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    M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009

    BRUNER: UNA PROPOSTA METODOLOGICA PER L’ANALISI DELLE INTERVISTE



    Fabio Olivieri

    f.olivieri75@gmail.com
    Laureato in Scienze dell’Educazione all’Università di Roma Tre, prepara una Tesi in “Teorie autobiografiche: le scritture autobiografiche degli emigrati italiani tornati in Italia”; Iscritto al percorso di specializzazione “Agorà” presso la libera università di Anghiari per la raccolta delle memorie territoriali; Diplomato alla scuola biennale presso la Libera Università di Anghiari in “Esperto autobiografiche di cura”.

    "Io vedo -nel tempo -una bambina. Scarna, diritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto: perché nell’abitazione della bambina non v’è che un piccolo specchio di chi sa quant’anni, sparso di chiazze nere e verdognole; e la bambina non pensa mai a mettervi gli occhi; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora." (Ada Negri - Stella mattutina)

    La citazione di Ada Negri può ben introdurci nelle due tematiche che saranno affrontate in questo articolo: la costruzione del significato e l’applicazione delle caratteristiche del pensiero narrativo alle interviste autobiografiche.

    L’incipit figurativo della nota poetessa italiana risulta spiazzante. Ella non possiede ricordo della sua forma, del suo viso, delle sue espressioni e della modalità con la quale queste assumono forma in risposta agli stimoli dell’ambiente che vive. La breve e poetica composizione della Negri si caratterizza perlopiù come Privazione. Può apparire lecito definire questa “Assenza” fisica, la chiave di lettura di quell’Io “dominante” che come riferisce Gusdordf, dovrebbe assumersi il carico degli altri “Io” frammentati, instabili, recisi per lasciare spazio ad altre forme di “Me” che azzardano una composizione altalenante delle diverse rappresentazioni individuali e collettive dell’esistente. Per dirla in altro modo potremmo richiamarci a quell’Io-Tessitore (Demetrio, 1999, p.39) individuato da Demetrio, seppur nella sua connotazione funzionale e non gerarchica. Il Tessitore è, infatti, colui che è deputato alla sutura, all’ornamento, alla composizione organica della propria storia, divisa, affastellata, dispersa negli anditi di engrammi che devono essere sollecitati per riapparire nel presente, per essere il prodotto di ciò che Semon (Schacter, 2007, p.47) individua quale Ecforia: il recupero del ricordo silente iscritto nella memoria dell’individuo.

    Ma sappiamo bene che un Ricordo non è tale se non trasfigura dall’oggettività per divenire personale, affettivo, soggettivo. A tal proposito è utile menzionare il personaggio di Sacks ne “L’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello” (Sacks, 2001). Destinato a soggiacere rispetto ad una memoria privata della sua ritenzione, l’uomo narrato dimentica ogni singolo apprendimento nel corso della sua vita. Le funzioni più elementari collegate all’estrapolazione dei vissuti personali, delle vicissitudini accorse durante la sua esistenza si dissolvono nell’immediato. Si tenta allora di coadiuvarlo in questa fase, dotandolo di un carnet per gli appunti dove redigere meticolosamente ogni evento. Ma la questione appare irrisolvibile poiché ogni qual volta si dedica alla rilettura delle sue azioni o dei personaggi che lo hanno abitato, egli diviene nuovamente straniero a sé stesso. Non si riconosce nella trama di quella storia che gli appare dunque lontana, apolide. La motivazione che sottende a questa dinamica privativa è da ricercarsi nell’assenza di una com-partecipazione attiva alla costruzione e alla produzione di Senso. Il personaggio, infatti, vive le sue azioni come se fossero dettate da fuori, esattamente come noi ci disponiamo alla lettura di un romanzo, dove cogliamo gli aspetti sintattici, la fabula e l’intreccio della sua elaborazione ma non possiamo provare, sentire, ciò che si è materializzato nel soggetto al punto di indurlo a compiere determinate scelte a vantaggio o a detrimento di altre. Questa concatenazione “logica” dei passaggi, fonda la sua determinabilità nelle diverse fasi che accompagnano l’elaborazione di un Ricordo (Engrafia-Engramma-Ecforia) e al tempo stesso, richiede una compenetrazione diretta di quei valori culturali, sociali, individuali che sono alla base di ogni orizzonte interpretativo utile a fornire un confine semantico a ciò che si rivelerebbe per sua stessa natura indefinibile, data la predisposizione umana nel ricorrere al circolo ermeneutico.

