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  • Écritures de soi en souffrance
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.8 n.1 Janvier-Avril 2010

    IL DIRITTO ALL’AUTOBIOGRAFIA: IL PROGETTO “NARRAZIONITINERANTI”



    Lucia Portis

    lucia.portis@fastwebnet.it
    Antropologa, formatrice e ricercatrice sociale, esperta in metodologie autobiografiche, specializzata in percorsi formativi e ricerca narrativa presso la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari (AR) fondata da Saverio Tutino e Duccio Demetrio e di cui è collaboratrice scientifica dal 2004. Si occupa, oltre che di formazione e di progettazione partecipata, anche di valutazione, ricerca narrativa e supervisione educativa. E’ docente a contratto presso l’Università degli Studi di Torino di antropologia medica.

    Premessa

    Haidegger in “Essere e Tempo” (1927) sostiene che la descrizione del mondo comincia con l’elencare tutto ciò che si vede: cose, alberi uomini, montagne astri, ecc.; Chatwin nel suo bellissimo “Le vie dei canti” (1995) ci racconta che gli aborigeni narrano di creature totemiche che, cantando il nome di ogni cosa, fanno esistere il mondo. Cos’è l’autobiografia se non la costruzione di un mondo, il mondo dell’esperienza soggettiva, il mondo che creiamo con i nostri ricordi? Le storie di vita sono un ottimo strumento per capire il mondo dell’altro, la ricostruzione autobiografica è fatta di cose usuali, vicine all’esperienza di vita di ognuno di noi, l’intensità degli stati d’animo, le emozioni che vengono suscitate dalla lettura ci rendono simili, più vicini e soprattutto ci fanno scoprire che il mondo è fatto di parole, quelle che tutti noi utilizziamo per descriverci e descrivere quello che ci sta intorno.

    Il progetto

    Il progetto “NarrazionItineranti” nasce nel 2007 da una collaborazione fra la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e il Centro Interculturale della Città di Torino. L’incontro proficuo tra le due realtà risale al 2002 e fa sì che a Torino venga attivato un laboratorio permanente di scrittura autobiografica e raccolta di storie di migrazione, consentendo a diversi cittadini italiani e stranieri di sperimentare l’incontro con la storia dell’altro, sia questo lontano per esperienze di vita ed appartenenza cultuale che vicino.

    In questi anni sono state realizzate quattro raccolte di storie che hanno consentito quattro diverse pubblicazioni. “NarrazionItineranti” è quindi l’evoluzione logica di questo percorso. La novità del progetto consiste nella scommessa di riuscire, non soltanto a raccogliere storie di migrazione, anche se con metodo che, come vedremo in seguito, permette lo sviluppo di una relazione e l’appropriarsi della storia tra intervistatore e narratore, ma anche di consentire la scrittura, non di un’autobiografia finita, ma di frammenti di vita.

    Il percorso quindi, si è composto di due fasi: una di scrittura di sé attraverso la realizzazione di un laboratorio autobiografico, e l’altra di raccolta di storie, le persone che hanno partecipato al laboratorio sono state anche intervistate al fine di raccogliere la loro storia. Questa doppia scrittura mette in moto un gioco di specchi: posso leggermi così come mi vede l’altro, che trasforma la mia intervista in una storia, e confrontarlo con la mia scrittura. Lo specchio riesce a sdoppiarti, a permettere di vederti da lontano, da fuori, vederti vedere, con un’improvvisa scoperta di alterità. Lo stesso gioco possono fare i lettori, poiché il tutto è stato raccolto in un testo dal titolo “Storie allo specchio, racconti migranti” edito da Unicopli.

    L’obiettivo del progetto è stato duplice; da una parte consentire alle persone migranti e autoctone di speriementare insieme la scrittura di sé, dall’altro rendere visibili le narrazioni di mondi e di identità delle persone che hanno attraversato confini territoriali diversi e sono approdate nella Città di Torino.

