scorciatoie ed esempi di problemi e di nuovi modi di intendere e vedere la relazione tra il cliente, la macchina e il tecnico (Orr, 1990: 105). Stimolando l’interazione tra ricordi, esperienze passate, osservazioni e intuizioni, le storie portano alla risoluzione del problema (Brown e Duguid, 1991) I tecnici, come dei veri bricoleurs raccontano le loro storie conservando l’evento in tutti i suoi minimi dettagli, sapendo che al sorgere di situazioni simili ciò si rivelerà molto utile (Orr, 1990: 322). Le storie raccontate sia dai consulenti della nostra centrale di ascolto sia dai tecnici di Orr, si sedimentano, costruiscono un repertorio, un “patrimonio condiviso della comunità” pronto ad essere usato e modificato in altri contesti diagnostici simili. Grazie alla sua natura situata e alla capacità di veicolare forme di conoscenza tacita, la narrazione svolge una funzione diagnostica e rappresenta un mezzo efficace per risolvere problemi e prendere decisioni. Le storie attingono all’esperienza del passato per orientare l’azione presente (Boje, 1995; Cortese, 1999), forniscono dei copioni ma anche un insieme di valori che guidano le decisioni dei membri dell’équipe. I consulenti sanno che non devono illudere e dare speranze a cittadini le cui storie di presunto errore medico hanno poche chance di essere dimostrabili.

    Il raccontare e condividere le storie dei cittadini assicura la circolazione di informazioni rilevanti e utili allo svolgimento delle attività e alla risoluzione dei problemi quotidiani ed è essenziale ai consulenti che così si accordano, si coordinano e imparano come rispondere ai cittadini. Le storie si sedimentano in un repertorio condiviso e veicolano un sapere alla base dell’apprendimento delle competenze del mestiere che avviene soprattutto mediante pratiche narrative (Gherardi e Nicolini, 2001; 2004; Gherardi, 2000).

    3.2 Storie che tramandano i trucchi del mestiere, l’etica professionale e il galateo dell’équipe

    La circolazione di storie tra consulenti della centrale di Ascolto ha messo in risalto le loro abilità narrative. Tali storie, “chiacchiere tra colleghi” e conversazioni anche piacevoli che talvolta ironizzano sui nomi e le personalità dei cittadini, svolgono diverse funzioni.

    Una prima funzione ha a che fare con la costruzione quotidiana di una équipe solidale i cui membri si aiutano a vicenda. Raccontare e ascoltare le storie degli altri, ma anche prestare orecchio alle telefonate e alle storie di errore medico che vi sono trattate, è un modo di far vedere e ribadire ai colleghi che si sta prestando attenzione al loro lavoro e che si è disponibili a condividere informazioni e ad aiutare chi ne avesse bisogno (Joseph, 1999); è un modo di esibire e ribadire il rispetto delle regole di mutuo aiuto in vigore nella piccola comunità (Pentimalli, 2010b). Un novizio, osservando lo scambio di tali storie, sarebbe progressivamente in grado di capire la loro funzione ed imitando gli altri narratori, mentre si sperimenta nella pratica professionale, comincerebbe ad apprendere “come stare e comportarsi al lavoro” (Gherardi e Nicolini, 2001). Come è già stato detto, le storie di errori medici raccontate tra consulenti permettono anche di accordarsi in modo congiunto e plateale sulle modalità di risposta da dare ai cittadini, preoccupandosi della dimensione etica del loro lavoro (avendo a che fare con un certo tipo di ‘casi drammatici’ per i quali la perizia medico legale sconsiglierà l’avvio di un’azione legale per mancanza di prove, non danno false speranze ai cittadini delusi, arrabbiati e disperati). Le storie dei consulenti svolgono lo stesso ruolo delle storie di famiglia che tramandano i valori di aiuto reciproco, gli stili comportamentali, il linguaggio in uso tra i membri. Le storie in tal senso performano un certo controllo sociale, indicando come bisogna lavorare, cooperare, rispondere ai cittadini. L’équipe, come la famiglia, esiste grazie alle storie scambiate, è costruita e mantenuta nella quotidianità grazie a una molteplicità di pratiche discorsive e narrative attraverso le quali la famiglia si fa (Formenti, 2002; Poggio, 2004). Il racconto delle storie del passato è anche un momento per ritrovarsi, condividere e ricordare esperienze comuni, sancire l’appartenenza alla comunità (Jedlowski, 2000).

