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  • Immagine & Società
    Fabio La Rocca (a cura di)

    M@gm@ vol.6 n.2 Maggio-Agosto 2008

    LA SPETTACOLARIZZAZIONE DELLE IMMAGINI: LA VETRINA COME STRUMENTO DI COMUNICAZIONE

    Tiziana Migliati

    tmigliati@yahoo.it
    Laureata in Sociologia delle comunicazioni di massa all’Università Sapienza di Roma, partecipa alle attività di ricerca del GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image en Sociologie) all’interno del CEAQ presso l’Università René Descartes di Parigi.

    Voir, faire voir. Décrire, métaphoriser le pluriel des formes. (…) Donner à voir concerne toute la création au quotidien".
    Michel Maffesoli (Les formes du fond, M@gm@, v.2, n.4, 2004)

    La vetrina è un dispositivo della comunicazione: attraverso la messa in scena spettacolare della merce diventa una maniera di comunicare, una cornice attraverso cui gli oggetti, esposti in immagini agli occhi dell’osservatore, diventano icone, simboli, feticci.

    Mettersi in vetrina é una modalità di rappresentazione dell’individuo e della metropoli, e si inscrive in un processo che Codeluppi definisce di ‘vetrinizzazione’ (2007: 8) della società: ciò che è posto sulla scena del visibile viene investito dal cono di luce dell’esistenza. Attraverso la spettacolarizzazione si avvia un processo di trasfigurazione dei caratteri funzionali della merce che si carica di significati simbolici e culturali, e soprattutto di una seducente aura.

    Per potersi rendere spettacolare la messa in scena della merce ha sviluppato la capacità di stupire lo spettatore “guardante”, i prodotti hanno amplificato la loro natura di oggetti visibili comunicanti per ostensione e soprattutto, hanno utilizzato le possibilità offerte da luoghi particolari, che per la merce hanno funzionato al pari delle scene teatrali. La rappresentazione spettacolare della merce avviene attraverso le vetrine.

    Nel corso del diciottesimo secolo si modifica la relazione tra il laboratorio commerciale e la strada, lo spazio aperto tra il negozio e l’esterno viene chiuso con dei vetri. Lo sviluppo delle città e la nascita delle metropoli portano ad una accelerazione dei ritmi della vita e la velocità di chi passa per la strada. La clientela conosciuta ed abituale dei negozi si mischia con dei passanti anonimi e veloci, lo sguardo di questi abitanti della città viene corteggiato dalle immagini e dalla merce in vetrina (Codeluppi, 2007).

    La velocità e il movimento del passante fanno si che l’oggetto esposto, immobile, illuminato e prigioniero di quel palco, diventi un’immagine che viene trattenuta nel momento in cui si passa davanti alla vetrina, per poi essere rilasciata dallo sguardo, quando si passa oltre, ed entrare nell’immaginazione.

    Il flusso in movimento della città viene catturato dalla vetrina che, se ben costruita, riesce a fermarlo, a bloccare il passante che si perde nel suo incantesimo. Nel periodo natalizio vi è un esempio di questa fascinazione magica, la vetrina “rimanda la luce interna all’esterno della città” (Abruzzese, 1996:110) mostra un mondo luminoso che riporta alla mente dell’osservatore la meraviglia di altri ricordi, le dimensioni temporali si sovrappongono, lo sguardo da’ inizio ad un viaggio nel sogno e in ultima analisi nel desiderio.

    Passeggiare davanti alle vetrine porta al confronto tra l’immagine di sé ed il linguaggio del mondo, e favorisce nell’abitante della città moderna sguardi incrociati tra la percezione di sé e la rappresentazione.

    L’identità si scinde in molteplici appartenenze e al contempo si arricchisce di nuove forme di espressione. La moda è un abito dell’identità che viene connotata attraverso rimandi iconici e feticisti, e si esibisce attraverso la comunicazione visuale: il mostrare, il guardare, prendere dalla strada lo spettacolo del mondo (Maffesoli, 2007). Gioco di sguardi amplificato dagli specchi, dalle vetrine, dal rimbalzo continuo delle immagini sulle superfici riflettenti della società odierna, palcoscenico della rappresentazione. La vetrina in questo senso ha una duplice funzione: mostra la merce e allo stesso tempo il soggetto che la guarda, è vetro trasparente e specchio che riflette.

    La superficie trasparente e riflettente della vetrina mostra l’interno e riflette il mondo esterno. Il soggetto guarda al di là del vetro ciò che vi è esposto, nello stesso tempo vede il riflesso della propria immagine sulla vetrina ed ancora il riflesso dell’architettura della città, i piani di rappresentazione si confondono e si sovrappongono.

