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  • La somatizzazione della precarietà
    Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011

    FIGURE POLITICHE DEL PRECARIATO NEGLI ANNI ‘70: BREVI CENNI PER UNA GENEALOGIA

    Andrea Cavazzini

    cavazz.a@tin.it
    Docente a contratto di Storia della Filosofia Moderna e Contemporanea presso l’Università Cattolica di Bruxelles e Assegnista in Scienze Umane presso l’Università Cà Foscari di Venezia. Filosofo ed Epistemologo, ha approfondito sia tematiche proprie della Filosofia della Scienza che della storia delle Idee, con particolare riferimento alla vicenda del movimento operaio in Italia.

    « Di bene un attimo ci fu
    Una volta per sempre ci mosse »
    Franco Fortini

    Il tema della precarietà – sul piano lavorativo e su quello, correlato al primo, “esistenziale” – trova, in Italia, un primo momento di formulazione attorno alla metà degli anni Settanta. Si tratta innanzitutto di una formulazione, non esclusivamente sociologica né macroeconomica, ma direttamente politica, fermo restando che queste tre dimensioni non sono realmente separabili nel discorso marxista, che ha indubbiamente “tenuto a battesimo” l’emergenza della figura del precario, ed in particolar modo nella sua variante operaista [1] che ha rappresentato un punto di riferimento incontestabile per i movimenti e le creazioni politiche da cui la Penisola è stata investita nel secondo dopoguerra. È appunto all’area politica che svilupperà, fino ad oggi in effetti, i temi tipici del post-operaismo – cioè all’area dell’Autonomia – che largamente si deve non solo il fatto di aver colto la singolarità della condizione di “precario”, nella sua differenza rispetto ad altre figure, fino ad allora più abituali, della forza-lavoro (o meglio della trasformazione di questa in soggetto politico portatore di un’ipotesi di alternativa ai rapporti di produzione capitalistici – cioè in “proletariato”); ma anche, e soprattutto, di aver interpretato l’emergere di questa figura come il sintomo di una transizione decisiva nel “circuito” tra forma-Stato, configurazione dei rapporti capitalistici e fenomenologia dei comportamenti individuali e collettivi propri ai soggetti (nel senso del francese sujet, cioè “soggetto” e “suddito”, o anche dell’italiano “assoggettare”) presi nelle nuove modalità tanto della produzione che della regolazione sociale e politica dei processi economici. Il precariato, quindi, come figura generalizzabile dei rapporti sociali, e la precarietà come forma specifica di rapporto sociale che, lungi dall’essere circoscritto allo stato d’eccezione della crisi che lo vede sorgere, implica e prefigura piuttosto un’estensione della crisi, una perennizzazione dello stato d’eccezione, in grado di trasformare profondamente l’insieme delle relazioni sociali e di diventare un paradigma tanto dell’oggetto che degli strumenti della governance socio-economica contemporanea. In effetti, si tratta di una riscoperta di un tema marxiano classico: la natura strutturale, entro le relazioni capitale-lavoro, di strategie solo apparentemente “irrazionali” - la distruzione di competenze anche di alto livello, l’aggravarsi di forme diverse di degradazione del corpo sociale, allo scopo di rimuovere, più che gestire, un livello di conflittualità sistemica troppo elevato.