    In questo passaggio appare quindi opportuno introdurre la Psicologia culturale di Bruner votata alla ricerca del Significato, mai definitivo e sempre negoziabile, sia nella direzione intra-individuale che inter-individuale.

    Bruner e la costruzione del Significato

    La dimensione conoscitiva dell’Uomo ha attraversato l’intero arco del suo sviluppo mutuandone gli orizzonti dalle correnti di pensiero scientifiche ed umanistiche che si sono succedute. La percezione del mondo come fenomeno dato e indipendente, ha da sempre caratterizzato la mitologia popolare che nella sua funzione universale di placare gli animi dall’angoscia dell’Assoluto “agnostico”, ha prontamente risposto agli interrogativi profondi, ontologici, del genere umano. Occorre riflettere sulla modalità di risposta dell’Esser-Uomo rispetto alla mancanza originaria di una spiegazione, della motivazione precipua del suo agire e dello scopo del suo stesso esistere. Questo interrogativo, largamente indagato nel campo della filosofia, trova la sua via di fuga nel dispositivo della narrazione. In che modo questa modalità tutta umana, ha potuto giocare un ruolo così fondamentale? Potremmo affermare che tutto iniziò con il mito della genesi.

    Non vi è cultura che non lo abbia formulato, dai sumeri con l’Epopea di Gilgamesh agli Ebrei con l’Antico Testamento, al punto di far propendere grandi psicologi del profondo come Jung verso una dimensione collettiva dell’inconscio quale matrice sotterranea della rappresentazione immaginifica del soggetto. Il ricorso al Mito delle origini diviene una modalità in uso per fronteggiare quel Vuoto primordiale che l’uomo è incapace di sostenere perché privo di strutture, di certezze alle quali potersi riferire nei suoi interrogativi interiori. La necessità di dispiegare la nostra finalità umana attraverso le maglie del racconto ha dato vita ad una serie infinita di prodotti culturali impliciti. Inscritti nel profondo delle nostre finalità di azione e di pensiero al punto di determinare un repertorio di certezze, punti di ancoraggio virtuali ai quali aggrapparsi nel vuoto di Senso originario che si cela dietro l’apparenza di un mondo fisico, nominato sulla base di un codice linguistico convenzionale.

    I valori etici, sociali, religiosi, culturali si sono sedimentati e stratificati nel corso dei secoli mediante il ricorso alle diverse possibilità esplicitate dal racconto, dalla narrazione. Il denominatore comune di questa biblioteca collettiva risiede nella capacità dell’individuo di condividere il Senso. Di produrre una serie di spiegazioni che rendano giustificabile la loro credenza. Una dimensione sociale della Memoria che ci richiama alla definizione di Halwbachs secondo cui non vi sarebbe traccia di una Memoria individuale poiché in realtà la traccia mnestica assumerebbe forma solo in rapporto alla sua dimensione sociale. Noi ricordiamo ciò che abbiamo condiviso con qualcuno: amico, compagno, confidente o sconosciuto. Nulla può essere dato alla nostra memoria che non abbia un valore collettivo condiviso, e anche laddove ci appare in solitudine l’imago di una sensazione vissuta in intimità, la sua manifestazione espressiva non può prescindere dal codice linguistico comunque condiviso dai diversi membri appartenenti ad una determinata comunità.

    La psicologia culturale di Bruner si colloca in quella fase dei processi cognitivi che anticipano l’archiviazione dei ricordi operando un’analisi delle costruzioni di Senso indispensabili, come abbiamo visto nel personaggio di Sacks, per rendere personale un determinato evento, per legare l’emozione all’engrafia del Ricordo. Riprende, con la sua psicologia culturale, uno di quegli aspetti particolarmente cari alla corrente cognitivista originaria: l’indagine sui processi di elaborazione del Significato. “La rivoluzione cognitiva prendeva in considerazione le immagini simboliche che gli esseri umani utilizzano per costruire e attribuire un senso non solo al mondo, ma anche a se stessi” (Bruner, 2006, p.20). Fu dunque l’Interpretazione il vero oggetto da indagare, almeno fintantoché l’interesse dei cognitivisti non si spostò dai processi di costruzione a quelli della elaborazione dell’informazione. In questo innesto si diramano due vie nate entrambe dello stesso filone: uno dedito alla metafora computistica dell’uomo-macchina-elaboratore, e l’altro invece ideato da Bruner che riporta l’interesse teorico verso i suoi presupposti iniziali, appunto quelli riguardanti l’attribuzione di Senso.