    Il dispositivo di comunicazione della vetrina ci porta a guardare attraverso il limite del visibile, entrare ed uscire tra realtà e rappresentazione. La vetrina diviene una superficie di transito, permette un passaggio che si realizza attraverso un movimento di sguardi, la ricerca di un altrove che si ritrova nello stesso simbolo dello specchio, nella dislocazione figurale dell’immagine, nelle illusioni scintillanti dei Passages.

    Questi ultimi, descritti da Benjamin nella nascente metropoli parigina, diventano superficie di transito che si fa tramite verso l’altra realtà, quella speculare, resa visibile all’abitante della metropoli attraverso l’illusione di specchi e vetrine, la soglia da cui è possibile intravedere l’altrove contiguo. Il contesto metropolitano di Parigi diviene con Breton universo di immagini, un paesaggio metaforico dove tutto può avere un senso opposto. Parigi è la città polimorfica fatta di specchi in cui si riflette, moltiplicando le sue figure, i suoi volti, le sue ambiguità. Una dialettica di riconoscimento e ridefinizione dell’identità, contraddistingue la città in una fluida metamorfosi di significati simbolici (Benjamin, 1995).

    Esperire la nuova realtà della metropoli significava aggirarsi come fantasmi nelle strade e davanti alle vetrine, riconoscere il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano. Il fantastico si impadronisce degli oggetti che vengono estrapolati dal loro abitudinario contesto d’uso e assumono il valore di immagini inedite e rammemoranti (Aragon, 1972).

    La città odierna si mostra agli sguardi dei flaneurs metropolitani che costruiscono un percorso di significazione e di perdita di sé nel corpo sociale (Nuvolati, 2006). Gli Stalker, per esempio, esplorano gli spazi di rappresentazione della città. L’individuo passeggia e si sposta nello spazio metropolitano, ma non cerca semplicemente i luoghi del consumo, lo Stalker cerca di costruire degli itinerari significanti, una mappa virtuale dei luoghi invisibili della città, favorendo la valorizzazione in termini spettacolari dei terreni vuoti metropolitani. (La Cecla, 2005)

    Dalla città il percorso verso un “altrove” è quello che si compie, e non solo, nella rappresentazione, nella interazione con un altro piano di realtà, nella trasposizione in luoghi che sono raggiungibili facilmente attraverso dispositivi tecnologici che integrano ed ampliano il corpo organico come strumento del movimento.

    In qualunque momento possiamo collegarci al mondo virtuale di internet attraverso gli spazi wi-fi presenti in certi punti della città come uscite di sicurezza, vie di fuga tecnologiche attraverso un portale inserito in un laptop che ci portiamo dietro come feticcio del corpo tecnologico.

    La tecnologia è uno strumento che favorisce la creazione e la diffusione delle immagini, il luogo che ne consente lo scambio ed il corpo che le supporta nella dimensione del virtuale, nelle immagini si gioca l’identità multiforme dell’abitante della contemporaneità.

    La vetrina è un dispositivo di comunicazione visuale della cui stessa materia sono fatti gli schermi della televisione e i monitor del computer: attraverso il vetro mostrano l’interno e allo stesso tempo riflettono il mondo esterno. Il dispositivo comune permette di guardare e di spostarsi attraverso la soglia del visibile. La lastra in vetro della vetrina ferma nello sguardo il movimento del passante, lo schermo della televisione coinvolge nell’interattività lo spettatore, ed il monitor del computer porta l’interazione nel flusso del movimento nel web.

    L’abitante tecnologico del presente sperimenta l’esperienza delle dimensioni del visibile/invisibile, della realtà fisica/virtuale dell’io/doppio attraverso l’uso dei dispositivi di comunicazione. Questa dislocazione del senso di realtà in una dimensione straniante, si fonde e si confonde con la percezione della propria dimensione identitaria, comporta una continua ridefinizione dei propri confini semantici.

    La moda ha la necessità di disporre di uno spazio pubblico nel quale esprimersi e mostrare le sue molteplici facce (Codeluppi, 2007) ed utilizza un linguaggio per immagini: mostriamo e guardiamo, exposants e voyants. La città stessa diviene vetrina e permette agli individui di utilizzarla al pari di una scena teatrale, sulla quale agire e mostrarsi agli sguardi degli altri.

    L’individuo sulla scena del sociale mostra un’immagine di sé sempre più sfaccettata: molteplici aspetti dell’ ‘io’ che si dividono e si sovrappongono cambiando di numero e di forma come in una sala degli specchi.

