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  • Comunità e relazioni sociali su internet
    Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (a cura di)

    M@gm@ vol.4 n.1 Gennaio-Marzo 2006

    IL SETTARISMO NELLA SOCIETÀ DELL'INFORMAZIONE


    Oscar Ricci

    or298@nyu.edu
    Dottorato di ricerca Qua_si, Università di Milano Bicocca.

    I. Comunità e società

    In un mondo che si vuole sempre più globalmente interconnesso, sorgono da più parti istanze che rivendicano una legittimazione a separarsi dal resto del pianeta. Questo è ciò che Paper intende indagare: la genesi teorica e pratica dello stare assieme settario, distinguendolo da quello comunitario e da quello societario.

    Il dibattito su Comunità e Società prende obbligatoriamente le mosse dall’opera classica di Ferdinand Tönnies. Per Tönnies (1963) la Comunità si distingue dalla Società per una forma di socialità prevalentemente affettiva, basata su relazioni di tipo parentale e prossemico, alle quali si contrappongono le relazioni contrattualiste e razionalizzate tipiche della società. Con il concetto di razionalizzazione Max Weber ha introdotto nelle scienze sociali l’idea che lo stare assieme contemporaneo sia sempre più assimilabile ad un modo societario piuttosto che comunitario; burocratizzazione e spersonalizzazione dei rapporti sarebbero la norma nella “gabbia d’acciaio della modernità”. A questa visione si contrappone chi vede nella diffusione dei mass media elettronici una fonte di retribalizzazione del moderno, un ritorno ad uno stare assieme comunitario.

    Sono soprattutto i lavori di Marshall McLuhan ad aprire questo filone di studi. Per lo studioso canadese, infatti, l’introduzione dei media elettronici chiude definitivamente l’era dell’uomo tipografico, nata con l’invenzione della stampa a caratteri mobili:

    “L’uomo è trasformato in tribù dai media elettrici (...) L’uso dei media elettronici costituisce un punto di rottura tra l’uomo Gutenberg frammentato e l’uomo integrale, proprio come l’alfabetismo fonetico fu un punto di rottura tra l’uomo orale-tribale e l’uomo visuale. Infatti, oggi possiamo voltar lo sguardo indietro a 3000 anni di visualizzazione, atomizzazione e meccanizzazione, riconoscendo alla fine l’età meccanica come un interludio tra le due grandi ere organiche della cultura” (McLuhan, 1998, pp. 92 e 98).

    Lo studioso contemporaneo che più ha indagato la rinascita di un sentire comunitario è sicuramente Michele Maffesoli, nella cui opera il tema della retribalizzazione costituisce un leitmotiv costante. Lo studioso francese, però, non si concentra esclusivamente sui media, ma delinea lo sviluppo di una società sempre più immaginale - e immaginale è anche lo stile dell’autore - dove i media sono una delle componenti che aiutano a comporre le reti tribali in cui le persone costruirebbero la loro identità:

    “Si potrebbe parlare della rinascita di un Homo religiosus, che non sarebbe se non una variante dell’Homo aesthetichus, vale a dire di un individuo sociale e di una società che non poggiano più su una distinzione dall’altro, e neppure su un contratto razionale che mi lega all’altro, ma su un’empatia che mi rende con l’altro parte benificiaria di un insieme più vasto, contaminato da cima a fondo da idee collettive, emozioni comuni e immagini di ogni genere. È anche questo che io propongo di chiamare mondo “immaginale” (Maffesoli, 1996, p.92).

    Il forte accento sulla componente “immaginale”, se da un lato può essere una delle caratteristiche più apprezzate delle opere di Maffesoli, dall’altra tende ad infastidire non poco studiosi abituati ad avere a che fare con lavori che, epistemologicamente e metodologicamente, hanno, rispettivamente, maggiore tendenza al “reale” e al “dato”.

    Ad ogni modo, anche la presunta rinascita del sentimento comunitario viene guardata con più di un sospetto da autori che vedono in esso non tanto un ritorno al vivere assieme empatico ed emozionale, quanto una chiusura difensiva verso l’esterno da parte di gruppi di persone che vengono spaventate dalla produzione incontrollata di flussi economici e di informazioni tipici della società globalizzata. Chistopher Lash, ad esempio, pensa che la società contemporanea sia contraddistinta da un crescente narcisismo, causato anche dalle nuove tecnologie informatiche. Egli mette in evidenza come:

    “Un esagerato rispetto per la tecnologia possa coesistere con il revival di superstizioni antiche, credenze nella reincarnazione, crescente attenzione per l’occulto e le bizzarre forme di spiritualità che sono comunemente legate al movimento della New Age” [1] (Lash, 1992, p.271).

