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  • Immagine & Società
    Fabio La Rocca (a cura di)

    M@gm@ vol.6 n.2 Maggio-Agosto 2008

    IMMAGINE & SOCIETÀ


    Fabio La Rocca

    fabio.larocca@ceaq-sorbonne.org
    Ricercatore di sociologia al Ceaq (Centre d’Etude sur l’Actuel et le Quotidien) dell'Université René Descartes, Sorbonne Paris V; Responsabile del GRIS (Gruppo di Ricerca sull'Immagine in Sociologia).

    Quale rapporto esiste tra immagine e società? Questo numero cerca, attraverso i vari contributi, di illustrare questa relazione. Nella società postmoderna si sostiene che l’immagine occupi un ruolo importante di cui potremmo indicare due aspetti: da un lato essa serve a decifrare i fenomeni sociali, dall’altro è sempre più utilizzata come uno strumento metodologico che rileva il potenziale euristico delle immagini all’interno di un discorso epistemologico e di conoscenza.

    Quest’ ultima considerazione ci porta all’affermazione che la sociologia visuale è un processo guidato dalla teoria. In alcuni testi qui presentati, questa disciplina e metodologia è oggetto di discussione su ciò che, come mostra Michael Mayer, chiamiamo “l’investigare visualmente”. Il primato dell’occhio, dello sguardo, è uno dei primi elementi che deve essere preso in considerazione quando cerchiamo di analizzare la realtà che ci circonda. Pensare la società con le immagini significa stabilire una conoscenza attraverso lo sguardo che rende conto delle dimensioni del sensibile. Dunque rendere “visibile” o piuttosto mostrare quello che c’è di “invisibile” nella percezione immediata. Utilizzando una metafora cinematografica, si potrebbe fare riferimento al personaggio di Thomas in Blow up di Antonioni con le sue diverse dimensioni spaziali e temporali del vedere, del guardare e del cercare. In questo caso la forza dell’immagine è quella di mantenere con il reale un rapporto di indicalità, di presentare le cose. L’analisi fotografica di Sylvaine Conord risponde a questa necessità cognitiva, cioè la comprensione del mondo, il porre l’attenzione sull’atmosfera della società. A tal proposito, le analisi di Michel Maffesoli e Gilbert Durand sono una referenza imprescindibile orientata a cogliere la conoscenza del mondo in una società nella quale l’immagine e l’immaginario (da sempre epistemologicamente condannabili) occupano un posto di primo piano.

    L’immagine è anche una sorta di “filtraggio culturale” di un’epoca, una forma di comunicazione. Questo è il caso della flânerie metropolitana e del rapporto spettacolare tra la moda, l’immagine di sé e le vetrine illustrato da Tiziana Migliati, o ancora la forma del flusso pubblicitario (E. Piedras), la semiologia dei graffiti nelle città (L. Spinelli). Esempi che simbolizzano ciò che ho spesso analizzato come la proliferazione dell’immagine nello spazio urbano. Una presenza che, dallo spazio urbano, si trasporta nella ragnatela rizomatica del Web e forma attraverso la condivisione di immagini filmiche (A. Bou Hachem) una nuova estetica dell’esistenza e dell’ être ensemble, una reliance imaginale come direbbe Maffesoli, e che di conseguenza, ci porta a riflettere, alla maniera di R.Scachetti, sul modello cognitivo delle interfacce tecnologiche nell’era del post-umano e a ciò che R. Josset chiama “il videodrome totalitario”.

    Insomma, questo rapporto tra immagine e società può formare un più ricco modo di conoscenza per apprendere degli aspetti del reale attraverso la prospettiva dell’immagine. Questa prospettiva (la nozione di prospettiva è stata elaborata nel Rinascimento e definita dall’invenzione della fotografia e del cinema) in una certa misura, mette in moto un orientamento della teoria della conoscenza differente dal razionalismo e dal soggetto cartesiano, uno strumento di conoscenza che accentua il pensiero sensibile attraverso un dispositivo visuale. In riferimento alla tradizione antropologica: bisogna partire dal vedere per pervenire alla costituzione di un sapere in un ottica di reincanto del mondo che si opera attraverso l’immagine e l’immaginario. Infine, per utilizzare le parole di Ludwig Wittgenstein si può concludere dicendo: “ciò che non si sa dire, lo si può mostrare”.



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