    L’essere umano ha bisogno di nominare il mondo, di soffiarvi al suo interno il Logos, per non soccombere al suo mistero, all’incapacità di rappresentarlo in modo diretto, immanente. Le ragioni che secondo Bruner dovrebbero spingere la ricerca psicologica verso questa prospettiva culturale sono almeno due: La condivisione pubblica del Significato, visto quale agente polisemico in continua evoluzione e negoziazione tra gli attori sociali; e la presenza innegabile di una “Teoria delle motivazioni” (Bruner, 2006, p.29) dedita alla formulazione di una serie di risposte che si attivano laddove una data situazione o un determinato comportamento, messo in opera da altri ci appare ambiguo, privo di riferimenti certi che possano giustificarlo in modo esaustivo. Questa seconda prospettiva viene diffusamente indagata da Bruner nella chiave interpretativa della cosiddetta Psicologia popolare, intendendo per ciò quella particolare predisposizione dell’Uomo ad attribuire senso e significato ai fenomeni che accadono nella sfera del suo mondo fisico. Tale inclinazione, che potrebbe per Bruner tradursi in una biologia del significato (al pari di quella individuata da Chomski come capacità di elaborazione del linguaggio umano innata) che fonderebbe la base di quel processo di elaborazione cognitivo altrimenti detto “Pensiero narrativo”. Cerchiamo ora di fare luce sui tratti distintivi che lo caratterizzano.

    Primariamente occorre evidenziare la sua forte opposizione rispetto al pensiero paradigmatico. Le norme sociali, le conoscenze in genere, le parole, le intenzioni, etc. infatti, possono essere pensate attraverso queste due modalità distinte (Smorti, 2007, p. 162 e ss). Il pensiero paradigmatico, assembla le varie tassonomie nella concezione di A>Non-A, ad es. quello che può essere definito “tavolo” e tutto ciò che non lo è. Il suo processo avviene mediante una stratificazione culturale che comporta una serie di connotati e parametri di riferimento che ci fanno partire da A ed escludere automaticamente tutto quello che risulta Non-A. Tale modalità presuppone dei confini forti atti a delimitare i vari campi categoriali che interessano proprietà specifiche di un oggetto. Se l’intero sistema universale fosse codificabile in maniera così semplice, ogni rappresentazione troverebbe il suo corrispondente nella definizione che la interessa. Sappiamo però che questo non è assolutamente possibile perché ciascun individuo nel valutare la realtà circostante, pur richiamandosi a principi percettivi generali, mostra una qualità individuale che siamo soliti chiamare “punto di vista”. Ecco allora che diviene indispensabile il ricorso ad un’altra modalità di decodificazione della Realtà: il pensiero sintagmatico. Definito ulteriormente da Smorti come “pensiero acrobatico” si differenzia dal primo per la capacità di calibrare le sue valutazioni in rapporto al contesto, “saltando” per l’appunto, quei passaggi obbligati richiesti dal pensiero paradigmatico, dando vita così a quei “mondi possibili” bruneriani che si danno per veri in quanto corrispondenti ad una esplicita o implicita preordinazione. Si costruiscono i significati a partire da ciò che è possibile entro un dato quadro. Pensiamo ad esempio a quelle situazioni che ci richiedono un urgente valutazione di quanto accade. Se mi trovo alla guida di un veicolo su un percorso che svolgo quotidianamente ed improvvisamente mi trovo fermo in mezzo al traffico paralizzato, tenterò di spiegarmi la “violazione” (traffico) della “canonicità” (tempo usuale impiegato per raggiungere un determinato posto) adducendo una serie di motivazioni (manifestazione, incidente, chiusura di un’arteria principale, etc.) utili a ridefinire la nuova situazione che sta prendendo forma davanti ai miei occhi. Quello che accade è quindi l’applicazione di una euristica confacente all’evento che si verifica in un determinato contesto. In questo caso sarò ricorso al pensiero sintagmatico che amplia il concetto di enciclopedie e dizionari mentali per includere tutte quelle situazioni che non rispecchiano la definizione canonica degli eventi. Tornando quindi all’ipotesi di A dobbiamo concludere che, in questa seconda veste, ciò che non è A corrisponde a qualcosa di diverso e non di opposto.