    Il primo emergere, nella realtà e nel discorso-teorico-politico, della precarizazzione intensiva della forza-lavoro segue immediatamente il ciclo di lotte operaie del ’69-’73. In effetti, il ciclo della conflittualità operaia, che trova il suo epicentro nella grande industria del Nord Italia (paradigma ne è evidentemente la Fiat), è iniziato già nei primi anni Settanta, in coincidenza con il “miracolo economico” che ha segnato l’industrializzazione rapida e massiccia delle aree settentrionali della Penisola. Una nuova classe operaia, differente dagli “operai di mestiere” ancora padroni di competenze quasi-artigianali, ma anzi definita da compiti seriali, dequalificati e massificati, rigidamente programmati dall’alto, e composta perlopiù da giovani di origine contadina sradicati dagli impetuosi flussi migratori, sviluppa una conflittualità inedita rispetto a rapporti sociali che vengono percepiti come un “sistema” totale inglobante le dimensioni economiche, politiche, istituzionali, socio-psicologiche nel quadro di una “società di massa”, come dirà la Scuola di Francoforte, “integralmente amministrata”, che programma ritmi e modi di lavoro, consumi, acquisizione di competenze, vita quotidiana… Dequalificazione del lavoro e dispotismo di fabbrica, da un lato, e dall’altro, colonizzazione della soggettività, definiscono ciò che, all’epoca, inizia ad essere chiamato “neo-capitalismo” [2], e le cui contraddizioni interne investono anche l’esterno della fabbrica propriamente detta. Il “neo-capitalismo” è un capitalismo dirigista che tende a far coincidere pubblico e privato, intervento statale e attori economici, e che ha bisogno di modellare i comportamenti e i saperi sociali a propria immagine, al fine di garantire, non solo un determinato livello di consumi, ma anche, e soprattutto, l’esistenza di competenze, pratiche e “stili di vita” adeguati alla propria riproduzione [3].

    Donde l’impulso ad una scolarizzazione di massa che investe un’Italia ancora rurale, attraversata da importanti fenomeni di arretratezza (analfabetismo, carestie, mortalità infantile nelle campagne…): una massa imponente di studenti usciti dalle classi popolari si trovano confrontati ad una scuola che, da un lato, riproduce le disuguaglianze tradizionali, dall’altro, destina i propri “utenti” ad un ruolo subordinato nel circuito produttivo, o statal-produttivo, del “neo-capitalismo”. Conflittualità operaia nel cuore dello sviluppo industriale; questione dell’uso sociale delle conoscenze; investimento politico della quotidianità e dei comportamenti: gli anni ‘60 riuniscono, e articolano, queste “correnti calde” che sfociano in un processo di politicizzazione generale destinato a mettere in crisi le forme abituali di espressione politica delle classi lavoratrici (partiti di sinistra, sindacati), e a incrociare minoranze ad un tempo intellettuali e militanti che cercavano, almeno dal 1956 (destalinizzazione e invasione dell’Ungheria), un’alternativa teorica e pratica al modello politico incarnato in particolare dal Partito comunista: la formazione di un arcipelago teorico e politico, detto Nuova Sinistra, vedrà in una prima fase la costituzione di nuclei, collettivi e riviste dediti ad articolare analisi dei rapporti sociali e intervento sui luoghi del lavoro e della produzione (i “Quaderni Rossi”, i “Quaderni Piacentini”); poi, con lo sviluppo delle lotte operaie e del movimento studentesco tra 1967 e 1968, alcune di queste realtà confluiranno nella creazione di gruppi extra-parlementari più strutturati e organizzati (Potere Operaio, Lotta Continua, ecc.). L’Autonomia nascerà, da un lato, dalla crisi interna delle prospettive politiche di questi gruppi, rivelatisi incapaci di costituire un’alternativa ai partiti e ai sindacati tradizionali; dall’altro, però, essa costruirà la propria identità strategica e teorica sull’analisi delle trasformazioni nella struttura del lavoro in cui, retrospettivamente, possiamo riconoscere il primo emergere del dato sistemico della precarietà.