    Questa visibilità si rende necessaria quando ci apprestiamo a conoscere e comprendere alterità lontane per appartenenza culturale, poiché sono proprio le storie di vita - il racconto delle esperienze vissute - che ci svelano come possiamo apparire differenti e nello stesso tempo simili agli altri. Le narrazioni contenute nel testo dovrebbero, quindi, produrre conoscenza delle caratteristiche culturali e sociali situate nel qui e ora e offrire strumenti per riflettere e, di conseguenza, scardinare gli stereotipi che spesso si accompagnano all’incontro con il migrante, poiché nell’altro c’è, al tempo stesso, mistero e trasparenza, diversità e somiglianza.

    Il laboratorio autobiografico

    Hanno partecipato al laboratorio ventitre persone, provenienti da diverse parti del mondo: Perù. Senegal, Romania, Cuba, Marocco, Polonia, Turchia, Argentina, Italia. A tutti è stata proposto la scrittura autobiografica attraverso l’utilizzo di dispositivi che toccavano diversi temi e apicalità dell’esistenza: l’identità (intesa come un percorso infinito di costruzione del sé), il viaggio, il corpo, i luoghi significativi, il lavoro, gli affetti, in dodici incontri di tre ore.

    Il laboratorio autobiografico è un percorso di scrittura di sé sperimentato ormai da anni dagli esperti in metodologie autobiografiche che seguono l’approccio messo a punto dal prof. Duccio Demetrio, fondatore e presidente della Libera Università dell’Autobiografia. Ogni incontro del laboratorio è composto di diversi momenti: il momento introduttivo, in cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e accompagnati i partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse; letture, sollecitazioni teoriche, immagini.

    Il momento individuale di scrittura in cui ogni partecipante attiva meccanismi introspettivi e lascia sulla carta pezzi di sé. Il momento della restituzione, che può essere attuato a coppie o in piccoli gruppi, in cui i partecipanti sono invitati a rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo. Il momento di chiusura nel quale sono messe in comune emozioni e riflessioni, l’accento è posto sul processo e non tanto sui contenuti. Al termine del percorso i partecipanti saranno in possesso di frammenti di scrittura di sé, che ancora non possono definirsi autobiografia, ma che possono essere considerati un inizio o una bozza incompleta della stessa.

    Gli incontri hanno, quindi, una trama e un termine, e utilizzano dispositivi di scrittura che costituiscono un limite ed una possibilità nello stesso tempo poiché guidano il partecipante in un viaggio introspettivo non spontaneo. Il percorso di ricognizione autobiografica così condotto permette di avviare un lavoro introspettivo e retrospettivo che può aprire la dimensione prospettica, ossia la possibilità di ri-progettarsi nel futuro.

    Se consideriamo il laboratorio un processo cognitivo che consente il racconto in una prospettiva auto-formativa e riflessiva, allora la meta-cognizione è un’attività della mente che accompagna tutto il percorso laboratoriale. Che cosa si intende per meta-cognizione? La capacità di educare la mente a riflettere sulle proprie modalità di conoscere, interpretare, agire nel mondo. Pensare i pensieri è un’attività autoriflessiva molto complessa che implica il sapersi fermare, il sapersi guardare, il sapersi analizzare. Marianella Sclavi (2000) utilizza il concetto di bisociazione cognitiva per spiegare quella capacità di sapersi guardare mentre si compie un’azione cercando gli elementi spiazzanti, disfunzionali, fastidiosi. Sono questi gli elementi che occorre osservare per uscire da una logica di conoscenza stereotipata.

    Proviamo a considerare la meta-cognizione una danza della mente. Possiamo danzare per non sentirci mai troppo certi, rassicurati, anzi possiamo danzare per imparare dall’imbarazzo. Possiamo danzare per accettare di essere smentiti e sorpresi. Possiamo danzare per esplorare mondi diversi e possibili. La meta-cognizione è un’attività che genera consapevolezza di sé e che ci aiuta ad andare oltre il già conosciuto, il già compreso, oltre le rappresentazioni, oltre gli stereotipi.

    Donata Fabbri (2002) riconosce nella narrazione di sé, nella meditazione su di sé, questa possibilità meta-cognitiva, meta-riflettere significa anche prendersi cura di sé, dei propri pensieri, della propria mente. Nei laboratori autobiografici la prassi narrativa si esplica attraverso il racconto scritto. Le operazioni mentali che le persone compiono in un laboratorio sono relative alla scelta dell’episodio da narrare, alla sua trasposizione scritta e alla sua analisi.