    Lo scambio di storie su errori medici che conduce all’elaborazione di un repertorio condiviso, svolge una funzione di guida e orientamento, produce istruzioni per l’agire e per dare senso all’agire (in particolare per i novizi), offre la soluzione ai problemi e aiuta a prendere decisioni. La circolazione delle storie ha una funzione culturale e pedagogica. La narrazione all’interno delle organizzazioni è uno strumento di legittimazione e trasmissione dei valori e delle norme culturali utile alla socializzazione dei suoi membri, come lo sono anche le fiabe raccontate ai bambini (Czarniawska, 1997b, Gagliardi, 1995). Attraverso le storie è possibile creare una cultura e un’appartenenza comune e produrre un senso di comunità. Conoscere le storie che circolano all’interno di un gruppo o di una comunità aiuta a comprendere e a gestire le relazioni al suo interno e certifica l’appartenenza dei membri al gruppo (Poggio, 2004: 79). Come dice anche Jedlowski (2000) chi non conosce le storie è fuori dal gruppo. Inspirandosi all’etnografia della comunicazione, l’équipe dei consulenti può essere considerata una speech community (Gumperz, 1972), una comunità di narrazione (Poggio, 2004: 82) che nel raccontare le storie esemplari raccontate dai cittadini (la storia del distacco della retina provocato da un intervento chirurgico, la diagnosi tardiva di una patologia comunque incurabile, la storia del referto smarrito…) e il tipo di modalità di risposta adottato (rincuorare il cittadino, non dargli troppe speranze in mancanza di prove…), costruisce sé stessa, negozia e tramanda le regole rispetto al “giusto” modo di comportarsi, collaborare, rispettare gli altri e comunicare sia con i colleghi che con i cittadini.

    Le storie costruiscono e trasmettono quel sapere tacito (Polanyi, 1958) che sancisce la padronanza delle competenze del mestiere e l’appartenenza alla comunità professionale (Gherardi e Nicolini, 2001; Poggio, 2004). Le storie sono un ingrediente tipico della trasmissione del mestiere all’interno delle botteghe artigiane, parte integrante dell’attività di apprendistato, durante il quale, attraverso il racconto di casi memorabili, il mestiere viene sintetizzato e trasferito in forme poi non molto dissimili anche all’interno delle moderne organizzazioni (Jedlowski, 2000; Poggio, 2004: 83). Le storie che circolano tra colleghi permettono di costruire, conservare e distribuire il sapere del mestiere, agiscono e stimolano l’apprendimento organizzativo (Boje, 1995; Cortese, 1999). I consulenti nello svolgere il loro lavoro, hanno l’abitudine di narrare ed ascoltare le storie su presunti errori medici con le quali hanno avuto a che fare, e, come si è visto, il narrare svolge una funzione diagnostica che permette di risolvere i problemi, sia attuali sia futuri, quando affronteranno casi e storie simili (Orr, 1990). Il ruolo essenziale della narrazione per l’apprendimento organizzativo è legato al concetto di comunità di pratica (Lave e Wenger, 1991) ovvero ad un gruppo di persone che svolge lo stesso tipo di attività e ne detiene il sapere (i modi di agire ed interpretare gli eventi) che però non è statico ma si costruisce e aggiorna giorno per giorno e si trasmette tramite narrazioni. L’apprendimento del mestiere non poggia solo sull’acquisizione di conoscenze astratte e individuali, sebbene le ‘organizzazioni moderne e scientifiche’ tendano ad impostare la formazione su tabelle, elenchi, protocolli, ignorando che in realtà la maggior parte dell’apprendimento organizzativo avviene attraverso la circolazione di storie (Czarniawska, 1997a :8). Tramite le storie gli attori organizzativi imparano ad agire come membri competenti di una comunità di pratica (Brwon, Collins, Duguid, 1989). Nel caso dell’équipe dei consulenti della Centrale di Ascolto e dei tecnici studiati da Orr (1990; 1994) una delle competenze essenziali del loro mestiere implica l’acquisizione del modo di parlare tra membri della stessa comunità e la capacità di riconoscere e raccontare storie adeguate. La ricerca etnografica condotta da Orr (1990, 1996) presso la Xerox, sottolinea come le “storie di guerra”, ovvero le storie che si raccontano i tecnici sui loro incontri con le macchine fotocopiatrici difettose e con i clienti, veicolano un apprendimento organizzativo, attraverso il quale l’identità professionale e le modalità appropriate di stare nella comunità, vengono costruite, ribadite e tramandate. I consulenti, alla stregua dei tecnici, nel raccontare le storie esemplari su presunte malpractice mediche narrate dai cittadini (la storia del distacco della retina per un intervento chirurgico; la diagnosi tardiva di una malattia comunque incurabile; la storia dell’errato trasferimento in una struttura inappropriata) e nel comunicare come hanno risolto problemi e risposto ai cittadini, mostrano se stessi come professionisti competenti e lo diventano proprio grazie alla circolazione di storie che veicolano conoscenze (Poggio, 2004). Tali storie producono e salvaguardano la “memoria di comunità”, ovvero quel bagaglio di conoscenze che si costruisce, viene condiviso e messo in pratica nel lavoro quotidiano e che altrimenti rischierebbe di andare perduto. Inoltre, tali racconti, favoriscono un atteggiamento riflessivo sulla propria pratica (Schön, 1993) molto più delle pratiche di formazione tradizionali (che si basano su manuali, direttive, protocolli, regolamenti) che andrebbero difatti ripensate alla luce dell’importanza rivestita dalle narrazioni e dalle “chiacchiere tra colleghi”. La stessa presenza dell’etnografa ha incitato i consulenti al racconto delle loro pratiche permettendo loro di scoprire a posteriori il senso e le abilità del loro mestiere.

