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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010

    SENZA VOCE


    Claudia Carabini e Cristina Zaremba

    claudiacarabini@hotmail.com
    Formatrici in metedologie autobiografiche. Associazione "Salvaconnome" di Roma.

    “Noi non siamo capaci a parlare, abbiamo qualcosa dentro al cuore, soffriamo dentro al cuore, però non sappiamo come dirlo, come spiegare a voi per far capire quello che sentiamo. Questo è il problema degli stranieri: noi soffriamo troppo qui, abbiamo bisogno di aiuto. Se fossimo nel nostro paese, avremmo voce, urleremmo: “aiuto… aiuto!”
    Ma qua in Italia cosa dici? Non sai cosa dire”
    .
    Bebi - Migrante

    Questa è la frase pronunciata da una delle narratrici straniere che abbiamo intervistato per il Progetto “Le donne migranti si raccontano” promosso nel 2006 dall’Associazione culturale “Salva con nome”. Bebi, una giovane donna nigeriana, parlava un italiano estremamente incerto, povero, a volte incomprensibile, frammisto com’era di vocaboli inglesi, eppure nelle sue parole vi era condensato in modo esemplare il senso del nostro lavoro: nato proprio per “dare voce” a persone generalmente inudibili e invisibili come spesso sono le migranti, soprattutto quelle che svolgono un lavoro di cura nelle nostre case.

    Nel breve frammento qui riportato, possiamo osservare alcuni elementi importanti legati all’essenza della Parola:

    • La capacità di trasmettere con precisione e ricchezza di sfumature il proprio pensiero (come spiegare a voi );
    • La capacità di trasmettere in modo condivisibile le proprie emozioni ed il dolore (quello che sentiamo);
    • L’esigenza - in questo caso insoddisfatta - di trovare negli interlocutori (se fossimo nel nostro paese) una base di esperienze e vissuti comuni;
    • Un sentimento di fallimento e rassegnazione (rimaniamo così, senza voce) quando la parola non è utilizzabile come strumento di relazione con l’altro.

    Quando abbiamo pensato il nostro progetto, diretto a donne migranti e avendo come filo conduttore il tema della maternità, sapevamo di affrontare un lavoro che ci avrebbe portato accanto a storie drammatiche, a tragedie e sofferenze, ma noi, per spirito di “sorellanza”, un po’ per curiosità e sicuramente perché le storie di vita rappresentano il nostro impegno ormai da anni, volevamo interrogare alcune di loro indagando quegli aspetti che reputavamo essenziali nell’incontro con l’Altro. Quadri di indagine che richiamano ai temi dell’identità, della cultura e dei valori del loro paese di provenienza, ponendoli in relazione con la quotidianità del loro vissuto. Attraverso le loro parole volevamo tentare di vedere “l’Altro”, senza limitarci ad una rappresentazione stereotipata. Volevamo dare visibilità alla loro realtà di ogni giorno in modo che altre donne potessero specchiarsi e riconoscersi in un profilo a cui spesso si accostano con diffidenza o timore.

    Il nostro lavoro si è caratterizzato per una serie di domande e risposte, che si sono trasformate in un dialogo continuo, esteso, calibrato su uno scambio spontaneo delle rispettive esperienze, per giungere alla felice scoperta dei molti terreni comuni su cui basare una relazione. Guidate dalla nostra esperienza del metodo autobiografico, applicato alla raccolta di storie di vita individuali, abbiamo offerto tempo all’ascolto, ricevendo in cambio dalle narratrici un po’ del loro, prezioso e significativo, come quasi sempre accade quando si decide di indagare un fenomeno sociale utilizzando la metodologia delle storie di vita. L’accoglienza, che si manifesta attraverso un ascolto partecipato, coinvolgendo anche il linguaggio corporeo, promuove infatti una narrazione che scorre su diversi binari:

    • urgenza dell’esprimere i sentimenti più impellenti e magari gravosi;
    • ritrosie che man mano si sciolgono per il bisogno di chiarire a se stessi le resistenze al cambiamento del proprio vissuto;
    • piacere del rievocare riportando alla memoria gli episodi della propria vita;
    • bisogno di riattraversare i momenti dolorosi per farli emergere in una chiave interpretativa distaccata, decidendo infine di liberarsene o imparare a conviverci.

    Nello svolgersi della relazione tra l’intervistato e l’intervistatore la dimensione dell’ascolto occupa un posto speciale. Esso avviene sia nel compiersi dell’intervista che attraverso il riascolto delle storie registrate: un momento ambivalente, perché alla fatica materiale della trascrizione si contrappone l’occasione dell’approfondimento della narrazione, non più collegata alla presenza fisica del narratore. Allora le pause, le enfasi, i cambiamenti di tono, le interruzioni acquistano una nuova corposità, si completano con il pensiero e l’immaginazione, si arricchiscono di riflessione.

