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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Mai-Août 2010

    LA GRAMMATICA DEL TEMPO VISSUTO E DEL TEMPO RACCONTATO


    Beatrice Barbalato

    beatrice.barbalato@uclouvain.be
    Université catholique de Louvain, esperta di analisi dei processi culturali e dei linguaggi misti.

    [Anche se l’autore] ha creato un’autobiografia
    o una confessione assolutamente veridica,
    egli, in quanto l’ha creata,
    resta fuori dal mondo in essa raffigurato.
    [...] fuori dello spazio-tempo nel quale
    quell’evento si è compiuto.
    Identificare l’’io’ con l’’io’ del quale racconto
    è impossibile, come è impossibile
    sollevarsi prendendosi per i propri capelli.

    Michail Bachtin [1]

    Premessa

    La fabula e l’intreccio [2] sono due articolazioni interne e indissolubili di ogni racconto. Questa distinzione ha un’incidenza fondamentale per gli autori autobiografi che pur restando nel registro della testimonialità si avvalgono necessariamente di un tempo sdoppiato: quello della vita vissuta e quello della narrazione. Avvicinarsi analiticamente alle scritture del sé richiede un atto di interpretazione testuale.

    La raffigurazione del sé nel tempo e nello spazio

    Vita vissuta e vita raccontata appartengono a due scansioni e diacronie, senza relazione di specularitá. Vi è, cioè, distanza fra tempo-oggetto e tempo raffigurato, fra evenzialità e testo.

    Eppure, malgrado l’attenzione crescente verso la raccolta e archiviazione delle testimonianze autobiografiche, si può constatare quanto si tenda a far risaltare di queste narrazioni il succedersi degli eventi in sé, considerandoli un puro riflesso della vita, non sempre distinguendo i fatti dalla loro formulazione, che in fin dei conti è il vero atto comunicativo di queste testimonianze.

    La classificazione di questo genere di testi in tanti archivi del patrimonio autobiografico avviene soprattutto sulla base del contenuto, e vengono considerate piuttosto di secondo piano le configurazioni formali (struttura narrativa, lingua), che - in maniera forse meno immediata e diretta per l’osservatore – permettono, invece, di penetrare il senso dei racconti del sé. È, infatti, analizzandone la costruzione, la diegesi, l’impiego del tempo e dello spazio, che si comprendono meglio le loro qualità distintive [3].

    La forma del contenuto

    Esistono diversi archivi di testimonianze (sulle guerre mondiali, sul colonialismo, ecc.). Ci si può porre la domanda del perché affidare un testo inedito ad archivi che si definiscono del patrimonio autobiografico, diaristici, ecc., che non si collocano, cioè, in un campo tematico specifico.

    La risposta è che un testo è un testo, col suo incipit, con il suo sviluppo della narrazione, con un epilogo; esso è un’entità in sé, al di là dell’apporto informativo. Questa affermazione è stata sostenuta da tempo da Philippe Lejeune: “Ils [ndr: les historiens] se servent des textes autobiographiques, mais avec précaution, ils les prennent avec les pincettes de la ‘critique du témoignage’, comme des sources – impures et secondaires - de l’histoire, et cette instrumentalisation peut les aveugler, les empêcher d’envisager ces textes comme des faits historiques à part entière [4].

    […] cela donne à l’autobiographe que je suis par ailleurs l’envie de se révolter contre ces historiens prédateurs qui voient en tout animal du simple gibier. L’idée que dans quelques générations on viendra trifouiller dans vos textes pour en tirer des renseignements sur n’importe quoi, sans comprendre que vous parlez de vous, ou en vous reprochant de le faire, cela dégouterait d’écrire. Pour éviter les malentendus, je mettrai en tète, en grosses lettres : ‘Je ne suis pas une source’ ou ‘Chasse interdite’ ” [5].

    Bisognerebbe - in maniera piú estesa di quanto ora avvenga - assumere il principio, dunque, che questa letteratura sul sé dovrebbe essere osservata come una scrittura dal valore proprio, non solo per le testimonianze di cui è portatrice.