    Anche Zigmunt Bauman è fortemente critico verso il neo-comunitarismo contemporaneo. Se per Maffesoli, come abbiamo visto prima, l’individuo e la società “non poggiano più su una distinzione dall’altro”, per Bauman:

    “l’attrazione che il sogno comunitario esercita sulla comunità poggia sulla promessa della semplificazione; portata al suo limite logico, semplificazione significa un livello minimo di varietà in un mare di identicità. Questo obiettivo può essere raggiunto soltanto attraverso l’espunzione delle differenze” (Bauman, 2001, p.IX).

    Un sociologo che tiene una prospettiva intermedia tra gli entusiasmi dei tecno-utopisti e l’apocalitticità dei teorici delle globalizzazione incontrollata è Manuel Castells, il quale alla società delle reti ha dedicato una monumentale trilogia. Secondo Castells lo stesso concetto di comunità è fortemente messo in discussione nella società dell’informazione; la comunità, infatti:

    “si basa su valori e sulla relativa stabilità delle sue componenti. Una comunità si definisce mediante i suoi confini. Le reti invece sono prive di confini” (Castells, 2002, p.7).

    Oltre all’introduzione delle nuove tecnologie lo stare insieme comunitario è stato modificato dall’aumento del benessere economico nelle società occidentali. Richard Sennett sostiene che:

    “il benessere aumenta il potere di creare l’isolamento nei contatti comunitari e, allo stesso tempo, apre una strada con la quale gli individui possono facilmente concepire la loro relazione nel sociale in termini di somiglianza piuttosto che di bisogno reciproco” (Sennett, 1999, p.55).

    Che l’agiatezza, la costruzione di posti dove solamente un clima pacifico debba regnare, siano un ostacolo al formarsi delle relazioni comunitarie emerge anche dall’opera narrativa di James Ballard, scrittore inglese che ha notevoli analogie concettuali con l’opera sennettiana:

    “questi ragazzi non si stavano ribellando contro la crudeltà e la ferocia. Tutto il contrario. Quello che non riuscivano più a tollerare era il dispotismo della bontà. Hanno ucciso per liberarsi dalla tirannia dell’amore parentale (...) tutti i ragazzi avevano ormai raggiunto l’età puberale e non ne potevano più della dieta d’amore e comprensione che veniva loro implacabilmente imposta al Pangbourne Village in base a un’idea dei giovani inventata dagli adulti (...) i ragazzi colpiranno ancora? A mio parere da questo momento tutti i personaggi pubblici e le figure parentali sono diventati un loro possibile bersaglio. Il regime indulgente e protettivo instaurato con le migliori intenzioni al Pangbourne Village ed entusiasticamente imitato nei lussuosi complessi residenziali dell’Inghilterra meridionale, nonché nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, ha generato una stirpe di vendicatori, e li ha mandati a sfidare il mondo che li amava” (Ballard, 1993, pp. 63, 69, 109).

    Sia nella visione sennettiana sia in quella ballardiana il sentimento comunitario è dunque visto come una risposta ad una incompletezza antropologica tipica dell’essere umano; quando l’uomo tende a far scomparire l’intrinseca debolezza del suo essere dietro a delle strutture, siano esse economiche, culturali o sociali, il legame comunitario “genuino” rischia di scomparire. Questo processo, che abbiamo ora esaminato in testi sociologici e narrativi, è anche stato analizzato da un punto di vista filosofico:

    [l’uomo] “sente il bisogno di aiuto, ma di quell’aiuto che sarebbe bene gli uomini si scambiassero tra loro, fatti scaltri e maturi dalla consapevolezza della loro comune fragilità. È questa la pietà suprema che la specie può avere di se stessa, riconoscendosi in essa, divenendo per essa migliore. Non carità, ma semplicemente, assolutamente pietà” (Natoli, 1995, pp.13-14).

    Il dibattito sociologico tradizionale sulle comunità si è esteso, grazie a Internet, allo studio delle comunità virtuali, le quali hanno offerto preziosi spunti per analizzare un vecchio fenomeno in un nuovo contesto. In realtà i giudizi sulle comunità virtuali non si discostano più di tanto da quelli su quelle “reali”; anche qui abbiamo gli utopisti, entusiasti o moderati, come Rheingold (1994) o la Turkle (1997), e coloro che guardano il fenomeno con occhio più critico come Maldonado (1997). Spesso i termini del dibattito tra comunità on-line e off-line sono talmente simili che è difficile notare una grossa differenza che intercorre nelle due esperienze comunitarie: l’assenza del corpo fisico nel caso del virtuale.

