• Home
  • Revue M@gm@
  • Cahiers M@gm@
  • Portail Analyse Qualitative
  • Forum Analyse Qualitative
  • Advertising
  • Accès Réservé


  • Écritures relationnelles autopoïétiques
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
    M@gm@ vol.5 n.4 Octobre-Décembre 2007

    ASCOLTARE E SCRIVERE SE STESSI



    Antonio Zulato

    antoniozulato@libero.it
    Insegnante di Filosofia e membro del Comitato Scientifico del L.E.D. (Laboratorio di Educazione al Dialogo) di Trento; Esperto in Metodologie Autobiografiche (Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari).

    “Conosci te stesso”, stava scritto sul frontone del tempio di Delfi già cinquecento anni avanti Cristo, e questo è, forse, ciò che ognuno di noi, in definitiva, cerca lungo il cammino della sua vita. E allora dobbiamo entrare in noi stessi con profondo desiderio di scoprire la nostra storia, perché in essa è nascosto il rapporto con il nostro passato, le nostre possibilità future e quindi il senso di ciò che siamo.

    La scrittura autobiografica può rappresentare uno strumento straordinario e privilegiato per percorrere questa strada con modalità rispettose delle nostre esperienze e attente a coglierne i significati. Il “contenimento” naturale della scrittura che dà forma ai nostri pensieri, alle nostre emozioni e ai nostri sentimenti ci permette di guardare al vissuto della nostra vita con la garanzia di non diventare schiavi dei nostri ricordi, ma, al contrario, con la fiducia di poterci ricollocare, senza timore, in noi stessi.

    Ma cosa significa “ricollocarci in noi stessi”? Significa scoprire la possibile adeguatezza delle nostre esperienze alla nostra vita, cioè leggere nell’apparente discontinuità dei fatti che ci sono accaduti il filo che li lega. E constatando che niente ci è estraneo od è estraneo alla nostra profonda dimensione umana, cogliere l’opportunità di una riconciliazione con ciò che spesso ci tiene fermi al nostro passato e ci impedisce di cogliere il “nuovo” che il futuro può contenere.

    Scrivere significa dare forza e vigore alla parola che descrive la memoria di ciò che siamo; e così ad ogni cosa che ci appartiene viene dato “peso”, ogni cosa viene “onorata” (ricordo che in latino “peso” si dice onus).

    Ma c’è di più; non si tratta solo di una sovrabbondanza di valore… bensì di “sacralità”.

    “Non ti sei mai chiesto - dice Mnemòsine (la Memoria) a Esiodo in una pagina dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese - perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di avere già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?”.
    “Tu stessa lo dici - risponde Esiodo -. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello”.
    “Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi?” - ribatte Mnemòsine -.
    Ed Esiodo: “Posso pensarla sì”.
    “Dunque sai come vivo.” - conclude Mnemòsine.
    “Io ti credo, Melete, - confessa Esiodo - perché tutto tu porti negli occhi.”

    Dunque, nel ricordo gli attimi diventano modelli che non hanno più un “prima” e un “dopo”, perchè sono eterni. Nell’autobiografia, che è la nostra vita “nella memoria”, l’esistenza è una durata percorsa da un susseguirsi di modelli eterni che, simili ad archetipi mitici, fondativi, le conferiscono “sacralità” e significato; per cui tutto diventa “degno” … anche se “terribile”. Proprio per il fatto che gli uomini, nel ricordo, possono vivere il passato come “modello eterno”, tipico degli Dèi, essi conoscono e portano in sé il “divino”.

    Melete, la chiama Esiodo: ciò che caratterizza la Memoria, la sua essenza, sta nel posare il suo sguardo sulle cose, sui frammenti del nostro passato, con ‘cura’ e ‘sollecitudine’ - questo è il significato di ‘Melete’ -, e quindi con responsabilità, rispetto … e desiderio. E ricordare gli istanti della propria vita con desiderio è più importante che ripeterli.