    E’ un processo di frammentazione e composizione dell’identità, di adesione a molteplici comunità sempre più parcellizzate e connotate, intercettato dalla moda, amplificato dai media, pubblicizzato e utilizzato come merce di scambio. Il sistema economico tende ad appropriarsi di codici prodotti dai membri delle tribù, e ad utilizzarli per connotare i suoi prodotti di consumo, proposti come facenti parte di quell’universo simbolico studiato. “Il carattere alchimistico del mercato è la trasformazione della capacità produttiva delle avanguardie giovanili in merce per vaste moltitudini” (Cristante, 1993:55). Questi prodotti vengono presentati con una identità di brand fortemente caratterizzata, con l’intento di creare una moda che sia uno specchio in cui riconoscersi.

    L’appartenenza a tribù va trasformandosi, gli individui moltiplicano il numero delle communities alle quali appartengono in maniera sempre meno esclusiva, le aggregazioni sono in realtà appartenenze temporanee, si cerca di superare il senso di frammentazione dell’identità con la volontà di affermazione di una propria unicità.

    Si mescolano e si confondono i codici della produzione industriale di mode, mentre mostrare la propria unicità, connotarla fortemente attraverso la propria immagine è utilizzare un codice personale. Per Dress-code si intende una pragmatica del corpo che assume significati attraverso continue scelte da parte di un soggetto mutante che sfida ogni identità fissa, gioca con la moda, utilizza la comunicazione visuale come architettura che agisce nella costruzione di un panorama corporeo [1].

    Il corpo comunica per immagini, il riflesso del corpo abbigliato appare come un tratto semantico, i cui codici si ridefiniscono continuamente. Il rapporto tra segno, significato e significante si connota in funzione di chi indossa l’abito, in un gioco di combinazioni e rifrazioni attraverso cui si suggerisce cosa c’è oltre la soglia del visibile. Si allude al nucleo che è al-di-là dell’apparenza e lo si fa attraverso l’apparenza. Si allude ad un altrove raggiungibile attraverso la soglia del corpo. La città come palcoscenico è il luogo in cui si incrociano questi linguaggi e si mostrano i segnali del corpo.

    Attraverso la rielaborazione dei codici della moda la persona, con la sua individualità, esprime il sé all’interno della socialità comunitaria. Quello che viene chiamato self-fashioning (creazione della propria moda), è una “reinvenzione identitaria in senso sincretico” (Pistilli, 2005:27). Lo stile personale attraversa le mode e si compone di nuovi significati per la strada, in un meccanismo di disordine semantico e violazione di codici condivisi che si ritrova tra l’altro nello sviluppo di alcune subculture.

    La propensione a rifiutare i dettami imposti dalla moda si ritrova anche nei movimenti di resistenza al modello di consumo globale, balzati all’attenzione crescente dei media, rischiando a loro volta di diventare fenomeni di moda. Allora si sfugge al processo di identificazione ed omologazione, cercando di essere uguali solo a sé stessi, immagine in mutamento nel gioco col proprio corpo che viene abbigliato, tatuato, truccato, siliconato, forato, trasformato dallo sport o dalla chirurgia, per essere sempre più rispondente ai propri desideri, e a quell’idea di sé che si mostra in immagini attraverso lo specchio del mondo.

    Il corpo si fa vetrina: “oggi con le pratiche di slittamento identitario tramite istoriazione, presenti anche nella moda, il corpo torna ad essere superficie da interpretare, da segnare e si dà come costruzione, risultato di un progetto, frutto di una sinergia”. (Fiorani, 2006:20)


    NOTE

    1] Canevacci, intervento al convegno “Il Lusso e la Moda” tenutosi a Roma il 23/10/2006.


    BIBLIOGRAFIA

    Abruzzese, Alberto, Lo splendore della tv, Costa&Nolan, Genova, 1996.
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    Benjamin, Walter, Goethes Wahlverwandtschaften, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 (trad. it. Le affinità elettive, in Angelus Novus, (1962), Einaudi, Torino, 1995).
    Breton, André, Manifestes du surréalisme, Gallimard, Paris, 1997.
    Carmagnola, Fulvio, Il consumo delle immagini, Mondadori, Milano, 2006.
    Codeluppi, Vanni, La vetrinizzazione sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
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    Martin J-C. Le corps de l’empreinte, essai sur le photographique, Bibliothèque du Collège international de philosophie, Kimé, 2004.
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    Perrotta, Rosanna, Cornici, specchi e maschere: Interazionismo simbolico e comunicazione, Edizioni Clueb, Bologna, 2005.
    Pistilli, O. Keyra, Dress code, Castelvecchi, Bologna, 2005.


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