    Tra il 1969, anno dell’autunno caldo e della convergenza politica tra lotte studentesche e operaie, e il 1973, data d’inizio di una devastante crisi economica, si dispiega e si consolida il “contropotere” operaio: nel 1974, la Flm, che riuniva le tre organizzazioni metalmeccaniche Fiom, Fim, Uilm, e che raccoglieva «milioni di iscritti che si riconoscevano solo nella sua tessera, non in quella delle Confederazioni sindacali, e tanto meno in quella del Partito comunista» [4], firmò «il più avanzato contratto di lavoro d’Europa; un contratto operaio che faceva proprio tutto l’universo della “società civile”. Quel contratto includeva l’accordo delle “150 ore” e altre conquiste fondamentali ai fini di un uso operaio della medicina, della scienza, dei saperi in generale. Certo, la rivendicazione salariale restava centrale, ma aleggiava l’utopia di una classe operaia che a partire dalla maturità raggiunta, dalla democrazia di base costruita attraverso il movimento dei consigli, e anche sotto lo stimolo dei comitati e delle assemblee autonome, produceva un’egemonia culturale e politica su tutto il resto della società» [5]. Secondo le letture di quel passaggio storico, odierne o dell’epoca, che si ispirano alla griglia concettuale post-operaista e autonoma, «il “cervello” del capitale capì in fretta e attivò un’altra strategia: la messa in opera della distruzione sistematica della produzione materiale di quella determinata composizione (tecnica e politica) di classe operaia» di cui le lotte e il contropotere erano espressione; «come supporto all’operazione, paradossalmente, usò uno degli strumenti conquistati dalle lotte: la cassa integrazione (un “ammortizzatore sociale”, uno strumento di “protezione”). Ecco quindi che una delle principali conquiste operaie si ribaltò in arma utile per il padrone a predisporre un contrattacco giocato su due altri successivi, determinanti passaggi: ristrutturazione e decentramento» [6]. I teorici operaisti seppero individuare in questi fenomeni una strategia di classe che implicava ben altro che un “aggiustamento” obbligato alle necessità imposte dalla crisi economica (tema di scottante attualità…): «Il padronato aveva ripreso in mano le fila del conflitto capitale-lavoro e quindi stava mettendo in moto la strategia del decentramento produttivo, la diminuzione del potere operaio in fabbrica, la disaggregazione di grandi complessi industriali resi ingestibili dall’autonomia operaia nel corpo centrale della classe. Agendo alternativamente fin da quel momento su due filoni: una repressione delle avanguardie di fabbrica, che puntava alla loro espulsione attraverso l’uso politico della cassa integrazione; la disaggregazione dei reparti ingestibili attraverso il decentramento produttivo e una timida introduzione di innovazione tecnologica» [7].

    Un’altra linea di riflessione tipica delle teorie post-operaiste riguarda la transizione nel campo dell’organizzazione industriale. La grande fabbrica vede ridimensionata la propria centralità come unità di produzione e luogo di sintesi politica; emerge il protagonismo della piccola fabbrica, che utilizza massicciamente la “forza-lavoro marginale” dei minori e dei giovanissimi, delle donne, riarticolandosi alle dimensioni del «precariato, del lavoro a domicilio, del lavoro nero; la crisi ha spazzato via gli steccati cjhe dividevano le varie “formazioni industriali” e ha creato quella dimensione dell’“operaio disseminato” che è propria tra l’altro d epoche specifiche della storia del proletariato italiano. La cosciente dispersione della forza-lavoro sul territorio, in una condizione intermedia tra sussunzione formale e quella reale al capitale, è un preciso disegno contro l’aggregazione politica della classe» [8]. L’analisi di Bologna sfocia ovviamente in una diagnosi politica della nuova situazione: «è la soggettività dell’operaio della piccola fabbrica che muta, in quanto è per lui difficile applicare modelli organizzativi e forme di lotta che funzionano solo in realtà massificate; in sostanza entrano qui in crisi gli stilemi sindacali che hanno connotato la lotta operaia delle grandi fabbriche» [9]. Sulla presa d’atto di una trasformazione delle figure del lavoro salariato, e sul tentativo di costruirvi sopra un’adeguata linea politica, verrà costruita la teoria dell’“operaio-sociale”, erede “mutante” dell’operaio-massa dell’industria fordista: «Negli anni Settanta, si ipotizza l’emergere di una nuova figura, l’operaio sociale, considerato come soggetto politico in definizione (…) E’ il salto nella composizione organica di capitale. La diversa combinazione nella produzione sociale di due suoi fattori fondamentali, tecnologia e forza-lavoro, definiscono e massificano la figura moderna dell’operaio sociale. Il suo propagarsi generalizzato all’interno di tutta la società, intesa come luogo di produzione diffuso che sostituisce e amplia la fabbrica, ne consolida la centralità politica» [10]. La atipicità delle nuove forme lavorative, la loro natura più fluida ed instabile, “precaria”, rispetto al grande edificio dell’industria moderna, definisce, nell’ottica di questo discorso, le condizioni di una soggettività politica antagonista inedita. Come sintesi e in un certo senso bilancio di questa lettura citeremo il testo che Nanni Balestrino e Primo Moroni dedicano al “Movimento del ‘77”, l’episodio che resterà per molti autori post-operaisti e post-autonomi l’espressione più compiuta del potenziale politico della nuova “composizione di classe”: «[La] ristrutturazione che prese il nome di “riconversione industriale” ebbe inizio nel ’74 (data della Crisi del petrolio) e si delineò immediatamente come attacco alla composizione tecnica e politica della classe operaia delle grandi fabbriche. La cassa integrazione fu il primo potente strumento utilizzato dai padroni per liquidare il ciclo di lotte dell’operaio massa sconvolgendone la “rigidità”, cioè l’omogeneità materiale e politica da cui traeva le condizioni del suo potere innanzitutto in fabbrica e poi nella società. I primi effetti di questa ristrutturazione si delinearono come costituzione di una rete di decentramento, diffusione, dispersione, fluidificazione nel sociale di parti rilevanti del processo produttivo e riproduttivo. Nuove figure sociali, tradizionalmente escluse dal mercato del lavoro, vennero assorbite dentro questa rete, in cui le condizioni di lavoro assunsero la caratteristica non normata della semi-disoccupazione e del precariato» [11]. Le nuove figure “precarie e non garantite” sono considerate comunque di natura operaia «in quanto da esse si estraeva plusvalore» [12].