    Nella narrazione scritta e nella rilettura i partecipanti sperimentano la bilocazione cognitiva, che possiamo considerare già un primo livello di meta-cognizione, ma è attraverso l’analisi del testo che avviene il passaggio tra il pensiero in forma scritta e il pensiero pensato.

    Quella che viene chiamata restituzione è un’attività analitica / interpretativa che ognuno può fare sul proprio testo.
    Analizzare il proprio testo può voler dire:
    Trovare gli elementi spiazzanti;
    Trovare gli elementi ricorsivi;
    Trovare ciò che non c’è;
    Trovare ciò che ci interroga;
    Trovare ciò che ci accomuna agli con altri.

    Il gruppo rappresenta lo specchio, l’altro con cui confrontarsi, con cui discutere; la parola dell’altro, a volte spiazzante, agisce da svelamento per le proprie interpretazioni, che possono apparire diverse quando sono messe di fronte all’altrui lettura. Il gruppo dei partecipanti diviene un coro greco che amplifica passaggi cruciali ed eventi marcatori. L’importante è essere consapevoli che non esiste una sola verità ma diverse possibili interpretazioni di sé e del mondo, ancor più quando questo è fatto di persone che provengono da diversi luoghi del pianeta. Il momento meta-cognitivo è un momento dell’esistenza dove io m’immergo in me stesso, insieme ad altri, e ne esco diverso.

    Le scritture

    Le scritture del laboratorio, come detto in precedenza, vertevano su diversi temi apicali, ogni partecipante ha poi deciso se donarli, per la possibile pubblicazione o tenerli per sé. I testi tratti dalle esperienze di ognuno, e re-interpretati alla luce del presente, ci raccontano e rendono visibili le caratteristiche universali dello spirito umano, parafrasando Lévi-Strauss; le emozioni che suscitano i racconti di un italiano o di un peruviano o di un cubano sono simili, tant’è che è difficile distinguere, se non per i nomi dei luoghi, qual è la narrazione di uno o dell’altro.

    Così raccontano la loro identità in trasformazione e le speranze nel futuro due ragazze, una peruviana, arrivata in Italia a dodici anni e al termine del liceo, e l’altra italiana, appena entrata nel mondo del lavoro.

    “Io ero.
    Una bambina: come ogni bambino mi piaceva giocare e nient'altro. Quando si è piccoli non si ha la concezione del tempo, si pensa che si sarà sempre piccoli, spensierati, sempre protetti da mamma e papà. Si hanno aspettative per il futuro, ma più che altro questo è un fantasticare su cose che in quel momento credo non arriveranno presto, anzi, non arriveranno.

    Io sono.
    Una ragazza. Come ogni ragazza della mia età, ho un passato che ha costruito la mia identità. Sto scoprendo che la vita è un continuo scoprire; e ho un futuro prossimo davanti, più prossimo di quanto non me lo sarei aspettata. Cerco di incamminarmi con cura verso di esso.

    Io sarò.
    Oso supporre che sarò qualcosa di non molto diverso da oggi, anche se non uguale. Qualcuno con un'esperienza più ricca e che ha compreso nuove cose. Mi piace pensare che riuscirò in quello che sto costruendo ora, e che riflettendo sul passato io rimpianga nulla o almeno poco.

    Io sono.
    Una ragazza "in evoluzione" come una spirale con un inizio preciso, definito, il mio passato ma anche i miei buoni propositi per il futuro: ciò che alcuni chiamano "aspirazioni" o persino "ambizioni"... per me sono ipotesi, idee, voglie (delle più varie), desiderio di realizzare i miei sogni sapendo e rendendomi conto, giorno dopo giorno, quanto sia difficile, faticoso diventare grandi!