    L’acquisizione di un repertorio di storie appropriate, che veicolano i trucchi del mestiere, implica anche sapere quali sono i momenti e i luoghi appropriati per raccontarle. Tale sapere è parte integrante del processo di apprendimento che conduce alla padronanza delle competenze del mestiere. Il novizio, nel seguire un percorso di progressivo avvicinamento dalla periferia al centro della comunità di pratica [14], ascolta dapprima un po’ in disparte tali narrazioni per poi sperimentarsi, imitando gli anziani e/o i più esperti, sia nello svolgere la pratica lavorativa sia nel raccontare anche lui delle storie, mostrando così quanto sia importante la dimensione esperienziale dell’apprendimento e quanto sia la pratica a dare vita alle storie (Gherardi, 2000).

    Le storie non sono storielle, chiacchiere sovversive e dispersive che distraggono dall’impegno lavorativo (Teiger, 1995; Stucky 1994). Le storie costruiscono, negoziano, condividono, conservano e trasmettono un insieme di norme e valori (Gabriel, 1998; Cortese, 1999). Veicolano i significati e le dinamiche della cultura organizzativa e nel negoziare, ribadire e tramandare giorno per giorno i valori, il galateo e l’etica professionale, indicano e costruiscono i modi giusti e abituali di agire e partecipare. Solamente se si sanno raccontare, se si conoscono e capiscono le storie della comunità, si apprende il modo appropriato di fare le cose e di interpretare gli eventi (Gherardi e Nicolini, 2001:253). Solamente così, ogni narratore e destinatario di storie è legittimato e riconosciuto come membro competente della sua comunità professionale (Orr, 1990, 1994; Zucchermaglio, 1995).

    Conclusioni

    Condividendo il crescente interesse delle scienze sociali per le storie che vengono raccontate e circolano all’interno delle organizzazioni [15], l’intento del saggio è stato quello di mostrare il carattere euristico di un approccio narrativo che riposa sulla raccolta di un repertorio di storie organizzative (mediante osservazioni etnografiche o interviste) e su di un’analisi degli artefatti narrativi che si muovono all’interno dell’organizzazione. Alcune storie sono colte dal vivo e in situazione naturale, mentre osservavo le pratiche quotidiane di lavoro alla Centrale di Ascolto; altre mi sono state raccontate dai consulenti dei telefoni mentre ero seduta al loro fianco o durante le interviste condotte con loro. Tutte le storie raccontano storie su presunti errori medici raccontate al telefono dai cittadini.