    “Il limite fondamentale della Comunità Virtuale è infatti l’assenza del corpo nella condivisone dell’esperienza. Se si tiene conto che il corpo è l’eccipiente che fornisce la garanzia giuridica e politica all’identità sociale, è evidente la straordinaria molteplicità di conseguenze che tale assenza determina” (Terzo, in Carbone e Ferri, 1999).

    La teoria sociologica e filosofica [2] ha avuto negli ultimi due decenni una vera e propria “renaissance comunitaria”, soprattutto tra Francia e Italia. I testi di Jan Luc Nancy (1995), Maurice Blanchot (2002), Salvatore Natoli (1995) e Giorgio Agamben (1990) hanno riconfigurato i discorsi sull’esperienza comunitaria agganciandola alle tematiche contemporanee. Nancy, ispirandosi a tematiche heideggeriane, pensa che la comunità preesista all’individuo, che solo all’interno di essa trova la risorsa per la sua, seppur labile, individualizzazione. Per il filosofo francese non esiste nessuna comunità originaria alla quale le nuove forme comunitarie devono guardare; infatti:

    “non esiste per Nancy nessuna comunità perduta da ricostruire: a suo parere, la “comunità perduta” è un mito, è uno degli archetipi costitutivi della cultura occidentale da Omero (il ritorno di Ulisse ad Itaca) al cristianesimo (il trionfo finale della comunità dei fedeli) al marxismo (la comunità dei mezzi di produzione)” (Ferri in Carbone e Ferri, 1999, p.88).

    La nostalgia della comunità farebbe parte di quella “nostalgia dell’assoluto” che Steiner (2000) scorgeva dietro le teorizzazioni del marxismo, della psicanalisi e dello strutturalismo. In realtà però non è detto che ciò che non esiste non possa fungere da fondamento: già Frank faceva notare che:

    “l’età dell’oro ha certo il difetto di non esistere: ma appunto per questo essa ha anche il pregio di non arrugginire nel corso della storia” (Frank, 1982, p.192).

    Avendo ora brevemente ricostruito il dibattito intorno ai concetti di comunità e società possiamo addentrarci nell’analisi di quella forma di stare assieme su cui sarà incentrato l’articolo: l’esperienza settaria.

    II. L’esperienza settaria

    La prima definizione di setta che prendiamo in considerazione è quella di Max Weber, che in “Economia e società” definisce come:

    “una comunità che nel suo senso e nella sua essenza deve necessariamente rinunciare all’universalità, e fondarsi necessariamente su una stipulazione del tutto libera dei suoi membri. Essa deve far ciò perché è una formazione aristocratica (…) Almeno nel suo tipo più puro, essa rifiuta la grazia istituzionale e il carisma d’ufficio” (Weber, 1968, p533).

    Vediamo qui messe in luce due caratteristiche fondamentali dell’esperienza settaria: il suo carattere volontario (in contrapposizione con quello delle chiese che generalmente è ascritto) e la rinuncia all’universalismo. Ma se l’analisi di Weber sulle distinzioni tra la chiesa e la setta rimane rigidamente “avalutativa”, non lo stesso si può dire di quella dedicata allo stesso argomento da Ernest Troeltsch. Quest’ultimo autore trova che la connotazione negativa che in genere viene applicata all’idea di settarismo rappresenti il punto di vista dominante della chiesa:

    “il tipo chiesa è quello dell’organizzazione prevalentemente conservatrice, relativamente affermatrice del mondo, dominatrice delle masse e quindi per natura universale cioè intesa a comprendere tutto. [la chiesa] mette al proprio servizio lo stato e gli strati dominanti e se li incorpora, affermandosi così elemento costitutivo dell’ordine generale e in parte determinando quest’ultimo con la propria azione in parte consolidandolo, ma diventando così dipendente da quei fattori e dal loro svolgimento” (Troeltsch, 1949, p.466).

    Se la chiesa è la garante dell’ordine costituito la setta diventa una organizzazione con fini politicamente sovversivi, composta prevalentemente da persone provenienti da classi sociali svantaggiate:

    [le sette] “hanno relazioni con gli strati inferiori o almeno con gli elementi sociali che si trovano in contrasto con lo stato e la società, lavorano dal basso e non dall’alto” (Troeltsch, 1949, p.466) [3].

    La struttura settaria tende comunque a cancellare qualsiasi tipo di appartenenza precedente all’ingresso in essa. Fei-Ling Davis mette bene in evidenza questo aspetto quando riporta un verso rituale di una triade cinese:

    “Dinnanzi alla Sala della Lealtà e della Giustizia non vi sono né piccoli né grandi; né il titolato, né il ricco, né il povero qui possono far credere di essere quello che non sono (…) Una volta varcate le porte di Hung, non vi sono più parenti, non vi è più storia. Sono uno straniero, senza genitori, senza fratelli o sorelle, perciò vi prego, d’ora in poi, di essere voi i miei genitori e fratelli” (cit. in Fei-Ling Davis, 1971, pp. 129-130).

