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  • Immagine & Società
    Fabio La Rocca (a cura di)

    M@gm@ vol.6 n.2 Maggio-Agosto 2008

    LA SOCIOLOGIA VISUALE PER “INDAGARE VISUALMENTE”? L’IMMAGINE COME OGGETTO, LAVORO E CULTURA DELL’INCHIESTA QUALITATIVA

    (Traduzione Marina Brancato)

    Michaël Meyer

    Michael.Meyer@unil.ch
    Assistente per l’insegnamento di Sociologia dell’immagine all’Istituto di Sociologia delle Comunicazioni di Massa (ISCM) dell’Università di Losanna. Dottorando in sociologia presso l’Università di Losanna e di Nantes.

    Uno dei recenti dibattiti sullo sviluppo della sociologia visuale conduce all’approfondimento della questione se inserirla all’interno dell’insieme dei metodi che verrebbero ad aggiungersi alla classica panoplia dell’etnologo e del sociologo, o se essa possa costituire un’autonoma sub-disciplina [1]. Alcuni lavori hanno già tentato di rispondere a tale questione in particolare attraverso un'esplorazione sulle origini dell'utilizzo dell'immagine nelle scienze sociali (Stasz, 1982; Henny, 1986; Harper, 2000). Qui non vogliamo ripercorrere un excursus storico. Preferiamo esaminare la sociologia visuale entro il quadro metodologico dell'indagine qualitativa sul campo. Dunque, mutueremo esempi dai nostri lavori in corso sulla ‘relazione d’ufficio’ [2], cioè su quel tipo particolare di relazione interpersonale che caratterizzerebbe il lavoro facciali sportello nei ‘mestieri pubblici’ (Joseph, Jeannot, 2002). Rifletteremo più precisamente sulla base del lavoro poliziesco, e dell’incontro tra agenti di polizia ed utenti agli sportelli d'accoglienza dei commissariati [3].

    L’occhio e la sociologia: un invito a ‘ricercare visualmente’

    Sulla scia di Georg Simmel ed Isaac Joseph, ribadiamo innanzitutto l'importanza dello sguardo nel gioco quotidiano degli incontri che si sviluppano in uno spazio di ufficio. È possibile catturare il “valore sociologico dell’occhio” (Simmel 1981, p. 228) nelle interazioni quotidiane e nei processi di riconoscimento e adattamento tra individui co-presenti. Nella moderna riproposizione di questa tesi e secondo Isaac Joseph (1984), l'uomo è un essere di locomozione che gli incontri e le esperienze di co-presenza trasformano in un enorme occhio. La città sancisce il privilegio sociologico della vista (ciò che si fa) sull'udito (ciò che si racconta) ma, combinando diversità ed accessibilità, influisce sul visibile mediante un ‘coefficiente di incertezza e di allarme’.

    Il dominio simmeliano dell’occhio, accanto all’accessibilità degli spazi di servizio di Isaac Joseph, ci spinge a riflettere sull’uso dei metodi d’indagine visuale per lo studio della dinamica allo sportello dell’incontro tra agente di polizia e utente all’interno dell’ istituzione poliziesca. In questo modo, indagare e pensare il nostro oggetto di studio è innanzitutto ciò che John Grady (1996) chiama ‘doing sociology visually’, cioè adoperare mezzi pratici per una sociologia che usi le immagini nelle varie tappe della ricerca. Noi abbiamo scelto la fotografia. Aldilà di questo necessario impiego materiale delle tecniche d'immagine, riflettere in una prospettiva visuale sul nostro oggetto di studio significa anche metterlo a confronto con i diversi sguardi, con l'idea intrinseca che le immagini prodotte e gli sguardi sono con-divisi, e dunque osservabili nelle interazioni quotidiane.

