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  • Scritture relazionali autopoietiche
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.5 n.4 Ottobre-Dicembre 2007

    LA POESIA E L’ARTE DELLA MIMESIS


    Ferdinando Testa

    testaferdinando@libero.it
    Psicoterapeuta, psicoanalista junghiano (Centro Italiano di Psicologia Analitica, Catania); è impegnato da anni nel lavoro clinico-riabilitativo con i pazienti psicotici, in strutture socio-sanitarie per la cura e l’inserimento lavorativo; studioso dell’immagine e delle sue implicazioni nel mondo dell’arte e della terapia, è autore di numerosi articoli e relazioni in ambito scientifico; ha curato per Moretti&Vitali i volumi L’Immagine nell’Arte, nella Tradizione, nella Psicologia Archetipica (1997), I Territori del’Alchimia, Jung e oltre (1999), La Psiche e gli archetipi dello Spirito (2003), e per Vivarium ha curato Psicosi e Creatività (2003); è presidente dell’Associazione Culturale “Amici della Collina” che si occupa del pensiero immaginale e archetipico; è stato docente a contratto di Psicologia dinamica presso l’università di Enna; vive e lavora a Catania.

    “Si ama quello che colpisce, e si è colpiti da ciò che non è ordinario.”
    Aristotele

    Vorrei iniziare questo scritto con un passo di Jung che ha accompagnato le mie riflessioni, durante la ricerca dello scrivere, e che si pone come una delle possibili chiavi che il pensiero della psicologia del profondo ha a disposizione per comprendere e parlare della creatività poetica. A tal proposito così si esprimeva Jung:

    “Mentre annotavo le mie fantasie una volta mi chiesi: ‘che cosa sto facendo realmente? Certamente non è nulla che a che fare con la scienza, ma allora che cosa è?’ Al che una voce in me disse: ‘E’ arte’. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: ‘Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute’.

    Con molta enfasi, e decisamente restio, dissi a questa voce che le mie fantasie non avevano nulla a che fare con l’arte. Allora la voce tacque, e io continuai a scrivere. Poi ci fu un altro assalto, e si ripeté la stessa asserzione: - questa è arte. E nuovamente protestai: Non è arte!. Al contrario è natura.

    Mi disponevo ad un ripetuto e contrastante assalto, ma poiché non accadeva nulla, riflettei che la donna in me non possedeva un centro della parola, e così le proposi di servirsi della mia lingua. Accettò la mia proposta e subito espose il suo punto di vista con un lungo discorso.

    Mi interessava straordinariamente il fatto che una donna, dal mio interno dovesse interferire con i miei pensieri. Probabilmente pensavo doveva essere l’anima; è lei che comunica le immagini dell’inconscio alla coscienza e in ciò sta il suo pregio. Per decenni mi sono sempre rivolto all’anima quando ho sentito che il mio comportamento emotivo era turbato o mi sentivo inquieto. Allora voleva dire che c’era qualcosa nell’inconscio e quindi chiedevo all’anima”.

    Il pensiero di Jung rispetto al tema dell’arte (abbastanza contraddittorio e poco attento al clima letterario del suo periodo storico), scaturiva soprattutto da un’esperienza di discesa nel regno di Ade, alla ricerca della comprensione del significato delle sue immagini e degli stati d’animo che rischiavano di travolgerlo dopo la rottura con Freud, alla ricerca della propria individuazione. La possibilità, nonché la capacità di potere trasformare le emozioni in immagini, a mio avviso può esserci d’aiuto nella conoscenza della metafora poetica e del rapporto con Mimesis, che come vedremo oltre è contemporaneamente emozioni ed immagini.

    Mentre il poeta sembra quindi essere inconsciamente in sintonia a stare con la complessità e i paradossi di tali dimensioni (emozioni ed immagini), l’uomo non creativo corre il pericolo di essere inflazionato dalla dimensione archetipica quando vive delle esperienze come quella vissuta da Jung:

    “Dovevo accettare la sorte, e dovevo tuttavia osare, impadronirmi di quelle immagini, poiché altrimenti correvo il rischio che fossero esse a impadronirsi di me: un motivo importante per fare questo tentativo era il convincimento che non avrei potuto attendermi dai miei pazienti una cosa che non avessi osato fare io stesso.”