    Io ero.
    Da piccolissima (relativamente pochi anni fa) molto timida, riservata, una bambina che amava ridere, scherzare ma allo stesso tempo giocare da sola, nonostante la mia numerosa famiglia, una bambina sognatrice che adorava fantasticare su tutto e su tutti ... un esempio? Mio papà era il mio principe azzurro! Poi sono cresciuta e di quella bimba spensierata, solare, piena di fantasticherie per la testa è rimasto poco. Tutto si è capovolto con alti e bassi: credo sia successo da quando a 12 anni il mio principe azzurro se ne è andato dal castello.

    Io sarò.
    Sempre la stessa o meglio io mi vedrò e mi sentirò sempre nella stessa maniera: la stessa Paola di quando avevo 10, 18, 30 anni e così via. Certo, non sarò realmente uguale al passato e credo che lo capirò dagli altri, dal loro modo diverso e cangiante di vedermi.

    Le aspirazioni, il modo di riflettere sulla propria identità futura, non differiscono per appartenenza culturale; è impossibile, poiché i luoghi non sono citati, scoprire chi è autoctono e chi è straniero.

    E così raccontano tre donne la loro adultità, poco importa la loro provenienza (italiana, cubana, peruviana), il loro sentire è un sentire comune, è la bellezza di riconoscersi grandi, sono le difficoltà di sentirsi in esilio e di cercare una casa, sono le speranze di trovare una strada: la propria.

    “La musica invade la stanza e il mio corpo. Chiudo gli occhi e comincio a danzare. Il bacino dondola, dolcemente, e ripasso gli otto della danza del ventre, alzo le braccia tracciando linee immaginarie con le mani, mi avvicino allo specchio e osservo il movimento del bacino, il mio ventre tondo, i seni piccoli, delicati. I momenti in cui mi sento bene nei confini del mio corpo si fanno sempre più frequenti. Comincio a sentirmi donna e ad amare la mia immagine. Mi chino sullo specchio e mi accarezzo il viso con le mani, la bocca piccolina, le guance rosse, gli occhi grandi. Scompiglio i capelli con la mano e mi sorrido. Aggiungo un po’ di terra rossa sulle guance, un filo di mascara, abbottono la giacca, avvolgo la sciarpa al collo e spengo la musica. Esco nell’aria fredda di Torino e comincio a camminare, con passo deciso, la testa alta, porto con orgoglio la mia figura per il mondo, cammino verso i miei progetti e obbiettivi, serena, curiosa, me stessa. Donna.”

    “In esilio e senza una famiglia sono sola, stanca, insonne, con paure e a volte tanta rabbia e con tanti libri che non bastano mai, libri sopra e sotto il letto, libri in bagno, libri al lavoro, libri nella borsa. Libri e autori che ci sono stati sempre e senza i quali non saprei definirmi: ancora nell'infanzia più di Jules Verne e Conan Doyle, Edgar Allan Poe; nell'adolescenza non tanto Hemingway ma Mario Benedetti e Italo Calvino più alcuni filosofi tra cui Popper e Feyerabend. Da grande, nei vari periodi: periodo invernale con due metri di neve, i più vicini, Dostoevskij e Gogol, e penso anche Tolstoj; periodo gioioso, Miguel de Unamuno che gioca con l'immortalità e Fernando Savater che mi parla di morale. Nei vari periodi di crisi esistenziale, tra gli autori che ho amato e amo, ci sono Pier Vittorio Tondelli (che mi ha fatto conoscere Ingeborg Bachman, Cellati, Cerami), Simone de Beauvoir che mi assicurò di essere una donna, a quaranta anni, anche se non ho figli, ed Elias Canetti, un volontario arrivato al confine, che provò ad aiutarmi a fare i conti con la mia identità. Un confine, nel quale ho esibito un passaporto a me stessa, per accettare la mia identità e concedermi il permesso, un permesso senza scadenze per continuare il viaggio. Sono un corpo dove i sentimenti sono stati banditi per stare al passo a una razionalità di tipo occidentale, col rischio di diventare un corpo decadente e povero di futuro. Sono un corpo che ha piacere di risposarsi ma, che non trova ancora una casa per farlo.”