    Se l’operaio di mestiere era definito, dal punto di vista della sua espressività politica, dalla difesa di un saper-fare specifico, che gli apparteneva in modo esclusivo come skill artigianale, e l’operaio massa lo era dal carattere massiccio e omogeneo della collettività operaia costituitasi in fortezza di un contropotere permanente, le nuove figure del lavoro erano sprovviste di ogni territorializzazione di questo genere: esse possiedono di “proprio” solo il proprio tempo e la propria vita, cioè i dati elementari della loro esistenza – un’esistenza, di conseguenza interamente consegnata agli imperativi sempre più fluidi accelerati e arbitrari della valorizzazione del capitale e dello sfruttamento della forza-lavoro. La lacerazione del tessuto sociale consegnò migliaia d’individui ad una condizione di disorientamento e disperazione. All’epoca, il sindacato e la sinistra istituzionale scelse di definire questi strati sociali come “seconda società”, cioè come strati marginalizzati (e quindi parassitari rispetto alla classe operaia “virtuosa”) la cui disgregazione e disperazione «finiscono per tradursi in violenza irrazionale e inconsulta» [13]: questa lettura depoliticizzante, e in effetti larvatamente criminalizzatrice nei confronti delle nuove figure di salariati precari e non-garantiti, sostenne e legittimò la scelta di trattare il fenomeno nei soli termini della repressione poliziesca. La teoria dell’operaio sociale si poneva al polo opposto di questa interpretazione, e cercava di trovare nella “composizione” delle nuove forme di lavoro le manifestazioni, anche organizzative e “soggettive”, di una propositività politica antagonista ma razionale. La condizione di precarietà, imposta dal social engineering capitalista, si converte quindi in atteggiamento critico, in pratica sovversiva: «Se la ristrutturazione, fluidificando il mercato del lavoro, configurò un nuovo assetto produttivo in cui l’attività lavorativa andava caratterizzandosi come precaria, saltuaria e interscambiabile tra funzioni manuali e intellettuali, i soggetti del ’77 fecero proprio questo terreno di estrema mobilità tra lavori differenti e tra lavoro e non lavoro, concependo la prestazione lavorativa come dato occasionale piuttosto che come fondamento costitutivo della propria esistenza» [14].