    E ancora, più oltre, il rapporto tra emozioni ed immaginazione acquista una valenza prospettica e indice di un confronto costante e dialettico che si pone come una delle metafore di base della dimensione poetica:

    “Finchè riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio. Forse avrei anche potuto scrollarmele di dosso, ma in tal caso sarei caduto inesorabilmente in una nevrosi, e alla fine i contenuti mi avrebbero distrutto ugualmente. Il mio esperimento mi insegnò quanto possa essere d’aiuto - da un punto di vista terapeutico - scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni.”

    Mi sono soffermato a lungo su questo scritto perché come psicologo del profondo ritengo che esse rappresentano una possibile trama per comprendere il rapporto tra poesia, anima e mimesis, e di come il costante confronto con le immagini dell’inconscio possa essere causa di ricchezza interiore, accrescimento e ampliamento della coscienza umana, ma possiede anche il pericolo dell’inganno, dell’illusione e di smarrirsi nei meandri della psiche a volte in un viaggio senza ritorno perdendosi nel vuoto della follia. In questo senso, come studioso della psiche umana, ho molto da imparare dai poeti e dalla poesia in quanto, la poesia come il sogno è un antico processo che in maniera immediata ci pone in contatto con la forza della vita e con gli scenari della parola che non è più parola quotidiana, ma metafora che non spiega, ma accenna, non consiglia ma suggerisce, non imita ma somiglia.

    Come un filo di Arianna, l’esperienza di Jung può condurci nel labirinto di Cnosso dove occorre mettersi nella posizione di osservare, guardare, comprendere, non l’imitazione della vita ma la vita stessa nel suo fluire dinamico, nell’alternanza tra essere e divenire. In tale visione Mimesis non è la pura arte dell’imitazione, azione passiva di ‘copia’ di un modello, di un evento o di un sentimento esistente, ma è la forza creativa, archetipico dell’atto generativo, metafora della vita stessa e chiave analogica da cui si diramano le frecce di Eros per riempire il vuoto quando l’umano ha smarrito il contatto col divino o come, junghianamente parlando, l’uomo ha perduto il rapporto con l’Anima.

    Allora, è in questa condizione di depersonalizzazione che l’uomo appare confuso, disorientato, privo di amore per la vita e per se stessi, costellando il tema della giovane Psiche che nella favola di Apuleio si abbandona alle intemperie della vita, quando il giovane daimon eros ha preso il volo. L’Anima, archetipo della vita, non è più fattore teleologico, ma realtà concreta e non psichica; la sofferenza diventa mutatica, priva di parola, avvolta in se stessa, non trasformativa, ma pura e semplice imitazione dell’accadere senza imprimere agli eventi lo sguardo immaginale che aiuta a creare sopportando con meno fatica l’ombra della distruzione.

    Il tema della creatività e la capacità del poeta di attingere al mondo della natura e alla dimensione del corpo per fare risuonare le corde dell’anima, permette di concepire Mimesis in stretta relazione e connessione con Eros, dando consistenza e spessore immaginale alla sua vera funzione che è quello di generare nel bello, così come ben avevano compreso i Greci:

    «All’origine di Mimesis c’è, per i Greci, il ricreare versi di animali, rombi di tuoni, suoni e gesti umani, con voce, danza, espressione e dramma teatrali, tradurre esperienze sinestetiche, trasportarle e trasformarle con linguaggi mimetici per riunirli: il poeta trova melodia e parola da canti di pernici, Atena scopre il nomos policefalo dal pianto di Euriale, il cantare delle Deliadi è mimema di voci umane intellegibili».