    Tuttavia l’escludere l’importanza di status al di fuori del gruppo di riferimento non è una caratteristica esclusiva delle forme settarie; già Simmel faceva notare come ogni forma di socievolezza comportasse questa particolarità:

    “nella socievolezza non deve rientrare ciò che la personalità possiede come importanza oggettiva, quella che ha cioè il suo centro al di fuori della cerchia che esiste in quel momento. Ricchezza e posizione sociale, erudizione e fama, capacità eccezionali e meriti dell’individuo non hanno nessun ruolo nella socievolezza, ma sono tutt’al più una lieve sfumatura di quella immaterialità con cui alla realtà soltanto è permesso insinuarsi in quell’opera d’arte sociale che è la socievolezza” (Simmel, 1997, p.45).

    Anche per Troeltsch, come per Weber, la forma settaria rinuncia all’universalismo; ma nell’analisi del teologo tedesco la rinuncia diventa più marcata, la setta rinuncia anche all’idea di intervenire nel mondo; l’unico atteggiamento che rimane verso le regole e le persone esterne alla setta è quello di:

    “evitarli e lasciarli sussistere come sono accanto a sé o sostituirli con la loro speciale società” (Simmel, 1997, p.45).

    La setta diventa quindi una sorta di isola che tende a formarsi regole morali, estetiche, e sociali diverse dal resto del mondo, e sostituisce la natura tipicamente estensiva della chiesa con uno stare assieme basato su una intenzione dei rapporti tra gli appartenenti della stessa. Troeltsch prosegue precisando che la rinuncia a interessarsi al potere e al mondo viene sostituita da un intensificarsi dell’importanza dei rapporti affettivi, dell’amore e della sensualità:

    “la pura e semplice opposizione al mondo e ai suoi ordinamenti sociali […] crea condizioni particolari per una vita conforme […] all’ideale del comunismo d’amore. L’ideale delle sette non è la repressione della sensualità e del naturale sentimento di sé, bensì una congiunzione d’amore, che vada immune alle lotte e dalle graduazioni del mondo” (Simmel, 1997, p.467).

    Possiamo anche ribaltare questo giudizio pensando che non solo l’amore può essere un tipico contenuto della forma settaria, ma l’amore stesso possa costituire essenzialmente una forma settaria; tuttavia di questo parleremo più approfonditamente nel quinto paragrafo.

    Se l’amore è un’emozione in grado di annullare differenze tra gli individui inducendoli a formare delle comunità estemporanee, duali e non, esso non è tuttavia l’unico stato emozionale che può pervenire a questi risultati. Le comunità emozionali di weberiana memoria, infatti, sono tutte quelle comunità di persone che si formano in seguito a un determinato avvenimento che, producendo uno stato emozionale particolare e comune a tutto il gruppo, tende ad annullare le differenze che nella routine della vita quotidiana le avrebbero tenute distanti:

    “una strada, una conflagrazione, o un incidente di traffico riuniscono persone che non sono definite dal punto di vista della classe sociale. Esse si presentano come raggruppamenti concreti, ma socialmente rimangono astratti” (Benjamin, 1978).

    Resta importante sottolineare la differenza tra la particolare esperienza settaria e la generale adesione a un movimento politico, differenza fondamentale anche, come vedremo in seguito, se rapportata alla situazione politica contemporanea. Il movimento agisce sempre con intenti “positivi” verso l’esterno: esso vuole sempre, con differenti mezzi e gradazioni, migliorare il mondo:

    “i movimenti sociali [hanno] azioni collettive orientate a uno scopo, i cui esiti, sia nella vittoria sia nella sconfitta, inducono una trasformazione dei valori e delle istituzioni della società” (Castells, 2003, p.3).

    La setta invece, come abbiamo già avuto modo di mettere in luce, ha un rapporto con il mondo che oscilla dal disinteresse totale all’aperto conflitto:

    “le sette che negano il mondo sarebbero quelle le cui dottrine enfatizzano il male del mondo moderno (…); esse proclamano che gli uomini devono essere salvati dal mondo (…), tendono a condurre fuori dal mondo i loro adepti, inserendoli in comuni o collettività separate dove si pratica un più puro stile di vita. Le sette indifferenti al mondo tollerano il mondo secolare mentre incoraggiano i loro fedeli a cercare una via migliore e una vita più pura, tentando di essere nel mondo e non del mondo” (Wilson, 1985, p.134).

