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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Mai-Août 2010

    LA LIBERTÀ DELLA PAROLA


    Fabio Olivieri

    f.olivieri75@gmail.com
    Educatore e Formatore in metodologie autobiografiche; Socio Collaboratore Osservatorio dei Processi Comunicativi, membro del Comitato di Redazione della rivista m@gm@.

    Per un’introduzione al problema

    Prima di addentrarci nel percorso di questo contributo, dedicato alla funzione e all’esercizio originario della Parola, occorre far luce su alcuni dei concetti che costituiscono parte integrante del presente articolo. Partiremo proprio con il tentativo di chiosare quale declinazione semantica sia stata attribuita, durante il ragionamento esposto, al termine “Parola”, per poi procedere ad una sua delimitazione operante nella distinzione tra “senso” e “significato”.

    L’etimologia del lemma “parola” deriva la sua origine dal dialetto sardo e napoletano paraula, come ci ricorda Clemente [1], che a sua volta rimanda al latino parabola: intesa quale “detto”, “motto”, ma anche racconto allegorico, utile alla rappresentazione concreta di un concetto astratto. Col tempo finisce col sostituire il termine Verbo, che nella chiave interpretativa cristiana, viene associato alla parola che si fece carne attraverso la figura del Messia. Nell’esegesi biblica di Filone Alessadrino incontriamo invece la parola intesa quale Logos divino, principio creativo di Dio che attraverso di esso “affila ogni cosa (...) con un taglio della massima acutezza” [2], “Così, dunque, Dio, avendo affilato il suo Logos divisore di tutte le cose, divideva la sostanza informe e indeterminata del Tutto” [3].

    Il Logos, al quale ci si riferirà nell’articolo proposto, assume proprio questa dimensione. Egli si denota quale senso primario che delimita i contorni delle forme percepite, siano esse di natura materiale o spirituale, definendole proprio grazie al suo intervento che le rende riconoscibili all’occhio e al cuore umano fino a trasformarle in materia suscettibile di attribuzione nominale e semantica. Il Logos è quindi il principio ordinatore dell’universo, che attraverso la parola divina è stato profuso in tutte le manifestazioni fenomeniche. Senza di esso non potremmo giungere ad alcuna significazione. Durante la trattazione del tema ci si riferirà spesso al Logos come “Parola”, differenziandolo dalla “parola” comunemente intesa come valore nominale che identifica qualcosa e che, in questa sede verrà indicata con l’iniziale minuscola al fine di non confondere il lettore.

    Si rende necessario, a questo punto, distinguere il modo in cui sono state intesi i termini “senso” e “significato” nell’articolo che segue. La prima di queste parole è stata concepita quale esperienza sensibile che il soggetto fa di un qualcosa, che successivamente viene delimitata dal significato attribuito all’evento stesso. Quando il bambino osserva il mondo che lo circonda fa esperienza dell’esistente, ma non avendo ancora appreso le regole della linguistica, finisce col misurarsi con la loro sproporzione, con la possibilità di quegli oggetti/soggetti di essere detti in modo diverso, di essere significati secondo prerogative individuali. Il senso dunque deve essere inteso come potenza della manifestazione fenomenica di assumere un connotato specifico, un significato appunto.

    Parola e relazione

    La Parola è logos, senso, che diviene Dià-Logòs quando due interlocutori intraprendono questa indescrivibile danza antropologica intorno al fuoco della sua origine, limitandone gli orizzonti possibili mediante il significato. Quest’ultimo è dunque il giunco immerso nell’acqua: flessibile e determinato al tempo stesso. Ogni termine possiede una varietà di accezioni che ne rendono il suo impiego trasversale, collocabile nella piena aderenza al contesto, entro cui si identifica col significato che decidiamo di attribuirgli. In questo moto perenne di significati percorribili, l’uomo si prodiga tra l’esigenza di percepirsi come Io e la necessità di vestire i panni di un Tu, capace di aprire la sua conoscenza a rappresentazioni del mondo diverse dalla propria. Il Tu, presente nel rapporto, diviene l’interlocutore per eccellenza. L’Io senza un Tu ripiegherebbe su stesso fino a spezzarsi. Che sia in rapporto ad un soggetto fisico (un altro essere umano) o ad un’entità preposta al dialogo interiore (coscienza), l’uomo fa esperienza della parola quale possibilità di delimitare il campo della sua conoscenza fenomenica.