    L’accesso al contenuto degli artefatti narrativi che circolano al TdM non è stato sempre diretto. L’osservazione della compilazione della scheda (il cui contenuto veniva trascritto sul mio taccuino) nella quale i consulenti front office ricostruiscono in modo sequenziale e coerente la storia orale, confusa ed emotiva del cittadino, mi ha permesso di svelare le abilità essenziali del loro mestiere. L’osservazione della conduzione del dialogo telefonico con il cittadino ha rivelato le loro abilità di story taker, di destinatari attivi e comprensivi che, seppur a volte dubitando della plausibilità del racconto del cittadino, svolgono un delicato lavoro che è al contempo emotivo e investigativo: rincuorare, calmare, rassicurare parenti e presunte vittime e mostrar di credere a quel che dicono e al contempo porre loro domande sonda per ricostruire la sequenzialità e i nessi causali del racconto e valutare che esso sia sorretto da prove documentali. Non avendo potuto consultare il promemoria scritto dal cittadino né tantomeno la cartella clinica, le storie, gli eventi e i personaggi che le caratterizzano sono emerse e mi sono state raccontate dai consulenti dell’area medico-legale durante le interviste o le osservazioni delle loro sessioni di lavoro. Ciò ha permesso di scoprire quanto la consulenza medico-legale consistesse nell’affiancare e interpretare due storie dai generi letterari, i saperi e le prospettive divergenti: la storia fredda, scientifica e schematica della cartella clinica, mediante la quale i medici legittimano le loro azioni e tentano talvolta di difendere la loro professionalità, celando i loro errori, e la storia emotiva, esperienziale e profana del cittadino che accusa il medico di negligenza [16]. L’accostamento tra le due storie, alla ricerca di indizi, prove, congruenze o incongruenze, conduce all’elaborazione di un responso e alla scelta della versione più plausibile e dimostrabile, sebbene essa non corrisponda alla realtà delle pratiche che hanno o meno condotto all’evento avverso. Le frontiere tra ciò che può essere considerato un errore medico o una complicanza che non dipende dalla professionalità e bravura del medico sono socialmente costruite, sono molto labili e mai del tutto tracciabili.

    L’affiancamento dei consulenti della Centrale di Ascolto, mi ha anche permesso di collezionare un repertorio di storie sugli errori medici (narrate al telefono dai cittadini), che i colleghi si raccontano, anche in tono conviviale, mentre lavorano e che li aiuta a risolvere i problemi e le richieste poste dai cittadini. Descrivendo nei minimi particolari i momenti interazionali durante i quali avveniva tale circolazione di storie, ho colto il loro carattere essenziale per l’apprendimento del mestiere. Raccontare agli altri le storie di errore medico con le quali si sta avendo o si è avuto a che fare, descrivendo nei minimi particolari la versione della storia data dal cittadino, il suo stato emotivo e come si pensa di rispondergli o si è già risposto, contribuisce alla costruzione di un repertorio di conoscenze su come lavorare, cooperare e gestire storie, casi e problemi simili ai quali si è o si sarà confrontati.

    L’apprendimento del mestiere poggia sulle storie e avviene attraverso le storie. L’acquisizione della padronanza delle competenze professionali implica l’apprendere a raccontare, ascoltare e capire le storie che circolano tra i membri dell’équipe. Le storie veicolano e negoziano i giusti modi di stare al lavoro e in comunità, di aiutarsi tra colleghi, di rispondere ai cittadini. Ovvero tramandano i trucchi del mestiere, l’etica professionale e il galateo dell’équipe. E’ solamente se si apprende l’arte di raccontare e di capire le storie, che si apprende il modo appropriato di fare le cose e di interpretare gli eventi (Gherardi e Nicolini, 2001). E’ nel padroneggiare tali abilità narrative che si può rivendicare l’appartenenza all’équipe ed essere legittimamente riconosciuto come membro competente della comunità professionale (Orr, 1990, 1994; Zucchermaglio, 1995).