    Uno dei motivi della separazione [4] dal resto del mondo è di natura tipicamente esistenziale; l’appartenenza a una setta fornisce un bisogno d’ordine che il resto della società tende continuamente a negare:

    [le sette sono composte da] “uomini che di tanto in tanto, nel corso della storia, sembrano voler imporre leggi rigide alla società senza disciplina che non ha potuto soddisfare il loro desiderio di rigore. [Questi uomini,] allontanandosi con disgusto dalla società, andavano a vivere altrove sotto istituzioni più severe” (Caillois, 1983, p.52).

    Nel caso però questa severa autodisciplina venga a mancare, il furore della setta si può liberamente scatenare, senza nessuna remora morale nei confronti delle persone non appartenenti alla setta dato che:

    “l’etica di tali comunità prevede stretti obblighi fra gli adepti e li spinge a considerare il resto degli esseri umani non tanto come uguali nei diritti, quanto materia prima delle proprie imprese” (Caillois, 1983).

    Abbiamo dunque fatto una veloce panoramica sul concetto di setta; resta da vedere se e come l’esperienza settaria possa oggi trovare un fertile terreno per rinascere.
    Le ipotesi reperibili in letteratura sono che la rinascita del settarismo può essere provocata da:
    1) una reazione socio-politica agli esiti spersonalizzanti del processo di globalizzazione;
    2) una reazione antropologico-cognitiva allo sviluppo della tecnica.
    Il secondo punto può essere ulteriormente suddiviso in due aspetti: il settarismo viene favorito da un meccanismo di riduzione di complessità messo in atto dall’uomo per difendersi dall’aumento di disagio cognitivo dovuto anche alla presenza straniante della tecnica, oppure il settarismo viene aiutato dalla nuova frattura cognitiva che si è creata con le tecnologie della comunicazione.

    Per quanto riguarda la prima suddivisione la tecnica viene vista sia come prolungamento del processo di razionalizzazione e sia come uno dei principali fondamenti dello sviluppo del processo stesso. Già Georg Simmel notava che:

    “la macchina è diventata molto più “spirituale” del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina? (…) Come la nostra vita esterna viene invasa da un numero sempre crescente di oggetti il cui spirito oggettivo, lo spirito impiegato nel processo di produzione, neppure lontanamente concepiamo, così la nostra vita interiore e di relazione è riempita da strutture che sono divenute simboliche, strutture nelle quali è cumulato un ampio contenuto intellettuale; ma lo spirito individuale di solito ne utilizza solo una minima parte.(…) Ogni giorno e da ogni parte si accresce il patrimonio della cultura oggettiva, ma lo spirito individuale può accrescere le forme e i contenuti della sua formazione solo con grande ritardo poiché procede con un’accelerazione assai minore” (Simmel, 1984, p.634).

    Lo stesso tema del divario tra cultura oggettiva e spirito individuale è trattato anche da Weber, che, nel passo che segue, ne accentua il carattere tragico-esistenziale:

    “Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio di vita”, perché si trovava nell’ambito della vita organica, perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Un uomo incivilito, invece, coinvolto nel continuo arricchimento della civiltà con idee, conoscenze, problemi, può diventare “stanco”, ma non “sazio” della vita. Egli, infatti, di ciò che la vita dello spirito di nuovo sempre produce, coglie solo una minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo, e quindi la morte per lui è un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale, in quanto appunto con la sua assurda “progressività” fa della morte un assurdo” (Weber, 1971, pp.20-21).

    Nell’ottica di questa visione, quindi, la tecnica si configura come un oggetto che aumenta l’alienazione, anche in senso marxiano, dell’uomo con il mondo:

    “chiamiamo “dislivello prometeico” l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande” (Anders, 1963, p.24).

    Se le teorie che abbiamo appena elencato sono corrette, è possibile ipotizzare che la rivoluzione tecnologica, comprendente ovviamente quella informatica, sia un importante agente della desacralizzazione del mondo, e della sua conseguente perdita di significato. A queste analisi può essere affiancata la riflessione di Arnold Ghelen, anche lui convinto che nella sua essenza antropologica l’uomo sia sempre a rischio di un sovraccarico cognitivo.

    Abbiamo così visto come una visione della tecnica come struttura “alienante” possa portare come reazione una accentuazione della chiusura dell’uomo verso l’esterno; esterno pieno di insidie cognitive e spersonalizzanti.