    “Io sono ancora una giovane attraente, mia mamma diceva che ero una “civetta naturale”, i uomini mi guardavano un po’ curiosi, avevo molti uomini intorno me però io ero molto impegnata a lavorare nel sociale e non avevo tempo per loro, sono laureata, mi piace il mio lavoro, però non sono contenta con quello che vedo intorno a me, ho scoperto un mondo diverso al mio, non avevo cognizione che così vicino a me c’erano mamme che non potevano neanche dare da mangiare ai loro figli, c’erano uomini che passavano la vita a bere per non guardare la propria famiglia soffrire perchè loro non trovavano lavoro, adolescenti senza futuro prendere le strade sbagliate, e poi vicino anche a me, gente che faceva le vacanze in Europa, macchine bellissime, abiti carini e molto costosi, tutto in una stessa città… così decisi di partecipare attivamente, vivere la mia cittadinanza fino in fondo, parlare forte per quelli che soffrono e non avevano voce…”

    I luoghi sono considerati qualcosa che caratterizza culturalmente gli individui, ma sono anche spazi dell’anima, che rappresentano momenti significativi ed emotivamente rilevanti; i luoghi, il loro nome, ci indicano la provenienza e la fatica del viaggio e dell’arrivo; un ragazzo marocchino, una donna rumena e una dona peruviana così li raccontano.

    “È il silenzio di quel luogo dove sono nato che sembra nascere con me per poi scordarsi della mia esistenza, come io di lui conservo solo il silenzio, il silenzio d’una memoria, poiché tutti i miei ricordi in quel posto li trovo nella memoria degli altri, mia madre mio fratello mio padre, invece nella mia neanche un residuo di quell’esistenza troppo immatura per la consapevolezza del suo essere, tranne fantasmi dei racconti d’infanzia e un silenzio spopolato. Eppure i luoghi non parlano che la lingua del silenzio oppure la loro grandezza sfugge alla nostra comprensione e cosi inventiamo idee e convinzioni come la patria o la nazione per sentire meno l’inferiorità rispetto a quel ospitante indifferente alle sciagure del uomo e le sue calamità, sposo di quell’altro nemico titano del tempo, e sembrano passare l’eternità a meditare la loro grandezza rendendo l’uomo ancora più infelice nella sua miserabile caducità. Eppure sacrifichiamo la vita a chi non ci ha mai considerati, trascurando così la nostra vera appartenenza all’umanità che fa dei luoghi paesi città e patrie.”

    “Alla stazione di arrivo mi aspettavo di vedere mio marito … ma non c’era. Poi arrivò, con qualche minuto di ritardo. L’italiano … una della lingue che mi piacciono assai! Avevo già iniziato a studiarlo prima di venire in Italia. Ma sentire parlare questa lingua è ancora più bello! L’ho imparato in poche settimane. La prima cosa diversa da quello a cui ero abituata era l’uso dei mezzi di trasporto: dover prenotare per scendere e far segno con la mano perché il tram si fermi! E poi la pastasciutta! Avevo già sentito in tv, in diversi film in cui gli italiani mangiano la pasta ogni santo giorno, ma non volevo credere che un giorno di astinenza li può far soffrire tanto. Nella mia mente ho la convinzione che si può vivere e sopravvivere senza pasta anche più di un giorno. Di familiare ho trovato tanta gente che già conoscevo o le persone conoscevano me… tanti connazionali e tanti del mio villaggio. Estraneo per me era lasciare tutte le porte aperte.”

    “Lima, casa della nonna. Non so che giorno sia, sono molto piccola. Fa caldo, è estate. Io passo gran parte del tempo sul balcone, sdraiata sul pavimento perché è fresco, pensando a chissà cosa, ma pensando. Si filosofeggia un sacco quando si è bambini, perché si ha molto tempo da perdere. Il profumo dei fiori di Barranco, il mio quartiere, è intenso, per me è l’odore di quel luogo, se mi portassero ad occhi bendati fin lì, senza dirmelo, io saprei dall’odore di essere lì. E l’odore della casa di mia nonna, anche quello è inconfondibile. Due stanze, il bagno, il salotto, la cucina e la lavanderia, al primo piano di un palazzo. I ricordi sono un po’ annebbiati e poco chiari: mia nonna che cuce, io nel divano giocando con un pagliaccetto che lei stessa aveva cucito; io filosofando, sdraiata sul pavimento fresco del balcone, con i vasi di gerani a sinistra, la porta per uscire sul balcone si apre. È mio nonno che voleva sapere dove ero: apre la porta, mi vede e senza dire niente a me si gira e dice alla nonna ‘Esta tornando sol’ ”.