    L'utente e l'agente di polizia allo sportello sono degli osservatori. Essi si basano sulle stesse osservazioni, delle persone presenti e dell'ambiente materiale, per iscriversi nel flusso di attività che percorre e configura lo spazio pubblico di uno sportello di polizia. I protagonisti dell’incontro d’ufficio possono contare sulla visibilità di questo spazio comune che contiene le loro azioni (ufficio reclami, dichiarazioni d'incidente, richiesta informazioni, etc.). Questo spazio diventa una risorsa valutata, mobilitata e negoziata nel corso della relazione faccia a faccia che produce - che genera - il "servizio" [4]. Jean-Marc Weller osserva un fenomeno simile in occasione degli incontri allo sportello della Sicurezza Sociale: "(...) la configurazione ecologica dell'ufficio svolge un ruolo importante come spazio di costruzione di un possibile campo visivo. Lo scenario appare come una risorsa strategica per lo svolgimento futuro dello scambio" (Weller 1999, p. 41).

    Questa osservabilità - questa ‘accountability’ visiva, rievocando il concetto di H. Garfinkel - fornisce una cornice per l'adeguamento delle azioni, la produzione delle attività e degli eventi mediati, ma contribuisce anche ad adottare il punto di vista dell'Altro, delle sue qualità e della sua conformità alle ‘pre-supposizioni sociali’ (Goffman, 1987) di quest'universo costituito dagli uffici di polizia [5].

    Servizio e osservabilità

    A partire da queste prime constatazioni, la nostra opinione si snoda su due ipotesi centrali che proponiamo per lo studio del servizio d’ufficio. In primo luogo, la configurazione materiale dello spazio contribuisce alla produzione - da parte dell'agente e dell'utente o tra gli stessi soggetti - di un campo visivo per l'azione, separato ed operativo. In secondo luogo, la visualizzazione, la mobilitazione ed il controllo delle componenti di questo campo visivo designano una competenza di situazione dei protagonisti; competenza che indica il gradimento delle co-presenze umane e materiali, che il ricercatore deve tentare di cogliere nelle sequenze d'azione in cui interviene e nel loro funzionamento ‘ecologico' [6]. La sociologia visuale può costituire, a nostro parere, uno strumento operativo per osservare queste sfide nel caso dell’incontro d’ufficio.

    La disponibilità prevista agli sportelli di polizia (‘al vostro servizio 24h/24h’) non deve farci presupporre che l'utente proceda, senza scontri né prove, dal suo ingresso, fino all'agente responsabile incaricato all'accoglienza. Le interazioni personali al commissariato sono caratterizzate delle esitazioni, degli allineamenti successivi dinanzi alle altre persone presenti, ma necessitano anche di soddisfare delle configurazioni materiali particolari – entro cui si svolgono. Così ad esempio, l'utente che poco conosce i luoghi comunicherà, in modo visivo, all'agente che osserva il suo ruolo di soggetto inesperto del servizio: per i suoi passi titubanti, per i documenti che tiene in mano, per la sua mancanza di abilità nell'aprire la porta o per il suo incerto orientamento nello spazio.

    L'agente di polizia dà prova di un controllo visuale del suo spazio di lavoro ed anticipa le domande degli utenti alla vista di tali indizi. Riflettere sulla "accessibilità" e sull'osservabilità di questo spazio, più che stabilire un inventario del luogo, significa dunque chiedersi in che modo porte, archivi, uffici e sportello rappresentino risorse che ciascuno - sia utente che agente - è in grado di visualizzare e utilizzare nell’ambito di un’incontro al commissariato.

    Ogni utente può intravedere nella scenografia degli spazi pubblici la prestazione di servizi di cui necessita. Al contrario, ogni agente ricorre a diversi metodi di visibilità del suo lavoro, l’ordine negoziato (Strauss, 1992) di quest'ultimo e la sua disponibilità per attualizzarlo verso l'utente. Questo gioco d’intrecci del visibile e del dare-a-vedere costituisce l’origine del campo visuale e degli adeguamenti ecologici prodotti nella situazione di un incontro allo sportello della polizia.