    Agli elementi sopra richiamati, che fanno parte della routine del lavoro di biografo, va aggiunto che per molte delle narratrici migranti il raccontarsi è stato un evento inatteso e sperimentato per la prima volta nel paese ospite. Le difficoltà linguistiche, inoltre, sono state un ostacolo solo parziale alla piena espressività dei loro pensieri, grazie alla concretezza della relazione personale instauratasi tra di noi.

    Essenziale è stata la condivisione basata su esperienze femminili universali, in special modo grazie alla scelta del tema di partenza: la maternità - anche quella mancata –.Tale condivisione ci ha aiutato a creare un clima di fiducia quasi immediata, dandoci così la possibilità di estendere il dialogo ad altri temi quali l’identità, le aspettative, le difficoltà di inserimento, le violenze psicologiche subite e per alcune anche le conquiste ottenute. Con loro ci siamo spesso sentite “a casa” quando, pur nella difficoltà dell’idioma, parlavamo lo stesso linguaggio dell’emozione.

    Ascoltare i racconti delle “nostre” donne ci ha rese depositarie di parte della loro intimità ed è quindi stato naturale per noi non rimanere in debito scambiando pensieri intimi sulle nostre esperienze personali anche se, spesso, il nostro ruolo di ascoltatrici veniva da loro stesse privilegiato e alla fine il bilancio dello scambio era comunque impari.

    Le differenze culturali hanno giocato un ruolo importante, ma siamo anche sempre state consapevoli che è leale e salutare non sottacerle; anzi, è necessario farle scaturire da un dialogo a volte discorde, ma intenzionalmente volto al superamento delle distanze attraverso, appunto, la condivisione delle esperienze comuni alla condizione umana e femminile in particolare.

    Sarebbe arduo riassumere in categorie il contenuto delle narrazioni che abbiamo raccolto, ma vorremmo fornire, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni esempi delle stesse per sottolineare delle caratteristiche salienti che sono emerse durante il nostro lavoro. Esse riguardano alcuni elementi ricorrenti: temi “sensibili” a causa del pudore di alcune donne che per consuetudine culturale hanno difficoltà nel trattare certi argomenti “delicati” (la posizione della donna, l’educazione dei figli, la religione). In questo caso gli atteggiamenti sono stati:

    a volte sussurrati e giustificatori

    (Chanda) “La più grande differenza che vedo con le famiglie italiane è la religione. A me piace la famiglia italiana, ma non riesco a spiegare bene: penso che dobbiamo vivere insieme, musulmani e cristiani. Dio è solo uno. E’ necessario convivere. Non mi piace chi non crede, penso che sia un errore non avere una fede.”

    a volte di orgoglio e di sfida

    (Leila) “Intanto le mie figlie, piano piano, hanno imparato a parlare l’italiano, ma quando saranno cresciute la loro cultura non deve cambiare. Sono femmine, voglio educarle con la mia cultura, che resterà la stessa, anche se dovessi vivere qua cento anni. Vedo che qui le ragazze sono molto strane, vivono con un ragazzo senza sposarsi, fanno figli senza matrimonio e questo per noi non è accettabile: prima ci dobbiamo sposare in moschea, dopo facciamo i figli. Su questo punto io voglio educare le mie figlie così: qui vedranno cose diverse, ma si dovranno convincere dei nostri valori, perché io penso che per loro sia meglio”.

    rivendicazione di genere

    (Hana) “ L’emancipazione della donna è sempre legata all’uomo: comincia in famiglia se hai un padre, una madre, di idee aperte, come abbiamo avuto noi, ma poi quando ti sposi…E allora dipende sempre dalla volontà del marito e nessuno può intervenire né il padre né la madre, perché sono affari che riguardano la coppia. Così tutte le idee di parità, della donna libera che decide come vuole, non valgono perché c’è sempre un uomo dietro”

    rivisitazione della propria esperienza in una chiave “pubblica”

    (Caroline) “Adesso tutta l’Africa è piena di AIDS e una delle cause è proprio il fatto che la Chiesa ritiene la contraccezione un peccato, convince la gente che non bisogna controllare le nascite, che quando arriva un figlio è peccato non farlo, e poi magari quello ti muore. Gesù Cristo non scende certamente dal cielo per dirti dove vai, te ne vai comunque senza di lui. La contraccezione dovrebbe essere insegnata nei centri sociali, anche per combattere le malattie.”