    Questo atteggiamento “cinico” e “opportunista” nei confronti del lavoro manifesta una ri-soggettivazione politica della condizione precaria che ne fa un vettore di distacco soggettivo e oggettivo nei confronti dei ruoli sociali e lavorativi fissi. Precarizzato, il soggetto fa l’esperienza di una mobilità che lo sottrae tendenzialmente agli “apparati di cattura” dello sfruttamento capitalistico: «Per questi soggetti la mobilità nel rapporto con il lavoro divenne da forma imposta, scelta consapevole e privilegiata rispetto al lavoro garantito delle otto ore al giorno per tutta la vita. I giovani operai già occupati nelle fabbriche, dopo aver misurato l’impossibilità e l’inutilità di resistere al processo di ristrutturazione con la lotta per la “salvaguardia del posto di lavoro”, si autolicenziarono scegliendo il fronte del lavoro mobile» [15]. La precarietà è qui problematizzata come una condizione “esistenziale” che permette di affrontare, e vincere, il sistema dei rapporti sociali vigenti allo stesso livello dell’offensiva padronale: una condizione che, oltre a rappresentare una risorsa politica immediata, permette a chi ha saputo coglierne la natura strategica di anticipare una configurazione strutturale dei rapporti sociali suscettibile di generalizzazione. Donde l’insistenza sul fatto che il movimento del ’77 debba esser considerato non come un fenomeno di estremismo e disperazione, ma come un’anticipazione interamente politica di ciò che era contenuto nel passaggio d’epoca: «Le domande poste dall’ultimo movimento di massa antistituzionale in Italia restano attuali perché irrisolte. “Quale sviluppo per quale futuro?” fu la domanda, semplice e terribile nel sintetizzare l’“intuizione” del vivere quel »momento come il crinale di un passaggio di trasformazione epocale, reso esplicito dalla crisi e dall’esaurirsi delle regole di relazione e organizzazione sociale basate sul sistema industriale. La sensibilità di quel movimento fu di avvertire la drammaticità del passaggio obbligato alla società oscura e indecifrabile del postindustriale. Da qui la consapevolezza che il movimento del ’77 ebbe di cogliere, sul piano dei contenuti, il centro dei problemi che quel passaggio comportava: il problema del lavoro e delle sue trasformazioni» [16].

    Un aspetto caratteristico delle elaborazioni intorno alle nuove figure lavorative fu la problematizzazione del lavoro intellettuale: la nuova composizione di classe «si andava modellando sui ritmi di una metamorfosi del processo produttivo che si configura come contrazione dei tradizionali impieghi manuali, a vantaggio del lavoro intellettuale massificato» [17]. L’indistinzione tra intellettuale e manuale, tra direzione/ideazione ed esecuzione, fu correlata direttamente alla precarietà delle nuove figure: «La ristrutturazione, fluidificando il mercato del lavoro, configurò un nuovo assetto produttivo in cui l’attività lavorativa andava caratterizzandosi come precaria, saltuaria e interscambiabile tra funzioni manuali e intellettuali» [18]. La Nuova Sinistra italiana si era da sempre interrogata sui mutamenti di statuto delle facoltà e competenze intellettuali in seno al capitalismo avanzato e alla “società amministrata”: una rivista come i Quaderni Piacentini è un esempio di queste preoccupazioni, le cui coordinate teoriche erano spesso ricavate dalle riflessioni di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale e il venir meno dell’autonomia relativa dell’intellighenzia nella fase “avanzata” del capitalismo. I movimenti studenteschi e “controculturali” degli anni Sessanta saranno letti (e in parte leggeranno se stessi) attraverso questa griglia che univa il discorso francofortese con le analisi del capitalismo avanzato condotte dal proto-operaismo dei Quaderni Rossi [19]. Franco Fortini, uno dei maestri intellettuali del mondo politico e culturale di cui qui ci occupiamo, fornirà nel 1968 una formulazione difficilmente superabile di queste poste in gioco: «La cosiddetta critica della cultura [aveva concluso] che la funzione attribuita dal capitalismo agli intellettuali come ceto con missione ideologica era finita e la loro integrazione ormai irreversibile (…) Tutta una serie di complessi fenomeni sociali e politici che hanno interessato molti paesi di Europa e di America – ma in una certa misura toccano tutto il mondo, compresa la Cina e la stessa Unione Sovietica – prima o contemporaneamente al loro carattere rivoluzionario hanno avuto quello di separazione e secessione: secondo un ritmo che la storia conosce molto bene.