    La scrittura autobiografica funziona come uno specchio [uno degli specchi] di un me quasi sempre opaco: “[...] affronter l’opacité où chacun est par rapport à soi même” [6]. Per fare ciò è necessario un linguaggio nuovo come lo è questo progetto [Les confessions]. Sono parole di Rousseau.

    Si tratta dunque di qualità e non di quantità, essendo impossibile riferire tutto del proprio essere si deve necessariamente conciliare l’esigenza di raccontare, di testimoniare, con le scelte selettive su un tutto (che è la vita) che non può integralmente essere riprodotto.

    Questo specchiarsi, questo sdoppiarsi è l’essenza stessa dell’espressione autobiografica. Philippe Lejeune ritornando ai suoi anni giovanili e ai suoi primi passi verso le scritture del sé, menziona un episodio raccontato da Plinio. Scrive Plinio che i servitori avevano apparecchiato la tavola solamente per Lucullo, e lui corrucciato replica: non sapevate che oggi Lucullo cena con Lucullo? [7] Bella metafora sull’autobiografia come auto-ospitalità, di un se stesso in compagnia di se stesso. Un esempio chiaro dell’alterità che è in noi attraverso una scena che Plinio comunica come in una sequenza filmica.

    Per Lejeune, allora giovanissimo, Lucullo gli insegna un nuovo modo di osservare il suo sé.

    Temps et récit [8]

    Il racconto di sé è principalmente un argomentare costruito con strategie narratologiche di rado volontarie, attraverso le quali l’autore pretende (secondo il celebre pacte autobiographique definito da Philippe Lejeune) di avere un ruolo testimoniale. Tuttavia, il soggetto narrante si avvale di un tempo che corre su un doppio binario: quello dell’esperienza vissuta e quello del raccontare. Comprenderne il motore interno, richiede prima di ogni altra cosa un atto di interpretazione, un’identificazione di questo doppio sé, come spiega Jean Starobinski: “[...] la transformation intérieure de l’individu – et le caractère exemplaire de cette transformation – offre matière à un discours narratif ayant le je pour sujet et pour ‘objet’.

    Nous nous trouvons alors en présence d’un fait intéressant: c’est parce que le moi révolu est différent du je actuel, que ce dernier peut vraiment s’affirmer dans toutes ses prérogatives. Il ne racontera pas seulement ce qui il est advenu en un autre temps, mais surtout comment, d’autre qu’il était, il est devenu lui-même. Ici la discursivité de la narration trouve une nouvelle justification, non plus par son destinataire, mais par son contenu: il s’agit de retracer la genèse de la situation actuelle, les antécédents du moment à partir duquel se tient le ‘discours’ présent. La chaîne des épisodes vécus trace un chemin, une voie (parfois sinueuse) qui aboutit à l’état actuel de connaissance récapitulative.

    L’écart qu'établit la réflexion autobiographique est donc double: c’est tout ensemble un écart temporel et un écart d’identité“ [9].

    Si tratta di una teoria dell’interpretazione che pone in primo piano lo scarto temporale, le discronie del discorso autobiografico: in quale momento si scrive la propria vita? quali sono le ripercussioni testuali? Il posizionarsi in un dato momento come influisce sull’idea che il soggetto elabora sulla propria identità? In questa relazione critica entrano in gioco come rivelatori i caratteri linguistico-narratologici del raccontarsi. Essi sono la risultante degli atti di resiliazione nell’attualità del narratore. Questa vera e propria indagine del soggetto sul suo sé, influenza l’intreccio e il discorso della sua narrazione, i cui ingredienti afferiscono spesso a diverse componenti figées dello stile. L’esperienza mostra, infatti, che raramente un testo di gente comune si iscrive senza ambiguità in un solco letterario determinato (inteso secondo il dettato dei latini: genus proximus, differentia specifica); esso rivela piuttosto tante appartenenze, solitamente piuttosto marcate, ipersegniche [10]. Sono testi che non evidenziano una vera e propria scelta consapevolmente formale da parte dell’autore, perché nascono sotto altre stelle: urgenza di comunicare, di inviare lettere, di depositare sulla carta tensioni, affetti, ecc. Pur mancando di un volontario ordine del discorso, essi tuttavia costituiscono delle semiosfere, e svelano quanto la scrittura derivi dalla boîte à outils di cui l’autore dispone.