    La parola poetica affonda le sue radici nella Mimesis, si nutre del già conosciuto e della dimensione personale ma si pone come ricerca dell’archetipo della vita: il suono; vibrazione sonora che squarcia il velo della natura e permette alla nascita/morte di fare il suo ingresso sulla scena dell’esistenza umana. È in questo mitema che il poeta fa la sua comparsa e si serve della metafora come utensile per scavare e penetrare nel sottosuolo dell’anima e guardare (regarder, sporgersi davanti, come quando ci si affaccia dal davanzale di una finestra), sporgersi avanti e permettere la visione dell’invisibile che ha bisogno di uno sguardo particolare per essere visto.

    E’ la metafora che permette dal punto di vista linguistico di recuperare il senso della tradizione e di immettersi in una visione dove il cosmo è pervaso da una Anima mundi basata sulla legge delle analogie e della similitudine, creando quella condizione di ‘partecipation mistiquè’ indispensabile per penetrare i misteri egli enigmi della poesia. Come occorre sottolineare che è la metafora l’elemento comune al pensiero della follia, vera trappola dove in tale condizione la parola è delirio e prigioniera dell’intuizione ermetica inflazionata dall’idea dell’essere separato dal divenire.

    Aristotele, nella Poetica, a proposito della metafora, così si esprime: «La cosa più importante di tutte è essere capace di metafore: questa è l’unica cosa che non si può prendere da altri ed è segno di talento, fare bene metafore è vedere il simile». E più oltre ancora: «Il poietis deve comporre le trame e dare loro forma con la parola mettendosi il più vicino davanti agli occhi: così, vedendo nel modo più vivido come trovandosi nel nesso dei fatti, può trovare ciò che conviene».

    Il tema del vedere rappresenta un fondamento nell’arte poetica; qui non si tratta di letteralizzare gli eventi che accadono ma vedere con gli occhi di Mimesis significa guardare ciò che accade e quello che ci circonda intendendolo nella prospettiva dell’Anima, ovvero dare corpo e sostanza all’immaginazione, pensando quest’ultima come attività creatrice dello spirito e processo dinamico che spinge a cogliere la verticalità della narrazione come possibilità che l’uomo ha a disposizione per ricomporre, non in una fantasia nostalgica, l’unità perduta, accettando le contraddizioni dell’esistenza, fatta di vita/morte per tentare di avvicinarsi e cogliere le somiglianze con l’atto creativo. Intesa in tale senso il rapporto tra poesia e Mimesis è simile a quello esistente tra sogno e realtà dove il sogno non è riproduzione o fotocopia di quello che accade, quanto piuttosto è artifex di un atto autentico che crea ed anticipa quello che non esiste ancora, il non progettato, lo sconosciuto , quello che deve avvenire; ed in questo senso possiamo concordare con il poeta russo Maikoschi che “il poeta anticipa il futuro”.

    In tale contesto esiste un rapporto stretto, fatto di analogie, similitudini e metafore, tra mimes e immaginazione, dal momento l’immaginazione risulta un processo che ha nella dinamicità una delle sue caratteristiche principali, trasformando e metabolizzando gli eventi che accadono con modalità e stili di approccio che sfuggono alla dimensione razionale ma che si avvicinano a quelle aree del sapere basata sulla amplificazione analogica, i miti , le fiabe, la visione, il sogno, ovvero al magma fluido dell’inconscio collettivo dove attingono i poeti: «radice di mimesis e imitazione è la stessa di immagine e immaginazione, mei, riferita a ‘tutto ciò che di mutevole e intermittente seduce l’attenzione’: al cangiante, vibrante, ipnotizzante, magico, astuto, ingannevole, alludono il sanscrito mâyâ, l’antico alto tedesco mein, con richiamo al brillio della luce (latino, micare), al pulsare del suono».

