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  • La somatizzazione della precarietà
    Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011

    “IL MITO DELLA PRECARIETÀ”: QUANDO LA PRECARIETÀ È UN VALORE CHE DECOSTRUISCE L’IMMAGINARIO DELLA PRECARIETÀ

    Antonio Casillo

    antoniocasillo@alice.it
    Laureato in Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche. In parallelo alla sua attività di consulente fiscale ha diretto e dirige un magazine ed è l'estensore di iniziative per le pari opportunità.

    Oggi la ricerca del posto “fisso” sembra essere il sogno irraggiungibile di molti giovani precari e la “flessibilità”, una parola d’ordine con cui si aspirava a riformare il mondo del lavoro e che tanto in voga sembrava essere negli anni ’90, è diventata sinonimo di incertezza, precarietà, se non addirittura sfruttamento. Ma c’era chi proprio nel lavoro che oggi definiremo precario, vedeva l’unica possibilità per restare libero dalle leggi di mercato e dai potenti poteri editoriali Newyorkesi. In questo articolo proviamo a gettare uno sguardo al mito letterario con cui, il rifiutare un posto fisso, significava rivendicare la propria libertà, un mito romantico certo, e sicuramente distante dalla realtà, ma che ha affascinato un’intera generazione di scrittori, poeti, musicisti. Da Jack London, passando attraverso la San Francisco Renaissance e la Beat Generation, fino ad arrivare al fenomeno della così detta generazione Hippy, il sogno americano sembrava essere quello di una frontiera mobile in cui, la strada, sembrava non avere mai fine.

    Per riflettere sul tema della precarietà, dobbiamo sbarazzarci del sostantivo: l’aggettivo precario può definire un’occupazione, un inserimento, una situazione. La precarietà utilizzata come sostantivo rimanda a significati molto più generali che sono, in larga parte, ineliminabili e distintivi della condizione umana. L’incertezza è fatalmente presente nelle esistenze; è ineliminabile. Non è un caso che si sia introdotta la parola precarietà in un immaginario dominato dall’ossessione di controllare il rischio, di dominarlo, di prevederlo. Tanto auspicata, quando prometteva ricchezza e sviluppo, la “precarietà”, allora si chiamava flessibilità, produce una focalizzazione sugli effetti di scelte economiche e strategiche non efficaci o lungimiranti.. Deplorare la precarietà è una forma di cattiva coscienza: reca in sé il desiderio puerile di negare con la precarietà i fenomeni sociali che si sono prodotti all’ombra di trasformazioni non governate.

    Perché non parlare di sotto-occupazione, di retribuzione inadeguata e non congrua, di ritardo normativo e giurisprundenziale sul lavoro, di disagio sociale o, più semplicemente di povertà? Lo spiegava, tempo fa, Sergio Bologna, cripto-citato nel testo introduttivo, denunciando la sinistra convergenza di opposizioni, parti sociali, imprese nella crociata contro il lavoro precario. La continuità contrattuale sarebbe antidoto ad una serie di prassi consolidate (violazione degli orari di lavoro, deroga ai diritti minimi dei lavoratori, imposizione dei tempi di vita, etc) nella quotidianità del lavoro e contrasterebbe l’evidente iato fra le aspettative del singolo, socializzato ai modelli dell’autorealizzazione nel lavoro di matrice liberale e la logica stringente di un profitto che torna a guardare alla quantità e alla competizione al ribasso coi paesi del capitalismo senza diritti.

    Il mito del posto fisso acquista allora una valenza regressiva e normalizzante: l’intervento dirigista non è inteso a fornire maggiore tutele al lavoratore, ma a stabilizzare un sistema che non si è emancipato dal controllo statale. Spacciata per causa del malessere sociale e dell’incertezza, la flessibilità mal governata è solo l’ effetto di una strategia che ridefinisce i criteri di allocazione delle risorse, riducendo drasticamente la mobilità sociale e restaurando i vecchi sbarramenti alle professioni.