    Il concetto di peripezia

    Il motore del racconto di sé nasce spesso da un’istanza profonda, da una ferita, da un trauma, che attraverso la scrittura cerca di oggettivarsi.

    Dobbiamo a La poetica [11] di Aristotele la definizione del racconto ‘perfetto’, che si realizza attraverso una peripezia. Il significato etimologico del termine è ‘piombare addosso’, accadimento improvviso’: Peripezia è il mutamento dei fatti nel loro contrario (...), il che deve accadere secondo verosimiglianza o necessità. Cioè questi rivolgimenti debbono avvenire in forza della stessa struttura del racconto. Ad esempio, nell’Edipo re di Sofocle il messo venuto per sollevare Edipo e liberarlo dal sospetto di un duplice delitto (l’indovino Tiresia lo aveva indicato come uccisore del padre e colpevole della relazione incestuosa con sua madre) rivelandogli chi era, ottiene l’effetto contrario. Il riconoscimento, come già indica la parola stessa, è il rivolgimento dall’ignoranza verso la conoscenza. Il congegno narrativo è perfetto, secondo Aristotele, quando il riconoscimento (cioè lo svelamento dei fatti) agisce sulla totalità degli eventi, che, attraverso questo atto del riconoscere, precipitano, - come appunto accade nella tragedia l’Edipo re di Sofocle -, tanto che, chi legge o assiste alla tragedia, subisce un impatto emotivo forte dovuto al ribaltamento simultaneo di tutto lo status quo.

    Le peripezie sono al centro di molte narrazioni autobiografiche, che frequentemente ruotano intorno ad un avvenimento maggiore, grave. Narrazioni che generalmente non hanno la maîtrise del racconto perfetto del dettato aristotelico, ma che rivelano un proprio modo di costruire l’immagine dell’accaduto, e di rendere centrale la peripezia, che resta il motore di molti testi di gente comune.

    Queste modalità permettono di comprendere come Lucullo pranzi con Lucullo, come l’io si dispieghi come soggetto e come ‘oggetto’.

    I verbi, gli aggettivi, la comparizione o sparizione sulla scena del racconto di persone, i rapporti spazio-temporali, costituiscono la complessità drammaturgica e diegetica del racconto di sé. Sia la presenza di attenuanti linguistiche - quasi, quasi mai, nondimeno, ecc. – sia l’interferenza di manovre diversive nella diegesi, possono essere usate per attutire la percezione della durezza di alcuni episodi, come viceversa aggettivazioni ripetute, irruzioni intempestive, tendono a enfatizzare l’incisività degli accadimenti.

    Qualche esempio

    In questo articolo menziono citazioni tratte da testi pubblicati, preferendoli ad inediti consultabili solo negli archivi.

    Il primo testo si riferisce all’ultimo foglietto dei 39 che Orlando Orlandi Posti, fucilato alla Fosse Ardeatine il 24 marzo del 1944, fa pervenire a sua madre. Arrestato il 3 febbraio, incarcerato a Via Tasso, scrive 39 foglietti, cuciti nella biancheria da lavare, che i nazisti consegnavano regolarmente alle famiglie. La catastrofe sta per avverarsi, ed è sul ciglio estremo della vita che le parole danno senso alla breve vita di Orlando, nato a Roma il 14 marzo 1926.

    Questo esempio è direi primario perché non ha la complessità di un racconto lungo e articolato. Si tratta di messaggi occasionali, che richiamano piuttosto la forma del diario. Tuttavia nella sua essenzialità rivela - Walter Benjamin ne parla ne Il narratore [12] - come la morte, sia il momento che permette alla vita di assumere il suo significato estremo e irriscrivibile.