    La sociologia visuale, con i suoi quesiti ed i suoi metodi, può rappresentare un pertinente approccio per confrontare questo gioco dell'osservabile e del visibile, assieme alle conoscenze acquisite della drammaturgia sociale e degli adattamenti interpersonali. Gli studi sui lavori di servizio, da alcuni anni, si interessano sempre di più le interazioni tra agenti ed utenti (Dubois, 2003) e, nel caso del nostro oggetto distudio, ci sembra pertinente utilizzare le possibilità offerte dalla sociologia visuale. Tale legame dell’occhio e del visibile, nell’ambito delle interazioni di servizio, sarà esplorato qui in tre momenti, che potrebbero costituire altrettanti prospettive di riflessione e d'utilizzo sociologico dell'immagine nella ricerca qualitativa sui lavori di ufficio. Il primo momento riguarderà l'immagine come dato d'analisi. Il secondo si interesserà all'immagine come lavoro del ricercatore e dell'indagato. Ed infine, l'immagine intesa come fonte di quesiti epistemologici sul nostro apprendimento visuale dei fenomeni sociali.

    L'oggetto-immagine: produrre dati con la strumentazione visiva

    Il primo possibile tentativo d’analisi della relazioni d’ufficio, attraverso l’impiego la sociologia visuale, consiste nel realizzare una strumentazione destinata alla produzione di dati sotto forma di immagini, in particolare sotto forma di fotografie. Si tratta di un classico percorso di utilizzo delle tecniche dell'immagine nell’ambito della ricerca, in particolare come complemento al lavoro antropologico (Malinowski, 1985) [7] o come metodo riconosciuto di raccolta e di restituzione dei dati raccolti sul campo (Bateson e Mead, 1942; Becker, 1981). Nel caso di una ricerca sugli sportelli della polizia, si tratta di costituire un corpus di immagini che potrà ulteriormente essere utilizzato per un'osservazione differita del lavoro poliziesco. Le immagini prodotte saranno considerate risorse per l'analisi, alla stregua delle note prese sul campo o delle registrazioni di interviste. In quest'uso dell'immagine a fini empirici per la raccolta dei dati, la strumentazione visiva si impone come protesi tecnica dell’occhio del ricercatore. Tale strumentazione rappresenta il captatore ed il vettore dei dettagli invisibili a occhio nudo, in particolare per l'osservazione dei sottorisultati e dei dettagli dell'interazione.

    Questo ruolo dell'immagine, e particolarmente dell'immagine fotografica, è reso possibile da alcune caratteristiche che mettono in evidenza le qualità ‘indiziaria’, ‘isomorfica’ e di ‘distanza’ (Piette, 1992) della fotografia di fronte al suo referente. Queste tre virtù della fotografia contribuiscono al valore euristico di una ricerca sul campo. La sua natura è indiziaria e “come prova incontestabile dell'oggetto fotografato esistente, l'immagine fotografica contiene dunque una potenza di designazione che assicura la sua qualità euristica di base: mostrare, richiamare la nostra attenzione su un oggetto, una tematica" (p. 131).

    Ciò è valido anche per la distanza del referente, che suscita attenzione attraverso lo stupore e così può rivelare elementi non percepiti in occasione del confronto diretto con l'oggetto fotografato. Concludendo, l'isomorfismo fotografico risiede nel fatto che l'immagine afferra la totalità dei raggi luminosi che l’hanno colpita in uno specifico momento. "Questa percezione della totalità della situazione corrispondente permette un accesso a più dettagli che non era resa possibile a occhio nudo (...)" (ibidem). Riassumendo, questo primo livello euristico dell'immagine nelle scienze sociali mostra le pratiche strumentali di registrazione di una realtà che si svolgerebbe sotto gli occhi del ricercatore; registrazione destinata ad ulteriori revisioni, in cui il ricercatore sarebbe in grado di scoprire elementi del suo campo sfuggiti durante l'osservazione diretta.