    Statalismo per le imprese, liberismo per i lavoratori. Il mercato del lavoro presenta ancora delle rigidità incompatibili con il presupposto della flessibilità: mettere alla prova le capacità del singolo, farle fiorire, non operare delle scelta sulla base di stereotipi. La libertà delle scelte è sacrificata all’individuazione del “giusto percorso”, pulito e privo di ostacoli. Contro una retribuzione miserrima e una fortissima discontinuità del lavoro, il lavoratore deve offrire fedeltà, dedizione e identificazione cogli obiettivi aziendali. Mai come oggi, vengono valutati positivamente la coerenza fra gli studi e l’occupazione, la continuità in una stessa mansione, la linearità del percorso esistenziale. Mai come tali scelte sono possibili sono a fronte di un investimento corposo e di una serie di circostanze fortuite. Chi “ha bisogno di lavorare” difficilmente può metterle in campo.

    La versatilità, lo sperimentarsi in contesti diversi, l’acquisire conoscenze e competenze diverse rappresentano un handicap nella ricerca di lavoro. Un tempo perseguita da chi resisteva alle pressioni della società massificata del lavoro per affermare propri valori e una più pronunciata libertà personale, la precarietà di cui ci parlano giornali e tv funziona come una pedagogia dell’ordine. Chi si mette alla ricerca di un’occupazione è sottoposto a questo avventiziato, in cui le sue decisioni vengono vagliate attentamente e ricondotte ad un canone di comportamenti razionali rispetto alla scopo della sopravvivenza. Chi tenta di rendersi protagonista della sua precarietà, di trasformarla in un’eventuale occasione di miglioramento, si espone al rischio di venire espulso dal circuito virtuoso del lavoro e di restare intrappolato nella precarietà. Allora, torniamo ad una precarietà che era intimamente anarchica e che costituiva il punto di rottura in un sistema di rapporti cimentati dal posto fisso (dal posto che ciascuno occupava nella società).

    Volgiamo quindi uno sguardo a quei “poeti di passo” che si muovevamo tra le strade dell’ovest americano, la periferia era una linea mobile, una frontiera che si allargava per poi confluire nelle vie di San Francisco, nei caffè letterari, in quella vitale ondata di nuova creatività che presto prese il nome di “San Francisco Renaissance” E da queste radici che nacque, (senza per altro coincidere completamente con essa) la generazione “Beat” di autori come Ferlinghetti, Kerouac, Ginsberg. Kenneth Rexroth, che può considerarsi a tutti gli effetti il maggior esponente della San Francisco Renaissance, si era trasferito nella Bay Area già dal 1927, una scelta dettata dalla necessità di rimanere fuori dal mercato letterario allora predominante di New York. Ed è sempre Rexroth ad inquadrare la differenza tra i poeti “stanziali” come Gary Snyder, e i poeti “di passo” come Allen Ginsberg: “Quando è arrivato Ginsberg faceva indagini di mercato, che è un mestiere di merda. E’ come fare il commesso. Gli ho detto ‘perché non ti metti a lavorare? Così quanto guadagni? Quarantacinque dollari? Ma a San Francisco mica puoi vivere con quarantacinque dollari. Perché non ti metti a lavorare sul serio?’ E Ginsberg mi fa: ‘Cioè?’. E io gli dico: ‘Imbarcati. Lo sai che quando navighi nello stretto di Bering…danno doppia paga. Te ne torni con tanta di quella grana che non sai come spenderla!’. Non ricordo quanti viaggi fece Allen, l’anno successivo. All’Est la gente ragiona in un altro modo. Prima parlavamo di Hart Crane. Ha passato tutta la vita a preoccuparsi di come sbarcare il lunario, ma se fosse stato dell’Ovest avrebbe lavorato come taglialegna o come marinaio, e avrebbe guadagnato un mucchio di soldi. Un bel po’ di più di quanti ne guadagnava facendo il pubblicitario per una ditta di caramelle”.