    Purtroppo la contemporaneità ha lasciato poco spazio all’interpretazione, riducendo di fatto la parola a pura convenzionalità.

    I significati che siamo soliti attribuire ad un evento si mostrano spesso come reiterazioni di un modello culturale dominante, che non valuta alcuna alternativa originale rispetto a quella comunemente intesa, partorita per la massa, sempre più disposta verso una semplificazione del mondo che si potrebbe definire allarmante. Quanto più viene sottratto alla complessità, tanto meno l’uomo può ambire ad una sua crescita interiore. Quanto più limito le possibilità di significare ciò che osservo, tanto più mi troverò davanti ad un mondo povero di sfumature. E’ proprio in relazione a questa decadenza che si ritiene necessario liberare la Parola nella relazione. Una relazione che qui viene intesa in rapporto al fenomeno osservato. Ma come possiamo liberare la Parola se noi stessi, secondo Filone, ne siamo costola e naturale emanazione? Come è possibile pensare di agire su un elemento così vitale da divenire, per Buber, statuto ontologico della nostra esistenza? E ancora, perché procedere in questa direzione ? E’ davvero necessario liberare la Parola da noi stessi? Sono domande cariche di incertezza che destano inquietudine in chi si presta ad ascoltarle in modo autentico [4]. Ogni certezza sulla quale poggia la razionalità dell’uomo occidentale riflette un piano di sostegno legato all’uso del linguaggio e alle forme di significato che esso assume nella dimensione di un sapere collettivo. Ciascuna comunità, per quanto piccola essa sia (tribù, comitiva, gruppo informale, etc.) fonda la sua nascita e la sua sopravvivenza su un uso condiviso della parola, che le consente di comunicare nella comprensione di quanto viene detto.

    Ciò comporta necessariamente un appiattimento di quelle possibilità che ruotano intorno al significato assunto dalla parola stessa. E questa dimensione svalutativa della sua “potenza” erige prigioni nelle quali siamo destinati a vivere inconsapevolmente.

    Un passaggio indispensabile per rispondere al primo quesito, consiste nell’accettare pienamente la Parola quale elemento la cui natura è implicitamente soggettiva e strutturata alla base della nostra esistenza.

    Per dirla in termini più semplici: se riconosciamo la Parola come una competenza unica del soggetto che la può significare in relazione al suo vissuto (unico anch’esso), potremmo allora ambire ad una sua liberazione dalla schiavitù dei “si dice” e “si fa”, della convenzione entro la quale ogni essere umano trova rassicurazione rispetto all’inquietudine di scoprire un Mondo retto sulla base di significati linguistici prestabiliti; e che nulla o quasi lascia, all’originalità e all’intraprendenza, ma al contrario cerca di colonizzare ogni aspetto della vita affinché nessuno possa azzardare una verità diversa da quella universalmente condivisa. La Parola è dunque il senso che apre alla possibilità di significati diversi. L’uso comune dei vocaboli però, che significano porzioni di mondo senza interrogarle realmente, si riverbera soprattutto nella relazione. In quella dinamica Io-Tu presente sia a livello soggettivo (la coscienza) che intersoggettivo (la relazione) che inevitabilmente ne risulta depauperata dalla moltitudine di possibilità cui potrebbe ambire.

    Valga per tutti questo frammento autobiografico di Aldo Gargani, dove il filosofo rilegge la propria esperienza di genitore, partendo proprio dal modo in cui suo padre lo iniziò alla conoscenza di sé stesso, quale essere vivente “significato”, a cui è stato indebitamente sottratta la possibilità di edificarsi una coscienza “originale”. In questo caso è l’uso di un linguaggio iconico a proiettarsi come una catena sull’ombra del bambino:

    E’ sempre stato così per questo bambino che io sono stato, dipinto da mio padre prima ancora che io pensassi, per questo bambino dico, che io sono stato e che ha cominciato ad esistere prima nei quadri di mio padre e poi da solo, che ha conosciuto l’immagine della sua realtà in una quantità di dipinti ad olio e di disegni nei quali ha appreso la sua esistenza. < Io sono quello > mentre vedevo un mio ritratto dipinto o disegnato da mio padre nel suo studio (...) < Io sono così > mi dicevo, mentre io sorgevo in un disegno tracciato da mio padre (...) la mia immagine nasceva nei quadri di mio padre e sarà forse per questo che io non sono mai nato del tutto (...) tutti quanti noi siamo copie di un originale tardivo; giunti ad una certa età, penso ora, diventiamo l’originale delle copie che eravamo stati (...)” [5]

    Le proiezioni che gli altri compiono su di noi, non ci consentono di aprirci interamente all’esperienza del mondo fenomenico poiché, come lo stesso Gargani afferma, giungono a significarlo/ci prima ancora che esso possa assumere una forma strutturale autonoma e singolare per noi stessi. Ciò non accade solo nelle relazioni derivate, quelle che stabiliamo con i nostri amici e conoscenti, ma si verifica soprattutto nelle relazioni primarie, con i genitori, quelle da cui dovremmo apprendere come porci rispetto al mondo e agli altri esseri umani.

    Ecco dunque che si intravede l’importanza fondamentale dell’uso che facciamo della parola e dei significati. Essi possono liberare o incatenare con il medesimo grado di coinvolgimento emotivo ed esistenziale, quando vengono subite senza appello, senza opportunità di ribellione.

    Tornando quindi al nostro quesito iniziale, “come liberare la Parola?”, la risposta che si intende dare in questo contributo é che tale azione è possibile soltanto assumendone piena coscienza e consapevolezza del suo valore in potenza. Venendo al nostro secondo interrogativo, riguardante il modo in cui potremmo agire sulla Parola, personalmente ritengo che tale azione sia legata indissolubilmente al soggetto.

    Ritorno sempre di nuovo sul pensiero che il mistero (Geheimnis) della vita spirituale dell’uomo consista nel mistero (Mysterium) della Parola. Non inabita nella Parola in sé per sé, proprio per la sua origine nello spirito, la forza di risanare l’uomo dalla rottura spirituale della sua vita? La Parola incatena a potenza del male. La Parola riscatta l’uomo”. [6]

    Se la Parola, secondo Ebner, appartiene allo statuto ontologico dell’uomo allora vuol dire che agendo sul soggetto, possiamo agire contemporaneamente sulla Parola. In che modo? Attraverso l’educazione allo sviluppo e all’empowerment di quelle abilità narrative presenti nell’uomo sin dalla sua nascita [7] e che consentono un’arricchimento del registro narrativo entro il quale ci definiamo agli occhi del mondo. E’ ormai appurata l’esistenza, nell’uomo, di due diverse modalità di pensiero : narrativo e paradigmatico [8]. Il primo è fortemente legato al contesto entro il quale viviamo e avviamo relazioni, ci facilita la comprensione del mondo attribuendo significato a ciò che vediamo, osserviamo, tocchiamo, percepiamo etc.

    Il pensiero narrativo si manifesta attraverso il racconto, sia esso reale o di fantasia, procedendo mediante l’interpretazione costante della realtà. Ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad una situazione nuova o inattesa, la nostra attitudine è quella di trovarvi una spiegazione conciliante con il nostro modo di concepirla.

    Di fronte a ciò che Bruner ha definito come “violazione della canonicità”, ossia della modalità previsionale di come gli attori e le loro azioni dovrebbero muoversi in direzione di uno scopo, subentra la facoltà narrativa dell’uomo, che tenta di mediare il conflitto derivante dalla mancata corrispondenza tra le sue aspettative e il contesto di realtà di cui è testimone. Diversamente il pensiero scientifico procede in direzione complementare ed opposta attivandosi laddove si richieda un procedimento analitico, volto a misurare e quantificare un determinato fenomeno. Obbedisce a regole precise ed è soggetto ai processi di validazione che ne determinano il buon esito. Il pensiero scientifico, come ci ricorda Nicolini, è finalizzato alla spiegazione di un oggetto reale, contrariamente a quello narrativo che invece ci aiuta a comprendere il sistema di relazioni di significati via, via costruiti dal soggetto e/o dalla collettività. Ma è davvero tutto qui? E’ sufficiente narrarsi per riscattare la parola? L’argomento è piuttosto complesso e richiederebbe una disponibilità di spazio maggiore per affrontarlo. Nonostante ciò si cercherà ugualmente di rispondere a questa domanda.