    “Ma gli istanti mortali non sono una vita - dice, infatti, Esiodo -. Se io volessi ripeterli perderebbero il fiore. Torna sempre il fastidio.” “Eppure hai detto che quell’attimo è un ricordo - ribadisce Mnemòsine -. E cos’altro è il ricordo se non passione ripetuta? Capiscimi bene.”
    “Che cosa vuoi dire?”.
    “Voglio dire che tu sai cos’è vita immortale.”
    “Quando parlo con te - ammette Esiodo - mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre.”

    L’uomo, dunque, se vive la memoria del ricordo, conosce cos’è vita immortale, anche se non la vive … ed è noto quanto la conoscenza sia strettamente legata all’amore, causa della presenza in noi di un incolmabile desiderio di infinito.

    Nella memoria l’ “inizio” si fa “presente”, e ciò che è definito da un suo nome resta per sempre. E così, una cosa detta nell’autobiografia, resta per sempre, ma non perché sta in una pagina scritta, bensì perché fondativo di qualcosa che non cessa più di avere effetti; l’autobiografia ci conduce a prendere consapevolezza di quel valore fondativo.

    “Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.” - Dice Mnemòsine.
    “Non è difficile saperlo. Toccarle è difficile.” - Risponde Esiodo.
    “Bisogna vivere per loro, Esiodo - ricorda Mnemòsine -. Questo vuol dire, il cuore puro.”

    Bisogna vivere per ciò che in noi è fondativo: il che vuol dire che, se ogni nostra esperienza diventa ricordo cosciente, possiamo scoprire valori altri e inediti della vita, possiamo viverne l’aspetto immortale, il modello.

    Parlare della propria vita attraverso il richiamo del ricordo significa dare voce alle origini che ci hanno formato, e questo dà alla nostra vita una dimensione divina, la rende sacra senza eliminare i suoi aspetti terribili.

    L’autobiografia, dunque, ordinando i ricordi e fermandoli nei loro “modelli”, porta allo scoperto l’origine, cioè il luogo in cui si annida la sacralità della “propria” vita individuale … ne rende patente, di conseguenza, la dignità, anche nelle situazioni in cui essa sembra mancare.

    “Non capisci - insiste Mnemòsine - che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.”

    Questo ci dice Mnemòsine; a questa “terribile” consapevolezza ci porta l’autobiografia, opera e voce di Mnemòsine; “terribile” per la grandezza e il valore di ogni nostra esperienza … “terribile” per la responsabilità che ciò comporta.

    “Tu parli, Melete, e non posso resisterti. Bastasse almeno venerarti” - continua Esiodo.
    E Mnemosine: “C’è un altro modo, mio caro.”
    “E quale?” - chiede Esiodo.
    “Prova a dire ai mortali queste cose che sai.” - Conclude Mnemòsine.

    Non è sufficiente, dunque, venerare la memoria; è un dovere morale far conoscere agli uomini quello che essa ci rivela e cioè che il sacro e il divino ci accompagnano sempre; e questo è testimoniato dal fatto - come è stato detto più sopra - che gli uomini possono intuire la vita degli Dèi pur non vivendola.

    Anch’io, come dice Mnemòsine, ho vissuto il valore eterno di uno sguardo e di un sorriso incontrati occasionalmente per strada … e l’ho raccontato; per questo quando ho incontrato Pavese sono rimasto particolarmente colpito.

    Ho sperimentato che raccontarsi significa scoprire come “fondative” cose che prima ritenevo banali e prive di valore. Ho scoperto l’importanza di mettersi in ascolto di sé per prendersi cura della propria vita … e il nome di Melete, dato da Esiodo a Mnemòsine lo conferma; per posare lo sguardo sulla propria vita con sollecitudine, rispetto, responsabilità e … desiderio: non si può iniziare a scrivere l’autobiografia se non si entra nel ricordo con desiderio.