    Questo approccio si concentra su di un oggetto – immagine, un prodotto dell'attività del ricercatore che si esplica come dato di ricerca. In questo senso, costituisce soprattutto una metodologia di lettura, di descrizione e di commento dell'immagine al servizio di un oggetto di studio, che si suppone sia catturato in essa. Il compito del ricercatore, in questo caso, è il lavoro sull'immagine [8], in particolare una ricerca attiva degli "indizi capaci di rivelare numerosi dettagli della vita sociale" (Piette 2007, p.23). Tale approccio è utile soprattutto in antropologia ed in sociologia quando presta attenzione all’approfondimento della comunicazione non verbale (il lavoro di Bateson e Mead a Bali è il primo esempio di questa argomentazione di mobilitazione dell'immagine); o quando ci si interessa più generalmente alla complessità delle sequenze di attività (l'antropologia visuale ha fatto dello studio dei processi d’apprendimento un terreno privilegiato per l'utilizzo dell'immagine filmica).

    Nel caso di uno studio sugli sportelli della polizia, l'attenzione del ricercatore può essere attirata, nel corso della consultazione delle immagini prese, dai dettagli legati al tipo di impiego del materiale tecnico (sportello, elaboratore, formulari) nel corso dell'interazione. Il campo visivo dell’ufficio è anche messo in rilievo dall'immagine. Il sociologo vi cerca le tracce del visibile: il gioco degli sguardi, la valutazione visiva continua tra interlocutori, gli angoli morti dell'interazione faccia-a-faccia. Spesso l'agente di polizia addetto allo sportello è portato a gestire simultaneamente molte attività; e in questo caso è importante che la sua disponibilità o la sua indisponibilità siano pubblicamente osservabili (dunque potenzialmente catturati grazie alla fotografia). Il lavoro sulle immagini mette in evidenza questi dettagli a volte così tenui, che è difficile per le persone non impegnate nel corso dell’azione distinguerle ed ‘misurarle’ - prenderne nota - con la sola osservazione diretta.

    Abbiamo parlato delle immagini realizzate dal ricercatore, ma occorre notare che le immagini possono anche essere state prodotte dagli indagati stessi. La raccolta documentaria della produzione iconografica di un commissariato (manifesti preventivi, fotografie ufficiali) può condurre a riflessioni sul contenuto: la composizione e l’intermedialità delle immagini entro una prospettiva di studio visuale (Rosa, 2001). Sia che siano il prodotto del ricercatore o degli indagati, questo primo livello di impiego delle immagini nella ricerca sociale sostiene che la fotografia è una traccia della realtà; essa ha un potenziale di attrazione e di canalizzazione della nostra attenzione, che si prolunga in una potenziale provocazione del senso.

    Come osserva John Grady (2001, p.86): "in un certo senso, le immagini ci urlano di permearle di significato ed è questo, soprattutto, che gli conferisce la capacità unica di coinvolgerci". Questa capacità d'impegno dell'attenzione e di attrazione del senso di fronte alle tracce di un referente oggetto delle interrogazioni scientifiche, rappresenta la prima capacità euristica dell'immagine.

    Il lavoro-immagine: l’atto fotografico come oggetto di studio

    Il secondo livello euristico dell'immagine di ricerca nelle scienze sociali ha come punto di partenza ciò che chiamiamo il ‘lavoro-immagine', ossia tutte le attività che conducono il ricercatore a produrre immagini durante la ricerca. Qui ciò che interessa meno è il prodotto di questo lavoro - l'oggetto-immagine – rispetto a quello implicato da questa produzione, contenente le “reazioni” generate dal confronto dei campi visivi da cui è derivato. In altri termini, l'atto fotografico, che consacra la produzione e il consumo di un'immagine [9], può essere considerato come indicatore del luogo e delle azioni/reazioni in esso contenute, così come dello sguardo esogeno attraverso cui il ricercatore procede nel campo professionale in cui s’inscrive il nostro oggetto di studio. Nel caso della nostra ricerca sul lavoro poliziesco e le relazioni di ufficio, la possibilità di realizzare fotografie è l'occasione per riflettere sulle sfide delle negoziazioni della presenza del ricercatore-fotografo. Più in particolare, ci troviamo dinanzi all’esigenza di pensare i modi di regolazione dell'istituzione poliziesca sottoposta alla verifica di uno sguardo esterno, potenzialmente controllato nell'esercizio del suo lavoro. La mediazione dell'accesso al terreno (di ricerca e di ripresa), che è una delle forme del lavoro-immagine, è ricca di informazioni sulle modalità di relazione della fotografia nel contesto poliziesco, in cui il controllo e la produzione di una rappresentazione particolare della professione e di agenti sono sfide di ogni momento. Prova è la delegazione da parte dell'istituzione dei compiti di produzione di immagini ai fotografi ufficiali e la loro diffusione agli addetti stampa.