    L’ultimo foglietto, il trentanovesimo, è stato scritto, come ho appena detto, alla vigilia della sua esecuzione:

    “Cara Marcella, quando leggerai questa che sarà l’ultimo mio contatto con te, io sarà [ntr: sarò] nel mondo dove almeno troverò un po’ di pace se il buon Dio che tutto può permette. Dunque Marcellina mia quando lo leggerai non voglio assolutamente che il tuo visino venga rigato dalle lacrime solo ti prego di ag[giungere] [13] alle tue preghiere serali una piccola preghierina per l’anima mia te lo chiedo perché so che questo non ti costerà nessun sacrificio. Ora vengo a giustificare questo mio scritto, sappi Marcella che ti volevo bene, ma molto bene e da molto tempo solo ho saputo far tacere il mio cuore, perché non ero degno, secondo la mia idea, fino a che non avessi avuto aperta la via di un avvenire sicuro per poter raggiungere il mio ideale, perciò cara ora che è impossibile che possa realizzare il mio sogno ho voluto confidarti il mio segreto” [14].

    Questo è un esempio parziale, come tutte le citazioni del resto, perché è tolto dall’insieme dei 39 brevi messaggi che O. O. Posti ha inviato ai suoi, e che danno nel loro insieme una visione più ampia del suo modo di esprimersi. Qui, quello che colpisce nella scena che Orlando delinea è il verbo al presente usato in particolare invocando Dio nella certezza della fine. Unico momento di eternizzazione, di una sospensione temporale, in questa breve lettera. Il resto è espresso al futuro (quando lo scrivente è consapevole che con ci sarà) configurando delle scene in un ultimo atto di compartecipazione immaginaria. Il suo ti volevo bene fa parte di questo tristissimo scenario. Il tempo passato del verbo sancisce per sempre la storia, ciò che indubitabilmente sarà già trascorso, il discorso concerne il discrezionale, il presente, il vuoto a-venire.

    Si ritornerà attraverso qualche esempio su questa differenza fra fabula, intreccio, e discorso, come necessaria chiave interpretativa della scrittura autobiografica in grado di discernere il contenuto informativo dall’argomentazione.

    Faccio ora riferimento ad un racconto autobiografico che ha vinto il premio Pieve-Banca Toscana 2003: Il sapore del pane di Daniele Granatelli [15]. Libro breve di 99 pagine (ognuna di circa 1500 caratteri), l’autore vi racconta un po’ meno di una cinquantina d’anni della sua vita, dal difficile dopoguerra, dopo una durissima occupazione nazista, fino ai suoi 50 anni.

    Queste pagine riconducono all’essenziale della sua esistenza, all’ inguaribile ferita [16] dell’abbandono da parte di sua madre. Questa è la peripezia del protagonista intorno a cui ruota il racconto. In breve sua madre con una figlia piccola e un altro in arrivo, di fatto senza marito, affida suo figlio a una famiglia contadina dell’Emilia. Un’ospitalità che nel ’45 era organizzata da L’associazione partigiani d’Italia per famiglie bisognose. Ma mentre il soggiorno degli altri bambini si limita a qualche mese, o ad un mese, Daniele rimarrà cinque anni presso questa straordinaria famiglia di contadini: “Erano una piccola comunità organizzata. Se qualcuno si trovava in difficoltà, qualcun altro aveva già visto e intuito. Era gente speciale” [17]. Questa accoglienza senza riserve non spegne il desiderio del ritorno di sua madre, con la quale Daniele sognerà per tutta la vita un incontro conciliatore e di ricompensa affettiva.

    “Ho letto migliaia di diari e di memorie nella mia vita - scrive nella prefazione Nicola Tranfaglia - ma ho trovato assai di rado un’essenzialità così grande nel portare alla luce i sentimenti di un amore filiale che non si sente corrisposto dopo mezzo secolo di tentativi” [18].

    Daniele descrive cronologicamente gli eventi che ritiene essenziali riportandoli al passato remoto e all’imperfetto: un racconto che situa in un tempo determinato, fissato una volta per tutte, queste vicende. Un paragrafo dopo l’altro, le scene sono descritte come in delle sequenze filmiche. Proprio come nell’emergenza del ricordo.