    Quel che poteva apparire ricorrente rifiuto del mondo da parte di intellettuali disorganici e quindi frustrati, con la proletarizzazione crescente delle funzioni intellettuali è divenuto nodo centrale al discorso politico delle nuove opposizioni. Gli eventi europei hanno insomma riproposto ora in termini affatto nuovi l’antico tema dei rapporti fra cultura e politica. Informazione e divulgazione, pubblicistica e saggistica? Ma quella che si agita nei gerghi delle sommosse, negli opuscoli e nelle dispute non è nulla di meno che l’esigenza d’una nuova teoria del sapere» [20]. Fortini sarà, negli anni Settanta, fortemente polemico nei confronti dell’area autonoma; tuttavia, in queste righe troviamo un gesto di rovesciamento dialettico di una condizione di sottomissione ai rapporti capitalistici in costituzione di una volontà politica antagonista che abbiamo già visto all’opera nella teoria dell’operaio sociale. In ogni caso, l’investimento da parte del capitale del lavoro intellettuale – e le prospettive di un contro-investimento politico di questa tendenza – sono qui già posti come problemi. L’autonomia e il post-operaismo svilupperanno queste tematiche fino a farne un vero e proprio marchio di fabbrica.

    Il massimo teorico dell’incorporazione diretta e massiccia del lavoro intellettuale alle figure sociali operaie è Romano Alquati, ex-membro dei Quaderni Rossi, autore delle prime inchieste sociologiche sulla struttura del sistema FIAT, e fondatore con Mario Tronti, Antonio Negri e Alberto Asor Rosa dell’operaismo propriamente detto. A partire dai primi ’70, Alquati anima dei collettivi di ricerca i cui scopi consistono nel «rivolgersi e voler agganciare una realtà specifica, la massa crescente dei lavoratori intellettuali che sempre più frequentano l’università e sono a tutti gli effetti una parte della classe operaia in profonda trasformazione e ricomposizione» [21]; nel ’76 la ricerca conclude alla «formazione di un nuovo soggetto sociale che incorpora una maggior quantità di sapere e conoscenze» [22]. Per Alquati la nuova composizione di classe ha come base oggettiva la «nuova qualità della forza lavoro astratta complessa» [23], la cui centralità definisce una nuova figura proletaria: «Chiamo proletari intellettuali le varie centinaia di migliaia di giovani proletari in età attiva che vanno affollando (…) le scuole superiori e l’Università, e inoltre tendono a starci dentro per sempre. Imponendo così la questione dell’alta formazione come formazione permanente. Perché sono proletari? Perché possono vivere solo mercificando e rivendendo la propria forza-lavoro, che altri usa e consuma per il proprio esclusivo tornaconto» [24]. La fluidità dell’operaio sociale sembra rendere indecidibile il confine tra le specializzazioni lavorative e quindi tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: il potenziale antagonista dell’operaio sociale deriva quindi dalle stesse strategie del capitale che, “disossando” la forza-lavoro per piegarne la rigidità innanzitutto politica (la “testuggine” operaia della grande fabbrica), ne fa una figura dell’attività generica e generale, dell’universalizzazione immediata di un’attività umana multiforme e virtualmente incontrollabile. Ci si può chiedere se questa visione, tuttora alla base di numerose tendenze politiche e teoriche, non sottovaluti il ruolo della precarietà e della frammentazione nel riprodurre lo sfruttamento e il dominio, finendo così per postulare una transustanziazione immediata dell’onnipervasività del potere del capitale in costituzione di un collettivo antagonista. Nonostante questa riserva, la lezione di una dimensione originariamente e inevitabilmente politica – non sociologica né moral-assistenziale – delle questioni della precarietà, e quindi del lavoro tout court, resta irrinunciabile: la precarietà è innanzitutto uno dei luoghi geometrici in cui si decidono e si decideranno le sorti della centralità politica del lavoro. Da qui un lungo discorso dovrebbe essere riaperto.