    La narrazione si attiva sempre di fronte ad un conflitto sia esso percettivo o esistenziale. La sua funzione primaria è quella di condurre il soggetto verso la definizione di se stesso e/o alla risoluzione di un problema, che si manifesta nell’accettazione di quanto accaduto e a cui abbiamo partecipato in modo diretto o indiretto. La narrazione partorisce storie mediante la costruzione di un mosaico di parole, aventi significati diversi per ciascun individuo. E’ proprio questa poliedricità semantica a garantire la possibilità di inquadrare il proprio sé in contesti sempre diversi ed originali. D’altronde alla base di ogni terapia analitica vi è proprio la possibilità di narrarsi per giungere ad una nuova nascita del soggetto. Ciò avviene riconoscendo alla parola il suo statuto primario, di fenomeno capace di assumere senso e significati diversi in rapporto alla forma che intende rappresentare. Una modalità, questa, che si verifica anche in contesti meno impegnativi come nel caso della cosiddetta “terapia breve”, meglio conosciuta come “counseling”. In questo ambito si è andato sviluppando una corrente specifica volta a coniugare l’approccio narrativo con quello “centrato sulla soluzione”, (Fuman e Ahola) [9] definito per l’appunto “counseling narrativo”, quale possibilità ulteriore per il “cliente” di sradicare quell’attitudine a descriversi ricorrendo alle medesime parole di sempre (un pò come accade all’interno delle mitologie familiari, dove si tende ad uniformare i racconti dei diversi membri per giungere ad una storia condivisa che viene in seguito tramandata ai posteri). Ascoltare il proprio Sè in una chiave rappresentativa diversa, ricorrendo a parole inusitate, ci aiuta ad uscire dal circolo vizioso della staticità improduttiva e sterile. Quanto detto appare possibile grazie ad una riconquista del soggetto che si percepisce quale forma continuamente definibile, in progressione perpetua. Ciò non accade soltanto nelle condizioni proattive, ma si verifica anche, come lo stesso Ius ci ricorda, come opposizione alla disintegrazione della propria interiorità al cospetto di un vissuto violento o scioccante:

    La relazione tra memoria e racconto sembra dunque cruciale, tanto da portare Cyrulnik, uno dei più noti studiosi del tema, a ritenere che la resilienza sia una particolare modalità di elaborazione narrativa e condivisa del trauma vissuto (...)” [10]

    La narrazione può divenire, quindi, una vera e propria forma di resistenza. Non solo quale replica ad un danno subito, ma anche come spunto di liberazione, forza propulsiva capace di proiettare il soggetto oltre la precarietà della sua dimensione vitale.

    In questo contesto le parole tessono le trame di una nuova identità, di cui l’individuo si appropria, riconoscendosi nel riflesso del suo racconto. Ecco dunque che l’esercizio delle abilità narrative, nella loro declinazione verbale, costituiscono motivo di profondo mutamento da parte dell’Io, pronto a vestire le sagome di quei ritagli generati da un lavorio intenso, capace di coniugare la frammentarietà dell’Io alla complessità del Sé e del Senso/Logos/Parola (che ribadisco qui essere intesi come atto di potenza preposto ad un possibile sviluppo).

    Tornando dunque al nostro secondo quesito, occorre affermare che è proprio questa traiettoria trasformativa che consente di poter agire, mediante la scelta e l’incisività della parola sulla totalità dell’essere umano, accompagnandolo nella ricerca di una nuova realtà da percepire e condividere con se stesso e i suoi simili. La narrazione, quindi, rappresenta il pentagramma entro il quale si inscrivono le parole e i significati della nostra esistenza, diviene luogo prediletto per la costruzione di nuovi “mondi possibili”.