    L’attività immaginativa, come ben testimoniano le parole e l’esperienza di Jung, si interseca con la disponibilità a farsi trasportare nella riverie di Bachelard, dove il silenzio diventa una pausa nella narrazione verticale; l’immaginazione preferisce solcare i sentieri e le orme della ‘valle del fare Anima’ (Keats), dove l’errare e il vedere conducono il poeta ad esprimere le emozioni archetipiche in immagini che hanno somiglianze con l’antico suono e la bellezza sulfurea di Afrodite: è un vedere che immagina il sapore del gusto, il profumo dell’olfatto, il tocco della pelle, l’armonia dell’udito, arrivando ad una visione dell’estetica nella sua etimologia di aistesis, come percezione attraverso i sensi, dove il corpo non viene relegato nei meandri del basso, dell’inferiore, ma partecipa al coinvolgimento emotivo che eccita le fantasie e le immagini dell’Anima.

    In questo senso mimes è legata all’ ‘immaginato’ e non all’ ‘imitatio’, poiché è azione sospensiva e riflessiva; è creazione del daimon, ovvero di uno spazio riflessivo dove Eros può trovare dimora prima di passare all’azione, per congiungere ciò che l’irrazionale si accinge a prospettare. Il silenzio che fluisce da Mimesis partecipa al ritmo della psiche lasciando spazio al suono che precede la presenza dell’estraneo, dello straniero; accoglie nel proprio spazio le pause della vita e permette di respirare con la totalità dei sensi. La parola nella poesia di Lucio Piccolo è suono, ricerca raffinata delle vibrazione che accompagnano i versi all’incontro con aistesis per cogliere la totalità dell’essenza umana.

    In questo senso Mimesis è ricreazione, processo complesso e completo per riunire e rinvenire ciò che è stato spezzato, dando entusiasmo e tristezza all’agire umano che cerca costantemente di cogliere la scintilla del divino che si esprime nell’incanto della natura e nella gioia del piacere estetico.

    Se con H. Corbin le immagini allargano il cuore e con Hillman è il cuore la sede dell’immaginazione, il poeta vede in modo diverso dal momento che moltissimi sono i modi del vedere e la mutevolezza di questo atto dipende esattamente dall’infinità degli occhi che vedono, dai momenti a cui partecipa la visione delle relazioni e dagli stili in cui vedono: il poeta pertanto permette di far vedere con l’udito ed immaginare con il cuore agli altri ciò che lui ha potuto vedere.

    La sua funzione opera, inoltre, nel regno apparentemente anonimo, elidendo la sua unicità e individualità poiché in quel momento è strumento di espressione del transpersonale, del non umano: «l’artista da un lato è un essere umano, personale, dall’altro un processo umano, ma impersonale… In quanto artista, egli non è né autoerotico, né eteroerotico, né genericamente erotico, ma eminentemente impersonale, addirittura inumano, sovrumano, poiché come artista egli è la sua opera, e non un uomo» (Jung).

    La metafora sonora

    “Si ama quello che colpisce, e si è colpiti da ciò che non è ordinario” (Aristotele). Questa espressione messa come citazione di tale scritto, ci conduce nel cuore di Mimesis e nell’arte poetica in quanto quest’ultima risveglia le emozioni addormentate dentro di noi e nell’Anima Mundi e il poeta fa ciò in una maniera del tutto particolare, a mio avviso unica nella fenomenologia dell’arte: collegando, con la parola metafora, la voce con l’immagine, attraverso un processo non logico che riprende le tinture del colore, inteso quest’ultimo come espressione delle diverse tonalità di cui è dipinta l’Anima umana.

    Di fronte ad una poesia, la parola è metafora sonora che crea sinapsi, con l’immagine eccitata da suoni piuttosto che da scene visive guardate e presenti agli occhi, da personaggi, racconti allegorici, nature morte o abbracci di klimtiana memoria. Niente di tutto questo! L’ascoltatore, lasciato da solo di fronte ad un testo dove poche parole hanno macchiato col nero la purezza e la verginità del bianco, deve immaginare e lasciarsi penetrare dalle metafore che autonomamente (quasi come un complesso autonomo) si incuneano negli spazi grammaticali o in una punteggiatura simbolica.