    Le caratteristiche del Pensiero Narrativo applicate alle interviste autobiografiche

    Abbiamo visto come la compresenza di due tipologie di pensiero costituisca più che un’opposizione di termini una vera e propria apertura verso una integrazione di due modalità diverse per approcciare all’analisi di una determinato fenomeno, sia esso riferito al comportamento che all’interpretazione più ampia del Mondo fisico e sociale. Esamineremo ora un possibile impiego delle caratteristiche del pensiero narrativo applicandole a due interviste effettuate presso la Casa dell’Emigrante di Fiumerapido Sant’Elia, in provincia di Frosinone, che hanno coinvolto due emigranti italiani rientrati dal loro soggiorno estero in zone francofone della Svizzera e della Francia.

    I connotati caratterizzanti il pensiero narrativo, individuati anche da Smorti, presentano delle qualità spesso confinanti e non propriamente adattabili ad una griglia interpretativa. Mi limiterò dunque a citare soltanto quegli elementi distintivi ai quali sono ricorso per individuare aspetti potenzialmente significativi rilevati nell’analisi dell’intervista. In particolare mi riferirò a:
    1) Sequenzialità dell’intervista analizzata in relazione ai quattro temi principali: Cronologico, Professionale, dei Luoghi e dei Personaggi.
    2) Intenzionalità del narrante rilevata attraverso gli scopi emersi dalla dimensione del racconto autobiografico.
    3) Opacità referenziale, ossia la modalità con la quale il soggetto interpreta e/o percepisce la sua relazione con il mondo esterno a partire dalla sua persona o dalle relazioni che ha instaurato nel corso delle sue vicende.
    4) Violazione della canonicità. Questa categoria, come precedentemente riferito, è stata indagata a partire da tutti quegli eventi che non rispecchiano la modalità canonica entro la quale dovrebbero esaurirsi. Tutti noi siamo portati a generare una serie di piani e di programmi per raggiungere determinati scopi a breve, medio o lungo periodo, ma accade che interferiscano nelle nostre azioni degli imprevisti che ci distolgono, momentaneamente o permanentemente dal nostro obbiettivo. Tale elemento di rottura è ciò che risiede alla base del pensiero narrativo; il punto di partenza dal quale si attiva il dispositivo della narrazione.

    L’elaborazione grafica dei risultati è stata predisposta sulla base del numero di sequenze narrative presenti nell’intervista in relazione alle tre età fondamentali del soggetto: dalla nascita alla partenza, durante il soggiorno e dal rimpatrio al momento di realizzazione dell’intervista. I grafici bar consentono di visualizzare facilmente il numero di sequenze che compaiono nella trascrizione, mentre quelli line, offrono la possibilità di verificarne l’evoluzione in merito all’intero periodo, facilitandone una visione di insieme.