    Lo sguardo del sociologo entra in competizione con gli sguardi autorizzati del campo d'indagine. Gli obblighi e le mediazioni del ricercatore che desidera produrre immagini possono essere considerati come dati che devono integrarsi al quadro della ricerca. Il percorso istituzionale del ricercatore ed i suoi interlocutori (comandante di polizia, portavoce, consulente giuridico, etc.), ad ogni tappa della negoziazione della sua presenza fotografica, costituiscono accordi sociali analizzabili.

    Il sociologo che si arma di un dispositivo di presa di vista fotografica deve essere in grado di riflettere sulle modificazioni e sulle regole che il suo approccio genererà sul terreno. Le distorsioni causate dalla presenza del ricercatore sono state prese in considerazione più generalmente nel quadro di pratiche d'osservazione etnografica senza ricorso alla strumentazione visuale, come ad esempio la riflessione sul ‘paradosso dell’osservatore’ (Schwartz, 1993). La stessa posizione metodologica di tipo ‘critico-analitico’ può essere prevista con successo nel caso di ricerche che realizzano un dispositivo di produzione di immagini (Papinot, 2007).

    L'atto fotografico diventa allora un atto di comunicazione che può essere studiato come tale, ed a cui partecipa sia il ricercatore-fotografo sia l'indagato-fotografato. Questa considerazione riflessiva sul lavoro-immagine apre la strada ad un fondamentale interesse euristico sui metodi della sociologia visuale: la conoscenza dell'oggetto di studio in cortocircuito, nella dinamica che induce il ricercatore a studiare mediante la produzione di immagini. Come osservano Peroni e Roux (1996, p. 10) "la fotografia di lavoro è un documento sul lavoro fotografico che lo ha prodotto".

    L’approccio fotografico del ricercatore è di conseguenza un'esperienza resa conscia, condivisa con gli indagati che si prestano al gioco dell'immagine. Non può più essere pensata aldilà delle attività che permettono di stabilire, mantenere, negoziare e ri-attualizzare questo gioco. I soggetti della fotografia lavorano alla ripresa, in modo particolare, mettono in scena se stessi e sistemano la scena che li circonda. Partecipano ad inventare una visibilità delle loro attività quotidiane, ricrearla in funzione del gradimento del loro lavoro e degli incontri, ad autorizzare la sua ‘cattura’ da parte del fotografo.

    Nel caso della polizia, l'agente fotografato ‘fa il poliziotto’ [10] per il fotografo; sistema la sua uniforme ed il suo spazio di lavoro affinché corrisponda metaforicamente all’immagine della professione che desidera dare o che ritiene si aspetti il fotografo. Il poliziotto dunque è attento ad aspetti del suo lavoro che di solito si ripetono automaticamente e che non ha bisogno di analizzare o elencare nel quotidiano. Lo sguardo del ricercatore-fotografo e l'attenzione prodotta dal suo apparecchio fotografico sollecitano la ricerca di una pertinenza visuale da parte degli agenti (ma cosa sta fotografando?), come la produzione di una chiarificazione del lavoro di sguardi compiuti per ogni utente.