    Il foglio scritto non è solo più foglio; la parola lasciata come una foglia d’autunno si allontana dalla sua materia ed è simbolo di altro che ha bisogno dell’immaginazione per dare forma ed espressione a ciò che l’anima umana partorisce nell’incontro; perchè la poesia è incontro tra l’impersonale e il personale e l’immaginazione nutre tutto ciò col fuoco della passione e dell’amore per il non progettato, il non ancora creato, per tutto ciò che deve avvenire e si deve individuare. Qui di fronte al foglio o al suono di una poesia, l’udito, antico organo filogenetico, viene risvegliato dal ricordo della memoria e l’invisibile, sorretto dal rumore dell’impalpabile, trova una propria forma e concretezza nell’immagine che scaturisce dall’emozione, che trasferisce, passa, trasgredisce e crea: «Fare mimesis è piacere di alterare (ex-allatein), traslare (methaferein), de-lirare, de-generare, per amore, e poi riannodare con nodo stretto, con l’enigma della metafora, che è di bellezza sinestetica, fa che le orecchie vedano cose, e le immagini mandino profumo, cioè essenza».

    In questa trama, ben si intuisce come il poeta lambisce più di ogni altro artista i confini permeabili della razionalità, dell’essere umano della certezza, per sfiorare, perforare, oltrepassare la parola condivisa per entrare nella parola folle, quest’ultima intesa in una accezione psicologica e non psicopatologica, assaporandone il fascino, il brivido della paura, l’inganno delle illusioni e delle verità apparenti e nascoste. Il poeta che vive nella creazione dell’atto poetico nell’humus simile a quello della follia rientra nel suono condiviso, piuttosto che smarrirsi nell’universo simbolico in cui la parola diventa unicamente metafora, atrofizzando in maniera delirante il gioco simbolico dell’entrare e dell’uscire, come invece accade purtroppo in ambito psicotico. In questa condizione di metafore sonore, il poeta viandante ama avventurarsi nella foresta delle emozioni e dei simboli, per farsi spazio nel mondo e fare spazio alle immagini che scaturiscono dalle parole, messe con amore e sofferenza, le une accanto alle altre. Ma il poeta non ama solo la libertà.

    Mimes, ci ricorda che il poeta ama anche la trasformazione dei luoghi di cui la psiche umana è prigioniera del proprio destino e a volte impossibilita a scegliere, spinta dalle forze archetipiche dei demoni che sono diventati malattie. Allora il destino del poeta, penetrando nella foresta, è quello di farsi amico dell’inquietante, dell’estraneo e del perturbante, a tutto ciò che non appartiene al familiare, pur smarrendosi nell’incertezza può trovare con la creazione poetica il filo di Arianna per ri-venire, ritornare nel mondo di qua piuttosto che rimanere catturato negli specchi illusori delle proprie immagini e quelle archetipiche, come invece accade nella storia dello psicotico.

    Nell’aforisma di Simonide la «pittura è poesia muta e poesia è pittura sonora» (Plutarco), l’occhio si posa sul suono e non sul racconto e l’emozione acquista una pregnanza ancora più antica, permeata dalla capacità di creare immagini nella propria mente non filtrate e aiutate da uno stimolo visivo esterno; qui l’orecchio si collega direttamente al cuore e spinge l’ascoltatore a creare, fabbricare, generare (piuttosto che imitare ciò che esiste) altro, diverso da ciò che è visibile, e che non appare ancora sullo scenario dell’incontro con la poesia.

    Mimesis è l’altro sguardo di poiesis, epistrofè che tenta di ritornare con l’Anima al divino, alla bellezza di Eros, daimon di pieno/vuoto, costantemente alla ricerca per scagliare le proprie frecce e ingannare con le astuzie i cuori, le passioni degli uomini, infiammare le relazioni e le trame degli eventi, erotizzare la sofferenza e patologizzare l’amore poiché con Rilke “la bellezza non è niente altro che l’inizio del terrore”. Mimes come Eros parla all’anima irrazionale, illogica, ama gli inganni, spalanca le porte all’emozione e si nutre dei brividi della paura, è contraddittoria, mutevole, fa ridere ed espone la coscienza alla sua sfrontata falsità; è ritratto della vita, così come Eros nacque da un inganno di Penia verso Paros; uno sguardo verso i paradossi, le ombre e le luci che si stagliano come in un dipinto del Caravaggio.