    Partendo dall’interviste realizzate con G. e V. è interessante notare i due diversi impianti strutturali della sequenza narrativa. Mentre G. ricorre prevalentemente all’utilizzo di luoghi fisici per descrivere la sua esperienza autobiografica (25 Frames) [1] accompagnati in seconda battuta dalle sequenze cronologiche (18), V. presenta una spiccata preferenza per i temi narrativi riferiti ai Personaggi (22) e ai Luoghi (23). Tale analisi riguarda il periodo individuato da entrambe come fortemente produttivo, quello del soggiorno all’estero. Se, infatti, ritenessimo opportuno evidenziare il numero di anni complessivi, presente nella ripartizione delle tre età fondamentali, scopriremmo che il periodo migratorio, quello centrale, è percepito da entrambe come la fase più interessante. Considerazione questa, estrapolata dalla successione dei dati sequenziali presenti nei periodi pre e post-migrazione. Cercando di far luce maggiormente su questo aspetto, si ritiene opportuno sommare i dati dei periodi che vanno dalla nascita fino alla partenza e dal rimpatrio fino al momento dell’intervista confrontandoli, per quantità, a quelli del soggiorno estero. Per G., ad esempio, gli anni di emigrazione sono 29 su 62, mentre per V. si quantificano in 25 su 61. Andando a sommare le sequenze narrative presenti in tali periodi scopriremmo che per V la dimensione dei Personaggi, prediletta nella fase del soggiorno, si riduce sensibilmente a 8 (5+3) rispetto alle 22 del periodo migratorio. Stesso discorso vale per i luoghi che scendono rispettivamente da 18 a 9 (6+3). Anche per G. l’andamento produttivo delle n sequenze si rivela decisamente ridotto passando da 25 a 9 per il tema dei luoghi e da 18 ad 11 per quello cronologico.

    Appare opportuno avviare una riflessione sulla prima comparazione di questi dati tra i due intervistati. G. sembrerebbe prediligere i due elementi fondanti della narrazione migratoria, il Tempo e il Viaggio. Il primo opera attraverso una sospensione, il secondo verso una continua mutazione. L’emigrante G., infatti, ha sempre in mente la sua idea di Ritorno che si configura come un evento di realizzazione, sul quale nutre profonde aspettative che sono rafforzate dal distacco fisico dal luogo di origine e dall’immutabilità apparente del mondo intimo, interiore. Il confronto sulle leve generazionali compare nella narrazione con toni aspri, forti, che richiamano a quella dimensione “paradisiaca” tipica di chi è intento a ricordare un passato spesso edulcorato e spurio dalle difficoltà intercorse. I luoghi fisici e le date che ricorrono nella sua narrazione, potrebbero farci pensare ad una forma di ancoraggio utile ad ostacolare quel senso di disintegrazione che appare opportuno pensare sia stato vissuto dal soggetto, una volta strappato alla quiete del mondo familiare in un’età decisamente precoce. La dimensione del Viaggio invece è manifesta e si snoda attraverso una serie di percorsi in luoghi geografici diversi dovuti al tipo di attività intrapresa come autotrasportatore. G. sogna di abitare in paesi stranieri caratterizzati dalla loro similitudine con la sua Italia. Mostra inoltre una forte propensione al viaggio, al desiderio di cambiamento, probabilmente nutrito dal distacco coercitivo con la propria realtà territoriale di origine. Questa ipotesi può essere confermata dalla diminuzione del ricorso al tema dei Luoghi che riscontriamo a partire dal suo ritorno. Nonostante sia giunto in Italia in piena età lavorativa, il desiderio di scoprire luoghi diversi è scemato parimenti alla sua volontà di stabilizzarsi in modo permanente nel comune di Sant’Elia Fiumerapido.

    Per quanto riguarda l’intervista di V. la situazione presenta dei dati diversi. La scelta di emigrare è maturata autonomamente dopo la perdita del padre. Abbandonata la scuola ha deciso di seguire le orme dei suoi fratelli che già si trovavano in paesi stranieri. Le difficoltà economiche anche in questo caso hanno rappresentato il leitmotiv dell’emigrazione. Le scelte di V. sembrano mirare ad un’autorealizzazione in parte già intrapresa nel suo paese di origine. Manifesta da subito il desiderio di avviarsi alla carriera di Barbiere e compie i passi giusti per concretizzare il suo scopo. Rispetto a G. la sua dimensione è fortemente multiculturale, e non solo per via della realtà sociale presente in Francia, ma per una sua naturale propensione a considerare l’Uomo un essere unico al di là dei connotati culturali che lo caratterizzano. Questa inclinazione lo porta a scegliere una narrazione che predilige i personaggi (22) e i luoghi (18). Contrariamente a G. però, le sequenze narrative che presentano riferimenti geografici sono perlopiù corrispondenti al territorio francese ed in particolar modo a Parigi. La curva del suo grafico line mostra una scelta di temi quasi identica nel periodo pre e post emigrazione, ma i personaggi in questo caso scendono da 22 a 8 (5+3) se comparati con la somma algebrica dei periodi suddetti. Il tema legato ai luoghi invece si dimezza da 18 a 9 (6+3), ma in entrambe i casi di V. e G. è interessante sottolineare un andamento uniforme nella scelta dei temi per sequenze narrative durante gli anni che anticipano la partenza e quelli del ritorno in patria.