    Ci rimane ora da vedere il secondo tipo di teorie che nascono da una riflessione sulla tecnica: se nelle prime, la tecnica veniva vista in maniera, per così dire, “negativa”; nelle seconde, la tecnica è uno strumento che permette all’uomo di chiudere definitivamente pratiche di esistenza rimaste ormai obsolete. Come mette bene in evidenza Franca D’Agostini, Heidegger è un pensatore che può ben essere usato come cerniera per collegare queste due parti:

    “c’è una potenzialità prefilosofica (o postfilosofica) inesplorata che sembra aprirsi nel mondo tecnico-scientifico; il compimento della filosofia nella scienza, e quindi nella tecnica, coincide con la nascita di nuove antiche condizioni di pensiero. Avanza qui quella visione duplice della tecnica, come “buon” compimento della metafisica, e come territorio dell’estremo “oblio dell’essere”, che domina negli ultimi scritti heideggeriani. Nella tradizione che si ispira a Heidegger, questa duplicità ha dato luogo a posizioni disparate, che variano da una soluzione di assecondamento, più o meno radicale della fine della filosofia, a posizioni di condanna del pensiero “calcolante” che si esprime nella tecnica” (D’Agostini, 1997, p.36).

    L’autore con cui possiamo porre le basi per affrontare questa seconda visione della tecnica è sicuramente Marshall McLuhan. Il legame tra Heidegger e McLuhan verte proprio sulla considerazione della tecnica non solo come qualcosa di strumentale, ma piuttosto come qualcosa di formativo:

    “l’interrogativo sull’essenza della tecnica conduce Heidegger a sostenere che l’essenza della tecnica non è in realtà qualcosa di tecnico. Heidegger non è il solo – anche se forse il primo – nel panorama della cultura contemporanea, a sostenere questa tesi. Per esempio, anche Marshall McLuhan ha sostenuto che l’aspetto essenziale del medium tecnico non è strumentale, ma formativo, sicché esso è una condizione dell’esperienza, non un tramite per ottenere certi scopi o per trasmettere certi messaggi” (Perniola, 1985, p.40).

    Per introdurre questa seconda visione possiamo trovare spunto dalla citazione di McLuhan con la quale iniziavamo questo saggio:

    “l’uomo è trasformato in tribù dai media elettrici (...) l’uso dei media elettronici costituisce un punto di rottura tra l’uomo Gutenberg frammentato e l’uomo integrale, proprio come l’alfabetismo fonetico fu un punto di rottura tra l’uomo orale-tribale e l’uomo visuale. Infatti oggi possiamo voltar lo sguardo indietro a 3000 anni di visualizzazione, atomizzazione e meccanizzazione, riconoscendo alla fine l’età meccanica come un interludio tra le due grandi ere organiche della cultura” (McLuhan, 1998, pp. 92-98).

    Se, però, prima questa citazione ci era servita per introdurre un’analisi politico-economica, in questo caso l’attenzione sarà incentrata maggiormente sull’aspetto cognitivo, su come cioè la struttura mentale dell’uomo sia influenzata dalle tecnologie della comunicazione che prevalentemente egli usa, anche se poi le conseguenze delle differenze tra gli effetti dell’uso dei diversi media ricadono sulla struttura sociale predominante in una data epoca.

    Il punto di partenza per riflettere su questo tema rimane il testo di Walter Ong “Oralità e scrittura” (Ong, 1986), nel quale si sostiene che l’introduzione della scrittura, con le sue caratteristiche di razionalità, progettualità e analiticità ha permesso che questi aspetti si diffondessero anche in ambiti che con la scrittura apparentemente poco avrebbero a che fare:

    “senza saper leggere e scrivere, non si è in grado di eseguire un esame dei fenomeni o delle affermazioni che si fondi sull’astrazione e sia sequenziale, classificatorio ed esplicativo [...]. Dove non esiste scrittura non vi è nulla del pensatore stesso, nessun testo che lo aiuti a riprodurre il medesimo sviluppo di pensiero, o anche a verificare se lo ha fatto” (Ong, 1986, pp. 27 e 62).

    Ong ritiene che i media elettronici, compreso il computer, ci stiano portando verso una “oralità secondaria”, che ha molte analogie con l’oralità pre-alfabetizzata:

    (...) “per la sua mistica partecipatoria, per il senso di comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino per l’utilizzazione delle formule” (Ong, 1986, p.191).

    Che l’utilizzo del computer stia rivoluzionando i principi base della comunicazione è un fatto talmente evidente che anche uno dei più “classici” e anche per certi versi conservatori dei critici letterari americani, George Steiner, non ha potuto fare a meno di prendere atto che:

    “i computer sono ben più che semplici strumenti pragmatici. Suscitano e sviluppano metodi e configurazioni non verbali di pensiero, di processi decisionali, persino - ce ne viene il sospetto - di percezione estetica. Sono i padroni del nuovo ordine di chierici, composta da giovani e giovanissimi che ignorano o rifiutano, con flessibilità, la cultura del testo scritto. Gli schermi non sono libri, la “narratività” di un racconto formale non è quella di un racconto discorsivo. Così i veicoli preminenti dell’energia speculativa, delle scoperte verificabili e applicabili all’informazione non sono più il Logos in una qualsiasi connotazione trascendentale, né i sistemi secolari, empirici dell’enunciazione e della scrittura lessico-grammaticale, bensì la funzione algebrica, l’equazione lineare e non lineare, il codice binario. Al cuore dell’avvenire prevedibile si trovano il byte e il numero” (Steiner, 1999, p.114) [5].