    Anche in questi testi la sensazione è di vicinanza, tutti abbiamo sperimentato lo spaesamento dato dall’essere in un luogo nuovo, dove e caratteristiche delle persone e del paesaggio ci risultavano sconosciute. Tutti possiamo intravedere nelle parole dell’altro le difficoltà di adattamento, che sono difficoltà universali incontrate in un’esperienza di viaggio, di cambio di città o anche di casa. Certo, per una persona che si sposta da una parte all’altra del mondo questo è infinitamente più complicato e doloroso, ma il rispecchiamento che posso trovare nelle parole dell’altro è uno strumento formidabile di superamento dei pregiudizi.

    La raccolta di storie

    Oltre al laboratorio autobiografico, il progetto prevedeva anche una raccolta di storie configurata come ricerca autobiografica. La ricerca autobiografica si realizza attraverso un percorso relazionale tra interlocutore e ricercatore e si caratterizza per il coinvolgimento attivo di tutti gli attori presenti nel percorso.

    Le diverse fasi sono così articolate:
    La co-costruzione del progetto con tutti gli attori coinvolgibili, attraverso azioni di sensibilizzazione.
    Formazione dei raccoglitori di storie suddivisa in due livelli:
    Un primo livello, più strutturato sul sé e sulla propria storia;
    Un secondo livello, più strutturato sulla raccolta della storia dell’altro.
    Monitoraggio della raccolta di storie.

    I partecipanti, al termine del percorso di formazione, sono invitati ad individuare gli interlocutori per raccogliere le loro storie e restituirle, in forma scritta, attraverso i diversi colloqui narrativi. Il momento della restituzione del testo finale al narratore è cruciale poiché attiva meccanismi cognitivi di svelamento, la storia non è mai del soggetto che la raccoglie, è sempre del soggetto che la racconta e che può decidere come trasformare il testo finale al fine di appropriarsene.

    Il prodotto finale è quindi una storia co-costruita, perché sia il ricercatore che l’interlocutore si riconoscono come soggetti realizzatori e tra loro si instaura un rapporto che cambia entrambi, come possiamo leggere nelle parole di due ricercatrici: “In molte parole di Tessie mi sono ritrovata, nella sua difficoltà di espressione e voglia di comunicare, attraverso la scrittura, il corpo e gli occhi. A volte le parole sono strette e non dicono tutto, ma lasciano trapelare realtà che si sentono con la pelle. Questa storia nasce soprattutto da quello che non è scritto. Da alcuni incontri a casa e in un bar, da tè biscotti, ingurgitati voracemente, mentre fuori piove. Non sono scritte le risate, gli esercizi di yoga fatti con un calzino, gli sguardi, i silenzi e gli occhi di Tessie che scorrono veloci questi fogli.”

    “Ho raccolto la storia di Clementina Sandra Ammendola il 12 luglio 2007. Non ci conoscevamo e ci siamo date appuntamento dopo il lavoro al parco Ruffini. Senza bisogno di segni distintivi ci siamo riconosciute, forse per via della stessa età, dello stesso segno zodiacale, della stessa fisicità mediterranea, della stessa timida cautela che ci guida nell’incontro con l’altro (…) Avevo chiesto di poter essere io ad intervistare Clementina per due motivi, perché viene dall’Argentina e perché scrive. Entrambe le cose si legano alla mia storia e al mio desiderio. La mia nonna paterna nacque in Argentina, figlia della prima migrazione dei contadini e braccianti piemontesi; di lei mi resta una fotografia che la ritrae giovane e spavalda, pantaloni e scarpe basse, le braccia sul manubrio di una Lambretta, i capelli mossi al vento, grandi cerchi alle orecchie e un lampo di ribellione nello sguardo. A quella immagine potente ricorro ogni volta che la memoria torna a lei come l’ho conosciuta, eternamente invalida, danneggiata nel corpo e nello spirito, spenta e rancorosa. Clementina scrive, ha cercato e trovato in sé la capacità ed il coraggio di farlo, ha allenato con tenacia questa sua disposizione, ha alimentato con la lontananza la sua passione costruendo ponti di parole tra l’Italia e la sua terra; per me la scrittura rappresenta un desiderio che mi accompagna da quando ero bambina, la mia terra del fuoco, un’eccitante avventura per la quale non riesco a decidere di partire. Adesso mi trovo con tante pagine piene di parole e la vita di una sconosciuta che mi si dispiega davanti. Sento, forte, la responsabilità di restituire quello che Clementina intendeva raccontare di sé, della sua storia di migrante e della sua scrittura, diventata irrinunciabile mezzo espressivo. Con rispetto e delicatezza, come se stessi maneggiando un oggetto prezioso e fragile, ho riletto e modificato, tagliato e spostato, sintetizzato e rivisitato più volte la stesura originale di questa intervista.”