    Le curve grafiche, infatti, non subiscono svolte in ascesa o in diminuzione e la loro distribuzione sui quattro temi prescelti si rivela omogenea. Passando invece all’analisi dei dati sull’opacità referenziale, si evidenziano immediatamente le profonde differenze che affiorano tra i due soggetti. Per V. troviamo una sviluppo notevole della percezione del mondo rispetto al proprio Sé (18) ed una corrispondente visione percettiva della realtà rispetto alle relazioni decisamente più bassa (10). Questi dati sono corroborati dall’assenza di dialoghi diretti riportati nella narrazione e riferiti ai personaggi incontrati nella propria vita. V. infatti si limita a generalizzare le sue amicizie collocandole in una dimensione professionale più che personale (“Dopo ho conosciuto tanta gente anche di alto livello... Avevo tantissimi amici dottori, medici, colonnelli, avvocati...”). La sua percezione della realtà sembrerebbe rilevare l’esistenza di un mondo fenomenico a partire dal proprio Sé, mentre gli altri personaggi ruotano intorno alla sua dimensione individuale in modo del tutto indiretto. E’ improbabile non constatare nelle sue esternazioni verbi di coniugazione passiva e non attiva quando si rivolge ai cosiddetti “amici”.

    Ulteriore motivo di riflessione in questa direzione è l’assenza di un “maestro di vita”, di una figura che compaia come decisiva per la sua realizzazione, al di là dell’apporto della moglie che ancora una volta viene valutata a livello professionale e non individuale (“Se avessi avuto una donna incapace non avrei potuto fare tutto questo...”). La sofferenza provata durante il distacco in età adolescenziale e varie volte ripresa nel corso del racconto, sembrerebbe abbia favorito un ripiegamento su Sé stesso piuttosto che un’apertura verso gli altri nella prospettiva di relazioni sostitutive a quelle familiari. La situazione a livello narrativo tende invece a rientrare nel periodo post migratorio dove i dati emersi rilevano una sostanziale parità (11 per le sequenze rispetto al Sé e 10 per quelle rivolte alle relazioni) di vedute. Nell’intervista di V. invece è possibile evidenziare una equanime distribuzione dei risultati delle n sequenze narrative : 17 per quelle rivolte al Sé e 16 per quelle relative alle relazioni. V. infatti punta molto, durante i suoi anni di soggiorno all’estero, a costituire rapporti con altri emigranti magrebini provenienti dall’Algeria. Pur riportando un solo dialogo diretto, rivolto ad altre persone diverse dalla sua, V. tende a ricorrere a sistemi giustificativi delle ribellioni in atto durante gli anni 60 ad opera degli algerini. Nel suo racconto compare inoltre il cognato come riferimento certo e indispensabile per il raggiungimento di una buona qualità della vita.

    L’uso dei verbi, seppur coniugati maggiormente nel passato prossimo o nell’imperfetto, rivelano un riconoscimento implicito al diritto di esistenza e di “contagio” da parte di altre persone con valori culturali diversi dai suoi. In questo caso quindi, l’aver vissuto una dimensione di abbandono forzato (“Io ho vissuto come un orfano…”) ha favorito lo sviluppo di una rete relazionale intensa volta a facilitare quel dinamismo interiore tra il proprio Sé e quello appartenente ad altri individui. Nella fase di rientro, come accade per G., assistiamo ad una diminuzione delle sequenze narrative che rivelano la percezione del mondo (8 per il Sé e 5 per le relazioni), ma nonostante questo V. non accetta l’idea di tornare in Italia senza rendersi utile. Cerca di capitalizzare la propria esperienza in un’ottica migliorativa per gli altri emigranti. Porta avanti associazioni sia all’estero che in Italia volte a garantire un assistenza a coloro che decidono di rientrare o di soggiornare nel nostro Paese. La sua percezione di emigrante “assistito” dal benessere francese, lo conduce a trasformare il suo status professionale e personale, passando da soggetto passivo ad agente attivo di cambiamento. Un ulteriore dato aggregante che compare all’interno delle due storie è l’assenza di un conflitto generazionale nei confronti dei valori culturali vigenti nella loro epoca. Pur avendo vissuto in una fase di profondi stravolgimenti intellettuali inaugurati con l’avvento del ’68, sia G. che V. sembrano non averne risentito. Il primo, infatti, non ne accenna minimamente, mentre il secondo si eleva ad osservatore esterno che sembra non percepire l’esistenza di una richiesta che vada oltre le esigenze politiche di quel tempo. Si chiama fuori, con gli altri italiani presenti sul posto, perchè afferma che quella battaglia non era la loro ma riguardava solo i francesi che a suo dire sarebbero molto determinati nel rivendicare i diritti umani che gli spettano. E’ quindi palese un’estraneazione rispetto al contesto globale dei movimenti del ’68 che non sono minimante associati alle agitazioni e alle manifestazioni che avvenivano in Italia nello stesso periodo.