    Il dibattito tra oralità e scrittura tende sovente ad avere forti conseguenze politiche, in senso esteso, soprattutto quando mette in evidenza come la nascita di una economia scritturale abbia relegato tutte le persone che della scrittura non avevano conoscenza ai margini della società. Le forme culturali connesse con la scrittura, in questo caso, non vengono più viste come intrinsecamente superiori a quelle connesse con l’oralità, ma semplicemente diverse; l’unica superiorità della scrittura rispetto all’oralità sarebbero i maggiori rapporti che essa intrattiene con i sistemi economico-politici [6]; la scrittura sarebbe la forma di cultura istituzionale alla quale si contrapporrebbero le culture “antagoniste” dell’oralità:

    “questo potere, essenzialmente scritturale, non contesta solamente il privilegio della “nascita”, ovvero della nobiltà: definisce il codice della produzione socio-economica e domina, controlla e seleziona tutti coloro che non possiedono questa padronanza del linguaggio. La scrittura diviene un principio di gerarchizzazione sociale che privilegiava ieri il borghese, oggi il tecnocrate. Funziona come una legge di una educazione organizzata dalla classe dominante che può fare del linguaggio (retorico o matematico) il suo strumento di produzione. Ancora una volta Robinson chiarisce una situazione: il soggetto della scrittura è il padrone, e l’operaio che maneggia una strumento diverso dal linguaggio sarà Venerdì” (De Certeau, 2001, p.203).

    Diventa così interessante scoprire se il linguaggio dei nuovi media sia più assimilabile alla scrittura o all’oralità; se i nuovi linguaggi della comunicazione, cioè, siano nuove forme di dominio oppure resistenza a forme di dominio tradizionali. La connessione tra linguaggio e potere economico-politico è del resto al centro della riflessione di numerosi autori; la tesi da molti proposta è che nell’epoca post-fordista, caratterizzata da un declino della produzione materiale, ciò che diventa produzione sia la comunicazione e il linguaggio stesso. Mentre nell’epoca fordista il lavoratore subordinato era costretto a una attività monotona e silenziosa, oggi:

    “il processo produttivo ha per “materia prima” il sapere, l’informazione, la cultura, le relazioni sociali. Chi lavora è (deve essere) loquace. La celebre opposizione stabilita da Habermas tra “agire strumentale” e “agire comunicativo” (o lavoro e interazione) è radicalmente confutata dal modo di produzione post-fordista. L’“agire comunicativo” non ha più il suo terreno privilegiato, o addirittura esclusivo, nelle relazioni etico culturali, nella politica, nella lotta per il “reciproco riconoscimento”, esulando dall’ambito della riproduzione materiale della vita. Al contrario, la parola dialogica si insedia nel cuore stesso della produzione capitalista. Il lavoro è interazione” (Virno in Zanini e Fadini, 2001, p.181).

    Il tema del presunto potere scritturale nei confronti dell’oralità è interessante anche perché può essere usato, e viene usato, sia da autori “progressisti” sia da autori “conservatori”. Prova ne è che il saggio di José Bergamin “Decadenza dell’analfabetismo” (Bergamin 2000) è stato recentemente ripubblicato in Italia da Bompiani con due prefazioni, una di Giorgio Agamben e una di Vittorio Sgarbi - due autori dai background teorici e dalle idee politiche notevolmente differenti.