    Il lavoro fotografico è quindi sia quello del ricercatore-fotografo (mediato dell'accesso al campo, dalla partecipazione alle attività, dalla ripresa) sia quello degli indagati (presentazione di sé, organizzazione e visibilità del suo spazio lavorativo). La seconda capacità euristica dell'immagine, dunque, va oltre la più generica attenzione del ricercatore al lavoro che circonda la produzione di clichés fotografici in loco. La possibile alterazione attraverso l'atto fotografico deve essere integrata in modo positivo nella pratica scientifica e fornire elementi di riflessione che riguardano il contesto di realizzazione delle immagini di ricerca. La fotografia - nella sua pratica e nella sua lettura - deve permettere una riflessione allo stesso tempo sul posizione del ricercatore, sulla sua relazione all'oggetto di studio, sulla messa in scena degli indagati di fronte al dispositivo di ripresa che propone.

    L'impiego dell'immagine è da prevedere qui come fonte d'informazione in sé che permette osservazioni dirette, derivate dalla ri-unione tra operatore e soggetto dell'immagine. Quest'ultimo è in un certo senso la materializzazione della relazione stretta che unisce l'osservatore all’osservato all'interno di ogni tentativo di comprensione etnografica. La fotografia, in questo caso, permette di indagare la costruzione di una dinamica tra ricercatore ed indagato, e le sfide tra lo sguardo ed il visuale. Queste considerazioni sono di particolare importanza nel caso dello studio qualitativo dei lavori di ufficio: l'immagine e la sua mediazione rinviano il ricercatore al suo status di richiedente, cioè di utente a pieno titolo dell'istituzione sollecitata. La presa di coscienza di questo status apre così la strada verso una riflessione epistemologica sul ruolo del ricercatore in loco e sul suo progetto di conoscenza.

    La cultura-immagine: l’immagine come indicatore di una cultura dello sguardo

    Ultimo elemento che potrebbe diventare una sfida euristica è determinato dall’estensione della capacità dell'immagine di stabilire innanzitutto il lavoro e lo status del ricercatore. Attraverso l'immagine prodotta o attraverso il processo che la produce, infatti, non diventa visibile in filigrana soltanto il lavoro tecnico del fotografo - come compimento pratico - ma anche il ricercatore ed il suo progetto di ricerca. Più precisamente, il lavoro fotografico rinvia lo studioso, nel corso della ricerca, ad una riflessione sulla natura scientifica dell’approccio e della conoscenza mediante l'osservazione.

    L'attività riflessiva, volta a concepire il lavoro-immagine al di qua dell'oggetto-immagine, induce, nel suo percorso, a interrogarsi sullo statuto anche dei dati derivati dallo sguardo del ricercatore. Più che visualizzare la relazione tra i protagonisti dell'indagine, l'immagine rende visibile e concretizza la natura condivisa della produzione dei dati visuali. Non è soltanto ciò che ha visto il ricercatore che è registrato dall'immagine e che diventa oggetto del suo lavoro; è il ricercatore, nella sua totalità, che partecipa alla visibilità delle situazioni studiate. Nel nostro caso, è l’ufficio che appare come fenomeno, incrocio degli sguardi dell'agente, dell'utente e del sociologo. Il ricercatore si trova così di fronte ai suoi modi di vedere e di fare ricerca, i suoi modi di osservare e di rendere visibile il campo. Se come sostiene Denis Roche (cit. in Peroni, Roux, 1996, p. 195) "ciò che si fotografa, è il fatto che si scatta una foto", possiamo di conseguenza aggiungere nel caso della sociologia visuale che ciò che si fotografa, è il fatto che si fa ricerca scattando una fotografia.