    Le date, raramente citate, sono integrate nel tessuto testuale. L’irrompere del tempo presente nel testo riporta il racconto all’attualità del ricordo nel rarissimo parlato diretto: “Non ti muovere, aspettami che arrivo” [19], promessa menzoniera della madre a Daniele in partenza a quattro anni.

    Il presente è usato anche in alcuni legami temporali: nelle sporadiche considerazioni delle ripercussioni del passato sul suo oggi: “Io oggi, sono un mancino puro che scrive con la destra, grazie a lei [una delle sue maestre, ndr]” [20].

    Due eroi compaiono nella narrazione: la sua prima maestra Renata “era bella, bellissima, capelli neri, occhi neri e un sorriso meraviglioso” [21], un ricordo quasi proustiano: ”Odorava di buono, aveva un profumo di viole; la toccai timidamente, mi sorrise, mi animai e le carezzai sul braccio la sua nera vestaglia; era liscia, non so che stoffa fosse ma era piacevole toccarla, sembrava seta” [22]. Odorava, aveva un profumo, riferisce della qualità del ricordo, dove un ‘non so’ al presente sancisce lo stato di persistenza e permanenza di una memoria sensoriale ancora viva.

    L’altro eroe è il partigiano che accompagna Daniele nel suo primo viaggio verso la famiglia ospitante: “Il partigiano dagli scarponi belli passava da una carrozza all’altra, con una chiave apriva e chiudeva dietro di sé la porta comunicante. Il passaggio fra le carrozze era alquanto pericoloso, noi bambini lo guardavamo mentre saltava da una carrozza all’altra con il treno in movimento, era diventato il nostro eroe e lui orgoglioso ci sorrideva a salto compiuto” [23]. E più in là: “Un giorno ebbi la grande sorpresa. Il mio datore di lavoro era lo stesso partigiano dai lucidi scarponi, il partigiano capo eroe di quella lunga giornata” [24]. Sia la maestra che il partigiano scompariranno all’improvviso dalla sua vita, sancendo una sorte, quella dell’abbandono, che si ripete nell’esistenza di Daniele, stabilizzandosi disgraziatamente come un archetipo affettivo. Il linguaggio di Daniele è lucido e intenzionale, non ci sono incertezze. Racconto che si configura come un rimpianto per il bene ricevuto, e riflessione amara del malessere, che ha accompagnato la sua infanzia. Tale è il paradosso della nostalgia (di una nostalgia del dolore, cioè) che è un registro essenziale del suo raccontarsi.

    Il paragrafo finale non rivela nulla di cambiato, ma l’autore parla al presente, sa che questa è stata, ed è la sua condizione, che questo manque affettivo è la componente chiave della sua vita. In un tempo non definito (senza data né età del protagonista) il racconto autobiografico si conclude con una visita alla famiglia di accoglienza da adulto: nella ricca campagna di una volta, nello spazio dove aveva vissuto, gli alberi sono morti per malattia, e la casa, passata ormai ad altri proprietari, è in preda all’incuria. Un momento descritto ancora al passato. Bruscamente il racconto riprende con un grande salto temporale: “Oggi mia madre ha 82 anni. Piccola, curva, ma molto arzilla. Io lavoro all’estero da oltre 23 anni. Rientro due o tre volte all’anno ed è quasi sempre la prima persona che vedo.

    ‘Ciao mamma come stai?’ Lei: ‘Finalmente sei arrivato. C’è l’orto da zappare. Pulire la cantina. Mettere in ordine il garage’. Dopodiché mi saluta.[...] Le sorrido, le prendo il viso teneramente con le mani e le do un bacio sulla fronte. Chissà se lo avverte” [25].