    orgoglio nel rivalutare la propria posizione sociale nel paese d’origine

    (Caroline) “Mio padre aveva studiato in Senegal, che all’epoca per noi era una piccola Francia. Era prestigioso studiare all’Università “William Ponti”
    di Dakar, una specie di Sorbonne. ………Papà è stato uno dei primi insegnanti della Costa d’Avorio”

    (Sahra) “Mio padre era importante, potente e molto ricco; conosceva tante lingue, aveva studiato francese, inglese, spagnolo e tedesco, così, oltre ad essere proprietario di un grande ristorante e di un’agenzia di noleggio di auto, era anche interprete per il governo”

    riappropriazione di uno status sociale legittimo e soddisfacente nel paese ospite

    (Dana) “Un giorno sono andata al mio Municipio, ai Servizi Sociali, ho messo sulla scrivania il fascicolo che raccoglieva la traduzioni della mia laurea e del mio diploma dicendo: “Ho fatto venti anni di scuola, tra poco diventerò cittadina italiana, è possibile che io debba lavorare solo come donna delle pulizie?
    Se devo fare un tirocinio o qualche esame supplementare lo faccio; voglio iniziare a lavorare usando il mio cervello”

    un pensiero al ritorno, incerto, desiderato, temuto

    (Ashie) “Considero provvisorio questo periodo della mia vita, anche se dura da più di venti anni e ancora durerà. Per ora vedo un futuro difficile per me, qui in Italia. E’ duro per noi stranieri vivere qui, perché non abbiamo ancora la cittadinanza e ci sono molti controlli. (…) Penso sempre di voler tornare in Ghana, anche se ho un figlio italiano. Ho molta nostalgia del mio Paese, delle mie tradizioni e della famiglia molto estesa, che da noi si chiama tribù”

    (Adriana) “Questo è un momento difficile. Abbiamo anche detto: “Torniamo a casa. Basta, stiamo lì”, ma lì che facciamo? (…) I miei suoceri abitano proprio fuori, in campagna, e per arrivare alla strada devi farti cinque chilometri a piedi… E il futuro dei bambini? Che futuro gli diamo? No, ci sacrifichiamo e rimaniamo qui. Ecco, una speranza per loro, la scuola…”

    (Mily) “ Sono tornata nel mio Paese nel 1995, per due mesi, e questa volta ho trovato Lima molto cambiata. O forse sono cambiata io. Mi sentivo spaesata e mi mancava la sicurezza che mi dava Roma: l’inflazione aveva fatto aumentare anche la delinquenza. Ora potevo comprare una casa, ma non al centro come avevo sempre sognato e in periferia non mi piaceva”

    stimolo ad un’autoriflessione

    (Elena) “Io desidero tanto che i miei figli siano indipendenti, però mi dispiacerebbe che facessero una scelta come la mia. Il primo adesso vorrebbe andare in Inghilterra e questo mi dispiace perché non ci potremo vedere di frequente. Mio marito dice di non darmi tanto pensiero, perché tanto i ragazzi di oggi arrivano a trent’anni e ancora sono adolescenti, cosa possono avere di esperienza? Anzi, sono più mature le donne. Ma perché mi sto facendo problemi? Cosa avrà sentito mia madre per me, che ho messo degli oceani tra me e loro! Veramente egoista sono stata, incosciente! E’ che non mi ero mai fermata a pensarci”.

    (Janette) “Venire in Italia per me è stata senza dubbio una crescita. Ho dovuto lavorare su me stessa a cominciare dal dover accettare un modo di vivere che mai prima mi sarei aspettata di affrontare. Alcune volte ancora mi tormenta – anche se ho cercato di dirmi che lo devo superare – il fatto di aver preso questa strada senza averla voluta, che me la sono trovata là, da vivere. Il mio carattere si è modificato, sono diventata più decisa. Prima avevo sempre bisogno di qualcuno su cui appoggiarmi per poter andare avanti. E’ stata una crescita un po’ troppo violenta, però.”

    In merito al tema della maternità, possiamo soffermarci su alcune tematiche che sono state affrontate in gran parte delle testimonianze, in taluni casi svelando e dando quindi conferma anche a conflitti presenti nei nostri ambiti culturali: l’eccessiva medicalizzazione che attiene all’evento del parto (gravidanze “troppo seguite”, ricoveri, parti cesarei, ecc.)