    La fotografia ci rinvia al potere dello sguardo, umano e situato, che ci portiamo sul campo. E vi scopriamo l’onnipresenza (metaforica o non pubblica) e la performatività di una cultura-immagine che lega osservazione, osservatore ed osservato in un'organizzazione sociale basata sulla visualizzaizone. Lo sguardo sociologico del ricercatore, lo sguardo poliziesco dell'agente allo sportello e lo sguardo da ‘richiesta’ dell'utente devono essere inseriti nella comprensione di un'economia globale della visibilità e degli scambi di opinioni nella società. Questa potenza di condensazione e di spostamento dello sguardo verso sfide epistemologiche è resa possibile dall'ironia fotografica che non conosce tregua nel restituire allo studioso, nella ricerca della realtà del campo, la sua immagine, la sua presenza e il suo turbamento, fino al cuore della comprensione di questa particolare realtà. In tal senso, Emmanuel Garrigue (2000, p. 41) mostra la fotografia come "(...) rivelatore epistemologico delle scienze umane nella loro capacità di analizzare la realtà". Seguendo Sylvain Maresca (1996), si scopre anche che la fotografia, come ‘dispositivo di pensiero’ potrebbe arricchire le analisi delle scienze sociali sulla loro comprensione del mondo. In questa relazione fra scienza e reale, saremmo incoraggiati a "pensare anche con gli occhi" (ivi, p. 239) "A questo titolo, la fotografia più di qualsiasi altra forma d'immagine, designa una sfida intellettuale: quello di comprendere senza astrarsi, cioè di elaborare un modo d'analisi che non si richiude ipso facto su sé stesso, che non si separa necessariamente dal mondo che pretendeva di spiegare" (ivi, p. 242).

    L'empirico ed il visuale: una sfida per la sociologia visiva

    La sfida evocata da Maresca può farci riflettere sulle sfide di costituzione della sociologia visuale come sub-disciplina autonoma. La sociologia visuale così come si definisce e si pratica attualmente può pretendere di confrontarsi con tale sfida? O deve al contrario limitarsi a fornire nuovi strumenti per confermare conoscenze già acquisite e costituite in sistemi teorici e disciplinari? I tre livelli euristici individuati danno una prima possibile risposta. Essi possono essere considerati separatamente, messi al servizio di campi specifici: l’uso delle tecniche dell'immagine può essere finalizzato alla produzione di dati, che saranno in seguito ricontestualizzati all’interno di un preesistente spazio intellettuale. Così, nel nostro caso, le immagini prodotte sul campo possono costituire soltanto un serbatoio di dati per la sociologia del lavoro e le riflessioni già rivolte alla ‘relazione d’ufficio’.

    Tuttavia pensiamo che solo una sovrapposizione dei vari livelli di sguardi sull'immagine (oggetto-immagine, lavoro-immagine, cultura-immagine) può aprire la strada alla costituzione di una sub-disciplina che afferma automaticamente ciò che è visualizzato come oggetto e strategia di ricerca. Questo settore di studio sarebbe orientato verso il visibile e le varie modalità quotidiane con le quali quest'ultimo – il visibile - si concretizza e si inserisce nella vita sociale. Lo sguardo ed il visibile sono fenomeni sociali e la pratica dell'immagine diventa una modalità nuova di esplorazione sociologica su questi fenomeni. Questo sguardo sul visibile con le tecniche dell'immagine (‘voir le voir’ - ‘vedere il vedere’- per riprendere il titolo francofono di un lavoro di John Berger) rischia di destabilizzare le canoniche categorie della validità scientifica.

    Forse è solo a questo prezzo che bisogna raccogliere la sfida della metodologia empirica e visuale [11]. Per tale motivo, la sociologia visuale può fondare le sue basi sulle capacità euristiche delle immagini, che per il ricercatore costituiscono materiale ben più ricco della loro semplice e secondaria capacità documentaria. Da un punto di vista sociologico, il primo vantaggio di una sovrapposizione dei livelli euristici è disinserire la sociologia visuale dai filoni di pensiero che parcellizzano e strumentalizzano i metodi dell'immagine per confermare conoscenze già stabilite. Infine, questa sovrapposizione potrebbe riguardare pratiche e ragionamenti qualitativi sorti dal legame stretto tra studio della cultura visiva - quella che prevale nel lavoro poliziesco ad esempio - e cultura visiva dello studio - quella dello sguardo sociologico. Questa nuova continuità degli studi e dei metodi visuali potrebbe essere un fattore determinante per la costituzione e la fecondità di una nuova sub-disciplina incaricata di spiegare la realtà sociale con ciò che ha di visibile e di osservabile.