    Lo svolgimento del racconto delinea una parabola che stigmatizza: a) la distanza; b) il tentativo di abolire questa distanza; c) il ristabilimento definitivo del senso di abbandono. Un percorso che al momento in cui Daniele conclude il racconto è dato come termine ad quem. Eppure quando egli mette il punto finale alla sua autobiografia non è tanto anziano, e ci fa sapere in un inciso che vive all’estero (dunque è definitamente, realmente distante!), ma sente che la sua storia, quella più profonda è tutta già scritta, la sua parabola è conclusa. La revanche di Daniele su questa sua vita, che considera sotto tutti gli aspetti sviluppatasi sotto una cattiva stella, è di poterla raccontare in uno stato di quiete. Ne sono testimonianza le ultime (rassegnate) parole. Daniele, ormai più che adulto è consapevole nel presente di quanto è accaduto in cinquant’anni, ed è saldamente permeato dalla dolenza dell’asimmetrico rapporto affettivo. Non deve più osservarsi attraverso le parole altrui, come quando era bambino in preda ad un’angoscia permanente, il bambino che non era rientrato come sentiva dire e sussurrare. Può, facendo opera di resiliazione, parlare di sé. Infine Daniele pranza in compagnia di Daniele il suo amaro festino. Non gioisce come il Lucullo di cui Lejeune parla.

    Il salto cronologico stabilisce l’eternizzazione della ferita. Nessuna metamorfosi è possibile per Daniele dal momento che il suo trauma è sempre vivo. Tutto l’incompiuto è espresso anche in modo evidente dalle richieste di sua madre che incalzano per l’urgenza fittizia dei compiti materiali da ultimare.

    Non so se il libro pubblicato sia stato revisionato e cambiato dall’editing. Non so dunque se il testo di origine sia identico a quello che oggi al lettore appare un racconto quasi perfetto (quasi se si prende come modello il dettato aristotelico. Non vi è un dolore assoluto al culmine del suo raccontarsi. L’autore tende ad attenuare, a stemperare il dolore, in una scansione temporale).

    Ecco l’incipit: “Era la fine di ottobre, faceva già freddo, mia madre mi teneva per mano, ogni tre passi miei era uno dei suoi. Ci alzammo presto quella [26] mattina ed era ancora molto buio” [27]. Spesso nei racconti di gente comune troviamo una dedica, una spiegazione alla necessità del proprio racconto: delle forme di autolegittimazione sono molto ricorrenti. “Il diritto alla biografia”, è il titolo di un saggio di Lotman [28]. Come si assume il diritto di poter scrivere un’autobiografia? potrebbe essere la nostra domanda. Qui invece l’autore non sente il bisogno di giustificarsi.
    Il lessico, gli aggettivi, il periodare lucido e breve, paratattico, fissa il ricordo di ora per allora in maniera secca. Solo qualche indizio fa eco nel racconto: quello ad esempio degli stivaloni lucidi del partigiano del treno, figura mitica dell’uomo forte, dell’eroe protettivo che avrà occasione di rincontrare da giovane adulto, e ne sarà ancora una volta protetto, e che ahimé scomparirà. Indizi sporadici che creano una trama articolata attraverso delle anticipazioni.

    Qualche riflessione

    Non c’è dubbio che la storia (cioè, come abbiamo detto l’insieme di informazioni che l’autore segnala) è l’habitus primo che appare agli occhi del lettore. Gli autori stessi di racconti autobiografici sono convinti, credo, della supremazia dei contenuti, tanto da avvalorarli –spesso in modo rudimentale - attraverso tecniche proprie al realismo letterario. Come possiamo vedere nell’esempio che segue tratto da La spartenza di Tommaso Bordonaro: “il 26 luglio 1966 veniva al mondo un’altra femmina figlia di Ciro e Doloris Bordonaro, il quale messo il nome Mechalin, nata nell’ospedale di Santa Maria in Passaic N. J. Di peso è stata sette pound e tre onces. È nata il giorno di martedì 26 luglio 1966 ore dieci minuti 35 di sera, il giorno di Sant’Anna” [29]. Particolari che Bordonaro ha desunto direttamente dal rapporto medico, e che utilizza integralmente per lasciare una traccia scritta e indiscussa dell’accaduto, legittimata da una certificazione dell’ospedale. Scrittori di fiction utilizzano questa tecnica che costituisce secondo la definizione di Roland Barthes L’effet du réel [30]. Qui, in Bordonaro, la realtà (cioè la nascita di tanti nipotini, la sua discendenza) è oggettiva. Tuttavia, non possiamo tralasciare di osservare che così facendo (inserendo cioè delle ‘certificazioni’) l’autore impone, a più riprese, nel tessuto della narrazione una testimonianza che vuole sia incontrovertibile. Questo si inscrive in una tendenza assai frequente in testi autobiografici: quella di accludere dei certificati di matrimonio, di nascita, di morte, ecc.