    Note

    1] Atkinson et al, 1995, 2001; Bruni, 2003; Marzano, 2006.
    2] Il TdM, nasce per garantire la tutela dei diritti dei cittadini e sviluppare il loro empowerment affinché imparino a sapersi muovere, districare e orientale nella complessità dei servizi sanitari, pubblica un report annuale, effettua un monitoraggio delle organizzazioni sanitarie, progetta e avvia campagne e progetti per la sensibilizzazione e la prevenzione del rischio ed il miglioramento della qualità e sicurezza in sanità.
    3] A causa della delicatezza delle storie drammatiche dei cittadini, all’inizio della mia ricerca, non ho osato chiedere di mettere i loro telefoni in viva voce. Quando lo hanno poi fatto, ciò provocava dei suoni che disturbavano sia la comunicazione con il cittadino sia il lavoro dei colleghi circostanti.
    4] I consulenti, pur essendo in qualche modo abituati ad ascoltare le storie drammatiche dei cittadini, non sembrano indifferenti e durante le conversazioni con l’etnografa hanno più volte parlato del loro coinvolgimento emotivo. La stessa ricercatrice non è rimasta indifferente alla drammaticità delle loro storie.
    5] Il medico che ha commesso a suo avviso un errore o una negligenza, ma anche l’avvocato se il cittadino è scottato da una causa che nel passato non ha avuto un esito positivo.
    6] “no signora non sono un medico, non sono un avvocato”.
    7] Non avendo ascoltato e registrato le narrazioni dei cittadini, non è stato possibile analizzare nel dettaglio a quali risorse linguistiche, retoriche e culturali attinge il narratore per cercare di persuadere gli ascoltatori (Riessman, 1993). Nella mia ricerca le storie dei cittadini sono state ricostruite seguendo la conversazione telefonica gestita dal consulente, annotando le sue domande e osservando la scrittura del riassunto della storia sulla scheda del PC. L’osservazione del tenore delle prestazioni telefoniche e le conversazioni con i consulenti, dopo ogni telefonata, che mi raccontavano e commentavano la storia narrata dal cittadino, mi hanno però permesso di cogliere l’uso da parte dei cittadini, di toni di voce e pianti che inteneriscono chi ascolta le loro storie.
    8] L’essere trattati come ‘oggetti’ e non come persone è una lamentela che emerge spesso dai racconti dei cittadini. Il TdM partecipa difatti a seminari per umanizzare le cure rivolti ai medici, la cui formazione universitaria e esperienza professionale, insegna loro a ‘oggettivare’ il corpo e gli organi del paziente e non a vederlo come una persona nella sua Gestalt (Pizza, 2005).
    9] Gli stili narrativi dei 3 consulenti sono in parte legati alla più o meno grande anzianità e dunque esperienza acquisita nel servizio. Durante la telefonata, i più esperti tendono a prendere pochi appunti, per parole chiave, e scrivono sulla scheda storie sintetiche nelle quali sono comunque presenti gli elementi salienti, mentre i meno esperti annotano anche intere frasi dette dal cittadino e descrivono la storia in modo più dettagliato. Ambedue gli stili tengono comunque conto della versione del cittadino e lasciano trasparire il suo vissuto emotivo.
    10] Cartella clinica e infermieristica, lastre, consenso informato, fogli di dimissione.
    11] La ricerca etnografica nell’area medico legale è tuttora in corso e permetterà di svelare con maggiore finezza le sottigliezze e la complessità del lavoro che effettuano gli esperti per ricostruire a ritroso e allineare la pluralità di storie, resoconti, immagini, inserite in cartella dalle diverse professioni che agiscono sul corpo del paziente.
    12] Ginecologo, oncologo, radiologo, oculista, ortopedico, chirurgo.
    13] Dimostrando un retroterra di conoscenze medico-legali che li aiuta a capire quali storie hanno maggiori probabilità di essere dimostrabili e che vale la pena inoltrare nel back office (area medico legale).
    14] L’apprendimento del mestiere alla Centrale di Ascolto poggia su di una prima fase di affiancamento all’esperto per poi cominciare a rispondere alle chiamate contando sulla possibilità di chiedere aiuto agli altri.
    15] Czarniawska, 1997a, 1997b, 2004; Gabriel, 2000; Boje, 1991, 1995, 2000; Weick, 1995; Jedlowski, 2000; Gherardi, 2000, Poggio, 2004.
    16] Ricordo che la ricerca etnografica nell’area medico legale è tuttora in corso e permetterà di svelare ancor di più il complesso lavoro effettuato dagli esperti per ricostruire e allineare ex post la pluralità di storie, resoconti, immagini… inseriti in cartella clinica dalle diverse professioni che agiscono sul corpo del paziente.

    Bibliografia

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