    Apollo, Ermes, la poesia

    Si racconta che i due fratelli, Apollo ed Hermes, rappresentavano nella loro vita l’emblema degli opposti, l’unione e la compresenza di distanze contrarie, di immagini ambivalenti, dissimili, eppure unite forse solo dalla poesia. Ancora una volta ricorrere al mito, alle origini è il richiamo di Mimesis, non come semplice ritorno al passato, all’infanzia di sapore freudiano ma riscoprire l’infanzia mitica dei due fratelli, della loro nascita, dei doni, e dei giochi costruiti come la cetra con le sue corde melodiose da cui scaturiva la gioia e l’incanto. Forse questo può essere una tela dove si può collocare la poesia, su uno sfondo mitologico.

    Apollo
    Nacque in maniera solare, all’aperto e con un balzo luminoso, accompagnato dalla sua cetra, suonava armonie melodiose che sconfiggevano i mostri sotterranei e le ombre terrificanti che fecondavano la notte dei Greci. La luce di Apollo è una strana luce: eccessiva, ridondante, quasi accecante, che portava ovunque solarità, chiarezza e verità e come una freccia partita da un arco teso fendeva e perforava le immagini oscure della Psiche dei Greci lasciando dietro di sé la presenza della morte, quasi che la troppa luce assomigli in fondo al suo opposto, il buio della notte:

    «Apollo era il grande dio, la figura nobile e tragica; col suo arco cetra stava lontano dagli uomini; sopra una montagna o nella distanza invalicabile della mente profetica. Sapeva che gli uomini erano piccoli, simili a foglie; appena il sogno di un’ombra (Pindaro) e per questo imponeva loro dei limiti e castigava la loro hybris. Quando scendeva tra gli uomini suscitava sgomento e stupore, spavento e venerazione; chiaro, puro, semplice: come sembra la luce; era veritiero, ignorava la menzogna; tutto ciò che nella mente è formato ed armonico apparteneva al suo regno».

    Ermes
    Il fratello aveva a che fare invece con sotterranei della terra, luoghi chiusi, caverne solitarie, ombrose e nascoste.

    Amante e signore della notte, quando camminava per le strade, il silenzio calava e le ombre dell’umanità prendevano possesso degli spazi geografici sempre più deserti e nascosti, mentre gli uomini erano catturati dal sonno profondo. Ermes era invisibilmente presente ed uno dei suoi compiti era quello di andare oltre, attraversare, trasferire, condurre le anime dei morti. Ma anche lui era portatore di luce, nonostante ciò non era chiaro dell’inizio:

    «La vera luce di Ermes era quella degli occhi: la fiamma dei suoi sguardi era così mobile e vivace e il lampo delle pupille così simile allo scintillio luminoso, che doveva abbassare gli occhi per non rivelare i propri pensieri. La sua era la luce brillante e insidiosa, astuta e ombrosa, complicata, sfuggente ed ironica che si nasconde nel cuore delle miti notti ermetiche, e che non ha nulla in comune con quella violenta ed accecante di Apollo. Aveva una passione insostenibile per tutto ciò che era losco, osceno, scurrile, ambiguo: e ci insegnò che il più infimo gesto della vita può avere la stessa grazia insinuante del gesto superiore».