    Note

    1] L’operaismo, come del resto la Nuova Sinistra e il ciclo storico-politico degli anni ’60 e ’70 sta, faticosamente, emergendo da un lungo oblio che segue una frattura radicale della memoria storica operatasi tra la fine cataclismatica dei Settanta e i “festosi” Ottanta e Novanta. In un certo senso, però, e senza poter approfondire qui l’argomento, va detto che numerosi fenomeni della più stretta contemporaneità sono incomprensibili senza riferirsi al decennio “maledetto” e all’impossibilità di fare razionalmente i conti con esso. Per i materiali storici e teorici che cercano di riaprire il dossier dell’epoca in questione, si vedano: il classico archivio-bilancio-memoriale di Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale (1988), nuova edizione a cura di Sergio Bianchi, Feltrinelli, Milano, 1997; i tre volumi a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, DeriveApprodi, Roma; il volume, sempre di DeriveApprodi, a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a classe operaia. Con un saggio introduttivo di Mario Tronti, 2008. Inoltre, sulla Nuova Sinistra italiana: Andrea Cavazzini, Id., La Nouvelle gauche en Italie, t. I. Le printemps des intelligences, Bibliothèque de philosophie sociale et politique, Europhilosophie-Editions, 2009; e, sul movimento studentesco degli anni Sessanta, Andrea Cavazzini, “Luttes en Italie” Politisation du savoir et transformation de la politique dans la “Séquence rouge” italienne; si veda anche, sui movimenti studenteschi europei, la sintesi del Seminario 2009-2010 del Groupe de Recherches Matérialistes (ENS-Paris/Toulouse-Le Mirail).
    2] Nella sinistra radicale tedesco-occidentale prevarrà invece, negli stessi anni, il termine Spatkapitalismus, capitalismo tardivo.
    3] Data da quel periodo l’importanza, nei gruppi e nelle riviste della sinistra critica che per prima interpreterà questi fenomeni, della sociologia di Max Weber e di Charles Wright Mills, e della Scuola di Francoforte: correnti teoriche in grado di mediare l’analisi dei rapporti sociali “oggettivi” con l’articolazione di questi alla costituzione della soggettività. Quando l’attenzione si sposterà dall’operaio-massa ad una forza-lavoro precaria e frantumata, dalla società-caserma “interamente amministrata” e auto-regolatrice ad un panorama sociale aleatorio e disgregato, gli strumenti analitici che certi ambienti politici ed intellettuali dispiegheranno muteranno di riferimento, ad Adorno e Weber succederanno Deleuze e Foucault – questo passaggio è evidente in una rivista filosofica engagée come “Aut aut” – ma la funzione di analisi globale, in grado di articolare strutture sociali e implicazioni soggettive, resterà invariata.
    4] Sergio Bianchi, “La pattumiera della storia”, in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. I, DeriveApprodi, 2007, p. 14.
    5] Ibidem.
    6] Ibid., p. 14.
    7] Ibid., p. 15.
    8] Sergio Bologna, in Collettivo di “Primo Maggio”, La tribù delle talpe, Feltrinelli, Milano, 1978.
    9] Ibidem.
    10] Guido Borio, “Operai contro la metropoli”, in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, cit., p. 64.
    11] N. Balestrini-P. Moroni, L’orda d’oro cit. pp. 529-530.
    12] Ibid., p. 530.
    13] Ibid., pp. 528-529.
    14] Ibid., pp. 531-532.
    15] Ibid., p. 532. Questa dimensione soggettiva e politica della precarietà era vista in sostanziale continuità con il tema del “rifiuto del lavoro” che aveva percorso le lotte dell’operaio-massa, non più interessato alla difesa della professionalità (parola d’ordine dell’operaio di mestiere cui troppo a lungo restarono legati i sindacati), ma dalla volontà di accedere ai consumi e ai servizi svincolandoli e svincolandosi dall’“istituzione totale” della fabbrica fordista.
    16] Ibid., pp. 527-528.
    17] Ibid., p. 530.
    18] Ibid., p. 531.
    19] Per un’analisi del discorso dei movimenti studenteschi italiani negli anni ’67-’68 rinvio a Andrea Cavazzini, “Luttes en Italie” Politisation du savoir et transformation de la politique dans la “Séquence rouge” italienne.
    20] Franco Fortini, “Premessa” a Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Breve guida a un buon uso dell’alfabeto, Il Saggiatore, Milano, 1968, 1998, pp. 21-22-23.
    21] Guido Borio, “Operai contro la metropoli”, cit. p. 85.
    22] Ibidem.
    23] Ibid., p. 86.
    24] Romano Alquati, “Introduzione” a Il sindacato nella dimensione regionale, Stampatori, Torino, 1977, p. 8.


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