    L’importanza del contatto con se stessi viene esaltata dall’introduzione del principio di originalità: ognuna delle nostre voci ha qualcosa di unico da dire. Non solo non devo plasmare la mia vita secondo le esigenze del conformismo esteriore, ma non posso nemmeno trovare fuori di me il modello secondo cui vivere. Posso trovarlo solo in me. Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia originalità, cioè a una cosa che solo io posso scoprire”.
    Charles Taylor

    Quale possibilità per la Parola?

    Si è avuto modo di comprendere che vi sono termini ed entità strettamente connessi tra loro: l’uomo elabora la sua identità nella narrazione, quest’ultima è un accordo di significati sottratti all’universo più ampio del senso, delle forme e delle possibilità. Possibilità che si generano mediante il ricorso alla parola. Una parola che però, non deve essere vista quale limite incontrovertibile che svilisce l’estensione del senso. Non potrò mai sostenere che quanto io stesso nomino, scelgo, si traduca in eterno nello stesso modo perché “Tutto in me attende di essere verwandelt [trasformato]” [11]. I significati delle parole adottate mutano infatti in rapporto alle relazioni, al contesto e alle situazioni. Per questo non è pensabile guardare alla libertà della Parola, e quindi dell’uomo, come possibilità di estraniarsi dal tessuto fenomenico, vitale e dialogico a cui facciamo riferimento nella realtà quotidiana. Allora perché domandarsi se è necessario liberare la Parola dall’uomo?

    I termini della domanda sono posti correttamente? Si ritiene di poter rispondere in senso affermativo a quest’ultimo quesito. Il problema semmai consiste nell’interpretazione che diamo al termine “libertà”, spesso abusato e svuotato dei suoi elementi portanti. Una sottrazione, purtroppo, che replichiamo costantemente nell’esercizio quotidiano del linguaggio, rischiando così di condannare l’intero patrimonio della parola a tre o quattro significati condivisi e facilmente recepibili. Libertà, per molti di noi vuol dire libero da e non libero di :

    L’uomo ha la possibilità e il dovere di realizzarsi: in ciò sta la sua libertà.(...) per concretarsi, per dirsi libero deve relazionarsi a una misura e a una meta, data la finitudine del suo essere e la potenzialità delle sue dimensioni essenziali” [12] - e ancora - “Libertà in educazione, significa poter sperimentare il legame. Non se ne può fare a meno e non è da utilizzare di per sé[13]

    La libertà dunque per Buber, non è un bene proprio soggetto all’usura del tempo e del consumo. Essa è piuttosto una condizione che deve realizzarsi in relazione. Impossibile scindere la libertà dell’uomo dalla libertà della parola e della relazione con l’altro. Tutti e tre necessitano di intravedere una meta, di essere contestualizzati. Ancora Buber ci ricorda che non v’è libertà nel rifiuto della relazione con l’altro. E se l’altro, che è Uomo, è Parola, allora non possiamo ambire alla liberazione di questa se non ci occupiamo dell’umano, della connessione tra il soggetto e la sua innata capacità di attribuire significati a ciò che lo circonda delimitando le forme del senso.

    Essere costretti dal destino, dalla natura, dagli uomini: il suo opposto non è essere liberi dal destino, dalla natura, dagli uomini, bensì essere legati e alleati al destino, alla natura, agli uomini[14]

    Per poter dare seguito alla libertà di se stessi e quindi della Parola, si deve essere capace di mettersi in gioco, di sperimentare nuove forme dell’essere e nuovi significati privi di quella solidità apparente che si arrocca nell’uso stereotipato del linguaggio.

    Come posso farlo ? Accogliendo il diverso, il Tu dell’altro (che è Parola anch’esso), e che necessariamente mi richiede di ampliare il mio spazio interiore al fine di poterlo “contenere”. Un’operazione che non deve essere vissuta nella solitudine, ma sempre e comunque nel rapporto con l’altro. “Contenimento”, per Buber infatti, vuol dire:

    ampliamento della propria concretezza, compiutezza della situazione vissuta, presenza totale della realtà della quale si è parte (...) -Sperimentare- il rapporto anche dalla parte dell’altro [15].