    L’insieme di queste strategie e il loro articolarsi costituiscono l’intreccio e lo stile delle narrazioni del sé: a questo dobbiamo prestare la massima attenzione, perché è nella scrittura notturna, per riprendere un’espressione di Ernesto Sábato, è nelle sotto-traccie, che maggiormente si svela l’universo comunicativo di colui che narra di sé. In altre parole, per riprendere la linea maestra di Jean Starobinski, è attraverso l’osservazione dello scarto, dello iato fra tempo cronologico e tempo raffigurato, che si può individuare l’immagine della vita che l’individuo costruisce.

    Note

    1] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, (a cura di Clara Strada Janovic), Torino, Einaudi, 1979, pp. 403-404. I ed. 1975.
    2] I termini fabula e intreccio sono qui intesi secondo la definizione dei formalisti russi,mentre Il discorso rimanda allo stile. Cnf.: Boris Tomaševskij, “La costruzione dell’intreccio”, in (a cura di Tzvetan Todorov, pref. di Roman Jacobson), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 311-326. I ed. Paris, 1965.
    “Per la fabula hanno rilevanza solo i motivi legati, per l’intreccio, invece, sono a volte proprio i motivi liberi (le ‘digressioni’) ad avere le funzioni più importanti, determinando la struttura dell’opera.”, p.316.
    3]Albert Mingelgrün, narratologo, dell’Université Libre de Bruxelles, e io stessa abbiamo elaborato un formulario attraverso il quale decodificare il complesso insieme dei fattori formali dei racconti in prima persona. Questo formulario è accessibile su:
    www.fltr.ucl.ac.be/fltr/rom/narratologie/
    4] Philippe Lejeune, Signes de vie, Le pacte autobiographique 2, Paris, Seuil, 2005, p. 120. Trad. in it. :“[Gli storici] si servono dei testi autobiografici, ma con precauzione, li prendono con le pinzette della ‘critica testimoniale’ come delle fonti – impure e secondarie – della storia, e questa strumentalizzazione può accecarli, impedire loro di vedere questi testi come dei fatti storici a parte intera. […] Questo dà all’autobiografo quale sono la voglia di rivoltarsi contro questi storici predatori che vedono in qualsiasi animale una semplice selvaggina. L’idea che fra qualche generazione si vedrà frugare nei vostri testi per trarne delle informazioni su qualsiasi cosa, senza capire che il soggetto parla di sé, rimproverandolo di averlo fatto, indurrà ad essere disgustati dallo scrivere. Per evitare i malintesi, metterò nell’intestazione a grandi lettere: ‘Non sono una fonte’, o ‘ Caccia proibita’ “.
    5] Ivi, pp. 121-122. La traduzione è mia.
    6] Ivi, 212.
    7] Ph. Lejeune “Lucullus dîne chez Lucullus”, in Signes de vie, op. cit., pp. 215-227.
    8] Utilizzo qui intenzionalmente il titolo di una celebre opera di Paul Ricœur, Temps et récit, Paris, Éd. du Seuil, 1985.
    9] Jean Starobinski, “Le progrès de l’interprète“, in La relation critique, Paris, Gallimard, 2001 (1970), p.119. Trad. in it. : “[...] la trasformazione interna dell’individuo – e il carattere esemplare di questa trasformazione - offre materia a un discorso narrativo avente l’’io’ per soggetto e per ‘oggetto’. Noi ci troviamo allora in presenza di un fatto interessante: è perché il me compiuto è differente dall’io attuale, che permette veramente di affermarsi in tutte le sue prerogative. Questi non racconterà solamente ciò che è accaduto in un altro tempo, ma soprattutto come, da altro che egli era, è diventato se stesso. Qui la discorsività della narrazione trova una