    Sembra paradossale rileggere oggi quest’intervista di Kenneth Rexroth, paradossale per chi, in un’epoca di profonda crisi economica e occupazionale che ha investito anche gli Stati Uniti, non ritiene di certo i lavori “precari” proposti a Ginsberg, dei veri lavori. Ma qui gli schemi classici sono capovolti, se vuoi rimanere libero, sembra suggerire Rexroth, non devi vendere né te stesso, né la tua mente. Anche questo faceva parte del sogno americano in fondo, il mito della frontiera da superare ogni volta, il mito di una strada su cui muoversi liberi da ogni costrizione. E’ in quest’ottica che Martin Eden, il giovane “marinaio” aspirante scrittore protagonista del romanzo di Jack London, rifiuta un tranquillo lavoro alle poste tra lo sdegno e l’incomprensione generale. Ma vi è ancora una differenza fondamentale tra l’eroe di London e l’idea di poeta di passo proposta da Rexroth: Martin Eden, scrittore autodidatta che cambia centinaia di mestieri prima di ottenere, con i propri libri, il denaro e la gloria tanto anelati, vedeva in quei lavori saltuari soltanto il mezzo temporaneo per riuscire a guadagnarsi da vivere scrivendo, essere scrittore, questo sarebbe diventato il suo vero mestiere. A questo successo letterario “il poeta della San Francisco Renaissance oppone un più modesto e sereno desiderio di non essere messo a tacere, di poter contare come genuina e profonda voce sociale, anche se udibile solo su scala ridotta” Da questa prospettiva il mestiere con cui si guadagna da vivere non è più il preludio allo scrivere a tempo pieno, ma una semplice salvaguardia di sopravvivenza, una sopravvivenza che però lo svincoli dai meccanismi consumistici: “l’unico modo per guadagnarsi da vivere con la poesia è fare il guardaboschi e ridurre drasticamente e spese”.

    Anche se molti scrittori della San Francisco Renaissance appoggiarono l’ideologia socialista, negli Stati Uniti l’idea di socialismo era ben diversa da ciò che si sviluppò nel vecchio continente, era un socialismo profondamente individualista e che in fondo proprio nell’essere individualista contraddiceva se stesso. Vi era, nell’idea stessa di libertà, un qualcosa di profondamente anarchico, ed è quindi quest’anarchia il tratto che distingueva maggiormente questi poeti di passo.

    La strada senza fine li lasciava liberi, era una strada su cui si muovevano scrittori e vagabondi, poeti e musicisti, fuggiaschi che scappavano dal proprio passato o giovani che si incamminavano verso un ingenuo futuro pieno di speranza.

    Oggi, con uno sguardo retrospettivo, è lecito domandarsi dove queste strade li hanno condotti, se alla fine sono riusciti a raggiungere un porto sicuro. Negli anni ’60 molte di queste suggestioni hanno raggiunto l’apice della popolarità con il movimento dei figli dei fiori, i così detti Hippy, era l’alba di una rivoluzione che pareva inarrestabile e la Bay Area di San Francisco fu per un altro breve momento al centro del mondo. Sembravano prendere corpo alcune delle idee del filosofo francese dell’800 Charles Fourier che, più o meno consapevolmente, divenne l’ideologo postumo di una società idealmente realizzata proprio sulle basi del socialismo utopistico e visionario del pensatore francese. Fourier, nel disegnare la sua utopia del “Falansterio”, aveva proposto infatti una modello di società in cui ogni cittadino era libero di svolgere soltanto le attività lavorative per le quali era portato contrapponendo a quella che oggi definiamo come precarietà il concetto di rotazione dei mestieri. Per Fourier infatti era fondamentale poter cambiare mestiere ogni qual volta ci si stancava del precedente. In realtà il pensatore francese collocava questa apparente libertà individuale in una griglia estremamente razionale e pianificata. La libertà era lo strumento che la società usava per la realizzazione dei suoi fini.

    Il movimento dei figli dei fiori ne recepì dunque soltanto un aspetto, quello più anarchico ed individualista. Forse fu per questo che in fondo tale movimento non minò mai davvero le basi profonde della società capitalista nella quale si muoveva. Se per Fourier il fine era la liberazione dell’intera società, per il movimento hippy si trattava in fondo soltanto di una liberazione che riguardava esclusivamente l’individuo e quindi non incompatibile con il sistema che apparentemente combatteva.

    Fu facile a questo punto inglobare questi movimenti nelle logiche di mercato preesistenti e trasformare quella che sembrava essere una vera e propria rivoluzione in una “moda”.

    Bibliografia

    Luigi Ballerini e Paul Vangelisti (a cura di), Nuova poesia americana, San Francisco, Oscar Mondadori, 2006.
    Luca Pollini,Hippy, la rivoluzione mancata, Bevivino editore, 2008.
    C. Fourier, La teoria dei quattro movimenti e il nuovo mondo amoroso, Einaudi, 1971.
    Martin Eden, Jack London, Mondador, 2009.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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