    (Maria) “In ospedale il parto è tutto diverso, ma se penso che a casa ho partorito normalmente e qui in ospedale ho fatto il cesareo… Ero abituata a partorire a casa mia, comoda nel mio letto e in ospedale è scomodo… Mi sono sentita veramente sola perché non c’era nessuno vicino a me.”

    (Waris) “Tante madri partoriscono in casa, senza attenzioni particolari… Una donna anziana ed esperta che noi chiamiamo grande mamma, viene a casa ad aiutare la donna, ma non c’è altro, si partorisce naturalmente. Non lo so, sembra più facile di qui, non ci sono tanti problemi.”

    (Bebi) “In Nigeria ancora si partorisce spesso in casa, non viene nessuno da fuori. Ti assistono le persone che si trovano in casa: la mamma, la nonna, anche le amiche. E’ meglio partorire in casa. Da piccola io ho visto partorire mia madre. Qua invece si fa il parto cesareo, non si dà il tempo, è tutto troppo veloce, si deve fare subito subito e questo non va bene, perché per partorire serve tempo ed attenzione…

    l’isolamento e la mancata assistenza lamentati nel periodo post-partum, soprattutto da parte di donne abituate ad un forte sostegno familiare (Ashie) “Mi sono sentita fuori dal mondo. Mi sono mancati i riti, il brodo caldo che mi portava mamma, le cure e le attenzioni delle persone care. Al mio paese avrei dovuto solo pensare ad allattare.”

    (Bebi) “Se avessi partorito nel mio paese, sarei stata come una regina, non avrei neanche toccato il bambino, non l’avrei neanche visto, perché là ho tanti parenti. Avrebbero fatto tutto loro in casa, io mi sarei rilassata, avrei soltanto mangiato, dormito e dato il latte al bambino.”

    (Jing Jing) “La tradizione dice che la neo mamma per un mese non deve fare assolutamente nulla, non deve toccare proprio nulla, deve stare a casa con le finestre chiuse, mangiare sei o sette volte al giorno, poco ma sostanzioso… Insomma viene trattata come una regina!”

    difficoltà ad adattare le usanze educative familiari e tradizionali al contesto di emigrazione, oltre che consapevolezza della diversa identità dei figli e delle loro difficoltà

    (Ashie) “Al mio paese i bambini li portiamo in braccio per tre mesi, poi ce li leghiamo dietro le spalle con un telo grande e li portiamo così a lungo, fino a quando non sono troppo grandi. Per Prince non è stato così, perché sarei stata troppo diversa dalle altre mamme. Solo in casa, dove non mi vedeva nessuno, usavo questo metodo.”

    (Hana) “Tante mamme passano l’henné sui capelli e sulle mani del bambino, io non l’ho fatto perché loro sono nati a Roma e qui siamo soli, tante cose non le facciamo.”

    (Caroline) “Con i figli piccoli c’è il contatto fisico continuo, perché il bambino lo porti addosso, gli dai il seno.”

    (Maria) “I miei figli li ho tutti allattati per un anno e non ho mai dato il latte artificiale e, invece, questo piccolino l’ho allattato solo per tre mesi e poi l’ho dovuto abituare va quello artificiale perché l’ho portato a casa: non potevo proprio tenerlo qui.”

    (Svetlana) “Per noi migranti che abbiamo avuto figli in Italia, c’è il problema dell’identità, delle radici che per i nostri figli sono diverse dalle nostre.”

    (Sriyani) “In famiglia abbiamo parlato solo cingalese finché Amit non è andato alla scuola materna: adesso non vuole più che parliamo la mia lingua, dobbiamo parlare solo italiano. Forse lui si sente italiano…”

    (Ashie) “Io capisco che a volte si sente prigioniero, nel senso che non sa da che parte stare: la lingua è italiana, l’Italia è la terra dove è nato, ma l’Italia non conosce lui, perché le sue origini sono di un altro paese.”

    (Janette) “I miei figli si sentono più italiani che africani, direi che da sempre si sono sentiti italiani a tutti gli effetti.”

    e conseguente rammarico per non poter svolgere il proprio ruolo genitoriale

    (Maria) “ Con i miei figli fare la mamma è stato diverso, non c’è un rapporto forte. Li sento lontani, vorrei abbracciarli, ma a causa della lontananza non c’è stata questa abitudine, Quando sono lì, se hanno bisogno, loro non chiedono mai niente a me, ma al papà, forse hanno vergogna di me, la loro mamma… E mi sento male perché vorrei dare qualche consiglio, come una mamma, e anche se lo do non sempre è accettato… E allora è tutto diverso.”