    Gli ulteriori dati relativi agli scopi e alla violazione della canonicità possono rilevare semplicemente rispetto alla loro utilità nell’individuare dei punti di forza dai quali entrambi i soggetti ripartono per giungere ad una loro completa realizzazione. La ricerca di un’autonomia sembrerebbe interessare i due racconti in una logica di approccio trasversale. Sia G. che V. si adoperano fattivamente nel concretizzare i loro obbiettivi, ma la differenza risiede nel fatto che G. soccombe alla realtà italiana percepita al suo rientro, evita di adoperarsi affinché la condizione pre-esistente sia veicolata verso un cambiamento. V. invece si attiva con tutte le sue forze per modificare l’impassibilità delle istituzioni italiane nei riguardi degli emigranti, portando avanti sia la sua professione di barbiere che quella di consulente per l’orientamento in una logica dove la prima non compare durante il resoconto autobiografico mentre invece spicca per fierezza e preferenza accordatale la seconda. La Violazione della canonicità non ha pretese comparative, si limita ad illustrare le diverse modalità con le quali è possibile dare vita ad un racconto. Quando l’esigenza di una prospettiva a lungo raggio viene modificata dall’imperversare di eventi inattesi, si attiva il dispositivo narrativo alla ricerca di una spiegazione logica o di un rimedio per attenuare la distanza tra percepito ed esistente. Il ricorso in questo caso alla psicologia popolare individuata da Bruner fa riferimento alla capacità da parte dei soggetti di spiegarsi l’evoluzione dei propri stati d’animo interiori rapportandoli con le motivazioni esterne delle altre persone. Basti rilevare la modalità con la quale sia G. che V. cercano di comprendere il rifiuto del loro paese nel destinargli un’accoglienza meritata, ovvero nel validare le prese di posizione degli emigranti algerini per V. e degli atteggiamenti ostili e chiusi percepiti nel carattere degli svizzeri da parte di G.

    Conclusioni

    Abbiamo visto quindi come sia possibile analizzare alcuni dati certi nel resoconto narrativo, giungendo ad una loro interpretazione, non precostituita o preordinata, né tantomeno affrontandola in chiave di semplice restituzione rispetto a quanto riferito dal soggetto interessato. Una sperimentazione che nella sua sostanza ha rivelato la possibilità di adattare una griglia interpretativa che contenga alcuni riferimenti espliciti individuati nel corso di qualunque storia. E’ risultata in questo senso particolarmente utile per procedere ad un accostamento e ad una comparazione delle diverse scelte individuali senza scadere in considerazioni di carattere generale valide a falsificare o verificare una determinata teoria pregressa. Potremmo allora affermare che l’analisi narrativa delle storie, resa secondo la prospettiva del pensiero narrativo, consente di sviluppare una lettura più chiara dei riferimenti soggettivi determinando una serie di risultati utili a far luce sulle condizioni dell’esistenza individuale e del procedere narrativo della propria esperienza autobiografica pur limitando il suo campo di azione ad ogni singolo soggetto che viene interrogato e senza alcuna pretesa di validità universale.

    Note

    1] Il numero tra parentesi indica la quantità n, presente nelle due interviste trattate, delle sequenze narrative emerse durante l’analisi svolta.

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