    In base alle riflessioni fatte sono tentato di dire che scrivere l’autobiografia significa fare dono alla propria vita di una dimora dove sia “degno” ciò che accade, tutto ciò che accade, anche quello che nell’accezione comune viene definito negativo. “Degno”, anche questo, perché comunque significativo per la nostra vita; nel ricordo, infatti, ogni “fatto” diventa sacro e carico di senso perché lo scopriamo fondativo di qualcosa che ci caratterizza e ci ha dato forma. E quella dimora, alla fine, la sentiamo talmente sicura che possiamo lasciare le porte aperte … per avventurarci fuori col nostro bagaglio di “dignità” … per lasciare entrare gli altri senza sospetto, certi che, entrando, parteciperanno a quella “dignità”.

    Scrivere di sé aiuta a ritrovare il bandolo della matassa della propria vita nei momenti di smarrimento, nei momenti in cui si sente il bisogno di fare un bilancio, di rivedere criticamente ma con benevolenza la propria vita; le colpe, i rimorsi, i rimpianti possono rappresentare altrettanti macigni posti sulle spalle del presente e del futuro e ne impediscono lo sviluppo. Riaprire il passato con la “distanza”che il tempo ha comunque frapposto e rivisitare il tutto alla luce delle nostre conquiste successive, significa offrire la possibilità di cambiarne il senso, permettere un nuovo inizio e rischiarare le mete del futuro. La condizione che può innanzitutto facilitare la scrittura di sé è il desiderio di chiarezza, di riferimenti essenziali intorno ai quali ricostruire il proprio vissuto.

    L’autobiografia aiuta la ricerca del “lungo termine”, di cui siamo assetati per il fatto che permette di cogliere la non accidentalità delle nostre esperienze, proiettandole al di là di se stesse fino a legarsi alle precedenti e alle successive in un ‘continuum unicum’; troviamo in esse fini e prospettive che durano più ed oltre esse. Essa può far diventare ogni “fatto” un “evento” nel momento in cui nel richiamarlo alla memoria lo mettiamo in relazione con tutto ciò che esso non è stato; solo in questa dimensione, infatti, può ritrovare la sua vera dimensione e prospettiva anche se non sono più possibili altre alternative. E la coscienza della transizione da un evento all’altro ci fa fare l’esperienza della “durata”. Così nel racconto autobiografico possiamo scoprire come la continuità e la reiterazione delle nostre molteplici esperienze, pur nella loro unicità, cioè nella irripetibilità del loro valore in quel momento, si muovano verso una “totalizzazione” che diventa il loro contesto di senso.

    La vita moderna ci costringe a correre e a riempire sempre di più il tempo; ma noi sentiamo che andare svelti non ci basta, non ci appaga; sentiamo il bisogno di riconquistare i nostri diritti sul tempo, di distenderci in esso per contemplare la vita intorno a noi. Sentiamo la necessità di stare in colloquio con noi stessi, spingendo lo sguardo fino al fondo del nostro essere, la necessità, cioè, di riflettere senza che sia necessario precisare lo scopo di queste riflessioni. Perché solo non precisandone lo scopo e le aspettative, causa di tante frustrazioni, può emergere l’imprevisto, l’indefinito, l’inedito, il misterioso, l’assolutamente nuovo che può dare una svolta decisiva alla vita. Ricordare, allora, significa imparare a vivere attingendo liberamente e spontaneamente nel tempo senza i condizionamenti che le nostre esperienze hanno sopportato nel momento in cui le abbiamo vissute a causa dell’esigenza di soluzioni immediate e delle relative emozioni che le accompagnavano. Il ricordo anima, ora, di nuova vita il vissuto di allora. L’autobiografia, così, ci consente di conoscere la imperfetta perfezione della nostra vita, di riconciliarci con essa in quanto “perfetta” in quel che è stata, e di restarvi fedeli in quanto “fondata”.

    Termino con Erri De Luca, là dove dice che fa parte della dimensione umana “la fatica dell’imperfezione che trascina il carico in salita, fallisce, riprova, affanna nell’impossibile obbedienza (alla perfezione) e, senza raggiungerla mai, intanto si migliora. Non gli è imposto di esaurire il compito, ma non deve sottrarsi all’accanimento di tentare”. La scrittura autobiografica si inserisce in questo tentativo.
    “Tutti abbiamo una biografia, e anche una matita” - dice M. Schneider.


    Collection Cahiers M@GM@


    Volumes publiés

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com