    Concretezza, presenza, sperimentazione, sono vocaboli che non rimandano a qualcosa di astratto, ma si riferiscono ad un fare, ad un co-costruire assumendo quale parametro la “realtà vissuta”, la fisicità e la possibilità presenti dell’altro.

    La relazione per Buber è connaturale all’esistenza dell’uomo, in quanto l’imperativo “Io sono” risponde alla domanda “Chi sei Tu ?”. Quindi il soggetto, prima ancora di essere un Io è stato un Tu. Non solo: “la parola Io-Tu fonda il mondo della relazione[16], ciò vuol dire che è inseparabile. L’Io e il Tu, esistenti nel soggetto non possono essere analizzati singolarmente ma solo come entità unica e indivisibile, ecco perché la relazione per Buber è il fondamento dell’essere umano. Ed è in questa dialogicità che prende forma la relazione, prima interiore e poi esteriore. Il dialogo che l’uomo instaura con se stesso e con i suoi simili. Ma questo “dialogo”, incontro di sensi, può avvenire soltanto nella relazione concreta, quella che si esperisce in prima persona, non come idea dell’altro ma proprio un’immersione nell’altro e in se stessi.

    Il Tu dell’altro è forma, senso che deve essere ancora deciso. Questo comporta che se mi riconosco capace di accogliere la diversità dell’altro, posso ambire a cogliere la pienezza della Parola, di quella forma sempre mutevole e cangiante, liberandola dalle false strutture, dalla gabbia delle “foglie morte”, per dirla con Heidegger. E’ sempre la possibilità ad aprire verso il nuovo. Questa condotta mi orienterà a scegliere oculatamente quelle parole a cui fare riferimento per esprimere il mio Io, rinnovandolo costantemente e, nel medesimo istante, prestare la massima attenzione alle parole scelte dall’altro soggetto, che rivelano il suo modo di essere nel mondo e nella relazione. Una identità che non traspare dall’attributo semantico convenzionale, ma dalla scelta genuina di un logos capace di restituire la percezione che l’altro ha del mondo in cui vive, e che passa attraverso la scelta di un parola piuttosto che di un’altra. Occorre dunque iniziare l’uomo all’ascolto dell’altro e di se stessi. Prestare ascolto nella forma più alta, come saggiamente ci ricorda Etty Hillesum :

    Anche se il corpo è dolorante lo spirito può continuare a svolgere il suo lavoro, è vero? Posso amare e hineinhorchen (prestare ascolto) - ascoltare dentro se stessi e gli altri e quanto ci lega ala vita (...) davvero la mia vita è un lungo hineinhorchen, un ascoltare dentro me stessa e gli altri, e Dio. E se dico io horche hinein, ascolto, è realmente Dio che hineinhorcht, che ascolta dentro di me. Il più essenziale e il più profondo in me, ascolta il più essenziale e il più profondo nell’altro. Dio a Dio”. [17]

    Ascoltare se stessi ci conduce ad ascoltare l’altro e la sua Parola. Sia “l’altro diverso da me” che “l’altro diverso in me”. Ma l’approssimarsi di questa voce interiore diviene un modo per entrare in contatto con la propria coscienza, con quel corrispondere profondo che, a volte, identifichiamo come Dio. Ecco perché Etty chiude il frammento del suo diario con l’espressione “Dio a Dio”, perché la “potenza” dell’uomo sta nell’essere Parola e significato al tempo stesso, in perpetua determinazione. Liberare la Parola allora, vuol dire lasciarla vivere nella sua potenza evocatrice e trasformatrice, poiché essa è “quel vento che acqua era stato e acqua torna ad essere quando getta via il velo” [18]. Il velo dell’apparenza designata da chi osserva. Liberare la Parola è sradicarla da una struttura avvizzita, dalla necessità di doversi rappresentare il reale ricorrendo a termini di uso comune, che non lasciano spazio alla libera creatività del soggetto. Creatività che è appunto l’unica possibilità per l’uomo di concretarsi ad immagine e somiglianza di Dio, nel delimitare la forma di ciò che egli incontra ricorrendo all’uso dei significati.

    Ogni individuo, per liberare se stesso e la Parola, deve saper ricercare nel logos, il suo significato, la rappresentazione più attigua al suo essere nel mondo, alla percezione del mondo stesso e dell’altro.