    NOTE

    1] Ben diversa è l’interpretazione del fenomeno New Age data da Maffesoli: “...io stesso ho parlato a questo proposito di cultura del sentimento.[...] Non si può ridurre questa cultura (ri)nascente al suo aspetto concettuale o razionale, dato che quest’ultimo è d’altronde ben povero e si traduce il più delle volte in un bric-à-brac ideologico che non merita una grande attenzione” (Maffesoli, 1996, p. 12). Maffesoli sembra qui rispondere indirettamente alle accuse al fenomeno New Age portate avanti da Lash. La New Age può essere uno dei campi da studiare dove il fenomeno del neo-comunitarismo è di grande evidenza. Su questi temi Hellas, 1999 e Jacobelli et al., 1999.
    2] Il dibattito tra società e comunità e uno di quei campi dove risulta molto difficile tenere una rigida distinzione disciplinare. Per quanto mi riguarda cercherò di fare riferimento esclusivamente al dibattito sociologico e filosofico.
    3] In realtà quest’ultima affermazione è quantomeno discutibile. Storicamente, infatti, l’esperienza settaria ha abbracciato persone di rango assai elevato, basti pensare alle confraternite artistiche che, soprattutto a fine ottocento, dilagarono in tutta Europa. L’analisi di Troeltsch rimane qui un po’ troppo sterilmente legata a un concetto di classe piuttosto limitato, che era già stato messo in discussione da Simmel con l’idea delle cerchie sociali, e che verrà riformulato in maniera analiticamente più coerente da Bourdieu con la sua divisione tra capitale economica, sociale e culturale. Lo stesso Bourdieu risulta utile proprio per osservare le dinamiche di distinzione all’opera nelle sette artistiche, dove “l’intolleranza estetica conosce violenze terribili” (Bourdieu, 1979, p 56).
    4] Uno strumento molto utile per costruire la possibilità di una separazione dal mondo è l’uso sapiente del segreto. Su questo tema cfr. Simmel (1989).
    5] Secondo alcuni autori una mediazione tra la cultura scritta e quella orale sarebbe costituita dalla forma ipertestuale, che riunirebbe in sé aspetti di entrambe le culture. Su questi temi fondamentale è Landow (2000), che affronta il tema riunendo opinioni di tecnologi, critici letterari, sociologi e filosofi. È proprio sul versante filosofico che però, a mio parere, libri come quello di Landow si dimostrano più deboli. Landow prende le mosse dalle teorizzazioni dei post-strutturalisti a riguardo dell’apertura del testo, della morte dell’autore, della non-linearità della lettura e le applica automaticamente alle nuove forme ipertestuali. Ma se così Landow riesce a centrare alcuni fondamentali aspetti dell’innovazione prodotta dall’ipertesto, egli, decontestualizzando le analisi dei filosofi presi in questione, ne snatura notevolmente i presupposti teorici. Quando Barthes teorizzava il lettore attivo, infatti, egli lo vedeva all’opera di fronte a un testo – il libro – che tradizionalmente era stato sempre visto come chiuso. È ben diverso teorizzare un’esperienza di lettura libera di fronte a un testo chiuso piuttosto che teorizzarla di fronte a un testo – l’ipertesto – che già nasce intrinsecamente aperto: quella che prima era un atto di libertà di fronte a un imposizione di senso esterna – una decodifica oppositiva (Hall, 1980) – diventa così un mero accondiscendere alle strutture di significazione normalmente accettate. Alla base del pensiero di tutti gli autori post-strutturalisti presi in esame da Landow vi era un fondamentale atteggiamento critico; questo atteggiamento sparisce completamente nelle pagine dell’autore dell’ipertesto. Del resto anche Landow nota che “l’ipertesto elettronico e le idee della teoria letteraria contemporanea, soprattutto post-strutturalista, possiedono infatti molti punti di convergenza, ma divergono nel tono. Mentre la maggior parte degli scritti teorici, fatta eccezione per quelli di Deridda, sono esempi di solennità accademica, che presentano atteggiamenti di disinganno e di intrepido sacrificio umanistico, gli scritti sull’ipertesto sono chiaramente celebrativi. Mentre la teoria letteraria è piena di parole come morte, svanire, perdita e di espressioni di esaurimento e di impoverimento, gli scritti sull’ipertesto sono caratterizzati da termini come libertà, energia, potenziamento [...]. La maggior parte dei post-strutturalisti vive nel crepuscolo di un sogno di gloria; chi si occupa di ipertesti parla delle stesse cose ma le considera l’alba di un nuovo giorno” (Landow, 2000, pp. 139-141). Ma la chiosa migliore a questa mia critica viene forse dalla pagina 352 dell’edizione italiana: al momento di citare in nota “la condizione postmoderna” il traduttore, probabilmente inconsciamente influenzato da quello che aveva appena letto, sbaglia e scrive “la conciliazione postmoderna”. L’autore della “condizione”- Lyotard - qualche anno dopo il testo del ’79 scriverà un libro intitolato “il dissidio”. Dissidio o conciliazione, appunto, è una questione di prospettiva.
    6] Il tema del conflitto politico tra forme espressive scritturali e forme espressive orali riecheggia il dibattito che, nella teoria culturale, vi è stato tra un modo di pensiero discorsivo–testuale-cognitivo al quale si contrappone un pensiero essenzialmente figurale e sensuale. Su questi temi Lyotard, 1971 e Deleuze, 1995.


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