    Quanta distanza, in queste due figure mitiche; contraddizioni, ambivalenze, oscurità e luce, notte e giorno, chiuso e aperto. Eppure Apollo ed Ermes avevano spinto le immagini dei greci a trovare nell’arte della poesia il simbolo della loro unione, ponendosi questa come una sorta di vaso alchemico che raccoglie ciò che apparentemente è così dissimile e distante; ma la psicologia del profondo ci ha fatto comprendere che il bianco e il nero, la superficie e la profondità appartengono alla stessa matrice comune, quella simbolica dove c’è l’una, la luce, è presente anche l’altra, l’ombra, e viceversa.

    Il poeta allora immaginando Apollo, diventa un arciere e le sue parole frecce che partono da lontano e non sbagliano mai la meta: colpire con precisione, esattezza ed armonia la meta quasi che un ordine lineare ed una architettura priva di trasgressione fosse alla base del messaggio da portare. E il messaggio che Apollo porta è la gioia, simile al piacere dell’incontro, del cibo, dell’amore che coinvolge il corpo ed il cuore, quasi che la gioia come una danza riempisse l’Anima umano e per un attimo le permettesse di cogliere la bellezza e l’eternità della vita. Ma la gioia della freccia ha sempre come compagna l’ombra del dolore, della sofferenza, della morte, così come traspare in ogni verso di Omero, di Pindaro ed Eschilo. Ancora una volta ritornare alla solarità della poesia apollinea, ci conduce aduna delle molteplici funzioni ed immagini di Mimes, centro motore dell’archetipo dell’esistenza: vita e morte.

    Se con Apollo il dardo colpisce e lascia spazio alla tragedia della fine, in Ermes quello che colpisce e conduce alla profondità è l’incanto, una suggestione senza fine avvolta nel manto delle ombre melodiose costellate dall’inganno, la seduzione, la quiete, la magia, il sonno, la possessione, l’oblio, la morte. Tanto è vero che i Greci avevano personificato tutta questa trama ermetica nella figura delle sirene, capaci di sedurre, incantare ed ammaliare fino a portare ad una perdita di se stessi, uno smarrimento e un vagare nell’universo della notte e delle ombre di Ade, dove la parola del racconto e dell’ascolto conduceva ad una morte accompagnata dall’angoscia di perdersi in un nulla melodioso e affascinante.

    Alla poesia ermetica aveva resistito Ulisse, imponendo ai suoi compagni di farsi legare al palo (la solidità della Terra) ma conservando la funzione dello sguardo e dell’udito, metafore basilari della poesia, invitando a rifletterci che di fronte alla magia dell’Eros dobbiamo essere ben legati, ovvero aveva un intenso legame con noi stessi per sopportare i misteri della poesia (ma qui direi della vita) per non essere catturati dalla follia, perché in fondo la follia è una morte che non finisce mai.

    Solo in questo modo Ulisse una volta fattosi legare e avendo visto e udito ha potuto, seguendo le trame degli dei, ritornare a casa, ad Itaca, e dare spazio reale e sostanzioso al nostos, al desiderio di ritorno nel luogo delle sue radici, origini, per assaporare la gioia della poesia apollinea caratterizzato dal racconto, dalla memoria, agli altri della dimensione ermetica ed esoterica che aveva vissuto e fatto esperienza durante i suoi viaggi, che aveva potuto recitare a Penelope proprio perchè sorretto dal legame con Ananke, la necessità di avere l’umano un rapporto con la dimensione archetipica.

    “Ecco il poeta caro ad Apollo, nutrito di luce assoluta e di tenebra assoluta, di gioia e di morte: ama la tragedia, la forma pura, la nobiltà dello stile, la distanza della mente, la verità nuda o velata, e l’armonia. Ed ecco il poeta di Ermes: questo piccolo demone notturno, dalla mente molteplice, colorata e scintillante, che predilige la commedia, le menzogne, i sogni, il caso, Eros, la tenerezza e la leggerezza e può soccombere o farci soccombere ad un incanto melodico più terribile di ogni morte. La letteratura è fatta quasi soltanto di questo. Non c’è che Apollo ed Ermes: Ermes ed Apollo, la loro tensione, il loro colloquio e qualche volta il loro profondissimo incontro”.


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