nuova giustificazione, non più attraverso il suo destinatario, ma attraverso il suo contenuto: si tratta di ritracciare la genesi della situazione attuale, gli antecedenti del momento a partire dal quale si tiene il ‘discorso’ presente. La catena degli episodi vissuti traccia un cammino, una via (a volte sinuosa) che sfocia nello stato attuale di conoscenza ricapitolativa. Lo scarto che stabilisce la riflessione autobiografica è dunque doppio: è allo stesso tempo uno scarto temporale e uno scarto d’identità”. La traduzione è mia.
    10] Cnf.: B. Barbalato, “L’ipersegnicità nelle testimonianze autobiografiche”, in Le récit du moi: forme, strutture, modello del racconto autobiografico, in Kwartalnik neofilologiczny, Polska Akademia Nauk, editor: Franciszek Grucza, Warzawa 29-30 April 2008. Pubblicato nel 2009, pp. 387-400.
    11] Aristotele, La poetica, Milano, Rusconi, 1981. Intr., trad., parafrasi e note di Domenico Pesce.
    12] Walter Benjamin, “Le narrateur. Réflexions sur l’œuvre de Nicolas Leskov“, in Essais 2, 1935-1940, (trad. dal tedesco di Maurice De Gandillac, Paris , Denöel et Gontier), 1983/1971. Frankfurt, 1955. Cito la versione in francese, quella che ho consultato.
    13] Le parentesi quadre sono nella trascrizione del testo edito.
    14] Orlando Orlandi Posti, Roma ’44, Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine, Roma, Donzelli editore, 2004, p. 73. Ho ripreso la trascrizione della lettera dall’edizione citata supra.
    15] Daniele Granatelli, Il sapore del pane, pref. di Nicola Tranfaglia, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, Terre di Mezzo, coedizione: Milano Cart’armata ed., Piacenza Ed. Berti, 2004.
    16] Gilles Deleuze, “Zola et la fêlure”, in Logique du sens, Paris, Éd. du Minuit, 1969, p. 386. Deleuze si riferisce all’opera di Emile Zola La bête humaine.  “Comme si la fêlure ne traversait et n’aliénait la pensée que pour être aussi la possibilité de la pensée, ce à partir de quoi la pensée se développe et se recouvre. Elle est l’obstacle à la pensée, mais aussi la demeure et la puissance de la pensée, le lieu et l’agent”. Trad. in it.: “Come se l’incrinatura non traversasse e non alienasse il pensiero che per essere anche la possibilità del pensiero, ciò da cui il pensiero si sviluppa e si scopre. [Questa incrinatura] è l’ostacolo e la potenza del pensiero, il luogo e l’agente”. La traduzione è mia.
    17] D. Granatelli, Il sapore del pane, op. cit., p. 30.
    18] Nicola Tranfaglia, “Prefazione”, in D. Granatelli, op. cit., p. 7.
    19] D. Granatelli, Il sapore del pane, op. cit., p.14.
    20] Ivi, p. 55.
    21] Ivi, p. 47.
    22] Ibidem. 23 Ivi, pp. 16-17.
    23] Ivi, pp. 16-17
    24] Ivi, p. 86.
    25] Ivi, p. 99.
    26] L’aggettivo quella è già un indizio di qualcosa che resterà un termine importante di riferimento durante tutto il racconto. Il corsivo è mio.
    27] Ivi, p. 9.
    28] Jurij M. Lotman, “Il diritto alla biografia”, in La semiosfera - l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, (a cura di S. Salvestroni), Venezia, Marsilio, 1985. In particolare si veda la p. 170.
    29] Tommaso Bordonaro, La spartenza, pref. di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1991, p. 82.
    30] Roland Barthes, “L’effet du réel“, in Littérature et réalité, R. Barthes, L. Bersani, Ph. Hamon, M. Riffaterre, I.Watt, Paris, Édition du Seuil, 1982, pp. 82-90. Prima ed. Communications, 11, 1968.

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