    (Jing Jing) “Mia suocera lavora, io e mio marito lavoriamo in un ristorante. A casa, praticamente, non c’è mai nessuno. Avevo poche soluzioni e ho scelto la meno traumatica: ho portato Kevin a casa di una signora che abita in una cittadina vicino a Roma e che lo cresce insieme a un’altra bambina cinese. Vedo il bambino solo una volta per settimana, il giorno di chiusura del ristorante, quando lo andiamo a trovare”

    incertezze e dubbi sul futuro dei figli in relazione sia al ritorno che alla permanenza nel paese di emigrazione

    (Hana) “Vedo le ragazze italiane che con il loro ragazzo fanno l’amore…Non credo che posso permettere alle mie figlie di fare così, (…) Oggi in Tunisia, e penso ancora per tanto tempo, l’uomo che sposa una ragazza e scopre che qualcuno l’ha toccata prima di lui…no, non va bene, sono guai. (…)penso che per le mie figlie sarebbe grave se tra, diciamo, dieci, quindici anni, torniamo in Tunisia.”

    (Oliva) “ Fra quindici anni Magdalena ne avrà diciannove. Sarà difficile che voglia tornare nelle Filippine, e penso che mio marito lo capisca. Qualche volta lui le dice che deve studiare là e la bambina risponde: “ma perché? Voglio andare nelle Filippine solo per le vacanze.”

    (Chanda) “Vorrei tornare in Pakistan quando sarò vecchia, ma i miei figli penso che rimarranno qui.”

    Durante le riflessioni che ci siamo scambiate al termine del nostro lavoro, raccolto nel volume Voci di donne migranti [1], abbiamo potuto confermare i nostri intenti iniziali: non solo l’aver “dato voce” a chi non ne ha, ma anche l’aver soddisfatto, come già accennato precedentemente, la nostra curiosità, il bisogno di conoscere il mondo femminile delle donne migranti.

    Proprio la nostra esperienza di biografe ci ha insegnato che la vera conoscenza dell’altro, ma anche dei fenomeni in generale, passa non solo attraverso gli strumenti della ragione ma anche e soprattutto attraverso l’emozione e la condivisione. Pensiamo sia stato questo, alla fine, il risultato per noi più importante.

    Spesso ci siamo sentite delle mediatrici, una sorta di traduttrici delle loro parole che da orali sono diventate scritte e fermate per sempre. Attraverso il racconto di sé forse alcune hanno trovato una nuova strada per meglio aprirsi al mondo interculturale di cui esse stesse sono pioniere.

    Abbiamo anche avuto dei riscontri positivi sull’utilità di un lavoro di diffusione delle testimonianze di migrazione laddove, in alcuni incontri pubblici per la presentazione del volume, ci siamo sentite confermare da alcune persone, soprattutto donne, un cambiamento di ottica nel modo di osservare il mondo migrante dopo averne conosciuto la realtà descritta nelle storie personali.

    Nella prefazione del nostro libro ci è sembrato opportuno citare Claudio Magris: “Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.” [2]

    Noi abbiamo abbracciato il suo pensiero positivo, vogliamo pensare che la costruzione del ponte sia già iniziata in qualche modo, anche se purtroppo subisce continue interruzioni proprio a causa della mancata conoscenza dell’altro e dell’incapacità di ascoltare le sue parole.

    Antonella Martini, antropologa, che ha curato la postfazione del libro parla delle storie raccolte come di “una fine senza pace”. “Le storie di queste donne - scrive - non possono e non devono rappresentare una “fine”, bensì un inizio. L’inizio di un qualcosa di nuovo e di diverso nel nostro mondo di relazionarci con gli “altri”, con le “altre”, con coloro che vengono da un altrove geograficamente e culturalmente diverso, eppure – per alcuni aspetti – simile al nostro.” Continua auspicando che le narrazioni possano costituire l’occasione “per apprendere l’ascolto e il confronto con gli altri (migranti, stranieri, ecc.), per rielaborare la definizione della nostra cultura e della nostra identità, sottraendoci alla logica della “riserva”, che enfatizza le differenze, percepite come pericolose.”

    La parola dunque può essere il mezzo, l’arma pacifica che, se usata con buonsenso, può costruire le fondamenta di un mondo realmente interculturale.

    La Parola di cui gli esseri umani sono dotati naturalmente, un mezzo così semplice ma sempre pronto a raccogliere ogni genere di complessità.

    Note

    1] “Voci di donne migranti”, a cura di Claudia Carabini, Dina De Rosa, Cristina Zaremba, edito dall’associazione culturale Salva con nome, 2007 – www.salvaconnome.org
    2] L’infinito viaggiare, Claudio Magris, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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