    NOTE

    1] Cfr. Wagner (2002). L’autore adotta la misura dell’evoluzione delle ricerche viduali mediante un’analisi incrociata di due lavori recenti - Prosser (1998) e Emmison, Smith, (2000) - messi a confronto con la sua pionieristica raccolta su questo tema (Wagner, 1979).
    2] Cfr Weller (1998) per una sintesi delle principali posizioni a riguardo e per uno sguardo generale sul panorama della letteratura su questo tema. Cfr Weller (1999), Joseph e Jeannot (2002) e Dubois (2003) per approfondimenti sociologici.
    3] Le osservazioni proposte nelle prossime pagine sono i primi risultati della ricerca condotta per una tesi in sociologia, realizzata in co-tutela all’università di Losanna e all’università di Nantes.
    4] Il servizio, nella nostra prospettiva, è dato dalal dinamica tra I protagonisti dell’incontro volta a produrre, cioè rendere concreta, negoziare e attualizzare ‘l’ufficio’ come dimensione al centro dell’azione. Il servizio d’ufficio è dunque un’unità di osservazione su cui occorre lavorare tenendo in considerazione le interazioni tra utenti e poliziotti.
    5] Nello stesso capitolo, Goffman fa riferimento alla ‘condizione della felicità’, che definisce nell’ambito degli usi della lingua. Sarebbe stimolante riflettere sulla possibile esistenza di una condizione di "felicità visuale", da considerare negli usi sociali della vista e dell'osservazione. L'impiego in ambito scientifico rappresenterebbe una modalità, l'impiego poliziesco ne costituirebbe un'altra.
    6] Con il termine ‘ecologia’ desideriamo esprimere un'economia dell’incontro negli spazi d’ufficio fondata su continuità culturali, sociali e materiali in occasione delle interazioni. L’ufficio in quest'approccio non è più pensato in modo prioritario dal punto di vista della ‘relazione di ufficio’, ma attraverso un’ ‘ecologia dell’ufficio', inteso come l’uso di un tempo e di un luogo dedicato al gioco sociale di visibilità (all’interno dell’ufficio). Cfr Joseph (1998) per una riflessione sugli spazi del luogo francese e Sanchez,(2006) per un esempio di studio riferito ai posti pubblici a Caracas.
    7] Piette (2007) fa riferimento ai principali riflessioni di Malinowski sulla fotografia tratte dal suo ‘Giornale di un Antropologo’.
    8] Cfr. Faccioli, Losacco (2003) e La Rocca (2007) per la distinzione tra sociologia "sulle immagini", cioè orientata verso l'analisi di dati visivi esistenti per trovare indizi nel sociale, e sociologia "con le immagini", caratterizzata dalla messa in atto di uno strumento visualizzatore per l'analisi dei fenomeni sociali.
    9] Cfr. Dobois (1990) per quanto riguarda la visione allargata, pragmatica e performativa dell’ ‘atto-immagine’. Cfr. Edwards (2002) sulla materialità della fotografia etnografica.
    10] In questa sede riutilizziamo per la riflessione sull'atto fotografico la conclusione di Bittner (1990) sullo statuto di poliziotto come compimento pratico.
    11] Becker (1986) afferma che gli strumenti visuali attirano i ricercatori delle scienze umane insoddisfatti dei metodi della loro disciplina. Più recentemente, Prosser (1999) raccomanda da parte sua di sostituire, nel campo della ricerca visuale, la concezione tradizionale della validità basata sui metodi, con una validità contestuale, fondata sull’interazione umana, la riflessività e la rappresentazione.


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