    Conclusioni

    Giunto al termine di questo articolo, e dato il rapporto tra argomento trattato e disponibilità di spazio, si cercherà brevemente di chiarire i termini di questa proposta riassumendo quanto riportato finora.

    Si è affermato che l’uomo e la Parola hanno origine comune, poiché entrambe sono forme in continuo divenire. La Parola quindi, rappresenta un’estensione dell’individuo delimitata dalla possibilità di dirsi e di significarsi rispetto al mondo attraverso la parola. Questo “dire” assume le caratteristiche di una struttura narrativa, poiché tutti noi, come lo stesso Bruner afferma, ci identifichiamo grazie alle storie che siamo in grado di produrre. Ma quest’attività di costruzione delle identità, che passa attraverso la Parola, non può limitarsi a replicare quanto è stato già detto sul mondo e su di noi, duplicando l’offerta di interpretazione della forma, del senso quindi. Si deve riscoprire quell’orma divina che vive in noi, che ci rende capaci di poter creare, di dare vita a qualcosa di singolare ed unico. Una capacità che si materializza e si rafforza nella narrazione di Sè. Una strada che per essere percorsa necessita di un uso appropriato della parola. Un uso capace di restituire dignità alla vita di ciascun individuo, quale ente in continua evoluzione, che proprio attraverso la parola e la narrazione, assume forma, fine ed identità.

    Note

    1] P.Clemente, Ascoltare la vita, in questo numero della rivista m@gm@
    2] Filone Alessandrino, L’erede delle cose Divine, pag. 123, Ed. Rusconi, Varese, 1994
    3] Filone Alessandrino, Op. cit., pag. 127
    4] Per autenticità intendo riferirmi a quanto espresso da Heidegger intendendola quale possibilità dell’Uomo di giungere alla Parola attraverso il significato soggettivo ed originale che ciascun individuo può potenzialmente raggiungere se rinuncia ad un uso stereotipato e convenzionale del linguaggio.
    5] Gargani A., Il testo del tempo, pag. 32, Bari, Ed. Laterza, 1992
    6] Ducci E., La parola nell’uomo, pag. 134, Ed. La Scuola, Brescia, 1983
    7] Per ulteriori riferimenti riguardanti gli aspetti delle abilità narrative dell’uomo si rimanda a F.Olivieri, Il Sè autobiografico, in corso di pubblicazione presso l’editore Armando.
    8] Nell’articolo di Paola Nicolini è possibile approfondire le differenze tra pensiero narrativo e pensiero paradigmatico.
    9] Milner J. O'Byrne P., Il counseling narrativo. Interventi brevi centrati sulle soluzioni. Erickson, Trento, 2004
    10] Marco Ius, Il diritto alla propria "storia". Una riflessione intorno a resilienza, educazione e racconto di sé, in questo numero della Rivista m@gm@
    11] Hillesum E., Pagine mistiche, pag.76, Ed. Ancora, Milano, 2007
    12] E. Ducci, Libertà liberata, Ed. Anicia, Città di Castello, 1994
    13] Aluffi A., a cura di, M. Buber, Discorsi sull’educazione, pag.47, Ed. Armando, Ronciglione, 2009
    14] Aluffi A., Op. cit., pag.46
    15] Aluffi A., Op. cit., pag.58
    16] Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, pag. 61, Ed. San Paolo, Cuneo, 2004
    17] E. Hillesum, Op. cit. pag. 71
    18] Rumi M., Poesie mistiche, Ed. Bur, Ariccia, 2008

    Bibliografia

    Aluffi A., a cura di, M. Buber, Discorsi sull’educazione, Ed. Armando, Ronciglione, 2009
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    Bruner J., La ricerca del significato,Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2006
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    Rumi M., Poesie mistiche, Ed. Bur, Ariccia, 2008
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    Smorti A., Il sé come testo, Ed. Giunti, Firenze, 1997
    Smorti A., Narrazioni, Ed. Giunti, Prato, 2007
    Smorti A., Il pensiero narrativo, Ed. Giunti, Firenze, 1994
    Taylor C. La topografia morale del Sé, Ed. ETS, Pisa, 2003


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