    Le storie raccolte sono state dieci, i narratori, come spiegato in precedenza, erano gli stessi che avevano partecipato al laboratorio autobiografico.

    Il diritto all’autobiografia

    L’autobiografia è una costruzione longitudinale del sé che tiene conto delle trasformazioni identitarie verificatesi nel tempo. E’ una costruzione narrativa di sé composta dai ricordi che prendono forma nel momento in cui li si narra a se stessi o a qualcun altro.

    Quali obiettivi e svelamenti può consentire la narrazione autobiografica per l’autore / narratore / protagonista?

    Esistono diverse possibili risposte.
    La descrizione della propria storia di vita nel qui e ora; l’esigenza di sentirsi situati in un tempo (storico) e in uno spazio (culturale e sociale).
    La descrizione della propria autenticità come esseri unici al mondo e quindi possessori di una storia unica e irripetibile.
    La descrizione di una propria identità narrativa possibile o meglio ancora, delle proprie traiettorie identitarie, così come sono emerse, in modi diversi, durante il passato e così come sono venute a configurarsi nel presente.
    La descrizione delle proprie relazioni con il mondo e con l’alterità e, di conseguenza, la descrizione dei mondi cognitivi e delle proprie modalità interpretative.

    Tutto ciò però in un’autobiografia viene descritto da sé; il soggetto narrante diventa il personaggio del suo racconto, il protagonista definisce i confini della propria storia. Il mondo della migrazione, così come l’alterità esotica, è sempre stato descritto da chi intendeva prendere la parola per capire meglio, per indagare fenomeni e per comprendere le culture. I protagonisti, i soggetti sottoposti all’analisi, hanno difficilmente avuto la possibilità di descriversi da sé. Questo ha tentato di fare il progetto “NarrazionItineranti”, sia nel laboratorio che nella raccolta di storie: dare la possibilità all’altro, il diverso, il lontano, di narrarsi con le proprie parole, potendole controllare (spesso nelle ricerche etnografiche l’intervista non è sottoposta a restituzione).

    Il diritto all’autobiografia è il diritto a definirsi, a dialogare con tratti culturali diversi, al di là di qualsiasi tentativo di costringere la cultura, e le appartenenze culturali, in sterili categorizzazioni. Ancor più oggi che la cultura non viene più considerata un oggetto osservabile bensì una costruzione determinata da un processo, discontinuo e contrattuale (Malighetti, 2004).

    Non c’è alcun dubbio che la narrazione autobiografica abbia una grande valenza interculturale poiché ci avvicina alla diversità e consente all’altro di esprimersi con i suoi tempi e nei suoi modi. Però, per consentire all’altro di esercitare il diritto all’autobiografia, occorre sperimentare l’attesa, perché i tempi possono essere lunghi, anche faticosi; l’altro può avere altri linguaggi e altri tempi, altre pratiche discorsive e altri tipi di interpretazione di sé e del mondo.

    Lasciare all’altro tempi e modi è indispensabile per costruire un percorso condiviso dove poter incontrarsi alla pari e creare un mondo “terzo”, dove non ci siano più nativi e migranti ma solo uomini e donne. Questo, nel mondo contemporaneo, sembra essere sempre più difficile.

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